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5. NOVECENTO BARBARO: DALL’“INUTILE STRAGE” AD AUSCHWITZ · 2006. 12. 13. · 3 Percorso 5 -...

Date post: 26-Jan-2021
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5. NOVECENTO BARBARO: DALL’“INUTILE STRAGE” AD AUSCHWITZ Il problema dell’irruzione della barbarie nel cuore stesso della cultura europea, che nei secoli passati si era autodefinita come modello positivo e progressivo di civiltà, é l’oggetto di questo percorso. L’ampiezza dell’argomento, tuttavia, impone di limitare la riflessione al momento nel quale si verifica il crollo delle certezze che avevano a- nimato le generazioni che si erano succedute dal secolo dei lumi fino alle soglie del Novecento: la Grande guerra. Essa rappresenta, infatti, l’evento che scatena meccani- smi di aggressività che la tecnologia sempre più perfezionata rende più distruttivi. Se da un lato le masse e molti gruppi di intellettuali vengono suggestionati dal fascino di una guerra della quale non si conoscono ancora gli effetti, dall’altro la visione delle macerie materiali e morali che essa lascia ove passa muove una riflessione che si in- terroga sul valore delle stessa civiltà occidentale che quelle distruzioni ha voluto, la discussione sull’attributo “barbaro”. La qualifica di barbarie attribuita al Novecento deve essere presa con cautela e richiede alcune precisazioni. È vero che atti di inaudita e impensata barbarie hanno fatto irruzione nel cuore stesso di quella che si considerava la civiltà per eccellenza, ossia la cultura occidentale: le due guerre mondiali, con il loro carico di sangue e di devastazioni, ne sono soltanto l’aspetto più evidente, perché guerre locali, genocidi, discriminazioni politiche e razzia- li, e, non ultimo, il divario tra povertà e ricchezza, sono continuati e si sono acuiti nella seconda metà del secolo, con la responsabilità, a volte diretta a volte indiretta, dell’Occidente. È altrettanto vero che nessun altro secolo come il Novecento è stato progressivo in tutti i campi della vita associata e civile. In particolare i diritti umani si sono affermati in e- stensione, ossia per un numero sempre più ampio di uomini e donne, e in profondità, ampliando cioè il contenuto dei diritti riconosciuti alla persona. Il Novecento è allora, e piuttosto, un secolo nel quale la contrapposizione civiltà e barbarie si è fatta più evidente e più radicale. Nel corso della sua storia e all’interno del- la sua produzione tecnico scientifica e culturale, il Novecento non è stato immune da ri- gurgiti di barbarie, ma è anche stato capace di produrre gli anticorpi che la possono pre- venire. Sembra, anzi, quest’ultima la nota più caratterizzante la civiltà occidentale. Nel contesto di questa premessa diventa importante conoscere e analizzare i meccanismi che hanno prodotto quegli eventi che alla luce della civiltà non possono che essere qua- lificati come barbari. Tra questi, un nome ha assunto il ruolo di emblema di ogni barba- rie: Auschwitz , ma l’elenco di luoghi e fatti che evocano l’incubo del crollo della civiltà è assai lungo e attraversa tutto il secolo. Comprendere le ragioni che hanno provocato la deriva della civiltà in un secolo così controverso è quindi opera non solo di carattere ac- cademico ma anche e soprattutto di impegno civile. L’immagine e il tempo della barbarie Uno sguardo retrospettivo su Ottocento e Novecento individua nel 1914 un punto di non ritorno; dopo quella data, le grandi illusioni di progresso pacifico e di benessere mate-
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  • 5. NOVECENTO BARBARO: DALL’“INUTILE STRAGE” AD AUSCHWITZ

    Il problema dell’irruzione della barbarie nel cuore stesso della cultura europea, che nei secoli passati si era autodefinita come modello positivo e progressivo di civiltà, é l’oggetto di questo percorso. L’ampiezza dell’argomento, tuttavia, impone di limitare la riflessione al momento nel quale si verifica il crollo delle certezze che avevano a-nimato le generazioni che si erano succedute dal secolo dei lumi fino alle soglie del Novecento: la Grande guerra. Essa rappresenta, infatti, l’evento che scatena meccani-smi di aggressività che la tecnologia sempre più perfezionata rende più distruttivi. Se da un lato le masse e molti gruppi di intellettuali vengono suggestionati dal fascino di una guerra della quale non si conoscono ancora gli effetti, dall’altro la visione delle macerie materiali e morali che essa lascia ove passa muove una riflessione che si in-terroga sul valore delle stessa civiltà occidentale che quelle distruzioni ha voluto, la discussione sull’attributo “barbaro”.

    La qualifica di barbarie attribuita al Novecento deve essere presa con cautela e richiede alcune precisazioni.

    È vero che atti di inaudita e impensata barbarie hanno fatto irruzione nel cuore stesso di quella che si considerava la civiltà per eccellenza, ossia la cultura occidentale: le due guerre mondiali, con il loro carico di sangue e di devastazioni, ne sono soltanto l’aspetto più evidente, perché guerre locali, genocidi, discriminazioni politiche e razzia-li, e, non ultimo, il divario tra povertà e ricchezza, sono continuati e si sono acuiti nella seconda metà del secolo, con la responsabilità, a volte diretta a volte indiretta, dell’Occidente.

    È altrettanto vero che nessun altro secolo come il Novecento è stato progressivo in tutti i campi della vita associata e civile. In particolare i diritti umani si sono affermati in e-stensione, ossia per un numero sempre più ampio di uomini e donne, e in profondità, ampliando cioè il contenuto dei diritti riconosciuti alla persona.

    Il Novecento è allora, e piuttosto, un secolo nel quale la contrapposizione civiltà e barbarie si è fatta più evidente e più radicale. Nel corso della sua storia e all’interno del-la sua produzione tecnico scientifica e culturale, il Novecento non è stato immune da ri-gurgiti di barbarie, ma è anche stato capace di produrre gli anticorpi che la possono pre-venire. Sembra, anzi, quest’ultima la nota più caratterizzante la civiltà occidentale. Nel contesto di questa premessa diventa importante conoscere e analizzare i meccanismi che hanno prodotto quegli eventi che alla luce della civiltà non possono che essere qua-lificati come barbari. Tra questi, un nome ha assunto il ruolo di emblema di ogni barba-rie: Auschwitz, ma l’elenco di luoghi e fatti che evocano l’incubo del crollo della civiltà è assai lungo e attraversa tutto il secolo. Comprendere le ragioni che hanno provocato la deriva della civiltà in un secolo così controverso è quindi opera non solo di carattere ac-cademico ma anche e soprattutto di impegno civile.

    L’immagine e il tempo della barbarie Uno sguardo retrospettivo su Ottocento e Novecento individua nel 1914 un punto di non ritorno; dopo quella data, le grandi illusioni di progresso pacifico e di benessere mate-

  • 2 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad Auschwitz

    riale e spirituale, nutrite dalle generazioni della belle époque, sembrano inghiottite in un vortice che inesorabilmente fa irrompere nel cuore stesso della civiltà la più orrenda e inaudita delle barbarie. Ciò che di fatto mette in discussione, e per alcuni capovolge, l’immagine del Novecento progressivo e civile, sta in un solo dato documentato dallo storico Eric J. Hobsbawm (1917) nella sua ultima opera Il secolo breve (1995).

    → Vedi come l’espressione “secolo breve”, ormai adottata dagli storici e dai mass media, sia dovuta all’opera, sopra citata, di Hobsbawm, con la quale lo storico inglese qualifica il Novecento rispetto all’Ottocento.

    Afferma, infatti, Hobsbawm: “Una stima recente (1993) delle grandi stragi del nostro secolo registra 187 milioni di morti”. Apre la macabra rassegna la Prima guerra mon-diale con 13 milioni di vittime, e i 50 milioni della Seconda guerra mondiale costitui-scono un record assoluto. A questi dati impressionanti seguono quelli delle guerre locali della prima metà del secolo e tutte le guerre del “terzo mondo” nella seconda metà del secolo. La stima di 187 milioni non comprende le guerre più recenti, ossia quelle com-battute dopo il 1991 e non “computa” tra le vittime i morti per le carestie che spesso so-no seguite alle guerre. Un’altra opera di ricostruzione storica recentemente pubblicata, Il libro nero del comunismo (1998), computa anche i 90 milioni di morti che si addebitano ai regimi comunisti.

    Quest’ultima cifra, sulla quale si è aperta una discussione circa la sua attendibilità, ri-sulterebbe dalle stime dei morti per guerre, deportazioni, carestie e catastrofi naturali connesse comunque alle trasformazioni economiche introdotte dalle economie colletti-vistiche. In ogni modo lo spettro della morte incombe costante dal 1914 e sembra caratterizzare l’intero arco di storia del “secolo breve”. Mentre infatti questo deborda dai suoi confini temporali, perché i fatti che ne scandiscono la storia vanno dalla Rivoluzione francese (1789) alla Grande guerra (1914), il Novecento completa il suo “breve” ma intenso arco dalla Grande guerra al crollo dell’Urss (1991).

    → Vedi sui manuali di storia e di storia dell’arte i caratteri e le immagini della belle époque, periodo in cui l’Europa industrializzata vive l’illusione di una pace e un progresso stabili e duraturi. Ricorda inoltre che, per costruire una visione complessiva del “Novecento barbaro”, è utile tracciare un quadro sintetico dell’Ottocento e giustificare il significato periodizzante delle date e dei fatti ad esse connessi proposti da Hobsbawm: 1789-1914.

    → Vedi due autori appartenenti a scuole storiografiche diverse, Eric J. Hobsbawm e François Furet (1927), i quali presentano nelle loro opere una visione assai ampia e completa dei due secoli. Più in particolare per il Novecento sono assai interessanti le loro ultime opere: Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995; François Furet, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano 1995.

    Il crollo della civiltà occidentale Una volta ricostruita l’immagine della società europea che, prima della Grande guerra, nutre una fiducia illimitata nelle “magnifiche sorti progressive”, possiamo renderci con-to della portata e del significato che deve avere avuto la constatazione che della civiltà occidentale; la coscienza della crisi è scandita da tre momenti.

    1. La Grande guerra è il fattore che scatena nella coscienza dell’Occidente dinamiche regressive e meccanismi distruttivi delle conquiste materiali e civili avvenute nei decen-

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    ni precedenti. In particolare l’Europa, che si era autoproposta come “faro di civiltà”, vi-ve dentro i propri confini la certezza del crollo ormai avviato ed inesorabile.

    2. Il ventennio tra le due guerre mondiali può essere qualificato come un momento di equilibrio precario durante il quale l’Europa constata la debolezza dei sistemi politici liberaldemocratici e socialdemocratici al confronto con i regimi a partito unico e ten-denzialmente totalitari.

    3. La Seconda guerra mondiale è il momento della catastrofe: 50 milioni di morti, un genocidio programmato, bombardamenti convenzionali e atomici sulle popolazioni inermi lasciano nella coscienza civile macerie che non sono ancora completamente ri-mosse, anche se il “secolo breve” è ormai considerato chiuso.

    In questo percorso ci si limita ad analizzare il primo punto tra quelli ora esposti.

    La Grande guerra La Grande Guerra scoppia tra l’entusiasmo generale; pochi riescono a sottrarsi al fasci-no dell’azione e della forza. Ma presto la guerra rivela un volto che l’Europa non aveva mai conosciuto. Le guerre dell’Ottocento, se si esclude quella di secessione negli Stati Uniti che già presenta i caratteri distruttivi delle guerre contemporanee, erano state con-tenute sia nell’estensione sia nei loro effetti distruttivi. La guerra del 1914/18 deve la sua inquietante “grandezza” non solo alla quantità delle vittime e all’entità delle risorse morali, economiche e sociali sacrificate sui campi di battaglia; la sua inquietante novità appare assai più impressionante se si analizzano alcuni dati di ordine “qualitativo” nella conduzione della guerra, quali l’impiego per la prima volta di armi chimiche (il gas i-prite prende il nome dalla località francese di Ypres dove fu usato per la prima volta dai comandi militari tedeschi); la volontà di condurre la guerra fino alla capitolazione dell’avversario; il primo genocidio del Novecento, ossia quello perpetrato dai turchi nei confronti del popolo armeno ; la propaganda interna finalizzata a dipingere l’avversario come il nemico assoluto, fatto quest’ultimo che riproduce del Novecento la radicalità delle guerre di religione. Nella Grande guerra si inserisce inoltre un nuovo evento che la guerra stessa ha contri-buito a determinare: la rivoluzione in Russia. La conquista del potere da parte del parti-to bolscevico e la guerra civile che ne consegue tra le “armate bianche” e l’Armata rossa sono eventi destinati ad introdurre un ulteriore elemento di crisi nella coscienza europea: la borghesia che lì vede materializzarsi lo “spettro del comunismo” parteggia e sostiene, attraverso l’ intervento militare di quasi tutti i maggiori Stati europei, il tenta-tivo di restaurazione condotto dai “bianchi”, la classe operaia e ampi gruppi di intellet-tuali intravedono nella vittoria dei bolscevichi l’evento rivoluzionario destinato a intro-durre nella Storia un processo irreversibile di giustizia sociale.

    Questa frattura e, più in generale, l’incubo da un lato e le speranze/illusioni dall’altro, suscitati dal comunismo, sono ulteriori elementi che dividono e polarizzano l’opinione politica nei paesi europei e scatenano quei fattori di tensione e contrapposi-zione che caratterizzeranno l’intero secolo.

    → Vedi sul manuale di storia i motivi per i quali la guerra 1914-18 è stata denominata “grande”.

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    La guerra nella letteratura e nella cinematografia La produzione letteraria che ha per oggetto specifico la Grande guerra e il suo carattere inaudito è assai vasta e può essere analizzata secondo diversi modelli. Un possibile per-corso, che trova certamente adeguati testi sui manuali d’uso comune nelle scuole, è quello di valutare le seguenti posizioni di fronte alle nuove dimensioni della guerra.

    1. L’esaltazione dell’azione distruttiva e il fascino per la tecnologia che ne moltiplica le possibilità.

    → Vedi ad esempio sul manuale di letteratura alcune pagine di Filippo Tommaso Marinetti tratte da Zang Tumb Tumb nelle quali egli trasferisce le sensazioni provate nell’azione durante la guerra di Libia e la visione del volo aereo e degli effetti del bombardamento. Sulle riviste di inizio secolo ad orientamento nazionalista, quali ad esempio “Lacerba”, “Il Regno e La Voce”, puoi trovare traccia dell’esaltazione della guerra come “igiene del mondo” o il desiderio del salutare e benefico “bagno di sangue” che rigeneri il carattere di un popolo.

    2. Il resoconto amaro e disincantato dell’esperienza cruda della morte vissuta faccia a faccia nella guerra in trincea.

    → Vedi la produzione poetica di Giuseppe Ungaretti in Allegria di naufragi . 3. La riflessione sulla guerra di trincea e sul sistema di disciplina militare che deve im-porre e giustificare il supremo sacrificio dei combattenti al fronte.

    → Vedi, tra le varie possibilità di lettura, le opere di narrativa più comunemente frequentate, all’interno delle differenti letterature nazionali che sono le seguenti: Letteratura italiana: Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano; Letteratura francese: Henry Barbusse, Il fuoco; Letteratura tedesca: Erich Maria Remarque, All’Ovest, niente di nuovo; Letteratura inglese: Ford Maddox Ford, La fine della parata ; Evelyn Waugh La spada dell’onore.

    Può essere assai interessante anche confrontare il racconto con la produzione cinemato-grafica, pure assai ricca: tra i tanti film ancora oggi in circolazione, quattro meritano particolare attenzione: Uomini contro (1971) di Francesco Rosi e All’Ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone che sono la trasposizione rispettivamente di Un anno sull’altipiano di Lussu e dell’omonimo romanzo sopra citato e consentono quindi un raffronto tra i due linguaggi letterario e cinematografico; Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, può essere considerato un capolavoro in assoluto nel suo genere. È in-teressante anche osservare la smitizzazione dell’eroismo che Mario Monicelli compie ne La grande guerra (1959).

    La guerra nella filosofia e nella cultura Il senso di frattura e di inquietante novità che fa presagire più laceranti catastrofi umane non poteva non essere avvertito dalla cultura del tempo. Molte sono le testimonianze del mutamento epocale inaugurato dal “bagno di sangue”, che, quando si realizza, appare tutt’altro che “rigeneratore”.

    Quelle parole lette oggi sono già la manifestazione della barbarie incombente nel se-no stesso della civiltà e contrastano in modo assai efficace con le riflessioni amare dei contemporanei che con sguardo retrospettivo osservano e giudicano la carneficina e le distruzioni. È soprattutto nell’ambito della cultura nazionalistica, che si manifesta una più decisa adesione alla guerra, non solo come strumento di affermazione della vitalità di un popo-

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    lo e dello Stato, ma anche come manifestazione di volontà, coraggio e grandezza d’animo, e addirittura come fenomeno estetico, come fa Enrico Corradini (1865-1931) nella sua apologia della guerra tra Russia e Giappone (La conferma del cannone (in “Il Regno”, II, 1904, n. 12) oppure Giovanni Papini (1881-1956) in Amiamo la guerra! (da “Lacerba”, II 1914, n. 20). Papini parla della guerra come un di “male necessario” e il senso più comune di questa espressione assume un contenuto inquietante: “necessario” significa cioè necessario all’elevamento morale di un popolo, che, senza la benefica for-za rigeneratrice della guerra, ristagnerebbe nella fiacchezza della vita quotidiana, non sarebbe più in grado di apprezzare la virtù del coraggio. La guerra è infine utile e neces-saria al progresso economico ma anche in questo caso Papini è destinato a scardinare la più logica e ovvia interpretazione del concetto: non è della grande industria che egli si preoccupa, ma dell’agricoltura, perché “i campi di battaglia rendono, per molti anni, as-sai più di prima senz’altra spesa di concime”. Qui la posizione di Papini diviene para-dossale, i cadaveri vengono considerati come utile "concime" dei campi. Non c’ è biso-gno di ricordare che egli scrive queste parole “commosso” dalle notizie che giungono dai fronti dove la carneficina è appena cominciata ma ha già mietuto centinaia di mi-gliaia di vittime.

    Sono queste le forme più radicali di un’orgiastica esaltazione del “bagno di sangue”, che pretendono di cogliere un contrasto insanabile tra gli effetti della civilizzazione, causa di imborghesimento e infiacchimento delle energie vitali dei popoli, e il riemergere del-la natura genuinamente selvaggia ma vitale e grandiosa delle stirpi destinate a fare la storia. E, in modo meno truculento ma sostanzialmente in sintonia con Papini, buona parte degli intellettuali europei è attratta dal fascino della guerra convinta che per suo tramite sia possibile riattingere l’autenticità dell’identità etnica dei popoli contro il mo-dello illuministico astratto ed universalistico di “civilizzazione”. È in questo quadro che si determina, ad esempio, l’adesione di Thomas Mann (1875-1955) (vedi Pensieri di guerra del 1914), come avviene per altri intellettuali tedeschi e mitteleuropei, alla guer-ra; tale adesione però suscita un dibattito articolato e sofferto di fronte alla constatazio-ne della realtà della guerra.

    Superata la fase di entusiasmo per la “voce del cannone”, man mano che giungono le notizie dal fronte e si impone l’evidenza “dell’inutile strage”, si fanno strada il disagio e l’inquietudine non solo per il tempo presente ma anche per il futuro stesso del genere umano.

    La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra è quella di Sigmund Freud (1865-1939). Anche il padre della psicanalisi non era rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato l’ Europa e, con la precisione del linguaggio della scienza che egli stesso aveva plasmato, aveva scritto, il 23 agosto 1914, “tutta la mia libido si riversa sugli austroungarici”.

    Ma un solo anno di guerra gli era stato sufficiente per rielaborare una lettura più di-staccata degli avvenimenti in un brevissimo scritto del 1915, intitolato Caducità, nel quale egli coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema. Per Freud la guer-ra svela definitivamente l’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell’animo e nel comportamento degli uomini: al contrario è sufficiente che lo Stato consenta e obblighi i cittadini all’uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.

    Freud affida le riflessioni sulla guerra e la constatazione della sua cruda realtà a un saggio del 1915, Considerazioni sulla guerra e sulla morte, nel quale approfondisce il rapporto tra l’attività pulsionale e l’aggressività. Più tardi, quando l’evoluzione della

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    storia europea e mondiale farà temere il riemergere della barbarie comparsa nella Gran-de Guerra, Freud ritornerà sull’argomento sollecitato, nel 1932, da una lettera di Albert Einstein (1879-1955).

    → Vedi i saggi di Freud sulla guerra e lo scambio epistolare con Einstein in un libretto di facile lettura: Freud, Einstein, Riflessioni a due sulle sorti del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

    Dagli scritti di Freud si evince che la Grande guerra ha certamente influito sull’ampliamento del pensiero psicanalitico, dal campo medico terapeutico alla rifles-sione sulle dinamiche della psicologia collettiva e sociale; i risultati di questo estensione sono affidati all’opera Al di là del principio di piacere del 1920 e Il disagio della civiltà pubblicato nel 1929.

    Nelle opere di questo periodo, in un contesto nel quale il pensiero della guerra ricorre come sottofondo, Freud analizza le componenti pulsionali aggressive e distruttive che si manifestano come reazione al prezzo di infelicità pagato dall’individuo alla civiltà e al benessere materiale. Assai significative appaiono in questa prospettiva le parole che concludono l’opera del 1929:

    “Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo a-spetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sa-rebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale [la pulsione di Morte]. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”

    L’ultima frase è stata aggiunta al testo originario nel 1933 quando in Europa, e più in particolare in Germania, si stanno imponendo quelle ideologie politiche che fanno ap-pello alle forze istintive e pulsionali delle masse.

    → Vedi sul manuale di filosofia l’esposizione della svolta nel pensiero di Freud che consiste nel passaggio cosciente dalla psicanalisi, rigorosamente mantenuta entro i limiti delle scienze empiriche, ad una sorta di “metapsicologia” ossia l’interpretazione di fatti psichici complessi nel quadro di una visione più generale dell’uomo.


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