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9. Femminismo, capitalismo e l’astuzia della...

Date post: 16-Mar-2018
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9. Femminismo, capitalismo e l’astuzia della storia 1 Vorrei qui proporre uno sguardo ampio e generale sul femminismo di seconda generazione. Non mi riferisco a questa o quella corrente di attiviste, né a questo o quel filone di teorizzazione femminista; non a questo o quel pezzo geografico di movimento, né a questo o quello strato sociologico di donne. Vorrei invece provare a osservare tutta la seconda generazione del femminismo come un fenomeno sociale epo- cale. Guardando indietro a quasi quarant’anni di attivismo femminista, intendo azzardare una valutazione della traiettoria complessiva del mo- vimento e del suo significato storico. Guardando indietro, però, spero anche di poter fornire un contributo per guardare avanti. Ricostruendo il nostro percorso, spero di fare luce sulle sfide che oggi ci troviamo di fronte, in un tempo di grande crisi economica, incertezza sociale e rial- lineamento politico. Intendo dunque raccontare una storia che riguarda i contorni gene- rali e il significato complessivo del femminismo di seconda generazione. Mettendo insieme narrazione storica e analisi socio-teorica, il mio rac- conto sarà scandito da tre punti, ognuno dei quali mette il femminismo di seconda generazione in relazione a uno specifico momento nella storia del capitalismo. Il primo punto si riferisce alla nascita del movimento nel contesto di quello che chiamerò il “capitalismo organizzato dallo Stato”. 1 Questo capitolo ha origine da una lezione tenuta a un incontro a Cortona su “Genere e cittadinanza: nuovi e vecchi dilemmi, tra uguaglianza e differenza” (Cortona, Italia, 7-9 novembre 2008). Un ringraziamento alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, allo Stato francese, alla regione Île-de-France e alla École des hautes études en sciences sociales, che ha sostenuto questo lavoro nel quadro del Blaise Pascal International Research Chairs. Per gli utili commenti, ringrazio i partecipanti all’incontro di Cortona, in particolare Bianca Beccalli, Jane Mansbridge, Ruth Milkman ed Eli Zaretsky, e i partecipanti al seminario dell’Ehess nel Groupe de sociologie politique et morale, in particolare Luc Boltanski, Estelle Ferrarese, Sandra Laugier, Patricia Paperman e Laurent Thévenot.
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9. Femminismo, capitalismo e l’astuzia della storia1

Vorrei qui proporre uno sguardo ampio e generale sul femminismo di seconda generazione. Non mi riferisco a questa o quella corrente di attiviste, né a questo o quel filone di teorizzazione femminista; non a questo o quel pezzo geografico di movimento, né a questo o quello strato sociologico di donne. Vorrei invece provare a osservare tutta la seconda generazione del femminismo come un fenomeno sociale epo-cale. Guardando indietro a quasi quarant’anni di attivismo femminista, intendo azzardare una valutazione della traiettoria complessiva del mo-vimento e del suo significato storico. Guardando indietro, però, spero anche di poter fornire un contributo per guardare avanti. Ricostruendo il nostro percorso, spero di fare luce sulle sfide che oggi ci troviamo di fronte, in un tempo di grande crisi economica, incertezza sociale e rial-lineamento politico.

Intendo dunque raccontare una storia che riguarda i contorni gene-rali e il significato complessivo del femminismo di seconda generazione. Mettendo insieme narrazione storica e analisi socio-teorica, il mio rac-conto sarà scandito da tre punti, ognuno dei quali mette il femminismo di seconda generazione in relazione a uno specifico momento nella storia del capitalismo. Il primo punto si riferisce alla nascita del movimento nel contesto di quello che chiamerò il “capitalismo organizzato dallo Stato”.

1 Questo capitolo ha origine da una lezione tenuta a un incontro a Cortona su “Genere e cittadinanza: nuovi e vecchi dilemmi, tra uguaglianza e differenza” (Cortona, Italia, 7-9 novembre 2008). Un ringraziamento alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, allo Stato francese, alla regione Île-de-France e alla École des hautes études en sciences sociales, che ha sostenuto questo lavoro nel quadro del Blaise Pascal International Research Chairs. Per gli utili commenti, ringrazio i partecipanti all’incontro di Cortona, in particolare Bianca Beccalli, Jane Mansbridge, Ruth Milkman ed Eli Zaretsky, e i partecipanti al seminario dell’Ehess nel Groupe de sociologie politique et morale, in particolare Luc Boltanski, Estelle Ferrarese, Sandra Laugier, Patricia Paperman e Laurent Thévenot.

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Qui mi propongo di tracciare l’emergere del femminismo di seconda ge-nerazione, nato all’interno della nuova sinistra anti-imperialista, come una sfida radicale al pervasivo androcentrismo delle società capitaliste del dopoguerra, nelle quali lo Stato svolgeva un ruolo guida. Concet-tualizzando questa fase, identificherò la fondamentale promessa eman-cipativa del movimento con il suo ampio senso di ingiustizia e con la sua critica strutturale della società. Il secondo punto riguarda il processo di evoluzione del femminismo nel contesto radicalmente mutato del neo-liberismo in ascesa. Qui propongo di mappare non solo gli straordinari successi del movimento, ma anche l’inquietante convergere di alcuni dei suoi ideali con le domande di una nuova forma emergente di capitali-smo: postfordista, “disorganizzato”, transnazionale. Concettualizzando questa fase, mi chiederò se il femminismo di seconda generazione non abbia involontariamente fornito un ingrediente chiave di quello che Luc Boltanski ed Eve Chiapello chiamano “il nuovo spirito del capitalismo”. Il terzo punto si riferisce a un possibile riorientamento del femminismo nel contesto dell’attuale crisi capitalista e del riallineamento politico, che potrebbe segnare l’inizio di un passaggio dal neoliberismo a una nuova forma di organizzazione sociale. Propongo inoltre di esaminare le pro-spettive di una riattivazione della promessa emancipativa del femmini-smo in un mondo che è stato scosso dalla duplice crisi del capitalismo finanziario e dell’egemonia americana.

In generale, quindi, propongo di porre la traiettoria del femminismo di seconda generazione in rapporto con la recente storia del capitali-smo. In questo modo, spero di poter contribuire a far rivivere una sorta di teorizzazione socialista-femminista che mi ha ispirato alcuni decenni fa e che ancora mi sembra offrirci le migliori speranze per chiarire le prospettive della giustizia di genere nel periodo presente. Il mio obietti-vo, comunque, non è quello riciclare le superate teorie dei sistemi duali, ma quello di integrare il meglio della recente teorizzazione femminista con il meglio della recente teoria critica del capitalismo.

Per chiarire la razionalità che sta dietro a questo approccio, permet-tetemi di spiegare la mia insoddisfazione rispetto a quella che forse è l’opinione più diffusa circa il femminismo di seconda generazione. Si dice spesso che il relativo successo del movimento nel trasformare la cultura è in netto contrasto con il suo relativo fallimento nel trasformare le istituzioni. Tale valutazione è a doppio taglio: da un lato, gli ideali femministi dell’eguaglianza di genere, così conflittuali nei decenni pre-cedenti, ora si collocano esattamente nel mainstream sociale; dall’altro lato, devono ancora essere realizzati nella pratica. Così, per esempio, le

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critiche femministe alle molestie, alla tratta sessuale e alla disuguaglian-za retributiva, che non molto tempo fa sono apparse come incendiarie, oggi sono ampiamente accettate; eppure questo profondo cambiamen-to a livello di atteggiamenti non ha affatto eliminato quelle pratiche. E così si è spesso detto: il femminismo di seconda generazione ha operato una rivoluzione culturale epocale, ma il grande cambiamento nelle men-talitée non è (ancora) stato tradotto in un cambiamento strutturale e istituzionale.

C’è qualcosa da dire su questa visione, che sottolinea correttamente la diffusa accettazione di cui oggi godono le idee femministe. In ogni caso, la tesi del fallimento nel combinare il successo culturale con quel-lo istituzionale non va molto lontano nel mettere a fuoco il significato storico e le future prospettive del femminismo di seconda generazione. Postulare che le istituzioni siano rimaste indietro rispetto alla cultura, come se l’una si potesse cambiare e le altre no, suggerisce che dobbiamo solo mettere in pari le istituzioni con la cultura per realizzare le speran-ze femministe. L’effetto è di oscurare una possibilità più complessa e inquietante, cioè che la diffusione di atteggiamenti culturali usciti dalla seconda generazione sia stata parte integrante di un’altra trasformazio-ne, non anticipata e inattesa dalle attiviste femministe; una trasformazio-ne nell’organizzazione sociale del capitalismo del dopoguerra. Questa possibilità può essere formulata più nettamente: i cambiamenti culturali cominciati con la seconda generazione, in sé salutari, sono serviti a le-gittimare una trasformazione strutturale della società capitalista che si pone direttamente in contrasto con le visioni femministe di una società giusta.

In questo capitolo, mi propongo di esplorare questa inquietante pos-sibilità. La mia ipotesi può essere formulata così: ciò che era veramente nuovo nel femminismo di seconda generazione era il modo in cui tes-seva insieme in una critica del capitalismo androcentrico e organizzato dallo Stato quelle che oggi interpretiamo come le tre dimensioni analiti-camente distinte dell’ingiustizia di genere: economica, culturale e poli-tica. Sottoponendo il capitalismo organizzato dallo Stato a un controllo ad ampio raggio e multiforme, in cui quelle tre prospettive si mesco-lavano liberamente, le femministe hanno prodotto una critica che era allo stesso tempo ramificata e sistematica. Nei decenni successivi, però, le tre dimensioni dell’ingiustizia si sono separate, una dall’altra e dalla critica del capitalismo. Con la frammentazione della critica femminista è arrivato l’incorporamento selettivo e il parziale recupero di alcuni dei suoi filoni. Separate l’una dall’altra e dalla critica sociale che le aveva

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integrate, le speranze della seconda generazione sono state reclutate al servizio di un progetto che era profondamente discordante dalla nostra più ampia e olistica visione di una società giusta. Bell’esempio di astuzia della storia, i desideri utopici hanno trovato una seconda vita nei senti-menti attuali che hanno legittimato la transizione a una nuova forma di capitalismo: postfordista, transnazionale, neoliberista2.

Nelle pagine seguenti, mi propongo di elaborare questa ipotesi in tre passaggi, che corrispondo ai tre punti centrali prima menzionati. In un primo passaggio, ricostruirò la critica del femminismo di seconda generazione al capitalismo androcentrico e organizzato dallo Stato con i connessi aspetti che oggi associamo alle tre prospettive di giustizia-redistribuzione, riconoscimento e rappresentanza. In un secondo pas-saggio, tratteggerò la distinzione intervenuta in quella costellazione e l’arruolamento selettivo di alcuni dei suoi filoni per legittimare il capi-talismo neoliberista. In un terzo passaggio, valuterò le prospettive per recuperare la promessa emancipativa del femminismo nell’attuale fase di crisi economica e di apertura politica.

Femminismo e capitalismo organizzato dallo Stato

Vorrei iniziare situando l’emergere del femminismo di seconda ge-nerazione nel contesto del capitalismo organizzato dallo Stato. Per “ca-pitalismo organizzato dallo Stato” intendo la formazione sociale egemo-nica nell’epoca del dopoguerra, una formazione sociale in cui gli Stati hanno giocato un ruolo attivo nel guidare le loro economie nazionali3. La nostra maggiore familiarità con la forma assunta dal capitalismo or-ganizzato dallo Stato nelle società del welfare state riguarda quello che allora era chiamato il Primo mondo, che usava gli strumenti keynesiani per mitigare gli endemici cicli “boom-bust” del capitalismo. Basando-si sulle esperienze della depressione e della pianificazione in tempo di guerra, questi Stati implementavano varie forme di dirigismo, inclusi gli

2 In questo saggio ridisegno, ma anche aggiorno e complico, la mia precedente analisi di tali questioni contenuta in Mapping the Feminist Imagination: From Redistribution to Re-cognition to Representation, in “Constellations: An International Journal of Critical and Democratic Theory”, 3, settembre 2005, pp. 295-307; ristampato in Nancy Fraser, Scales of Justice: Reimagining Political Space in a Globalizing World, Columbia University Press and Polity Press, New York 2008.

3 Per una discussione di questo termine, si veda Frederick Pollock, State Capitalism: Its Possibilities and Limitations, in Andrew Arato e Eike Gebhardt (a cura di), The Essential Frankfurt School Reader, Continuum, Londra 1982, pp. 71-94.

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investimenti infrastrutturali, la politica industriale, la tassazione redistri-butiva, la previdenza sociale, la regolamentazione, la nazionalizzazione di alcune industrie chiave, la demercificazione dei beni pubblici. Certo, furono gli Stati più ricchi e potenti dell’Ocse a “organizzare” il capita-lismo con maggior successo nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Ma una variante del capitalismo organizzato dallo Stato si potrebbe trovare anche in quello che allora era chiamato Terzo mondo. Nelle postcolonie impoverite, gli “Stati in via di sviluppo” di recente in-dipendenza cercavano di usare le loro limitate capacità per far ripartire lo sviluppo economico nazionale attraverso politiche di sostituzione del-le importazioni, investimenti infrastrutturali, nazionalizzazione di settori chiave e spesa pubblica per l’istruzione4.

In generale, dunque, uso l’espressione “capitalismo organizzato dallo Stato” per fare riferimento agli Stati del welfare dell’Ocse e agli Stati postcoloniali che si sono sviluppati nel dopoguerra. Dopo tutto, è stato in questi paesi che il femminismo di seconda generazione ha per la prima volta fatto irruzione negli anni Settanta. Per spiegare cosa esattamente ha provocato quello scoppio, vorrei evidenziare quattro ca-ratteristiche definitorie della cultura politica del capitalismo organizzato dallo Stato.

1) Economicismo. Per definizione, come ho già notato, il capitalismo organizzato dallo Stato prevedeva l’uso del potere politico pubblico per regolare (e in alcuni casi sostituire) i mercati economici. Si trattava in gran parte di una questione di gestione della crisi nell’interesse del ca-pitale. Tuttavia, gli Stati in questione hanno tratto gran parte della loro legittimità politica dalle rivendicazioni che promuovevano l’inclusione, l’eguaglianza sociale e la solidarietà interclassista. Ma questi ideali sono stati interpretati in modo economicistico e come incentrati sulla classe. Nella cultura politica del capitalismo organizzato dallo Stato, le questioni sociali erano inquadrate soprattutto in termini distributivi, come questio-ni riguardanti l’equa ripartizione dei beni divisibili, soprattutto reddito e posti di lavoro, mentre le divisioni sociali erano viste principalmente attraverso il prisma della classe. Così, l’ingiustizia sociale per eccellenza era l’ingiusta distribuzione economica, e la sua paradigmatica espressio-

4 Anche la vita economica nel mondo comunista era, come è noto, organizzata dallo Stato, e ci sono coloro che ancora insistono a chiamarlo capitalismo di Stato. Sebbene ci possano essere elementi di verità in tale visione, io seguo il più convenzionale percorso di escludere il mondo comunista da questo primo momento della mia storia, in parte, anche perché è stato dopo il 1989 che il femminismo di seconda generazione è emerso come forza politica in quelli che a quel punto erano i paesi ex comunisti.

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ne era la disuguaglianza di classe. L’effetto di questo immaginario econo-micistico e imperniato sulla classe è stato quello di marginalizzare, se non oscurare completamente, altre dimensioni, luoghi e assi di ingiustizia.

2) Androcentrismo. Ne consegue che la cultura politica del capi-talismo organizzato dallo Stato ha immaginato il cittadino idealtipico come un lavoratore maschio di una maggioranza etnica, un breadwinner e uomo di famiglia. Si è largamente assunto, inoltre, che il salario di questo lavoratore dovesse essere il principale, se non l’unico, sostegno economico della famiglia, mentre qualsiasi guadagno della moglie do-veva essere meramente supplementare. Profondamente genderizzato, questo costrutto del “salario familiare” è servito sia come un ideale so-ciale, che connotava la modernità e la mobilità ascendente, sia come la base per la politica statale in materia di occupazione, welfare e sviluppo. Ovviamente, l’ideale non ha riguardato la maggior parte delle famiglie, mentre un salario maschile non era di per sé sufficiente a sostenere i figli e una moglie non occupata. Nello stesso tempo, l’industria fordista a cui l’ideale era legato è stata presto ridimensionata dal fiorire di un settore dei servizi a bassi salari. Ma negli anni Cinquanta e Sessanta, l’idea del salario familiare serviva ancora a definire le norme di genere e a discipli-nare coloro che avrebbero potuto violarle, rinforzando l’autorità degli uomini nell’unità familiare e incanalando le aspirazioni nel consumo domestico privatizzato. In modo altrettanto importante, valorizzando il lavoro salariato la cultura politica del capitalismo organizzato dallo Sta-to ha oscurato l’importanza sociale del lavoro di cura non retribuito e del lavoro riproduttivo. E, istituzionalizzando le interpretazioni andro-centriche di famiglia e lavoro, ha naturalizzato le ingiustizie di genere sottraendole alla contestazione politica.

3) Étatism. Il capitalismo organizzato dallo Stato era statalista, per-vaso da un’etica tecnocratica e manageriale. Affidandosi a esperti pro-fessionali per progettare le politiche pubbliche e a organizzazioni bu-rocratiche per implementarle, gli Stati del welfare e quelli di recente sviluppo trattavano coloro verso i quali espletavano apparentemente un servizio più come clienti, consumatori e contribuenti che come cittadini attivi. Il risultato è stata una cultura depoliticizzata, che ha considerato le questioni della giustizia come faccende tecniche, che devevano essere risolte dai calcoli degli esperti o dalla contrattazione tra corporazioni. Lungi dall’essere abilitati a interpretare i propri bisogni democratica-mente, tramite deliberazione e contestazione politica, i cittadini comuni sono stati ridotti (nel migliore dei casi) a destinatari passivi di soddisfa-zioni definite e dispensate dall’alto.

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4) Westfalianismo. Infine, il capitalismo organizzato dallo Stato era, per definizione, una formazione nazionale, volta a mobilitare le capacità degli Stati nazionali nel sostenere lo sviluppo economico nazionale nel nome – se non sempre nell’interesse – della cittadinanza nazionale. Resa possibile dal quadro regolativo di Bretton Woods, questa formazione si basava su una divisione dello spazio politico in entità politiche territo-rialmente delimitate. Come risultato, la cultura politica del capitalismo organizzato dallo Stato ha istituzionalizzato la visione “westfaliana” se-condo cui gli obblighi vincolanti di giustizia si applicano solo tra con-cittadini. Facendo la parte del leone nella lotta sociale nel dopoguerra, questa visione ha incanalato le rivendicazione di giustizia nelle arene politiche domestiche degli Stati territoriali. L’effetto, nonostante l’im-pegno a parole per i diritti umani internazionali e la solidarietà anti-imperialista, è stato di ridurre lo spazio della giustizia, marginalizzando – se non oscurando interamente – le ingiustizie oltre frontiera5.

In generale, quindi, la cultura politica del capitalismo organizzato dallo Stato era economicista, androcentrica, statalista e westfaliana, tut-te caratteristiche che finirono sotto attacco negli anni Sessanta e Set-tanta. In quegli anni di radicalismo esplosivo, le femministe di seconda generazione si unirono alla nuova sinistra e agli anti-imperialisti nel met-tere in discussione l’economicismo, lo statalismo (étatism) e (in modo minore) il westfalianismo del capitalismo organizzato dallo Stato, ma anche contestando il suo androcentrismo – e con esso, il sessismo dei loro compagni e alleati. Consideriamo questi punti uno per uno.

1) Il femminismo di seconda generazione contro l’economicismo. Ri-fiutando l’identificazione dell’ingiustizia con la sola cattiva distribuzio-ne di classe, le femministe di seconda generazione si sono unite ad altri movimenti di emancipazione per far saltare il ristretto immaginario eco-nomicista del capitalismo organizzato dallo Stato. Politicizzando “il per-sonale”, hanno ampliato il significato di giustizia, reinterpretando come ingiustizie disuguaglianze sociali che da tempo immemorabile erano sta-te trascurate, tollerate o razionalizzate. Rifiutando sia l’esclusiva focaliz-zazione del marxismo sull’economia politica, sia quella del liberalismo sul diritto, hanno svelato ingiustizie situate altrove, nella famiglia e nelle tradizioni culturali, nella società civile e nella vita quotidiana. Inoltre, le femministe di seconda generazione hanno ampliato il numero delle

5 Per una più ampia esposizione dell’“immaginario politico westfaliano” e dei suoi effetti nel ridurre lo spazio della giustizia, si veda l’ottavo capitolo di questo volume, Reinqudrare la giustizia in un mondo globalizzato.

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fonti che potrebbero generare ingiustizia. Rifiutando il primato della classe, le femministe socialiste, nere e anti-imperialiste si sono opposte anche agli sforzi femministi radicali di collocare il genere in quella stessa posizione di privilegio categoriale. Focalizzandosi non solo sul genere, ma anche sulla classe, la “razza”, la sessualità e la nazionalità, hanno aperto la strada a un’alternativa “intersezionale” che è oggi ampiamen-te accettata. Infine, le femministe di seconda generazione hanno esteso l’ambito della giustizia per comprendervi questioni precedentemente ritenute private, come la sessualità, il lavoro domestico, la riproduzio-ne e la violenza contro le donne. In questo modo hanno efficacemente ampliato il concetto di ingiustizia per includervi non solo le disugua-glianze economiche, ma anche le gerarchie di status e le asimmetrie di potere politico. Con il senno di poi, possiamo dire che hanno sostituito una visione della giustizia monista ed economicista con una più ampia e tridimensionale interpretazione che comprende l’economia, la cultura e la politica.

Il risultato non è stato semplicemente una lunga lista di singole que-stioni. Al contrario, ciò che collegava la pletora di ingiustizie di recente scoperta era l’idea per cui la subordinazione delle donne era sistemica, fondata sulle strutture profonde della società. Le femministe di seconda generazione hanno naturalmente discusso sul modo migliore di caratte-rizzare la totalità sociale, se come “patriarcato”, come un amalgama di “sistemi duali” tra capitalismo e patriarcato, come un sistema mondiale imperialistico, oppure – ed è la visione che preferisco – come una forma storicamente specifica e androcentrica di società capitalista organizzata dallo Stato, strutturata in tre ordini di subordinazione che si compene-trano: (cattiva) distribuzione, (mancato) riconoscimento e (mistificazio-ne della) rappresentanza. Ma nonostante queste differenze, la maggior parte delle femministe di seconda generazione (con l’importante ecce-zione delle femministe liberal) hanno riconosciuto che il superamento della subordinazione delle donne richiedeva una radicale trasformazio-ne delle strutture profonde della totalità sociale. Questo impegno con-diviso per la trasformazione sistemica rivela le origini del movimento nel più ampio fermento di emancipazione di quei tempi.

2) Il femminismo di seconda generazione contro l’androcentrismo. Se il femminismo di seconda generazione ha preso parte all’aura generale del radicalismo degli anni Sessanta, nondimeno si trovava in un rappor-to di tensione con altri movimenti di emancipazione. Il suo obiettivo principale era, dopo tutto, l’ingiustizia di genere del capitalismo orga-nizzato dallo Stato, priorità difficile da accettarsi per gli anti-imperialisti

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e i membri della nuova sinistra non femminista. Sottoponendo a cri-tica l’androcentrismo del capitalismo organizzato dallo Stato, inoltre, le femministe di seconda generazione si sono confrontate anche con il sessismo all’interno della sinistra. Per le femministe liberal e radicali, ciò non poneva un problema particolare; potevano semplicemente di-ventare separatiste e uscire dalla sinistra. Per le femministe socialiste, anti-imperialiste e di colore, al contrario, la difficoltà era affrontare il sessismo dentro la sinistra rimanendo parte di essa.

Almeno per un periodo, le femministe socialiste sono riuscite a mantenere questo difficile equilibrio. Hanno collocato il nucleo cen-trale dell’androcentrismo in una divisione di genere del lavoro che ha sistematicamente devalorizzato le attività, retribuite e non, svolte dalle donne o con esse associate. Applicando questa analisi al capitalismo or-ganizzato dallo Stato, hanno scoperto le profonde connessioni struttu-rali tra la responsabilità delle donne che svolgono la gran parte delle attività di cura non pagata, la loro subordinazione nel matrimonio e nella vita personale, la segmentazione di genere dei mercati del lavo-ro, la dominazione maschile del sistema politico, l’androcentrismo del welfare, della politica industriale e degli schemi di sviluppo. In realtà, hanno mostrato come il salario familiare fosse il punto in cui converge-vano la cattiva distribuzione di genere, il mancato riconoscimento e la mistificazione della rappresentanza. Il risultato è stato una critica che ha integrato economia, cultura e politica in un’analisi sistematica del-la subordinazione delle donne nel capitalismo organizzato dallo Stato. Lungi dal mirare semplicemente a promuovere il pieno incorporamento delle donne come salariate nella società capitalista, le femministe socia-liste hanno cercato di trasformare le strutture profonde del sistema e di animare i valori femministi, in parte decentrando il lavoro salariato e valorizzando le attività non retribuite, specialmente l’attività di cura socialmente necessaria svolta dalle donne.

3) Il femminismo di seconda generazione contro l’étatism. Ma le obie-zioni femministe al capitalismo organizzato dallo Stato non erano tanto sulle procedure, quanto sulla sostanza. Come i loro alleati della nuova sinistra, rifiutavano l’etica burocratica e manageriale del capitalismo organizzato dallo Stato. Alla critica diffusa negli anni Sessanta dell’or-ganizzazione fordista, esse aggiungevano un’analisi di genere, interpre-tando la cultura delle grandi istituzioni gerarchiche come espressione della mascolinità modernizzata dello strato professionale e manageriale del capitalismo organizzato dallo Stato. Sviluppando una contro-etica orizzontale basata su legame di sorellanza, le femministe di seconda ge-

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nerazione hanno creato una pratica organizzativa di presa di coscienza del tutto nuova. Cercando di colmare la netta divisione statalista tra teoria e pratica, si sono esse stesse date la forma di un movimento di democratizzazione controculturale, anti-gerarchico, partecipativo e de-mocratico. In un’era in cui l’acronimo “Ong” non esisteva ancora, le femministe accademiche, avvocate e assistenti sociali si sono identifi-cate più con la base che non con la dominante etica professionale degli esperti depoliticizzati.

Ma diversamente da alcuni dei loro compagni impegnati in campa-gne controculturali, la maggior parte delle femministe non si sono limi-tate a rifiutare le istituzioni statali. Hanno cercato invece di infondere in quest’ultime i valori femministi, prefigurando uno Stato democratico-partecipativo in grado di conferire maggior potere ai suoi cittadini. Reim-maginando efficacemente il rapporto tra Stato e società, hanno cercato di trasformare coloro che erano ridotti a oggetti passivi delle politiche di welfare e sviluppo in soggetti attivi, rafforzati dal partecipare ai processi democratici di interpretazione del bisogno. L’obiettivo, pertanto, non era tanto smantellare le istituzioni statali quanto trasformarle in agenzie che potessero promuovere, e perciò esprimere, la giustizia di genere.

4) Il femminismo di seconda generazione pro e contro il westafalia-nismo. Più ambivalente, forse, è stato il rapporto del femminismo di seconda generazione con la dimensione westfaliana del capitalismo or-ganizzato dallo Stato. Date le sue origini nel fermento globale dell’epoca contro la guerra in Vietnam, il movimento era chiaramente sensibile alle ingiustizie oltre confine. E questo soprattutto nel caso delle femministe nel mondo in via di sviluppo, la cui critica di genere era intrecciata con una critica dell’imperialismo. Ma lì come altrove, la maggior parte del-le femministe considerava i rispettivi Stati come i principali destinatari delle loro domande. Così, le femministe di seconda generazione hanno teso a reinscrivere il quadro westfaliano al livello della pratica, anche quando lo hanno criticato al livello della teoria. Quel quadro, che ha diviso il mondo in sistemi politici territoriali delimitati, è rimasto l’op-zione predefinita in un’era in cui gli Stati sembravano ancora possedere le capacità necessarie in materia di indirizzo sociale e in cui non era ancora disponibile la tecnologia che ha permesso la costruzione di reti transnazionali in tempo reale. Nel contesto del capitalismo organizzato dallo Stato, allora, lo slogan “la sorellanza è globale” (esso stesso già contestato come imperialistico) funzionava più come un gesto astratto che non come un progetto politico post-westfaliano che potesse essere praticamente conseguito.

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In generale, allora, il femminismo di seconda generazione è rima-sto in modo ambivalente westfaliano, pur rigettando l’economicismo, l’androcentrismo e lo statalismo (étatism) del capitalismo organizzato dallo Stato. Su tutti questi aspetti, però, ha mostrato una forte sfuma-tura. Nel rifiutare l’economicismo, le femministe dell’epoca non hanno mai dubitato della centralità della giustizia distributiva e della critica dell’economia politica al progetto di emancipazione delle donne. Lungi dal voler minimizzare la dimensione economica dell’ingiustizia di gene-re, hanno invece cercato di accentuarla, precisando il suo rapporto con le due ulteriori dimensioni della cultura e della politica. Analogamente, nel respingere l’androcentrismo del salario familiare, le femministe di seconda generazione non hanno mai cercato semplicemente di sostitu-irlo con due salari familiari. Per loro, il superamento dell’ingiustizia di genere richiedeva invece la fine della sistematica svalutazione dell’attivi-tà di cura e della divisione di genere del lavoro, retribuito e non. Infine, nel rifiutare lo statalismo del capitalismo organizzato dallo Stato, le fem-ministe di seconda generazione non hanno mai dubitato della necessità di forti istituzioni politiche in grado di organizzare la vita economica al servizio della giustizia. Lungi dal voler liberare i mercati dal controllo dello Stato, hanno cercato piuttosto di democratizzare il potere statale, per massimizzare la partecipazione dei cittadini, per rafforzare la re-sponsabilità e per aumentare i flussi comunicativi tra Stato e società.

Tutto sommato, il femminismo di seconda generazione ha sposato un progetto politico trasformativo, come premessa di una comprensione allargata della giustizia e di una critica sistematica della società capitali-stica. Le correnti più avanzate del movimento hanno visto le loro lotte come multidimensionali, dirette allo stesso tempo contro lo sfruttamento economico, la gerarchia di status e l’assoggettamento politico. Per esse, inoltre, il femminismo appariva come parte di un progetto più ampio di emancipazione, in cui le lotte contro le ingiustizie di genere erano necessariamente collegate alle lotte contro il razzismo, l’imperialismo, l’omofobia e la dominazione di classe, ognuna delle quali richiedevano la trasformazione delle strutture profonde della società capitalista.

Il femminismo come “nuovo spirito del capitalismo”: risignificazioni neoliberali

Quel progetto si è rivelato in gran parte nato morto, vittima di forze storiche profonde, che all’epoca non sono state ben comprese. Con il

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senno di poi, possiamo ora vedere l’ascesa del femminismo di secon-da generazione coincidere con un mutamento storico nel carattere del capitalismo, dalla variante organizzata dallo Stato appena discussa al neoliberismo. Invertendo la formula precedente, che cercava di “usare la politica per domare i mercati”, i fautori di questa nuova forma di capitalismo hanno proposto di utilizzare i mercati per domare la poli-tica. Smantellando gli elementi chiave della cornice di Bretton Woods, hanno eliminato i controlli sul capitale che avevano permesso la guida keynesiana delle economie nazionali. Al posto del dirigismo, hanno pro-mosso la privatizzazione e la deregolamentazione; al posto della presta-zione pubblica e della cittadinanza sociale, l’“effetto trickle-down” e la “responsabilità personale”; al posto del welfare e degli Stati sviluppisti, l’asciutta e gretta “competizione statale”. Testato in America Latina, questo approccio è servito a guidare gran parte della transizione al capi-talismo nell’Europa centro-orientale. Anche se pubblicamente sostenu-to da Thatcher e Reagan, nel Primo Mondo è stato applicato solo gra-dualmente e in modo non uniforme. Nel Terzo, invece, il neoliberismo è stato imposto con la minaccia armata del debito, come un programma forzato di “aggiustamento strutturale”, che ha annullato tutti i principi centrali dello sviluppismo e ha costretto gli Stati postcoloniali a cedere i propri beni, aprire i mercati e ridurre drasticamente la spesa sociale.

È interessante notare che in queste nuove condizioni il femminismo di seconda generazione ha prosperato. Ciò che nel contesto del capi-talismo organizzato dallo Stato era iniziato come un movimenti anti-sistemico radicale stava per diventare un fenomeno sociale di massa su larga scala. Attirando seguaci di ogni classe, etnia, nazionalità e ideolo-gia politica, le idee femministe hanno trovato posto in ogni angolo della vita sociale e hanno trasformato l’auto-percezione di tutti coloro con cui sono entrate in contatto. L’effetto è stato non solo quello di allargare no-tevolmente le fila degli attivisti, ma anche quello di rimodellare le visioni di senso comune sulla famiglia, sul lavoro e sulla dignità.

È stata una mera coincidenza che il femminismo di seconda gene-razione e il neoliberismo siano prosperati di pari passo? Oppure c’era qualche perversa e sotterranea affinità elettiva tra di loro? Questa se-conda possibilità è sicuramente eretica, ma non riusciamo a fare a meno di indagarla a nostro rischio e pericolo. Certo, l’ascesa del neoliberismo ha radicalmente cambiato il terreno su cui ha operato il femminismo di seconda generazione. L’effetto, sosterrò qui, è stato quello di risignifi-care gli ideali femministi. Le aspirazioni che avevano una chiara spin-ta emancipatrice nel contesto del capitalismo organizzato dallo Stato

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hanno assunto un significato molto più ambiguo nell’epoca neoliberale. Con gli Stati del welfare e di recente sviluppo sotto l’attacco dei so-stenitori del libero mercato, le critiche femministe dell’economicismo, dell’androcentrismo, dello statalismo e del westfalianismo hanno assun-to una nuova valenza. Chiarisco questa dinamica di risignificazione rivi-sitando i quattro punti focali della critica femminista6.

1) La risignificazione dell’anti-economicismo femminista. L’ascesa del neoliberismo ha coinciso con importanti cambiamenti nella cultura po-litica delle società capitaliste. In quel periodo, le richieste di giustizia erano sempre più formulate nei termini di rivendicazioni per il ricono-scimento di identità e differenza7. Con questo passaggio “dalla redistri-buzione al riconoscimento” sono arrivate forti pressioni per trasforma-re il femminismo di seconda generazione in una variante della politica dell’identità. Una variante sicuramente progressista, ma che tendeva comunque a enfatizzare la critica della cultura, minimizzando al contem-po la critica dell’economia politica. In pratica, la tendenza era quella di subordinare le lotte socio-economiche alle lotte per il riconoscimento, mentre nel mondo accademico la teoria culturale femminista cominciava a oscurare la teoria sociale femminista. Quello che all’inizio si presentava come un correttivo necessario all’economicismo, nel tempo è degenerato in un culturalismo altrettanto unilaterale. Così, invece di aspirare a un più ampio e ricco paradigma che potesse comprendere sia la redistribu-zione che il riconoscimento, le femministe di seconda generazione hanno in effetti scambiato un paradigma tronco con un altro.

Il momento, del resto, non avrebbe potuto essere peggiore. La svolta verso il riconoscimento coincideva fin troppo chiaramente con lo svilup-po del neoliberismo, che non desiderava nient’altro che cancellare ogni traccia dell’egualitarismo sociale. Così, le femministe hanno assolutizzato la critica della cultura proprio nel momento in cui le circostanze richie-devano di raddoppiare l’attenzione alla critica dell’economia politica8. Quando la critica si è frammentata, inoltre, il filone culturale si è separa-to non solo da quello economico, ma anche dalla critica del capitalismo

6 Il termine “risignificazione” lo traggo da Judith Butler, Contingent Foundations, in Seyla Benhabib, Judith Butler, Drucilla Cornell e Nancy Fraser, Feminist Contentions: A Philo-sophical Exchange, Routledge, New York 1994.

7 Su questo cambiamento nella grammatica della formazione delle rivendicazioni politiche, si veda From Redistribution to Recognition? Dilemmas of Justice in a “Postsocialist” Age, in “New Left Review”, 212, luglio-agosto 1995, pp. 68-93; ripubblicato in Nancy Fraser, Justice Interruptus: Critical Reflections on the “Postsocialist” Condition, Routledge, New York 1997.

8 Per un’argomentazione più compiuta si veda Fraser, Mapping the Feminist Imagination, cit.

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che in precedenza li aveva uniti. Disancorati dalla critica del capitalismo e resi disponibili ad articolazioni alternative, questi filoni potevano essere trascinati in quello che Hester Eisenstein ha chiamato “un legame peri-coloso” con il neoliberismo9.

2) La risignificazione dell’anti-androcentrismo femminista. Era perciò solo una questione di tempo, prima che il neoliberismo risignificasse la critica femminista dell’androcentrismo. Per spiegare come, mi pro-pongo di adattare un argomento sviluppato da Luc Boltanski ed Eve Chiapello. Nel loro importante libro Le nouvel esprit du capitalisme, i due autori sostengono che periodicamente il capitalismo si rimodella nei momenti di rottura storica, recuperando in parte i filoni di critica nei suoi confronti. In tali momenti, gli elementi della critica anti-ca-pitalista sono risignificati per legittimare una nuova forma emergente di capitalismo, che diventa così dotata del più elevato significato mo-rale, necessario a motivare le nuove generazioni a sopportare il lavoro senza fine dell’accumulazione, di per sé privo di senso. Per Boltanski e Chiapello, il “nuovo spirito” che è servito a legittimare il capitalismo neoliberista e flessibile del nostro tempo è stato modellato dalla critica “artistica” della nuova sinistra al capitalismo organizzato dallo Stato, che ha denunciato il grigio conformismo della cultura aziendale. È stato con gli accenti del maggio ’68, sostengono, che i teorici della gestione neoliberale hanno proposto un nuovo progetto “connessionista” del ca-pitalismo, in cui le rigide gerarchie organizzative lasciassero il posto a squadre orizzontali e a reti flessibili, liberando quindi la creatività indi-viduale10. Il risultato è stato una nuova storia del capitalismo con effetti nel mondo reale, una storia che include le start-up hi-tech della Silicon Valley e che oggi trova la sua più pura espressione nell’etica di Google.

L’argomentazione di Boltanski e Chiapello è originale e profonda. Eppure, poiché cieca rispetto al genere, non riesce a cogliere pienamen-te il carattere dello spirito del capitalismo neoliberista. Che contiene sicuramente (ciò che chiamerei) una storia maschilista dell’individuo li-bero, senza vincoli e che si auto-modella, cosa che loro descrivono per-fettamente. Ma il capitalismo neoliberale ha a che fare tanto con Wal-

9 Hester Eisenstein, A Dangerous Liaison? Feminism and Corporate Globalization, in “Science and Society”, 3, 2005, pp. 487-518.

10 Boltanski e Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, cit. Per un’interpretazione della psicoanalisi come spirito della “seconda rivoluzione industriale”, che conclude collocando il femminismo come lo spirito della “terza”, si veda l’importante saggio di Eli Zaretsky, Psychoanalysis and the Spirit of Capitalism, in “Constellations: An International Journal of Critical and Democratic Theory”, 3, 2008, pp. 366-381.

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Mart, le maquiladoras e il microcredito, quanto con la Silicon Valley e Google. E i suoi indispensabili lavoratori sono in misura sproporzionata donne, non solo giovani single, ma anche donne sposate e con figli; non solo razzializzate, ma anche donne potenzialmente di tutte le nazionalità ed etnie. Quando queste donne si sono riversate sui mercati del lavoro di tutto il mondo, l’effetto è stato quello di minare una volta per tutte l’ideale del salario familiare proprio del capitalismo organizzato dallo Stato. Nel disorganizzato capitalismo neoliberista, quell’ideale è stato sostituito dalla più recente e moderna norma della famiglia con due per-cettori di reddito. Non importa che la realtà che sta alla base del nuovo ideale sia costituita da livelli salariali schiacciati verso il basso, da una minore sicurezza occupazionale, da standard di vita declinanti, da un forte aumento del numero di ore lavorate per i salari del nucleo familia-re, dall’inasprimento del doppio lavoro – ora spesso triplo o quadruplo – e da un aumento di donne capofamiglia. Il capitalismo disorganizzato trasforma l’orecchio di una scrofa in una borsa di seta elaborando una nuova storia dell’emancipazione femminile e della giustizia di genere.

Per quanto possa apparire inquietante, sostengo che il femminismo di seconda generazione ha involontariamente fornito un ingrediente chiave del nuovo spirito del neoliberismo. La nostra critica del sala-rio familiare ora alimenta una buona parte della narrazione che investe il capitalismo flessibile di un significato più alto e di una dimensione morale. Dotando le sue lotte quotidiane di un significato etico, la narra-zione femminista attrae le donne di entrambe le estremità dello spettro sociale: da un lato, i quadri femminili di ceti medi professionali, deter-minati a rompere il “soffitto di cristallo”; dall’altro lato, le lavoratrici precarie, part-time, dei servizi a basso salario, domestiche, del sesso, migranti, delle zone di esportazione, beneficiarie del microcredito, in cerca non solo di reddito e sicurezza materiale, ma anche di dignità, crescita personale e liberazione dall’autorità tradizionale. A entrambi gli estremi, il sogno di emancipazione delle donne è imbrigliato nel mo-tore dell’accumulazione capitalista. Così, la critica del femminismo di seconda generazione al salario familiare ha goduto di una perversa vita ultraterrena. Una volta diventata il fulcro di una critica radicale dell’an-drocentrismo, serve oggi a intensificare la valorizzazione capitalistica del lavoro salariato.

3) La risignificazione dell’anti-étatism femminista. Il neoliberismo ha anche risignificato l’anti-statalismo del periodo precedente, portando ac-qua al mulino degli schemi finalizzati a ridurre l’azione statale tout court. Nel nuovo clima, la critica del femminismo di seconda generazione al

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paternalismo del welfare state sembrava a un passo dalla critica di Mar-garet Thatcher allo Stato balia. È stata certamente questa l’esperienza negli Stati Uniti, dove le femministe hanno guardato impotenti a come Bill Clinton avesse tramutato la loro critica di un sistema sessista e stig-matizzante di assistenza ai poveri in un piano per “mettere fine al welfa-re per come lo conosciamo”, abolendo il diritto federale del sostegno al reddito11. Nelle postcolonie, nel frattempo, la critica all’androcentrismo dello Stato sviluppista si trasformava nell’entusiasmo per le Ong, che emergevano ovunque per riempire lo spazio lasciato vuoto dalla con-trazione degli Stati. Certo, le migliori di queste organizzazioni forniva-no aiuti materiali urgentemente necessari a popolazioni prive di servizi pubblici. Ma l’effetto è stato spesso quello di depoliticizzare l’iniziativa di base e di forzare le agende dei gruppi locali nelle direzioni preferite dai finanziatori del Primo mondo. Inoltre, essendo per sua stessa natura, un vero e proprio ripiego, l’azione delle Ong ha fatto ben poco per con-trastare il venir meno del sostegno pubblico o per costruire il supporto politico a un’azione di risposta da parte dello Stato12.

L’esplosione del microcredito chiarisce il dilemma. Contrapponendo i valori femministi dell’empowerment e della partecipazione dal basso alla passività burocratica indotta dall’étatism dall’alto, gli architetti di questi progetti hanno realizzato una sintesi innovativa di auto-aiuto individuale e rete comunitaria, supervisione delle Ong e meccanismi di mercato, il tutto finalizzato a combattere la povertà delle donne e l’assoggettamento di genere. I risultati finora sono un impressionante record di prestiti ripianati e di aneddoti che raccontano di vite trasfor-mate. Tuttavia, ciò che è stato nascosto nel trambusto femminista che circonda questi progetti è un’inquietante coincidenza: il microcredito è fiorito proprio quando gli Stati hanno abbandonato gli sforzi struttu-rali per combattere la povertà, sforzi che i prestiti su piccola scala non possono assolutamente rimpiazzare13. Anche in questo caso, dunque, la

11 Fraser, Clintonism, Welfare, and the Antisocial Wage, cit.; Nancy Fraser e Kate Bedford, Social Rights and Gender Justice in the Neoliberal Moment: A Conversation about Gender, Welfare, and Transnational Politics. An Interview with Nancy Fraser, in “Feminist Theo-ry”, 2, 2008, 225-246.

12 Sonia Alvarez, Advocating Feminism: The Latin American Feminist NGO “Boom”, in “In-ternational Feminist Journal of Politics”, 2, 1999, pp. 181-209; Carol Barton, Global Wo-men’s Movements at a Crossroads: Seeking Definition, New Alliances and Greater Impact, in “Socialism and Democracy”, 1, 2009, pp. 151-184.

13 Uma Narayan, Informal Sector Work, Micro-credit, and Third World Women’s ‘Empo-werment’: A Critical Perspective, paper presentato al XXII Congresso mondiale di filosofia del diritto e filosofia sociale, 24-29 maggio 2005, Granada, Spagna. Si veda anche Carol

FEMMINISMO, CAPITALISMO E L’ASTUZIA DELLA STORIA 261

critica femminista del paternalismo burocratico è stata recuperata dal neoliberismo. Una prospettiva finalizzata originariamente a trasformare il potere statale in un veicolo di rafforzamento della cittadinanza e della giustizia sociale è adesso utilizzata per legittimare la mercatizzazione e la riduzione delle spese dello Stato.

4) La risignificazione dei pro e contro del westfalianismo femminista. Infine, il neoliberismo ha modificato, nel bene e nel male, l’ambivalente rapporto del femminismo di seconda generazione con il quadro westfa-liano. Nel nuovo contesto della “globalizzazione”, non è più scontato che lo Stato delimitato territorialmente sia il solo contenitore legittimo dei doveri e delle lotte per la giustizia. Le femministe si sono così unite agli ambientalisti, agli attivisti per i diritti umani e ai critici del Wto nello sfidare questa visione. Rendendo operative le intuizioni post-westfaliane che erano inutilizzabili nel capitalismo organizzato dallo Stato, si sono focalizzate sulle ingiustizie oltre confine che erano state emarginate o tra-scurate nell’epoca precedente. Utilizzando nuove tecnologie di comuni-cazione per creare reti transnazionali, le femministe hanno sperimentato strategie innovative come l’“effetto boomerang”, che mobilita l’opinione pubblica globale, per mettere in luce gli abusi locali e per denunciare gli Stati che li condonano14. Il risultato è stato una nuova promettente forma di attivismo femminista, transnazionale, multiscala, post-westfaliano.

Ma la svolta transnazionale ha comportato anche alcune difficoltà. Spesso ostacolate a livello nazionale, molte femministe hanno rivolto le loro energie all’arena “internazionale”, in particolare verso una serie di conferenze delle Nazioni Unite, da Nairobi a Vienna a Pechino e altro-ve. Costruendo una presenza nella “società civile globale” da cui parti-re per coinvolgere nuovi regimi della governance globale, sono rimaste impigliate in alcuni dei problemi che ho già evidenziato. Per esempio, le campagne per i diritti umani delle donne si sono focalizzate in modo preponderante sulle questioni della violenza e della riproduzione, assun-te in quanto opposte, per esempio, a quelle sulla povertà. Ratificando la divisione della guerra fredda tra diritti civili e politici da un lato e diritti sociali ed economici dall’altro, questi tentativi hanno poi privi-legiato il riconoscimento rispetto alla redistribuzione15. Inoltre, queste campagne hanno intensificato la “Ong-ificazione” della politica femmi-

Barton, Global Women’s Movements at a Crossroads e Hester Eisenstein, A Dangerous Liaison? Feminism and Corporate Globalization.

14 Margaret Keck e Kathryn Sikkink, Activists beyond Borders: Advocacy Networks in Inter-national Politics, Cornell University Press, Ithaca, NY 1998.

15 Carol Barton, Global Women’s Movements at a Crossroads, cit.

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nista, ampliando il divario tra i professionisti e la base, dando voce in modo sproporzionato alle elite che parlano inglese. Dinamiche analoghe hanno operato anche nell’impegno femminista rispetto all’apparato poli-tico dell’Unione Europea, vista in particolare l’assenza in tutta Europa di movimenti di base europei autenticamente transnazionali. La critica fem-minista del westfalianismo si è dunque dimostrata ambivalente nell’era del neoliberismo. Ciò che era cominciato come un salutare tentativo di estendere l’ambito della giustizia al di là dello Stato-nazione ha finito con il rendere alcuni aspetti compatibili con le esigenze amministrative di una nuova forma di capitalismo.

In generale, poi, la sorte del femminismo nell’epoca neoliberale pre-senta un paradosso. Da un lato, il relativamente piccolo movimento cul-turale del periodo precedente si è esteso esponenzialmente, diffondendo con successo le proprie idee in tutto il mondo. Dall’altro lato, in un con-testo modificato le idee femministe hanno subito un sottile cambiamento per quanto riguarda il loro significato. Inequivocabilmente emancipative nell’era del capitalismo organizzato dallo Stato, le critiche dell’econo-micismo, dell’androcentrismo, dello statalismo e del westfalianismo ora paiono piene di indeterminatezza, in grado di soddisfare le esigenze di legittimazione di una nuova forma di capitalismo. Dopo tutto, questo capitalismo preferirebbe confrontarsi assai più con le rivendicazioni di riconoscimento che con le istanze di redistribuzione, dato che ha costru-ito un nuovo regime di accumulazione sulla pietra angolare del lavoro sa-lariato delle donne e cerca di sottrarre i mercati alla regolazione politica al fine di operare ancor più liberamente su scala globale.

Femminismo contro neoliberismo?

Oggi, però, questo capitalismo è esso stesso a un bivio critico. La crisi finanziaria globale può segnare l’inizio della fine del neoliberismo come regime economico. Nel frattempo, la connesa crisi politica (dello Stato westfaliano, dell’Europa, dell’egemonia americana) può annuncia-re la dissoluzione dell’ordine della governance in cui il neoliberismo ha prosperato. Infine, la ripresa della protesta anti-sistemica (anche se an-cora frammentata, temporanea e priva di contenuti programmatici) può rappresentare il primo fermento di una nuova ondata di mobilitazione volta ad organizzare un’alternativa. Di conseguenza, forse ci troviamo in bilico sull’orlo di un’altra “grande trasformazione”, imponente e profon-da come quella che ho appena descritto.

FEMMINISMO, CAPITALISMO E L’ASTUZIA DELLA STORIA 263

Se è così, allora la forma successiva della società sarà oggetto di in-tensa contestazione nel prossimo periodo. E il femminismo, in questa contestazione, sarà significativamente caratterizzato da due differenti sensi e livelli: in primo luogo, come un movimento sociale di cui ho qui tracciato le fortune, che cercherà di assicurare che il regime successivo istituzionalizzi un impegno rispetto alla giustizia di genere; ma anche, in secondo luogo, come una costruzione discorsiva generale, che le fem-ministe impegnate rispetto al primo senso non posseggono e non con-trollano più; un significante vuoto del bene (simile, forse, alla “demo-crazia”), che può e deve essere invocato per legittimare una varietà di scenari diversi, che non tutti promuovono la giustizia di genere. Questo secondo senso discorsivo di “femminismo”, che discende dal femmini-smo nel primo senso di movimento sociale, è divenuto incontrollabile. Mentre il discorso è diventato indipendente dal movimento, il secondo senso si deve sempre più confrontare con una strana ombra di se stesso, un doppio inquietante che non può essere né semplicemente accolto né completamente sconfessato16.

In questo capitolo, ho mappato la danza sconcertante di questi due femminismi nel passaggio dal capitalismo organizzato dallo Stato al ne-oliberismo. Quale conclusione dovremmo trarre da questa mia storia? Non certo che il femminismo di seconda generazione ha semplicemente fallito, né che è responsabile del trionfo del neoliberismo. Sicuramente non che gli ideali femministi sono intrinsecamente problematici, né che essi siano sempre già condannati a essere risignificati per scopi capita-listici. Ne traggo invece la conclusione che noi, per cui il femminismo è soprattutto un movimento per la giustizia di genere, abbiamo bisogno di diventare storicamente più consapevoli quando operiamo su un ter-reno che è popolato anche dal nostro inquietante doppio.

A tal fine, torniamo alla domanda: che cosa, se mai esiste, spiega il nostro “pericoloso legame” con il neoliberismo? Siamo vittime di una sfortunata coincidenza, come chi si trovava al posto sbagliato nel mo-mento sbagliato e così cade preda del più opportunistico dei seduttori, un capitalismo così indiscriminatamente promiscuo che potrebbe stru-mentalizzare qualsiasi prospettiva, anche la più intrinsecamente estra-nea a esso? O c’è qualche sotterranea affinità elettiva tra il femminismo e il neoliberalismo? Se una tale affinità esiste, io credo che si trovi nella

16 Questa formula del “femminismo e i suoi doppi” può essere elaborata in modo efficace rispetto alle elezioni presidenziali americane del 2008, in cui i doppi inquietanti includono sia Hillary Clinton che Sarah Palin.

264 FORTUNE DEL FEMMINISMO

critica dell’autorità tradizionale17. Tale autorità è un bersaglio di vecchia data dell’attivismo femminista, che almeno da Mary Wollstonecraft ha cercato di emancipare le donne dall’assoggettamento personale agli uo-mini, siano essi padri, fratelli, preti, anziani o mariti. Ma in alcuni perio-di, l’autorità tradizionale appare anche come un ostacolo all’espansione capitalista, parte della sostanza sociale circostante in cui i mercati sono stati storicamente incorporati e che è servita a confinare la razionali-tà economica all’interno di una sfera limitata18. Nel momento attuale, queste due critiche dell’autorità tradizionale, l’una femminista e l’altra neoliberale, sembrano convergere. Ciò su cui il femminismo e il neoli-berismo divergono, invece, è sulla forme post-tradizionali di subordi-nazione di genere – vincoli sulle vite delle donne che non assumono la forma di assoggettamento personale, ma nascono da processi strutturali o sistemici, in cui le azioni di molte persone sono astrattamente o imper-sonalmente mediate. Un caso paradigmatico è quello che Susan Okin ha caratterizzato come “un ciclo di vulnerabilità distintamente asimmetrica e socialmente causata dal matrimonio”, in cui la responsabilità tradi-zionale delle donne verso i figli aiuta a formare un mercato del lavoro che svantaggia le donne, con conseguente potere diseguale sul merca-to economico, che a sua volta consolida e accuisce il potere diseguale nella famiglia19. Questi processi di subordinazione mediati dal mercato sono la linfa vitale del capitalismo neoliberale. Oggi, pertanto, dovreb-be diventare un obiettivo importante della critica femminista, mentre cerchiamo di distinguerci dal neoliberismo e intendiamo evitare la sua risignificazione. Il punto, naturalmente, è di non far cadere la lotta con-tro la tradizionale autorità maschile, che rimane un momento necessa-rio della critica femminista. Si tratta, piuttosto, di interrompere il facile passaggio da una simile critica al suo doppio neoliberista, soprattutto ricollegando le lotte contro l’assoggettamento personale alla critica di un sistema capitalistico che, pur promettendo la liberazione, in realtà impone un nuovo modo di dominazione.

Nella speranza di portare avanti questa agenda, vorrei concludere ritornando sui quattro punti fondamentali della critica femminista.

17 Devo questo punto a Eli Zaretsky (comunicazione personale). Cfr. Eisenstein, A Dange-rous Liaison?, cit.

18 In alcuni periodi, ma non sempre. In molti contesti, il capitalismo è più disponibile ad adattarsi che a sfidare l’autorità tradizionale. Per l’imbrigliamento dei mercati, si veda Karl Polanyi, La grande trasformazione, cit. Per una critica femminista di Polanyi, si veda il decimo capitolo di questo volume, Tra mercatizzazione e tutela sociale.

19 Susan Moller Okin, Justice, Gender, and the Family, Basic Books, New York 1989, p. 138.

FEMMINISMO, CAPITALISMO E L’ASTUZIA DELLA STORIA 265

Per un anti-economicismo anti-neoliberale. La crisi del neoliberali-smo offre la possibilità di riattivare la promessa di emancipazione del femminismo di seconda generazione. Adottando un’analisi pienamente tridimensionale dell’ingiustizia, potremmo ora integrare in modo più equilibrato le dimensioni della redistribuzione, del riconoscimento e della rappresentanza, che si presentavano separate nel periodo prece-dente. Fondando questi aspetti irrinunciabili della critica femminista in un robusto e aggiornato senso della totalità sociale, dobbiamo ricollega-re la critica femminista alla critica del capitalismo, e quindi riposiziona-re il femminismo esattamente a sinistra.

Per un anti-androcentrismo anti-neoliberale. Allo stesso modo, la cri-si del neoliberismo offre la possibilità di spezzare il legame spurio tra la nostra critica del salario familiare e il capitalismo flessibile. Rivendican-do la nostra critica all’androcentrismo, le femministe possono sostenere una forma di vita che decentra il lavoro salariato e valorizza le attività non mercificate, tra cui (ma non solo) il lavoro di cura. Ancora svolte in gran parte dalle donne, queste attività dovrebbero diventare preziose componenti di una buona vita per tutti.

Per un anti-statalismo anti-neoliberale. La crisi del neoliberismo offre anche la possibilità di rompere il legame spurio tra la nostra critica dello statalismo e la mercatizzazione. Rivendicando il ruolo della democrazia partecipativa, le femministe possono ora sostenere una nuova organizza-zione del potere politico, che subordina il managerialismo burocratico all’emancipazione del cittadino. Il punto, comunque, non è dissipare ma rafforzare il potere pubblico. Quindi, la democrazia che oggi cerchiamo è quella che favorisce la partecipazione paritaria, utilizzando la politica per domare i mercati e per governare la società nell’interesse della giustizia.

Per un post-westfalianismo anti-neoliberale. Infine, la crisi del neo-liberismo offre la possibilità di risolvere, in modo produttivo, la nostra ambivalenza di lunga data rispetto alla cornice westfaliana. Vista la por-tata transnazionale del capitale, le capacità pubbliche oggi necessarie non possono essere contenute solo nello Stato territoriale. Qui, di con-seguenza, il compito è quello di rompere l’esclusiva identificazione della democrazia con la comunità politica delimitata. Unendosi ad altre forze progressiste, le femministe possono ora sostenere un nuovo ordine poli-tico post-westfaliano, un ordine multiscala, democratico a ogni livello e dedicato a superare l’ingiustizia in ogni dimensione, lungo tutti gli assi e su ogni scala20.

20 Fraser, Scales of Justice, cit.

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Suggerisco, quindi, che questo sia un momento in cui le femmini-ste dovrebbero pensare in grande. Dopo aver visto l’assalto neoliberale strumentalizzare le nostre idee migliori, ora abbiamo uno spiraglio per poterle recuperare. Nel cogliere questo momento, potremmo piegare la curva dell’imminente grande trasformazione nella direzione della giusti-zia, e non solo rispetto al genere.


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