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5 INTRODUZIONE ALL’IDEA DI QUANTO - ud.infn.it Milano... · Marco Giliberti, Elementi per una...

Date post: 15-Feb-2019
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Il materiale qui presentato è pubblicato in maniera più organica in: Marco Giliberti, Elementi per una didattica della Fisica Quantistica, CUSL, Milano (2007). Master IDIFO Marco Giliberti, Teoria dei campi e proposte didattiche di Fisica Quantistica: la proposta di Milano, 5. 1 5 INTRODUZIONE ALL’IDEA DI QUANTO Marco Giliberti Dipartimento di Fisica Università degli Studi di Milano Premessa Finora abbiamo descritto sostanzialmente il comportamento di pennelli materiali ed elettromagnetici in propagazione libera. Abbiamo supposto, cioè, che essi non interagiscano con altri campi e non siano neppure autointeragenti. Per mezzo di alcuni esperimenti abbiamo mostrato il comportamento ondulatorio di tali pennelli: la propagazione avviene in linea retta ed è possibile in opportune, “semplici”, condizioni ritrovare i fenomeni di interferenza e diffrazione tipici di una propagazione per onde. Siamo stati anche capaci di fornire i primi cenni di una teoria ondulatoria non quantistica di tali pennelli. Essenzialmente abbiamo visto che il comportamento ondulatorio si può descrivere per mezzo dell’equazione di Klein-Gordon. Essa è un’equazione molto generale che vale sia per pennelli materiali sia per pennelli elettromagnetici; per passare dalla descrizione di un “tipo” di pennello ad un altro basta cambiare il valore di un parametro (il parametro μ), che è diverso da zero (e variabile a seconda della sostanza) per i pennelli materiali, ed è uguale a zero per i pennelli elettromagnetici. Il valore unificante di questa equazione è molto grande; essa generalizza quanto intuito sperimentalmente: luce e materia in propagazione libera si comportano in modo, per molti aspetti, simile. L’idea centrale di questo capitolo è che questa analogia di comportamento che abbiamo evidenziato tra i vari tipi di “sostanze” e la radiazione elettromagnetica, per quanto riguarda la propagazione libera, permane, per molti aspetti, anche quando si prendano in considerazione le interazioni con la nascita dell’idea di quanto. In questo capitolo, in particolare, ci occuperemo di quello che succede se consideriamo, nella nostra descrizione, le interazioni. Vedremo che è proprio in questo caso che nasce l’idea di quanto e non si ha certamente bisogno di aspettare l’avvento della fisica quantistica e la celebre spiegazione da parte di Planck dello spettro del corpo nero nel 1900 per trovare questa idea. Come tutti sanno il concetto di quanto (meglio di atomo), nacque nel V secolo a. C. per mezzo di Democrito. Egli disse che gli atomi erano le parti più piccole della materia. Poi Epicuro sostenne che gli atomi erano indivisibili (pur possedendo una struttura…). Epicuro nel De Rerum Natura fece una grande propaganda a queste idee. Nel Medioevo l’idea di atomo fu considerata materialistica e perciò stesso atea e fu abbandonata.
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Il materiale qui presentato è pubblicato in maniera più organica in: Marco Giliberti, Elementi per una didattica della Fisica Quantistica, CUSL, Milano (2007).

Master IDIFO

Marco Giliberti, Teoria dei campi e proposte didattiche di Fisica Quantistica: la proposta di Milano, 5.

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INTRODUZIONE

ALL’IDEA DI QUANTO

Marco Giliberti

Dipartimento di Fisica Università degli Studi di Milano Premessa Finora abbiamo descritto sostanzialmente il comportamento di pennelli materiali ed elettromagnetici in propagazione libera. Abbiamo supposto, cioè, che essi non interagiscano con altri campi e non siano neppure autointeragenti. Per mezzo di alcuni esperimenti abbiamo mostrato il comportamento ondulatorio di tali pennelli: la propagazione avviene in linea retta ed è possibile in opportune, “semplici”, condizioni ritrovare i fenomeni di interferenza e diffrazione tipici di una propagazione per onde. Siamo stati anche capaci di fornire i primi cenni di una teoria ondulatoria non quantistica di tali pennelli. Essenzialmente abbiamo visto che il comportamento ondulatorio si può descrivere per mezzo dell’equazione di Klein-Gordon. Essa è un’equazione molto generale che vale sia per pennelli materiali sia per pennelli elettromagnetici; per passare dalla descrizione di un “tipo” di pennello ad un altro basta cambiare il valore di un parametro (il parametro µ), che è diverso da zero (e variabile a seconda della sostanza) per i pennelli materiali, ed è uguale a zero per i pennelli elettromagnetici. Il valore unificante di questa equazione è molto grande; essa generalizza quanto intuito sperimentalmente: luce e materia in propagazione libera si comportano in modo, per molti aspetti, simile. L’idea centrale di questo capitolo è che questa analogia di comportamento che abbiamo evidenziato tra i vari tipi di “sostanze” e la radiazione elettromagnetica, per quanto riguarda la propagazione libera, permane, per molti aspetti, anche quando si prendano in considerazione le interazioni con la nascita dell’idea di quanto. In questo capitolo, in particolare, ci occuperemo di quello che succede se consideriamo, nella nostra descrizione, le interazioni. Vedremo che è proprio in questo caso che nasce l’idea di quanto e non si ha certamente bisogno di aspettare l’avvento della fisica quantistica e la celebre spiegazione da parte di Planck dello spettro del corpo nero nel 1900 per trovare questa idea. Come tutti sanno il concetto di quanto (meglio di atomo), nacque nel V secolo a. C. per mezzo di Democrito. Egli disse che gli atomi erano le parti più piccole della materia. Poi Epicuro sostenne che gli atomi erano indivisibili (pur possedendo una struttura…). Epicuro nel De Rerum Natura fece una grande propaganda a queste idee. Nel Medioevo l’idea di atomo fu considerata materialistica e perciò stesso atea e fu abbandonata.

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Il concetto moderno di quanto venne, poi, riportato in vita da Gassendi ma fu solo con Boyle che l’idea di atomo fu per la prima volta connessa con la chimica; ed è proprio dalla chimica che partiremo nel prossimo paragrafo. Interazioni chimiche tra continui materiali

E’ la chimica che studia le interazioni materia–materia più tipiche del mondo che ci circonda. Quando mettiamo insieme due sostanze, A e B, possono succedere molte cose diverse. Vediamone alcune come esempio. Può non succedere fondamentalmente niente: per esempio mettendo insieme a temperatura ambiente della sabbia e della farina otteniamo una miscela eterogenea in cui i granelli di sabbia e di farina sono ben separati gli uni dagli altri. Possiamo avere delle miscele omogenee nelle quali i rapporti tra i componenti possono variare moltissimo. Per esempio i gas sono, in generale, miscibili tra di loro in qualsiasi rapporto. Basta pensare all’aria, formata da circa il 75.5% di azoto, dal 23.2% di ossigeno e dall’1.3% di gas nobili. Ad esempio, possiamo aggiungere quanto vapore d’acqua, anidride carbonica, ecc. vogliamo… e otteniamo, in un certo senso, sempre aria… Anche i liquidi possono dar luogo a miscele omogenee di composizione variabile (possiamo miscelare acqua e vino nelle proporzioni che vogliamo…). Mescolando acqua e zucchero possiamo formare degli sciroppi di diversa composizione (ma in questo caso non di qualsiasi composizione perché, quando è troppo, lo zucchero non si scioglie più). In questi ultimi tre casi si capisce che le proprietà delle soluzioni (per esempio la dolcezza dello sciroppo) variano con continuità. Discorso analogo si può fare anche per le leghe. In tutti questi casi si ha una chimica dei continui materiali che per essere spiegata non ha bisogno dell’idea di atomo, perché le sostanze si miscelano fra di loro in rapporti estremamente variabili e le loro proprietà variano con continuità. Possiamo avere, però, ed è questo il caso che qui ci interessa, delle reazioni chimiche, nelle quali due o più sostanze interagiscono tra loro e danno luogo ad una sostanza del tutto “nuova”. Verso la fine del ‘700 i chimici cominciarono a capire come gli elementi si combinano a formare i composti nelle varie reazioni. Lavoisier enunciò la legge di conservazione della massa nelle reazioni chimiche ed introdusse la definizione di elemento come di “sostanza elementare”. Se avviene una reazione tra la sostanza A e la sostanza B, allora sperimentalmente si possono mettere in evidenza alcune leggi fenomenologiche che, a dispetto delle enorme diversità delle varie reazioni, sono poche e semplici. Eccole.

Legge delle proporzioni definite (Proust): In qualsiasi campione di un certo composto, gli elementii che lo compongono sono presenti in un rapporto in peso definito e costante. Legge delle proporzioni multiple (Dalton): Se due elementi A e B si combinano a formare diversi composti allora, fissato il peso di A, i pesi di B nei diversi composti stanno tra loro in rapporti costituiti da numeri interi piccoli.

Legge dei volumi di combinazione (Gay Lussac): Nelle reazioni tra gas nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, i volumi dei reagenti e i volumi dei prodotti stanno tra loro in rapporti costituiti da numeri interi piccoli.

Legge degli equivalenti:

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Se due elementi A e B si combinano sia tra loro, sia con un terzo elemento C, allora le quantità di A e B che si combinano con una quantità fissa di C si combinano anche tra loro.

Sono proprio queste leggi semplici che spingono a interpretare tutta la dinamica descritta dalla chimica in termini di interazioni locali e universali tra opportuni quanti. Nascono così le idee di atomo, di ione, di molecola. Attraverso l’uso di tali concetti la complessa dinamica delle interazioni chimiche viene spiegata in termini semplici. Si capisce, così, che l’idea di atomo nasce per descrivere le interazioni tra i continui materiali. Là dove le interazioni non ci sono (per esempio nelle miscele tra gas) l’idea di atomo non serve; ma quando dobbiamo trattare le interazioni chimiche diventa indispensabile. La materia viene, cioè, descritta come un continuo, mentre le interazioni materia-materia risultano locali e quantizzate. Certamente i chimici dei primi dell’800 pensavano che l’idea di atomo potesse essere utilizzata anche quando non si dovevan0 descrivere interazioni tra sostanze; pensavano che la materia fosse “fatta da” atomi e non che gli atomi “servissero” soltanto per costruire una teoria delle interazioni chimiche. Ma noi qui vogliamo assumere un atteggiamento “minimalista” e considerare le cose per “quelle che appaiono” senza allargarci troppo… Diremo allora, un po’ rozzamente, che l’atomo è un comodo schema concettuale che i chimici usano per descrivere le interazioni tra sostanze (più che un oggetto materiale, per quanto piccolo, che compone la materia). Interazione luce-materia Abbiamo visto come alcune le leggi di interazione materia-materia sono studiate dalla chimica. E’ interessante, però, osservare che la materia interagisce anche con la radiazione elettromagnetica. Vista l’analogia di comportamento tra materia e radiazione, almeno per quanto riguarda la propagazione libera, possiamo aspettarci che anche le leggi fenomenologiche descriventi l’interazione tra luce e materia possano essere studiate e interpretate dicendo che un atomo di materia ha interagito con un “atomo di luce”. Ovviamente ci saranno situazioni in cui questa descrizione è inutile (per esempio nel caso della riflessione della luce da parte di uno specchio o nel caso della rifrazione, nel quale la teoria delle onde sembra sufficiente; un po’ come succedeva in chimica per le miscele…), ma ci saranno anche altre situazioni nelle quali l’avvenuta interazione si manifesta in un cambiamento della materia e della radiazione. Un esempio molto comune di quanto stiamo dicendo è rappresentato dalla fotografia. Una lastra fotografica lasciata a contatto con la luce viene da questa “impressionata”, subisce, cioè, una trasformazione chimica che rivela l’immagine che vogliamo fotografare. Nonostante l’evidenza dell’analogia tra questo processo e i tradizionali processi chimici materia-materia, non ci occuperemo qui di fotografia, perché da altri esempi di interazione possiamo ricavare più facilmente alcune leggi fenomenologiche che cercheremo di interpretare in base all’ipotesi “atomica” di interazione radiazione-materia. In effetti, analogamente a quanto avviene per le reazioni squisitamente chimiche, ha senso schematizzare alcuni processi come segue:

sostanza elettromagnetica1 + sostanza materiale1 → sostanza elettromagnetica2 +

sostanza materiale2

E’ facile pensare alla materia come composta da “granellini” e alla luce come “composta” di onde. Come stiamo ormai dicendo da un po’, questo modo di pensare è troppo ingenuo e va completamente rivisto: i “granellini” che chiameremo quanti sono fondamentali nella

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descrizione delle interazioni, e questo vale sempre, che si tratti di radiazione elettromagnetica o di materia. I quanti prenderanno nomi diversi a seconda della circostanza: i quanti delle reazioni chimiche sono gli atomi o gli ioni, i quanti della radiazione elettromagnetica vengono detti fotoni. Vogliamo mostrare quanto questa idea sia semplice e proficua. Proviamo, quindi, a considerare due casi emblematici, quello dell’effetto fotoelettrico e dell’effetto Compton; come le leggi fenomenologiche che li descrivono possano essere facilmente interportate in termini di interazioni quantizzate. Presentiamo queste ben note fenomenologie in maniera un po’ diversa da quanto viene fatto dalle presentazioni usuali e perciò lo faremo con un occhio particolare alla sua traduzione didattica. Non cercheremo di mettere in evidenza le difficoltà dell’elettrodinamica classica nello spiegare questo effetto ma, anzi, faremo in modo che sia “naturale” interpretare il fenomeno in termini quantistici, vista la sua analogia con le reazioni chimiche. Metteremo in evidenza più che cosa un modello è capace di fare piuttosto che concentrarci su che cosa una teoria non riesce a descrivere (vedremo in seguito, infatti, la difficoltà didattica e anche storica di questa posizione…). Effetto fotoelettrico La fenomenologia dell’effetto presenta alcune analogie con quella delle interazioni chimiche: due “sostanze”, quella della lastra materiale e quella della radiazione elettromagnetica di una certa frequenza vengono in contatto e, nella reazione, si produce materia elettronica. Il set-up sperimentale (di Lenard) per fare misure sull’effetto fotoelettrico è il seguente (fig. 5.1).

Fig. 5.1 Schema dell’apparato sperimentale di Lenard. Della luce monocromatica entra nell'ampolla di vetro, all’interno della quale è fatto il vuoto, attraverso la finestra di quarzo e incide sul fotocatodo. Un circuito potenziometrico permette di stabilire una differenza di potenziale variabile ∆V

(misurata dal voltmetro V) tra il fotocatodo e la placca; se della sostanza elettronica, emessa per effetto fotoelettrico, raggiunge quest'ultima, il microamperometro A segna il passaggio di una corrente

i. Lenard fece varie esperienze misurando la corrente i al variare della differenza di potenziale ∆V, dell'intensità i e della frequenza ν della luce incidente, mantenendo di volta in volta fisse due di

queste grandezze e variando la terza. Non ci addentreremo nella spiegazione dettagliata di come effettuare gli esperimenti e neppure indugeremo sui grafici relativi alle misure eseguite, del resto ben noti a tutti (ovviamente a scuola andranno studiati in dettaglio…).

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Riportiamo qui, solo per comodità di discorso, le leggi fenomenologiche ricavate dagli esperimenti di Lenard, facendo riferimento, per il loro significato, all’apparato sperimentale di fig. 5.1.

1) Per ogni metallo esiste una frequenza caratteristica ν0 , detta frequenza di soglia, tale che, se la radiazione incidente ha frequenza ν<ν0, qualunque sia l'intensità luminosa I, l'emissione fotoelettrica non avviene.

2) Esiste una differenza di potenziale frenante Va negativa, detta potenziale di arresto,

tale che per differenze di potenziale ∆V<Va (quindi in modulo |∆V|>|Va|) non si misura alcuna corrente nell'amperometro mentre, per differenze di potenziale ∆V>Va, si misura una corrente di placca, che aumenta fino a raggiungere un valore costante che risulta indipendente da ∆V.

3) L'intensità di corrente i è proporzionale all'intensità luminosa I. 4) L'emissione fotoelettrica è praticamente immediata, qualunque sia l'intensità della

luce incidente; (il tempo di emissione è di circa 10-9 s anche per I molto basse). Da 1) e 2) ricaviamo che la sostanza elettronica che esce dal fotocatodo ha energia cinetica per unità di volume che varia da zero fino ad un valore massimo Ec,max = ρVa (avendo indicato con ρ la densità di carica per unità di volum). Tale densità di energia cinetica massima cresce al crescere di ν (ma è indipendente da I). Essa dipende, invece, dalla natura dell'elettrodo, come si può verificare con elettrodi di materiali diversi. Sempre in analogia a quanto facciamo in chimica, supponiamo, allora, che l’effetto fotoelettrico possa essere spiegato dal fatto che, nell’interazione tra la luce incidente e la materia, alcuni quanti di luce (l’analogo per la luce di quello che sono atomi e gli elettroni per la materia) interagiscano con alcuni quanti materiali. Cerchiamo ora di capire qualcosa di più di questi “ipotetici” quanti elettromagnetici. La “sostanza” elettromagnetica è caratterizzata essenzialmente da energia, quantità di moto, polarizzazione e frequenza. Ora, energia e quantità di moto sono grandezze fra loro proporzionali (in modulo) e ci dicono, in qualche modo, “quanta” materia elettromagnetica è in gioco; la frequenza è l’unica quantità che può determinare, per così dire, il “tipo” di sostanza elettromagnetica in esame, mentre la polarizzazione sembra legata alla struttura matematica del campo in esame, cioè al fatto che il campo studiato sia scalare, vettoriale, spinoriale, tensoriale, ecc.. Volendo introdurre una quantizzazione della radiazione siamo, quindi, indotti a supporre che, fissata “la sostanza”, cioè fissata la frequenza, la grandezza scambiata in maniera quantizzata nell’interazione (ricordiamo che gli atomi di una sostanza sono tutti identici) sia l’energia (o la quantità di moto che, tanto, è ad essa proporzionale). In altri termini supponiamo che nell’interazione venga scambiato un quanto di energia E (e quantità di moto E/c) il cui valore dipende dal tipo di sostanza elettromagnetica considerata (cioè dalla sua frequenza) e per il quale, perciò, possiamo scrivere

E = f(ν) essendo f una funzione per ora sconosciuta. Osserviamo che è la prima volta che nella nostra presentazione didattica introduciamo l’idea di quanto della radiazione elettromagnetica; non

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abbiamo parlato dello spettro del corpo nero e della sua spiegazione ad opera di Planck, perciò non abbiamo alcun motivo per supporre valida la formula E=hν; ad essa stiamo arrivando per un'altra via.

L’effetto fotoelettrico può essere spiegato utilizzando le chiare parole di Einstein in uno dei suoi famosi lavori del 1905. Adatteremo quanto da lui scritto alla nostra presentazione, che è fatta “col senno di poi”; in pratica la variazione più importante che apporteremo alle sua parole sarà la sostituzione di E=hν con E = f(ν). Ecco il discorso di Einstein, adattato ai nostri scopi.

“Se ci si rifà all’idea che la luce scambi quanti di energia di intensità f(ν) (dove f è una

funzione da determinarsi) con quanti della materia elettronica, è possibile spiegare

l’emissione fotoelettrica nel seguente modo. I quanti di energia (chiamiamoli fotoni) vengono

ceduti ai quanti della materia elettronica (i già conosciuti “elettroni” della chimica).

L’energia di un elettrone sarà, quindi la somma dell’energia di legame –W0, che lo confina

nel metallo e dell’energia fornitagli da un fotone.

L’energia cinetica massima di ciascuno dei quanti della materia elettronica che fuoriescono

dal metallo sarà quindi:

Ec,max = f(ν) - W0“.

Utilizzando tale modello, si possono allora spiegare le leggi fenomenologiche ottenute da Lenard.

I. L'esistenza della soglia fotoelettrica si spiega pensando che se un fotone ha

frequenza ν tale che la sua energia

E = f(ν) < W0

allora esso non ha abbastanza energia per estrarre un elettrone; quindi, se f è una funzione crescente, soltanto per frequenza maggiori di un certa frequenza ν0 (frequenza di soglia) possiamo avere l'emissione.

II. Se ogni fotone cede tutta la sua energia ad un solo elettrone, allora l'energia

cinetica massima degli elettroni emessi non può dipendere dall'intensità luminosa ma solo dall’energia del fotone; inoltre, all'aumentare della differenza di potenziale ∆V (positiva), aumenta la quantità di sostanza elettronica che, pur emessa in varie direzioni, raggiunge l'anodo, fino a quando vi arriva tutta. Osserviamo ancora che si hanno potenziali d'arresto Va che diventano sempre più negativi all'aumentare della frequenza della luce incidente.

III. L'intensità di corrente è proporzionale alla quantità di carica della materia

elettronica che arriva sulla placca nell'unità di tempo, questa è proporzionale al numero di elettroni che hanno interagito scambiando sufficiente energia con i fotoni che interagiscono sulla piastra; numero che, a sua volta, è proporzionale all’intensità luminosa. Questo spiega perché l’intensità di corrente è proporzionale all’intensità luminosa.

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IV. Essendo l'emissione dovuta all'assorbimento di un singolo fotone essa è praticamente istantanea.

Una volta spiegati i dati sperimentali è possibile passare alle previsioni che può dare il modello (aspetto fondamentale per una “buona” fisica). È possibile calcolare Ec,max applicando una differenza di potenziale frenante fra l’anodo e il catodo dell'apparato di Lenard e misurare per quale valore di Va, (potenziale d'arresto) non si ha più passaggio di corrente. Infatti per tale valore si ha;

Ec,max = eVa

e quindi, in base al modello risulta:

e

f

e

fVa

)()( 0νν−= (5.1)

Allora, se la teoria qui elaborata è giusta, la curva del potenziale d'arresto in funzione della frequenza della luce incidente deve essere la stessa per tutti i metalli, a parte il valore dell’ordinata all’origine. Il controllo sperimentale della precedente relazione è, quindi, un test estremamente significativo della validità della teoria. Un controllo definitivo fu portato a termine da Millikan nel 1915, dopo dieci anni di duro lavoro. Egli trovò effettivamente che la funzione f(ν) è universale e, in particolare, è una retta che, per tutte sostanze usate come fotocatodo, ha lo stesso coefficiente angolare, (fig. 5.2).

Fig. 5.2 Potenziale di arresto (in volt) in funzione della frequenza della luce incidente. Tratto dal

lavoro originale di Millikan; Phys. Rev., 7, 362 (1916).

Dalla (5.1), e dalle misure ora descritte, si ha allora

f(ν) = hν

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dove h è una costante alla quale, dopo gli esperimenti di Millikan, possiamo attribuire il valore di circa 6,6 x 10-34 Js. Il modello di interazione quantizzata ha superato una prima prova; cioè ha spiegato i dati sperimentali sulla fenomenologia dell’effetto fotoelettrico e ha previsto correttamente l’esistenza di una funzione universale che lega il potenziale d’arresto alla frequenza della luce incidente. L’idea di fotone prende corpo: serve a interpretare le leggi fenomenologiche dell’interazione luce-materia, tipiche dell’effetto fotoelettrico e, come fa ogni buona idea, predice un fatto nuovo: l’indipendenza della funzione f dal materiale del fotocatodo. Osserviamo, ora, che le considerazioni fatte nel modello appena presentato sono incomplete: abbiamo trascurato di considerare la quantità di moto del fotone. Per come abbiamo introdotto l’idea di fotone, sembra, infatti, del tutto ragionevole, anzi necessario, attribuire ad un fotone di energia E anche una quantità di moto di modulo p=E/c, essendo questo il legame generale tra energia e quantità di moto nel caso del campo elettromagnetico. Nel lavoro di Einstein del 1905 di questo fatto non si tiene conto. La stessa cosa si fa, in generale, nella maggior parte dei manuali scolastici. E’ ben vedere triste come i principi di conservazione, così fondamentali sia nella fisica classica che nella fisica quantistica ricevano così poca considerazione nella presentazione didattica di quest’ultima… Proviamo noi ad applicare le leggi di conservazione dell’energia e della quantità di moto all’interazione locale elettrone fotone. Indichiamo con un apice le grandezze fisiche dopo l’interazione e senza apice quelle prima. Il pedice e indichi le quantità relative all’elettrone. Solo per semplicità consideriamo il caso in cui risulti pe=0. Si ha così (utilizzando la formula relativistica dell’energia):

+=

=

EmcE

pp

2e

e

'

' (5.2)

Per la conservazione della quantità di moto si ha poi:

c

Ep =e'

e quindi

242

precedenterelazionelaoutilizzand

22e

42

energiadell'icarelativisteespressiondell'quadrato

2'e ' EcmcpcmE +=+= (5.3)

Considerando la seconda delle (5.2) e quadrando si ha, invece:

EmcEcmEe

22422' 2++=

che risulta incompatibile con l'equazione (5.3)! A meno che non risulti E=0 (caso in cui non si ha nemmeno l’interazione). Il problema nasce dal fatto che l'interazione è a tre “corpi”: fotone, elettrone, lamina a cui è legato l'elettrone; e non a due! E' la lamina a cui appartiene l'elettrone che rinculando

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bilancia la quantità di moto dell'elettrone. Esso ha, infatti, una massa molto maggiore di quella dell'elettrone e quindi nell'interazione si "porta via" buona parte della quantità di moto totale ma pochissima energia cinetica. Si capisce quindi che è essenziale, perché l’interpretazione dell'effetto fotoelettrico sia consistente, che l'elettrone possa essere considerato legato e, quindi, che le energie del fotone incidente siano dello stesso ordine di grandezza di quelle di legame. A questo punto non possiamo esimerci da un’osservazione didattica: ma come faranno a capire, degli studenti che, negli urti “classici” hanno utilizzato i principi di conservazione e invece, nel caso quantistico, non lo fanno… e pensare che anche senza eseguire calcoli le cose non tornano…: nella descrizione che diamo di solito la luce incide dall’alto sulla piastra metallica… e gli elettroni invece di uscire verso il basso “sospinti” dal fotone, escono verso l’alto! Vogliamo fare, ora, alcune considerazioni che servono a rinforzare le idee espresse dal nostro modello di interazione quantizzata, alcune della quali legate alla discussione di fenomenologie “vicine” all’effetto fotoelettrico. Per non appesantire il discorso, che ormai crediamo sufficientemente chiaro, useremo qui di seguito una terminologia tradizionale e parleremo in termini di elettroni, fotoni ecc.

1. Per energie minori di quelle di legame e quindi per frequenze minori di quella di soglia (soprattutto per i semiconduttori), si può avere un aumento del numero di elettroni di conduzione, se i fotoni assorbiti hanno energia sufficiente a portare gli elettroni nella banda di conduzione, ma insufficiente a farli uscire dal metallo. Questo fenomeno si chiama fotoconducibilità.

2. Un metallo colpito dalla luce ne riflette buona parte mentre il metallo in generale

si scalda (basta pensare ad un metallo esposto alla luce solare) a causa dell'energia che è trasferita dalla luce al metallo nel processo di assorbimento.

3. Se invece di usare un metallo usiamo una sostanza trasparente, la luce viene quasi

completamente trasmessa e, anche in questo caso, solo pochi fotoni intervengono nell'effetto fotoelettrico.

4. E' bene notare i valori tipici delle grandezze in gioco e cioè

1eVWA4000λHz;10ν4V;1VO

14a ≈≈≈−≈

5. Se il quadro teorico che abbiamo costruito è esatto per intensità elevate della

radiazione incidente ci possiamo aspettare effetti dell'assorbimento successivo multiplo dei fotoni. E, infatti, è così; il gruppo di Saclay ha osservato dei rari fenomeni di ionizzazione dovuti all'assorbimento multiplo di fotoni provenienti da un laser ad elevatissima intensità. Con fotoni di 1,17 eV e intensità da 1013 a 1020 W/m2 si sono notati processi di assorbimento multiplo, che hanno portato alla ionizzazione, coinvolgenti fino a 22 fotoni.

Per energie molto maggiori di quelle dei fotoni della radiazione ultravioletta, ci aspettiamo effetti diversi, anzi, la bontà della nostra modellizzazione delle interazioni tramite scambio di quanti ci spinge a chiederci che cosa succeda quando le frequenze della radiazione incidente non corrispondano più a quelle della luce visibile o del vicino ultravioletto ma siano molto

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maggiori di queste (10.000 o 100.000 volte, ad esempio)… come nel caso dell’effetto Compton. Effetto Compton Nella descrizione di questo effetto utilizzeremo una terminologia “mista”: per lo più tradizionale, per brevità, per quello che riguarda l’elettrone (nel senso che non staremo quasi mai a parlare di quanto del campo elettronico, parleremo più semplicemente di “elettrone” anche se intenderemo come oggetto primario sempre il campo e l’elettrone come esistente solo al momento dell’interazione considerata); per lo più ondulatoria, per quello che riguarda la descrizione del campo elettromagnetico (ricordiamo che vogliamo dare consistenza all’idea di fotone e perciò useremo fin dove è possibile una terminologia relativa ad un continuo, per arrivare ad introdurre l’idea di fotone solo quando è necessario). Come è stato osservato discutendo l'effetto fotoelettrico, un elettrone “libero”, non può interagire con un'onda elettromagnetica assorbendone un fotone, infatti questo avverrebbe in violazione del principio di conservazione della quantità di moto. Da un punto di vista sperimentale questo significa che se i fotoni della radiazione incidente hanno energia maggiore, diciamo, di 1keV, cioè una energia molto maggiore dell'energia di legame degli elettroni, l'effetto fotoelettrico non può avvenire, almeno con le modalità con cui è stato precedentemente descritto. Infatti, in tale caso, gli elettroni non sono sufficientemente accoppiati al reticolo cristallino e si possono, invece, considerare praticamente liberi. E’ ragionevole supporre, allora, che gli elettroni vengano ugualmente “strappati” dal metallo (e che in questo senso l’effetto fotoelettrico si manifesti certamente) ma la radiazione interagente non sia più assorbita; ci si chiede, allora, che cosa accada alla radiazione elettromagnetica. Qui si possono seguire varie strategie didattiche, seguiamone una abbastanza tradizionale partendo dalla descrizione dell’esperimento e poi passando alla sua spiegazione (altrettanto bene si potrebbe vedere l’intero effetto Compton come una previsione della teoria a fotoni dell’interazione della radiazione elettromagnetica). Eseguiamo, allora, un esperimento con un fascio di raggi X (i cui fotoni hanno energie dell’ordine di una decina di keV) inviato contro un bersaglio di grafite e misuriamo la lunghezza d’onda degli X diffusi ad un angolo θ dalla direzione di incidenza, secondo il set-up sperimentale mostrato in fig. 5.3.

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Fig. 5.3 Rappresentazione schematica dell’effetto Compton. In grigio scuro il pennello di X incidenti sulla lamina di grafite; in grigio chiaro gli X diffusi.

Eseguendo l’esperimento si trova che, oltre ad una radiazione avente lunghezza d'onda λ uguale a quella della radiazione incidente, ve ne è anche un'altra, con una lunghezza d'onda λ’ maggiore di λ e dipendente da θ (fig. 5.4).

Fig. 5.4 Intensità dei raggi X diffusi in funzione della lunghezza d’onda a vari angoli. Tratto da A. Compton, Phys. Rev. 22, 409 (1923); la figura è a pag. 411.

Questo effetto prende il nome di effetto Compton dal nome del fisico che nel 1923 per primo lo studiò e lo interpretò.

θ X incidenti

X diffusi

Rivelatore

Sorgente di X

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Per capire quanto avviene supponiamo che un'onda elettromagnetica subisca un processo di scattering da un elettrone di massa m inizialmente in quiete; indichiamo poi con E, p e E', p' rispettivamente l'energia e la quantità di moto, della “porzione” della perturbazione elettromagnetica che viene deviata ad un certo angolo, prima e dopo lo scattering e con E'm e p'm l'energia e la quantità di moto dell’elettrone dopo lo scattering (quelle iniziali si suppongono, per semplicità, nulle). Allora, dai principi di conservazione dell'energia e della quantità di si ha :

Fig. 5.5

m

m

'p'pp

E'EE

+=

+=

Non ci sembra qui utile eseguire esplicitamente i calcoli, che si possono eseguire molto facilmente. Ci interessa, invece sapere che con questi semplici calcoli si arriva alla conclusione

( )θcos111

'

12

−=−mcEE

. controllare (5.3)

L’analisi è stata fin qui condotta utilizzando solo i principi di conservazione dell’energia e della quantità di moto ed abbiamo trovato un’equazione per la perdita di energia della radiazione incidente. Ricordando ora le conclusioni a cui siamo pervenuti studiando l’effetto fotoelettrico, è possibile supporre che la radiazione elettromagnetica interagisca con l’elettrone di massa m tramite un solo fotone e scrivere pertanto, con ovvia simbologia:

E = hν; E’ = hν’

e ottenere quindi dalla (5.3):

( )θνν

cos11

'

12

−=−mc

h

ovvero, in termini di lunghezza d’onda:

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( )θλλ cos1' −=−mc

h.

Cosicché la radiazione, diffusa ad un angolo θ dalla direzione di incidenza, ha una lunghezza d’onda λ(θ) data da:

( ) ( )θλθλ cos1 −+=mc

h

Niente di quanto abbiano fin qui discusso dipende in modo esplicito dalle proprietà dell’elettrone e possiamo, perciò, riferirlo ad un qualsiasi quanto di massa m (purché sia in grado di diffondere la luce). Il significato fisico di quanto visto fin qui è semplice ma conviene esplicitarlo nuovamente. Una radiazione monocromatica di lunghezza d'onda λ che viene diffusa da un quanto “libero” di massa m subisce una variazione della sua lunghezza d'onda che non dipende da λ ma solo da θ e da m. Più precisamente la sua lunghezza d’onda aumenta all’aumentare dell’angolo di diffusione θ e la sua massima variazione si ha per θ = 180 ° e vale:

mc

h2max =∆λ .

Se il quanto è un elettrone si ha:

0

024,0 Amc

h≈

(e quindi in tal caso ∆λmax ≈ 0,048 A0

) mentre se il quanto è un nucleo atomico (o anche qualcosa di più massivo) si ha in pratica:

0≈mc

h

e quindi:

∆λ ≈ 0.

La quantità h/mc è detta lunghezza Compton del quanto di massa m. Questo è solo un nome e non ha nulla a che vedere con le cosiddette proprietà ondulatorie della particella; è però interessante riprendere un’osservazione fatta nel capitolo precedente per dire che la lunghezza Compton di un quanto coincide sperimentalmente con l’inverso della costante µ presente nell’equazione dei campi materiali, qualora espressa nelle unità di misura del Sistema Internazionale. Ecco così che il significato di tale costante diventa ora chiaro: essa rappresenta l’inverso della massa del quanto relativo al campo! Possiamo, ora, spiegare i risultati dell'esperimento descritto precedentemente. La radiazione incidente sulla grafite può interagire con elettroni vincolati al reticolo cristallino o direttamente con nuclei atomici, oppure con elettroni liberi; nei primi due casi la massa che

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compare nell'espressione h/mc è molto grande e questo dà una variazione di lunghezza d’onda della radiazione ∆λ = 0; nel secondo caso, invece, tale massa è molto più piccola e così otteniamo:

( )θλ cos1024,00

−≈∆ A ,

relazione che è in ottimo accordo con le osservazioni sperimentali. Per quanto visto fin qui, possiamo anche capire come mai la luce, riflessa da un metallo in tutte le direzioni, non presenti variazioni di lunghezza d'onda (cioè abbia lo stesso colore di quella incidente). Ciò accade, infatti, perché la radiazione, che non dà luogo all'effetto fotoelettrico, viene diffusa dagli elettroni, che in questo caso, per le energie in gioco, sono

legati al reticolo cristallino; in tal caso la massa che compare a denominatore nell'espressione h/mc è la massa dell'intero metallo e allora, come abbiamo visto, risulterà ∆λ ≈ 0. Come sappiamo, però, l’interpretazione di risultati già esistenti, pur essendo di grande importanza, non è sufficiente, da sola, a convincere della bontà della “spiegazione”, molto più convincente risulta il modello proposto se riesce a prevedere qualcosa di nuovo. E’ interessante notare che l’interpretazione qui fornita dello scattering di una radiazione elettromagnetica da parte di un elettrone libero fornisce anche una previsione. Lo studio è stato concentrato infatti sulla variazione di energia della radiazione. Le stesse equazioni usate, però, forniscono anche informazioni sulla quantità di moto dell’elettrone dopo lo scattering. Alcuni calcoli, che per semplicità omettiamo, forniscono un collegamento tra l’angolo θ di cui sopra e l’angolo φ, formato tra la direzione della quantità di moto acquistata dall’elettrone e la direzione della radiazione incidente, come mostrato in fig. 5.6.

Fig. 5.6

Abbiamo così:

φλ

θ

tgmc

htg

+

−=

1

1

2.

Un esperimento per verificare la precedente relazione fu fatto da Compton e Simon nel '25ii.

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Essi controllarono che l'elettrone colpito dai raggi X ricevesse proprio un impulso nella direzione prevista dai principi di conservazione dell'energia e della quantità di moto. Il risultato del difficile esperimento, che fruttò il premio Nobel a Compton nel 1927, fu convincente: la teoria forniva i risultati corretti! Ulteriori esperimenti furono fatti da H. Crane, E. Gaerttner e J. Turin nel 1936. Essi, al posto degli X, utilizzarono raggi γ con fotoni di energia compresa tra 0.5 e 2.6 MeV, e, come bersaglio della celluloide. Anche in questo caso i risultati furono in buon accordo con quanto previsto dal modello di Compton. Altri esempi di interazioni radiazione-materia Per illustrare quanto detto sopra diamo ora, senza alcun approfondimento, altri due esempi di processi importanti di interazione radiazione-materia, tipo reazione chimica. Proviamo a descriverli utilizzando l’idea di fotone come “atomo di luce”; non lo abbiamo ancora introdotto in modo “ragionevole” (ma lo faremo prestissimo); per ora immaginiamo soltanto che ogni “tipo” di sostanza elettromagnetica interagisca tramite dei quanti, indicati con la lettera greca γ, detti fotoni. Es.1 Alcuni processi importanti d'interazione tra la radiazione e la materia vanno in generale sotto il nome di fotosintesi. Principalmente in questi processi si ha la formazione di carboidrati, dalla sintesi di biossido di carbonio e di acqua, prodotta dall'assorbimento di fotoni mediato da un composto, chiamato clorofilla. In simboli si può così scrivere:

6CO2 + 6H2O + nγ � C6H12O6 + 6O6.

Es. 2 Un altro processo importante è la dissociazione dell'ossigeno atmosferico dovuto

all'assorbimento di radiazioni ultraviolette di lunghezza d'onda tra i 1000 AO

e 2400 AO

(che, come si capirà facilmente in seguito, è corrispondente a fotoni di energia compresa tra i 5,2eV e i 7,8eV). Esso si può schematizzare come segue:

O2 + γ � O + O

L'ossigeno atomico si combina poi con l'ossigeno molecolare e forma l'ozono O3, il quale, a sua volta, si dissocia interagendo con la radiazione ultravioletti di lunghezza d'onda compresa

tra i 2400 AO

e i 3600 AO

(corrispondenti a fotoni di energia tra i 3,4 eV e i 5,2 eV); in simboli:

O3 + γ � O + O2.

Queste due reazioni assorbono praticamente tutte le radiazioni ultraviolette tra i 1600 AO

e i

3600 AO

che provengono dal sole, impedendo che raggiungano la Terra se non in piccole quantità. Osserviamo, infine, che la struttura a quanti delle interazioni, oltre a fornire un’eccellente base per l’interpretazione delle reazioni chimiche e delle interazioni radiazione-materia, svolge un ruolo importante anche nella teoria cinetica dei gas. Allora, spingendo ancora in avanti l’analogia di comportamento tra materia e radiazione, ci possiamo aspettare che anche nella spiegazioni della fenomenologia presentata da un gas “di luce” contenuto in una cavità la struttura quantistica sia importante. In effetti è proprio così, come ben si capisce dal famoso

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problema della radiazione di corpo nero (ma su questa importante questione non abbiamo tempo di scrivere a sufficienza in questo corso). L’analogia tra gas materiale e gas elettromagnetico è, per certi aspetti, così stretta che si possono anche considerare in modo semplice cicli termodinamici per il gas di radiazioneiii… Aspetti statistici dell’interazione quantistica e relazioni di De Broglie Il fatto che un campo ondulatorio presenti nelle interazioni aspetti quantistici ci spinge a rileggere alcune osservazioni fenomenologiche tenendo conto di questo fatto. Per esempio il legame che avevamo già visto tra lunghezza d’onda di un pennello di elettroni e potenziale accelerante può essere riletto, a questo punto, come un legame tra la lunghezza d’onda e la quantità di moto o l’energia degli elettroni con il quale interagisce il pennello. Già dalla spiegazione data da Einstein dell’effetto fotoelettrico e dal successivo lavoro di Millikan, così come anche dai lavori relativi all’effetto Compton, sappiamo infatti che i quanti di un campo elettromagnetico hanno energia e quantità di moto legate alla pulsazione e al numero d’onda della radiazione dalle relazioni:

(5.4); kpE hh == ω

Risulta così naturale generalizzare tali relazioni e pensare che valgano per qualunque tipo di campo, elettromagnetico o materiale. Siamo così giunti alle ben note relazioni di De Broglie. Vale la pena, a questo punto fare un’osservazione storica, che rende anche giustizia del fondamentale rapporto dialettico tra teoria ed esperimento: come abbiamo detto nel cap. 1, il comportamento ondulatorio della materia era stato previsto teoricamente da De Broglie, nella sua tesi di dottorato nel 1924iv, ben prima che fosse osservato sperimentalmente. E’, questo, un bell’esempio di come considerazioni di “simmetria” (in questo caso simmetria di “comportamento” tra materia e radiazione per quanto riguarda la validità delle relazioni (5.4)) abbiano in passato e continuino tuttora ad essere una guida per la ricerca in Fisica Teorica. Noi, però, in questo approccio seguiamo un’altra strada… Non è difficile, infatti, spiegare il legame sperimentale che lega la lunghezza d’onda del campo elettronico alla differenza di potenziale accelerante pensando all’energia acquistata da un elettrone sottoposto ad una certa differenza di potenziale e poi utilizzando le precedenti relazioni. Per fare un esempio per maggiore concretezza osserviamo che, utilizzando le formule precedenti, si trova, ad esempio, che a pennelli elettronici di lunghezza d’onda dell’ordine di 0,1 nm, cioè lo stesso ordine di grandezza della separazione degli atomi in un cristallo, possiamo associare quanti (elettroni) aventi velocità dell’ordine di un centesimo della velocità della luce. Ecco perché, storicamente, i piani reticolari dei cristalli sono stati usati (come già accadde per i raggi X) come reticoli di diffrazione per le onde “elettroniche”v. A proposito delle relazioni di De Broglie e del legame tra aspetti corpuscolari aspetti ondulatori si parla spesso di dualismo onda corpuscolo. Questo è un modo di esprimersi che genera confusione. Infatti, da un punto di vista come il nostro, gli aspetti corpuscolari sono presenti solo nelle interazioni e il propagarsi libero del campo è sempre descritto in termini ondulatori. Osserviamo che la rivelazione di un quanto ha, però, un carattere aleatorio non esattamente riproducibile, neppure ripreparando identicamente la situazione iniziale. Supponiamo, ad esempio, di descrivere l’esperimento della doppia fenditura effettuato a singolo quanto. La ripetizione del singolo atto sperimentale, accensione dell’apparato e successiva rivelazione di un quanto sullo schermo, una volta ripetuta pur nelle identiche

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condizioni non fornisce lo stesso risultato; cioè il quanto non viene rivelato nella stessa posizione nel quale era stato rivelato il quanto precedente e, neppure, si può prevedere con esattezza dove verrà rivelato di volta in volta. E’ solo dopo un numero molto grande di ripetizioni che notiamo una distribuzione statistica delle rivelazioni che tende a stabilizzarsi (che cioè è riproducibile) e che è quella su cui possiamo costruire una teoria. L’arrivo di un singolo quanto non può mettere in evidenza le frange di interferenza e, pertanto, non mostra gli aspetti ondulatori sopra citati, che nella descrizione probabilistica data dalla fisica quantistica sono legati alla natura statistica della descrizione. Questo è un fatto importante. La fisica delle interazioni elementari è intrinsecamente statistica e la rivelazione di un quanto viene descritta in termini probabilistici. Dal punto di vista della meccanica quantistica, come già detto, gli stessi aspetti ondulatori sono aspetti statistici che emergono dalla ripetizione un numero molto grande di volte di un singolo atto sperimentale. L’elemento essenziale di questa descrizione è la funzione d’onda, che è collegata agli aspetti statistici della teoria e che soddisfa un’equazione delle onde. Paradossi di una teoria dei quanti troppo ingenua

In questo paragrafo vogliamo dare alcune brevi indicazioni sul perché è necessario avere una teoria di campo e perché il concetto di particella non sembra veramente quello centrale. Fino ad ora abbiamo fatto un percorso molto limitato, che fondamentalmente si riassume in due sole cose. La prima è che qualunque propagazione libera, di pennelli materiali e non materiali, è regolata da un’equazione delle onde; la seconda è che, quando delle sostanze interagiscono tra loro, cioè quando questi campi materiali o elettromagnetici interagiscono gli uni con gli altri, l’interazione è descritta in termini quantistici. Quello di cui vogliamo discutere adesso è la seguente cosa e cioè: perché non è corretto dire che un pennello di luce è fatto da fotoni, un pennello elettronico è fatto da elettroni, visto che ci viene così naturale pensarlo e visto che per descrivere le interazioni dobbiamo introdurre i quanti? Perché questo pensiero così naturale non va bene? Per capirlo analizziamo alcuni importanti fatti sperimentali e mostriamo gli aspetti paradossali di un’idea così ingenua. Paradosso della doppia fenditura Iniziamo con il famoso esperimento della doppia fenditura. Il significato concettuale dell’esperimento sta nel mettere in luce le grosse limitazioni dell’interpretazione del quanto come oggetto. Consideriamo un pennello materiale o un pennello elettromagnetico coerente che, emesso da una opportuna sorgente, va a incidere su una doppia fenditura. Per esempio, se la sorgente è un piccolo laser, quello che osserviamo è che la luce, diffratta da ciascuna fenditura, mostra le tipiche frange di interferenza sullo schermo posto al di là delle fenditure.

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Fig. 5.7 Diffrazione da una doppia fenditure

Adesso immaginiamo di diminuire moltissimo l’intensità della luce; quello che vediamo sullo schermo non è un’immagine sbiadita e diffusa delle frange di interferenza ma, invece, vediamo dei singoli puntini luminosi. Prima vediamo un puntino, poi un altro puntino, poi un altro ancora… e così di seguito. Alla fine vediamo che i puntini si sono distribuiti sullo schermo in modo da creare la figura delle frange di interferenza classiche, che si vedevano con luce sufficientemente intensa. Se al posto della luce consideriamo un pennello elettronico, a bassissima intensità, che incide su un biprisma elettronico otteniamo una situazione molto simile. Sul rivelatore posto dopo il biprisma vediamo un puntino per volta, cioè un elettrone per volta (Tonomura, 1989, precedentemente citato), fig. 5.8. Stiamo qui riconsiderando gli esperimenti col biprisma, presentati nel cap. 3 a proposito del comportamento ondulatorio della materia e li stiamo leggendo, così come sono stati realizzati dai loro autori, come esperimenti a singolo quanto.

1 elettrone 3 elettroni

5 elettrone 7 elettroni

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50.000 elettroni

Fig. 5.8

Tre elettroni…, cinque elettroni…, sette elettroni…, 13 elettroni… aumentiamo il numero degli arrivi, aspettiamo… alla fine cominciano a vedersi davvero le frange quando ci sono migliaia di elettroni, e con 50.000 elettroni le frange di interferenza sono ben distinguibili. Se rifacciamo l’esperimento ripartendo da capo, che cosa troviamo? Il primo elettrone sullo schermo non occupa la posizione che aveva il primo elettrone nell’esperimento precedente e, così, in generale sarà per la rivelazione di tutti gli elettroni sullo schermo. Ma alla fine, dopo un numero sufficiente di rivelazioni, appariranno le frange di interferenza con la stessa struttura, dimensioni e posizione di quelle ottenute precedentemente. Notiamo così uno dei primi aspetti importanti della teoria quantistica della materia e della radiazione: il suo carattere statistico. Nella ripetizione di un singolo atto sperimentale non saremo, in generale, in grado di predire dove verrà rivelato un quanto ma, ripetendo un numero sufficientemente grande di volte l’atto sperimentale, otterremo una distribuzione degli arrivi ripetibile e prevedibile: una regolarità statistica. Sarà proprio su questa distribuzione statistica che la teoria saprà fare previsioni. Tornando ora al tema principale del nostro discorso, che cosa ha di veramente strano e paradossale questo esperimento, tale da esser in un qualche senso il prototipo di tutti gli esperimenti che mettono in luce gli aspetti più stravaganti, tipici della fisica quantistica? Immaginiamo, tanto per rendere concreto il discorso, di eseguire l’esperimento con un pennello elettronico di così bassa intensità da avere, di volta in volta un solo elettrone sullo schermo. Che cosa si è tentati di pensare? Che quando un puntino sullo schermo segnala un elettrone allora potremmo pensare che un elettrone è precedentemente uscito dal cannoncino

13 elettroni sempre più elettroni

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elettronico, ha viaggiato nello spazio circostante, è passato da una delle due fenditure, ed è arrivato sullo schermo. Questa interpretazione non è così naturale come sembra. Infatti se rifacciamo l’esperimento chiudendo una delle fenditure (per esempio chiudendo quella che abbiamo chiamato fenditura “2”, fig. 5.9), troviamo che gli elettroni vengono rivelati sullo schermo in punti tutti vicini tra loro e che sono fondamentalmente di fronte alla fenditura 1 (a parte alcuni effetti di “diffrazione”). Analogamente, se chiudiamo la fenditura “1” e lasciamo aperta la “2”, troviamo che gli elettroni sono tutti raggruppati di fronte alla fenditura “2”. Allora, se gli elettroni passassero da una fenditura oppure dall’altra, l’effetto ottenuto avendo prima chiusa una fenditura e poi chiusa l’altra e poi sommando i risultati ottenuti, sarebbe uguale a quello ottenuto con entrambe le fenditure aperte; pur di essere stati accorti ad utilizzare in ciascun esperimento un fascio avente la stessa intensità; di far durare l’esperimento per lo stesso intervallo di tempo, per ognuno dei due casi, con le due fenditure aperte a turno, e per il caso con le due fenditure aperte entrambe contemporaneamente; e pur di esser stati così accorti da mandare un solo elettrone per volta nell’apparato, così da non avere effetti dovuti all’eventuale, possibile, interazione degli elettroni fra loro. Gli effetti, però, sono differenti: l’esperimento effettuato con entrambe le fenditure aperte contemporaneamente fornisce risultati diversi da quelli ottenuti sommando i risultati con le fenditure aperte una alla volta. Infatti, nel primo caso si ha la comparsa delle frange di interferenza e nel secondo no. In un certo senso ancora più strano è il fatto che quando sono aperte entrambe le fenditure ci siano dei punti in cui non arrivano elettroni (ci riferiamo ai minimi della figura di interferenza); punti che invece sono raggiunti dagli elettroni quando le fenditure sono aperte a turno; è come se le due possibilità offerte agli elettroni, di passare dalla fenditura “1” o dalla “2” dessero luogo ad una impossibilità!

Fig. 5.9 In sequenza: intensità della luce diffratta separatamente da ciascuna fenditura; intensità

della luce diffratta da due fenditure contemporaneamente sovrapposta alla somma delle due intensità precedenti.

La conclusione di questo discorso è che e difficile pensare che gli elettroni passino per una o l’altra delle due fenditure. D’altra parte gli elettroni non passano nemmeno per entrambe le fenditure contemporaneamente, tanto è vero che se mettessimo due rivelatori, ognuno immediatamente dopo ciascuna delle fenditure, vedremmo che sempre uno soltanto dei due rivelatori darebbe un segnale. Non succede mai che l’elettrone si divida a metà. Quindi l’elettrone non è passato dalla fenditura “1”, non è passato dalla fenditura “2”, non è neppure passato fuori dalle fenditure, perché mettendo dei rivelatori attorno all’apparato vediamo che non danno mai un segnale, e non è passato da entrambe. Non è passato da entrambe perché non scattano mai i rivelatori contemporaneamente. Non è passato fuori perché mai nessuno dei rivelatori messi fuori è scattato, e non è passato dalla fenditura “1” o dalla “2” perché altrimenti la figura che otterremmo quando è aperta solo una delle fenditure, sommata a quella

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che avremmo se fosse aperta solo l’altra sarebbe uguale alla figura che otterremmo quando sono aperte tutte e due. Quindi, se vogliamo proprio pensare che l’oggetto “elettrone” esca dalla sorgente e arrivi al rivelatore, sappiamo anche, però, che questo oggetto non passa dalla fenditura “1”, non passa dalla “2”, non passa fuori e non passa da tutte e due! E’ questo un oggetto dotato di una cinematica “sensata”? Non ci sembra poi tanto... Per la verità è possibile fornire una interpretazione di questo esperimento (fondamentalmente dovuta a David Bohm) nella quale gli elettroni effettivamente si muovono ciascuno lungo un sua traiettoria e, ciononostante sullo schermo viene prodotta una figura di interferenza (fig. 5.10)

Fig 5.10 Traiettorie alla Bohm nel caso della doppia fenditura Non abbiamo certamente lo spazio per discutere le idee di Bohm (che sviluppano alcuni lavori di De Broglie); diremo solo che l’idea fondamentale è che le particelle, per esempio gli elettroni, “esistano realmente” (perdonatemi la rozzezza) e abbiamo una posizione ben definita (che diventa una variabile nascosta, cioè non descritta dalla meccanica quantistica) e che a seconda della posizione di partenza questi elettroni seguano una traiettoria ben determinata sotto l’influenza di un potenziale quantomeccanico che fa loro “sapere” se è aperta solo una o tutte e due le fenditure. Come si vede in fig. 5.10, nessuna traiettoria degli elettroni attraversa il piano di simmetria, così che dalla posizione sullo schermo si può risalire a quale delle due fenditure è stata attraversata dall’elettrone. La teoria qui menzionata ha, però, strane caratteristiche dal punto di vista del pensiero comune; infatti il potenziale quantomeccanico è non locale (la chiusura o l’apertura di una delle due fenditure fa cambiare il valore del potenziale in tutti i punti istantaneamente) e, inoltre, le variabili diverse dalla posizione in generale, risultano contestuali, cioè, detto un po’ malamente, fortemente dipendenti dall’esperimento che viene eseguito (per un esempio della con testualità delle variabili di spin, confrontare il libro di G. Ghirardi “Un occhiata alle carte di Dio”, Il Saggiatore, Milano (1997) pag. 189 e sgg.) Ribadiamo l’idea fondamentale che scaturisce abbastanza naturalmente da quanto abbiamo qui discusso: i quanti hanno a che fare con la dinamica del sistema, ma non hanno una propria cinematica.

SCHERMO

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L’idea per certi aspetti fallimentare della Meccanica Quantistica, fallimentare dal punto di vista interpretativo non certo dal punto di vista della capacità predittiva, è proprio quella di attribuire ai quanti una propria cinematica, magari inusuale, come se essi facessero qualche strana cosa nello spazio tempo. Questo non è vero. Il quanto è un aspetto della dinamica dell’interazione tra campi. I campi interagiscono gli uni con gli altri e la dinamica dell’interazione è scritta dai quanti. Insomma, nell’esperimento descritto sopra non ha senso pensare che un quanto abbia una propria traiettoria (se non nel senso attribuitogli da Bohm in cui i quanti hanno una propria cinematica nell’ambito, come abbiamo detto, di una teoria non locale della quale qui non ci occuperemo ulteriormente anche perché, a parte alcune “stranezze” peculiari, fino ad oggi non è stato possibile generalizzare tale teoria al caso relativistico, motivo per cui, invece, è nata e “funziona” la teoria quantistica dei campi)

E’ per certi aspetti più utile pensare che sia il campo (elettromagnetico o materiale a seconda dei casi) che sta passando da entrambe le fenditure. Questo campo interagisce con il rivelatore, in modo stocastico, tramite quanti e la distribuzione di questi quanti è prevedibile solo statisticamente. Però l’idea, abbastanza naturale, di pensare che se in un certo punto del rivelatore è stato rivelato un quanto allora il quanto c’era anche prima, è del tutto inappropriata. E’ inappropriata per quanto sappiamo dagli esiti degli esperimenti, non per qualche strano motivo filosofico.

Paradossi su “quale cammino” con la calcite Descriviamo un altro esempio, dovuto fondamentalmente a Gianfranco Ghirardi, (vedi a tale proposito il libro di G. Ghirardi, precedentemente citato, alle pag. 71 e sgg.) e che avete già analizzato corso del prof. A. Stefanel molto più in dettaglio di quanto non venga fatto qui. Noi Lo ripresentiamo in questa sede solo perché ci interessa mettere in risalto la sostanziale impossibilità che si ha nell’attribuire ai quanti una traiettoria. Consideriamo un cristallo di calcite (o spato d’Islanda) che è un cristallo birifrangente. Un pennello di luce (per esempio di un laser) che incide sulla calcite si separa all’interno del cristallo ed esce in due pennelli paralleli aventi polarizzazioni ortogonali fra loro (come si può controllare con due polarizzatori posti all’uscita del cristallo, uno dei due, diciamo, “orizzontale”, l’altro “verticale”). Chiamiamo il primo pennello raggio ordinario e il secondo raggio straordinario.

Fig. 5.11 Birifrangenza da calcite

Un pennello polarizzato verticalmente seguirà soltanto il percorso basso della figura, quello del raggio ordinario, come ci possiamo accorgere per esempio perché scatta soltanto il rivelatore posto in basso nella figura. Un pennello di luce polarizzato orizzontalmente, seguirà, invece, il percorso di sopra facendo scattare il rivelatore RO. Se mandiamo contro la calcite un pennello polarizzato a 45° quello che succede è che metà pennello segue il percorso ordinario e metà quello straordinario. Immaginiamo ora di attenuare così tanto il fascio da avere a che fare con un solo fotone per volta. Se il fotone è polarizzato orizzontale allora fa scattare il rivelatore RO, se è polarizzato

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verticale fa scattare il rivelatore RV e se è polarizzato a 45° metà delle volte scatterà aleatoriamente RO e metà RV. Viene proprio voglia di pensare che i fotoni seguano un cammino: di sopra o di sotto. Vedremo che anche in questo caso la cosa non è possibile. Infatti supponiamo di mettere due cristalli di spato d’Islanda, simmetrici per disposizione, in modo che uno sia l’inverso dell’altro; in modo che se uno separa il fascio, l’altro lo ricombina come in fig. 3.10.

Fig. 5.12 Cristallo di calcite e cristallo di calcite inversa

Mandiamo ora, contro l’apparato costituito dai due cristalli posti in sequenza, un fotone, per così dire, “verticale”, cioè polarizzato verticalmente (cioè mandiamo contro l’apparato un pennello di luce che interagisce tramite un solo quanto polarizzato verticalmente). Cosa succede? Vediamo che il fotone esce ancora “verticale” e sempre dal cammino “basso”; lo sappiamo perché mettiamo un altro polarizzatore verticale dopo il secondo cristallo e osserviamo che lo supera tutte le volte. Analogamente accade se mandiamo contro i due cristalli di calcite un singolo fotone polarizzato orizzontalmente. Segue il percorso “alto” ed esce polarizzato “orizzontale”.

Fig. 5.13 Un fotone polarizzato “verticale” segue il percorso “basso” e viene rivelato da un rivelatore R

dopo aver superato un test di polarizzazione verticale (doppia freccia)

Fig. 5.14 Un fotone polarizzato “orizzontale” segue il percorso “alto” e viene rivelato da un rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione orizzontale (cerchio pieno)

Fig. 5.15 Anche con due cristalli, un fotone polarizzato “verticale” segue il percorso “basso”e viene rivelato da un rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione verticale

RV

RV

RO

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Fig. 5.16 Anche con due cristalli, un fotone polarizzato “orizzontale” segue il percorso “alto” e viene rivelato da un rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione orizzontale

Perché siamo sicuri che i due percorsi seguiti sono proprio quelli rappresentati in figura? Perché, da quanto detto prima quando abbiamo considerato l’esperimento effettuato con un solo cristallo, sappiamo che il fotone “verticale” segue il percorso basso mantenendo la sua polarizzazione (fig. 5.13) e analogamente ha fatto quello “orizzontale” andando in alto (fig. 5.14). Adesso immaginiamo di mandare un singolo fotone polarizzato a 45°. Per quanto detto fin qui egli o segue il percorso straordinario o quello ordinario, va di sotto o va di sopra. Immaginiamo che vada di sotto e supponiamo di mettere, dopo il secondo cristallo, un secondo polarizzatore a 45° seguito da un rivelatore.

Fig. 5.17 Un fotone polarizzato a 45° viene inviato contro i due cristalli e incontra un polarizzatore a 45° (freccia obliqua)

Come descriviamo la situazione? Non è difficile: il fotone che segue il percorso di sotto esce “verticale” dai due cristalli, in seguito incontra il polarizzatore a 45° e pertanto avrà il 50% di probabilità di attraversare il polarizzatore e il 50% di probabilità di essere assorbito. Allora, se N fotoni passano per la traiettoria in basso, il rivelatore, che abbiamo posto dopo il polarizzatore a 45°, ne rivela la metà. Analogamente accade ai fotoni che seguono la traiettoria di sopra perché escono “orizzontali” prima di incontrare il polarizzatore. Morale: se mandiamo 2N fotoni, uno per volta, polarizzati a 45° contro i due cristalli di calcite, uno inverso dell’altro, questi fotoni metà delle volte passano di sotto, metà delle volte passano di sopra. Metà di quelli che passano di sotto (e che quindi sono polarizzati verticalmente) supera il polarizzatore a 45° e, analogamente, metà di quelli che passano di sopra (polarizzati, quindi orizzontalmente) supera lo stesso polarizzatore. Alla fine, allora, ci aspettiamo che, dei 2N fotoni incidenti, solo la metà, cioè solo N, giungano al rivelatore. Bene, la cosa strabiliante è che se facciamo l’esperimento il rivelatore conta 2N fotoni, li conta tutti, e non solo N!

R45

RO

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Ciò significa che il discorso che abbiamo fatto è sbagliato e che, quindi, la conclusione che dobbiamo trarre è che il fotone non segue una traiettoria definita: non va di sotto, non va di sopra, non va fuori dal cristallo e non percorre contemporaneamente i due cammini! Non va fuori dal cristallo perché se mettiamo dei rivelatori attorno alla calcite non troviamo mai nessun fotone; non segue uno dei due cammini perché altrimenti varrebbe il ragionamento appena fatto e riveleremmo soltanto la metà dei fotoni che invece riveliamo; non li percorre tutti e due perché ogni volta che facciamo un esperimento con un singolo cristallo vediamo che viene sempre attivato uno solo dei due rivelatori, mai vengono attivati entrambi; e non è neppure vero che non segue nessun percorso perché esce dalla sorgente e alla fine esso viene rivelato! Come si vede, la nozione di traiettoria in questo tipo di esperimenti è del tutto inadeguata! Osserviamo che dal punto di vista classico il problema non si pone assolutamente. Se pensiamo ad un pennello elettromagnetico inizialmente polarizzato a 45° che incide sui due cristalli di calcite, possiamo descrivere in modo molto semplice quello che succede: il pennello viene scomposto in due polarizzazioni dal primo cristallo, orizzontale e verticale, poi queste due vengono ricombinate dal secondo cristallo, tanto è vero che il pennello esce dal secondo cristallo polarizzato di nuovo a 45° (polarizzazione ottenuta come somma coerente di polarizzazione verticale e orizzontale). Mettendo, quindi, un polarizzatore a 45° dopo il secondo cristallo, questo farà passare tutta la luce che vi incide e non solo la metà! Se pensiamo in termini di campo quantizzato possiamo anche dire che un pennello elettromagnetico polarizzato a 45° interagisce per mezzo di quanti polarizzati a 45°, ecco perché tutti i fotoni, e non solo la metà, vengono rivelati nell’esperimento. Mentre è possibile attribuire una traiettoria al campo, una traiettoria nel senso di immaginare che il campo si propaghi lungo entrambi i cammini ottici, non è però possibile pensare questo per i fotoni. Ancora una volta si capisce perché è del tutto innaturale attribuire una cinematica ai quanti.

Paradossi su “quale cammino”con l’interferometro Mach-Zender L’interferometro Mach-Zender, descritto in fig. 5.18, è stato già analizzato.

Fig. 5.18

Proviamo a ripetere l’esperimento che abbiamo descritto lì eseguendolo, però, con luce di bassissima intensità, in modo da avere un solo fotone per volta nell’apparato, e proviamo a spiegare quello che succede in termini di fotoni. Quando un fotone arriva sul primo specchio semitrasparente, metà delle volte lo supera e metà delle volte viene riflesso. Per saper che è proprio così basta mettere due rivelatori, uno lungo ciascun cammino (quello trasmesso e quello riflesso) e vedere che ogni volta, a caso, scatta uno e sempre uno solo dei due rivelatori. Supponiamo, per fissare le idee, che il fotone attraversi lo specchio e segua per il percorso “basso”, venga riflesso dallo specchio riflettente e arrivi allo specchio semitrasparente di sopra. Metà delle volte il fotone dovrebbe essere trasmesso da tale specchio e giungere così in

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R1 e metà delle volte dovrebbe essere riflesso e arrivare in R2. Cosa del tutto analoga dovrebbe accadere al fotone che viene riflesso dal primo specchio e che segue il cammino “alto”. Morale: ci aspettiamo di avere luce in entrambi i rivelatori. Invece, se facciamo l’esperimento, esattamente come succedeva con luce di alta intensità, otteniamo che tutti i fotoni vengono rivelati dal rivelatore R2 e mai nessuno da R1! Come nei due esperimenti descritti i precedenza, quindi: il fotone non segue nessuno dei due cammini, altrimenti avrei luce in entrambi i rivelatori; non li segue tutti e due, perché se mettiamo due rivelatori, uno per cammino, ne scatta sempre e solo uno; non segue percorsi diversi perché se mettiamo rivelatori fuori dai cammini, questi non scattano mai; e neppure non segue nessun cammino perché il fotone esce dalla sorgente e viene sempre rivelato!

Misure in assenza di interazione Possiamo utilizzare questo interferometro per esperimenti bellissimi, affascinanti, quelli che permettono le cosiddette “misure in assenza di interazione”.

Immaginiamo di mettere un oggetto opaco da interrompere uno dei due cammini ottici, come in fig. 5.19.

Fig. 5.19 Interferometro Mach-Zender con uno dei cammini ottici bloccato da un oggetto opaco

Descriviamo la situazione dal punto di vista classico. La luce, pensiamo per esempio a quella di un laser, si divide in due fasci, uno per ciascun percorso. La luce che va ad incidere sull’oggetto, precedentemente sistemato, viene da questo assorbita e, quindi, non va più a sovrapporsi con quella che ha seguito l’altro percorso; non si ha così più interferenza dei due fasci. Quello che succede, allora, è che metà della luce viene assorbita dall’oggetto e l’altra metà si distribuisce in modo da arrivare in uguale misura ai due rivelatori R1 e R2.

Immaginiamo ora di mandare un fascio di così debole intensità che siamo sicuri di inviare un solo fotone per volta. Possono accadere tre cose:

1) nessuno dei due rivelatori R1 e R2 manda un segnale, 2) scatta il rivelatore R2; 3) scatta il rivelatore R1.

Nel caso 1) il fotone ha interagito con l’oggetto posto su uno dei due cammini ottici ed è stato assorbito. Nel caso 2) il fotone è andato nel rivelatore in cui sarebbe andato anche in assenza dell’oggetto. Il caso 3) è il più interessante perché siamo in una strana situazione: abbiamo inviato un solo fotone e questo è stato rivelato da uno dei due rivelatori; quindi possiamo dire

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che non ha interagito con l’oggetto posto su uno dei cammini. Però tale fotone, essendo arrivato in R1, ci fa capire che uno dei due cammini è stato bloccato, altrimenti ci sarebbe stata interferenza e il fotone non sarebbe mai arrivato in R1, come sappiamo. Ciò significa che senza interagire con l’oggetto siamo in grado di sapere che l’oggetto era lì, sul cammino ottico; abbiamo eseguito una misura di posizione senza interazione. E’ un cosa meravigliosa! Possiamo, per esempio, chiedere ad un amico di muovere l’oggetto su una slitta, trasversalmente al cammino ottico e scoprire la posizione dell’oggetto (cioè se l’oggetto interrompe il fascio oppure no) guardando i fotoni (sono ¼ di quelli inviati) che arrivano in R1. Questo è un esperimento vero, non solo pensato, è stato eseguito nel 1998 e questi sono i risultati:

Fig. 5.20 Risultati di misure di vari oggetti in assenza di interazione (per ciascun grafico è la curva che parte in basso a sinistra). Tratto da P. Kwiat Phys. Rev. A 58 1 605 (1998)

Non è quindi vero che per misurare ci voglia sempre un’interazione. Perché non è vero? Il succo della cosa è che non è vero perché non è vero che i quanti hanno una traiettoria… Certamente, per come è costruito l’apparato sperimentale, metà dei fotoni andranno comunque a interagire con l’oggetto, la cosa interessante è per quel quarto che non lo fanno e vanno in R1! La domanda a questo punto è: possiamo costruire un dispositivo che ha un’efficienza migliore, per esempio che misuri la posizione, in assenza di interazione, nel 99% dei casi? Costruire un simile dispositivo sarebbe un po’, per dirla brutalmente, come costruire un apparato per radiografie che produce immagini con solo 1/100 di raggi X assorbiti dal corpo rispetto all’assorbimento usuale! In effetti molti ricercatori stanno proprio lavorando a questo

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tipo di miglioramento (migliorare l’efficienza in apparati alla Mach-Zender, non ancora la radiografia, ovviamente…).

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Note Capitolo 3 i Un elemento è una sostanza che non è possibile scindere in altre sostanze e che non si può ottenere dall’unione di altre sostanze. ii Una bella simulazione del famoso esperimento diCompton e Simon è fatta nel software “Effetto Compton” di N. Bergomi, G. Vegni et al.. iii Cfr Lee M. H. “Carnot cycle for photon gas?” Am. J. Phys. 69 (8) 874-878, August 2001. iv De Broglie L. V., « Recherches sur la théorie des quanta », Annales de Physique 3 22-128 (1925). v Davisson C., Germer L. H., Phys. Rev., 30, 505 (1927).


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