+ All Categories
Home > Documents > A Bruno Bigini, un caro amico. -...

A Bruno Bigini, un caro amico. -...

Date post: 02-Dec-2018
Category:
Upload: nguyenxuyen
View: 216 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
30
Transcript

A Bruno Bigini, un caro amico.

Sono trascorsi ormai settant'anni dalla conclusione della Seconda

Guerra Mondiale. La quotidianità induce a dimenticare in fretta

anche i periodi più oscuri della storia umana, ma se a ricordare sono

stati amici cari, come Bruno Bigini, la memoria degli eventi ci fa

riannodare immagini ed emozioni. E così si riscoprono le fonti

dell'identità del sé, insieme con una speranza di un‗unità di idee e di

azioni, che dissolvendo il conflitto delle inevitabili contraddizioni,

garantisca una convivenza sociale degna dell‘essere umano e la

consapevolezza del valore autentico della partecipazione e della

libertà. La Seconda Guerra Mondiale oltreché essere una fitta

tessitura di grandi e piccoli fatti ed uomini, è l'emblema di una

tragedia collettiva che le nuove generazioni devono conoscere

nonostante il "bombardamento" quotidiano costituito da un'attualità

coinvolgente e l‘accostarsi impone una riflessione che va oltre i fatti

così come si sono svolti. Bigini narra un‘esperienza vera vissuta a

cominciare dal ‗43 fino alla fine della seconda guerra mondiale e, con

linguaggio semplice ma di efficace immediatezza ci introduce in

quella tragedia, in quegli anni che furono i più tremendi.

Della seconda guerra mondiale sappiamo infatti che nel settembre

1943, l'Italia, dopo aver perso anche la colonia libica, venne occupata

per la parte meridionale dagli alleati anglo-americani. Così il 25

luglio di quell'anno il re fece arrestare Mussolini, nominando

Badoglio capo del governo e il fascismo venne dichiarato decaduto.

Lo stesso governo Badoglio l'8 settembre 1943 firmò l'armistizio con

gli alleati e subito dopo fuggì, assieme alla corte, a Brindisi nel

territorio controllato dagli americani, mentre l'esercito tedesco

invadeva l'Italia del centro-nord. Iniziò così un periodo ancor più

tremendo della nostra storia, la guerra di Resistenza in Italia, che vide

contrapporsi le truppe irregolari partigiane ai soldati tedeschi

occupanti e al risorto esercito fascista della Repubblica Sociale

Italiana di Mussolini. Molti italiani furono portati in campi di

concentramento.

Frattanto l'Armata Rossa sovietica avanzava da est e gli alleati erano

sbarcati in Normandia

Nel maggio 1945 ebbe termine la guerra in Europa con la conquista

dell'intera Germania da parte degli eserciti alleati. Il Giappone

continuò la guerra ancora fino ad agosto, quando le due bombe

atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki posero fine al conflitto

mondiale.

Bruno Bigini ci ha aiutato ricordare, ma soprattutto guardare in noi

stessi e a cercare di conoscere le radici della violenza che talvolta

sono anche in noi. Fin dal suo primo libro: ―Diario di prigionia‖, al

male e all‘odio Bigini non contrappone altro odio; anzi, col suo

cercare di salvarsi senza odiare e nel voler pensare ad un futuro fatto

di legami, come egli ci ha raccontato, ci ha insegnato a vivere.

Bruno Bigini è stato sempre con ―TerraNostra‖, il nostro Circolo Culturale, fin dal suo nascere, anzi, con la sua discreta presenza, il suo concreto contributo, le sue memorie storiche, la sua esperienza passata specialmente quella di prigioniero in Germania che gli ha avvalso la medaglia d‘onore del Presidente della Repubblica, egli ha saputo sostenere ed aiutare il Circolo e dargli una connotazione di prestigio e autorevolezza. La sua amabilità ha fatto sì che fin da subito, nascesse amicizia e una profonda affinità. Questo, nessuno di noi lo dimenticherà. Ricorderemo la passione per la vita culturale del nostro paese, per la conoscenza della sua storia; Abbiamo noi tutti conosciuto la sua straordinaria bonarietà, il suo sorriso. La sua intuizione, in grado di cogliere sempre le trasformazioni dei tempi, lo ha fatto essere come un giovane pronto a cogliere l‘evoluzione della società, ma nello stesso tempo proteso alla nostra storia, al nostro vissuto.

Un grazie di cuore a questo amico che ci è stato sempre vicino e che

con semplicità ci ha aiutato ad amare la vita.

Con stima e sincero affetto

Ornella Princivalle

Presidente del Circolo Culturale ―TerraNostra‖

Presentazione

“Quando un anziano se ne va, è un libro che si chiude!”, così dice un

vecchio proverbio, perché colui che se ne va si porta dietro la sua

esperienza, le memorie, tutta la vita.

Bruno Bigini se n‘è andato, ha raccontato molto della sua terribile

esperienza di giovane prigioniero in Germania alla fine della Seconda

Guerra Mondiale; ricordo che mi accoglieva con cordialità e simpatia,

mi raccontava, si soffermava su mille particolari, aveva piacere che si

desse importanza ai suoi racconti, pensava che ci fossero utili; ed ora

che non c‘è più, continua in qualche modo a raccontare, vuole che il

suo libro non si chiuda definitivamente.

Il ricordo del suo amico di sventura, Siro, “molto più anziano” a soli

trentadue anni, in tempi in cui o si diventava uomini alla svelta, in

grado di arrangiarsi, di difendersi, a qualsiasi costo, o si soccombeva,

ripercorre a grandi linee tutta la vicenda dei 750.000 giovani italiani

catturati brutalmente dai tedeschi all‘indomani dell‘8 settembre,

quando sembrava che tutto fosse finito con l‘armistizio proclamato

dal maresciallo Badoglio: presi con la forza in Italia, in Grecia, in

Albania, in Jugoslavia ecc. e caricati sui carri bestiame diretti in

Germania, a lavorare come schiavi, senza alcun riconoscimento,

senza alcun limite nello sfruttamento, obbligati a produrre viveri,

armi, munizioni, materiale bellico per sostenere lo sforzo militare del

nemico, per prolungare la guerra che oramai nessuno più voleva.

Umiliati, derisi, nemmeno riconosciuti come prigionieri, perché

questo avrebbe comportato qualche diritto, ma degradati ad IMI

(internati militari italiani), ammassati come stuck (pezzi), nei treni,

nelle baracche, nei luoghi di lavoro, alimentati col minimo

indispensabile perché potessero produrre… e poi gettati via, come

quei cadaveri che tutti i giorni venivano allontanati dai campi, finiti

dalla fatica, dalle malattie, dalle punizioni, dalle infezioni, dalla

mancanza di cure… scarti della macchina infernale.

Queste cose le sappiamo tutti; è sempre bene ripeterle, perché non

vadano perdute, ma oramai sono storia scritta e insegnata.

Bruno si aggrappa all‘amico Siro, gli chiede, si fa spiegare della

guerra, lui che è reduce dall‘Albania e poi dalla Russia, il freddo, le

scarpe di cartone, la neve, la ritirata; ha bisogno di sapere, di capire,

soprattutto di conforto; Bruno è ancora un ―bocia‖, Siro, a 32 anni, è

già un ―vecio‖! Perché la guerra invecchia!

C‘è però in questo racconto semplice, chiaro, lineare, una nota che mi

colpisce più delle altre, un po‘ perché è raro sentirla, un po‘ perché

apre scenari nuovi nella conoscenza. La mattina di Capodanno ‘45 un

gruppetto di prigionieri, anzi, ricordiamoci, di IMI, ottiene il

permesso di andare in città, a Weimar; a piedi naturalmente, con un

freddo terribile, malvestiti e peggio nutriti. Vanno in chiesa e poi

gironzolano per le strade guardandosi intorno, si mettono a

canticchiare, per farsi coraggio, per scaldarsi, per sentirsi uniti,

chissà? “La polizia li guarda, li ascolta ma non dice niente”, commenta

Bruno, che poi aggiunge: “Sono tutti allegri e vengono salutati dalla

popolazione”; cosa avessero da essere allegri è difficile dire: la guerra

non dava segni di finire, la loro condizione era ancora disperata, i

bombardamenti squassavano le città, le fabbriche, le stazioni

ferroviarie, i pericoli erano continui, le notizie da casa non

arrivavano, molti di loro erano ammalati o feriti… eppure erano

allegri, forse perché nei loro sogni c‘era il sole sopra le nebbie fredde

della Germania settentrionale, c‘era la luce, la speranza; e

trasmettevano allegria, tant‘è che un anziano lungo la strada, quando

li vede, uno che parla italiano, sempre secondo il racconto di Bruno,

esclama: “Questi italiani ci portano allegria, perché è di allegria che

abbiamo bisogno!”; non di carri armati e nemmeno di burro o carne, di

allegria, di gioia di vivere, di profonda convinzione che un domani ci

sarebbe stato, migliore del presente. E‘ qui che tedeschi “con la solita

faccia da dominatori”, arroganti, prepotenti, convinti di essere stati

traditi dagli italiani e perciò indotti a far pagare il tradimento, e

italiani, pecore intimidite e ammassate in mezzo ai lupi, scoprono la

profonda umanità che sta alla base dei loro cuori, che li lega, che li

mette insieme, che indica la via d‘uscita per gli uni e per gli altri, nel

superamento dei pregiudizi, della rabbia, dell‘odio.

Sempre parlando di allegria degli italiani ricordo che Giovanni

Guareschi, nei suoi ricordi di prigionia in Germania, racconta che una

sera cominciò a circolare la voce dello sbarco americano in

Normandia; era vietatissimo ricevere notizie da fuori, eppure quella

arrivò, un gran sollievo per i prigionieri, il segno che la guerra stava

evolvendo sempre peggio per i tedeschi; come avessero fatto i

prigionieri italiani a saperlo, è un mistero; pare anzi che l‘avessero

saputo prima dei carcerieri. Così durante la notte fecero un turno

supplementare straordinario di lavoro a piegare fogli di carta, forse

giornali in tedesco di cui non capivano niente, e realizzarono

barchette, come quelle dei bambini, e le misero ad ondeggiare nelle

pozzanghere davanti alle baracche, un lago oramai a causa delle

piogge. All‘alba i guardiani tedeschi videro, non capirono e

pensarono: “Questi italiani sono fuori di testa, talmente debilitati nel fisico

da non esserci più nemmeno con i sentimenti! Stanno impazzendo!”

Capirono in seguito, quando la notizia dello sbarco americano fu data

a tutti, che gli italiani, umiliati, sfruttati, piagati, avevano però

mantenuto prontezza di mente e gusto per lo scherno affidandosi a

quelle barchette di carta che volevano ricordate le gigantesche navi

da guerra dei liberatori appena approdate alle coste europee.

Prof. Gianni Storari

Siro, sergente maggiore

1945 — Qui a Groskromsdorf eravamo noi I.M.I. -

lnternati Militari Italiani. I giorni e le notti erano segnati

dai potenti boati dei continui bombardamenti delle super—

fortezze americane sulle città di Erfurt, Jena, Bad Sulza,

Apolda, Ghera; la terra tremava continuamente e paura e

terrore serpeggiavano tra di noi. Riflettevo: ―Qui non si salva

nessuno di noi prigionieri; a casa, in Italia non si torna più".

Il mese di Marzo del l945 stava per terminare ed eravamo

ormai tutti rassegnati a morire sotto i bombardamenti.

Questo era divenuto ormai un convincimento, anche se

durante il mese di febbraio avevamo nutrito la speranza

che la guerra potesse finire di lì a pochi giorni, dato che

il fronte si era avvicinato a noi del campo 41. Purtroppo

ciò non accadde.

Incontrai un mio compagno di sventura, Siro,molto più

anziano di me, anche per la "naia" militare. Aveva

trentadue anni, mentre io ne avevo venti. Ero curioso,

desideravo mi raccontasse la sua esperienza di guerra in Russia,

della ritirata nella steppa del Don, dei soldati congelati dal

freddo, senza vestiario e con le scarpe di fibra di cartone spedite dal

loro

Re "sciaboletta" (così veniva chiamato dai soldati).

Diceva di essere sergente maggiore degli Alpini. In effetti,

nella zona della baracca, le stanze erano occupate dal

gruppo Alpini e lui, per loro, era il punto di riferimento.

Erano tutti compatti, non si muoveva foglia senza i suoi

ordini, anche lui aveva la divisa senza stellette e senza

gradi, aveva gettato via tutto, come tutti noi.

Mi diceva che aveva giurato fedeltà al Re, alla Regina

ed alla Patria Italiana. Un giorno mi chiese: "Ma voi,

balilla, quando siete stati chiamati per fare il giuramento

di fedeltà alla Patria, al Re e alla Regina, che giuramento

avete fatto‗?" lo gli risposi: "Giurai di essere fedele alla

Regina".

Noi eravamo un gruppo di cinque e non lo trattavamo come

un sergente. Per questo motivo, un giorno gli dicemmo:

"Non ti ascolteremo neppure tu fossi ‗sciaboletta‘ !"

Vivevamo un momento davvero brutto, c‘era molto caos,

tutti avevano paura. Lui non si sentiva sicuro in baracca,

perché poteva succedere di tutto. Una notte, ad esempio,

avevano sparato alla bandiera con la falce ed il martello nel

cortile della fabbrica, rendendola tutta a brandelli. Siro

radunò tutti gli Alpini portandone un pochi in un capanno

nel bosco ed altri sotto il ponte della ferrovia mentre noi

balilla, come ci chiamava lui, andammo a dormire presso

le abitazioni di alcune famiglie tedesche; tutta gente per

bene che salutavamo sempre quando la incontravamo.

Egli però diceva che non si dovevano salutare i Tedeschi ed

io gli rispondevo: "Saluto i civili, non i militari. La popolazione

non mi ha estorto un capello, perché non dovrei salutarla? Caro Siro,

mia mamma, che spesso sogno, mi ha sempre detto che una

persona educata saluta, possibilmente con un sorriso, che verrà

certamente ricambiato". "Aveva ragione la mia mamma!".

"Non guerra, ma pace per tutti !!!".

Tornando a Siro, questo mio compagno di sventura che mi

apriva il suo cuore, mi raccontò che il 25 Agosto 1943, per la terza

volta, era stato ricoverato presso l‘ospedale militare di Verona, per un

ascesso alla gola. Fu dimesso il 7 Settembre dello stesso anno e

dovetteritornare al Corpo per ottenere il permesso di riposo di 15

giorni datrascorrere a casa dei suoi genitori.

L‘otto Settembre 1943, mentre era in stazione, venne informato

che era stato firmato l‘armistizio e che la guerra era finita.

Mi raccontò che tutti si abbracciavano e gridavano: "La guerra è

finita!".

Arrivato alla stazione di Rovereto trovò un‘enorme confusione.

Chiese al ferroviere cosa stesse accadendo ed ebbe la conferma

che era stato firmato l‘armistizio. "Il treno partiva, - egli aggiunse -ma

io,stranamente, non provavo felicità. In cuor mio prevedevo qualcosa

di brutto. Giunto a Trento, erano già le ore 22, mi sentivo molto

stanco ma purtroppo gli alberghi erano tutti chiusi e non si trovava

un letto per riposare. Il treno per la Valsugana sarebbe partito la

mattina dopo, alle cinque, ed era quello per il ritorno a casa. Pensavo

a cosa sarebbe successo con i Tedeschi. Capii allora perché ci avevano

dirottato verso il Brennero, dove avrei raggiunto il mio

reparto, dato che il mio dovere verso la Patria era quello.

Ero alla stazione, sempre in attesa di partire, ma arrivò

l‘allarme. Erano già le 5 .30 del mattino, ci fecero scendere

dal treno e, scortati dalle guardie tedesche, attraversammo

la città e fummo portati al campo dell‘aviazione. Qui trovai tutti gli

Alpini, assieme a quelli della fanteria. Dopo venti minuti

arrivarono quelli dell‘autocentro. Compresi che Trento era presidio

tedesco e noi eravamo già loro prigionieri.

Ci venivano incontro molti civili,

uomini e donne, che ci chiedevano, ansiosi, notizie dei loro figli,

dei fratelli e dei parenti. Ci mostravano le loro foto, ma

io rispondevo che non conoscevo nessuno".

Siro continuava il suo racconto: "Ero sempre in mo-

vimento, in giro per il campo, per vedere se trovavo

qualche soldato che conoscevo, e per avere qualche

informazione. Da un lato del campo, c‘erano uomini,

donne, bambini ed anziani che portavano cesti di frutta,

ma non potevano entrare per distribuirla ed erano

costretti a gettarla sopra la rete. Ci dicevano che in città

correva voce che coloro che non si fossero costituiti

entro tre giorni sarebbero stati uccisi. Spesso si sentiva

un aereo sorvolare il campo e la città avvertendo che tutte

le famiglie che avessero nascosto i soldati fuggiaschi,

sarebbero state punite. Tanti di noi hanno pensato di

costituirsi. Tanti riuscirono a fuggire, vestendosi da

civili, ma parecchi furono presi. Quelli che sapevano nuotare, si

gettavano vestiti nell‘Adige.

Molti hanno trovato la morte perché i tedeschi

avevano ricevuto l‘ordine di sparare. lo non potevo mettere

in opera quel piano, perché non sapevo nuotare. Non riuscivo a

darmi pace sapendo di essere prigioniero?

Il giorno che rimasi ferito sul fronte albanese, per non rimanere

prigioniero, con un compagno, feci trecento metri in un costone in

mezzo alla neve. Arrivavano pallottole da tutte le parti, però, per

fortuna, non venimmo colpiti ; allora riuscimmo ad evitare la morte

e la prigionia‖. Continuava il suo racconto ―Ora mi ritrovavo in

Italia, prigioniero dei miei alleati tedeschi e non riuscivo

a darmi pace. Il l0 Settembre 1943 entrarono nel campo

i camion con il rancio preparato nelle nostre caserme:

gallette e scatolette di carne. Eravamo tutti affamati e

ci gettammo in massa sulle marmitte, come belve. lo

riuscii a prendere due scatolette e due gallette. Le

misi nello zaino. Avevo già mangiato le mele con un

pezzo di pane che ci aveva portato la popolazione di

Trento. Brava gente quei trentini. Uscimmo dal campo, ci condussero

In stazione. Ci fecero salire sul vagone bestiame quaranta per volta.

lo ero nell‘ultimo gruppo di prigionieri. Il mio carro

era scoperto. Riuscii a prendere del vino e della frutta, constatando

ancora la generosità di quei trentini. Erano le quattordici.

Avevano iniziato alle undici del mattino a farci salire sulla tradotta.

Era lunghissima!

Qualcuno diceva che erano sessanta vagoni di prigionieri italiani.

Il treno partì e non vedevo più civili in stazione. l tedeschi li avevano

fatti allontanare gridando ―Alles wec, alles vvec".

Il treno si mise in moto e dalle case che costeggiavano la ferrovia si

vedeva gente alle finestre,

anziani e bambini, che salutavano, sventolando bandiere

e fazzoletti. C‘erano mamme disperate che piangevano.

anche noi soldati , pur avendo sulle spalle molti anni di naia

militare, fummo invasi da una struggente commozione.

Sentivamo lacrime copiose che scorrevano sul viso, gli

occhi gonfi, mentre il treno si dirigeva verso Bolzano".

Siro ancora ricordava: "Volevo tentare la fuga, facilitato

dal vagone che era scoperto, ma i compagni mi dissuasero.

Cominciò a piovere e sotto la pioggia varcammo il

confine con il Brennero. Quel momento fu brutto per tutti noi

l miei compagni si chiedevano dove eravamo.

Giungemmo alla convinzione che stavamo entrando in

territorio tedesco. Diventammo tutti muti. La pioggia

cadeva insistente e noi avevamo delle coperte sulla testa

per ripararci, dato che il carro era scoperto.

Mi colse una malinconia così intensa che mai, prima

d‘allora, avevo provato. Pensavo a ciò che avremmo

dovuto sopportare e per quanto tempo, senza avere

naturalmente una risposta alle mie sensazioni. Il treno

filava veloce, essendo anche un po‘ in discesa. Poi si

fermo. Ci fecero scendere e risalire su un vagone chiuso

e coperto. Eravamo stretti come sardine, bagnati, ma

stavamo un po‘ meglio perche almeno eravamo riparati

dall‘aria. Ero stanchissimo, mi addormentai, appoggiando

la testa sullo zaino di un compagno.

Il treno intanto si fermo. Eravamo giunti a lnnsbruck. Qui

ci consegnarono una pagnotta e un mestolo di minestra.

Il viaggio riprese durando ore interminabili.

Finalmente arrivammo in una località. C‘erano baracche

di legno con tanto filo spinato, ogni 200-300 metri una torretta con

due soldati armati di mitragliatrice. Tutti capimmo

che da quel luogo non si poteva uscire.

Qui trovammo molti prigionieri

di altre nazionalità‖.

Siro continuava parlando della vita trascorsa in quel campo di

concentramento. "Radio Scarpa" annunciava che tutti i giorni

portavano via dal campo quattordici-quindici prigionieri morti. Il

gruppo di Siro andò a lavorare fuori dal campo, presso una fattoria.

Erano una decina di soldati e non vennero trattati male.

Alla mattina, alle ore nove, il personale della fattoria si fermava per il

"fustich" (per mangiare un panino). Il gruppo di Siro ne approfittava

per rubare qualche rapa che mangiava arrostita. Quando passavano i

carri con le rape loro le chiedevano ai contadini. Questi

rispondevano: ―Kaine", con la solita faccia da dominatori.

Il 2l Novembre pensai: "Oggi è il giorno della Madonna

della Salute. Al mio paese è sagra. In chiesa sarà celebrata

la messa cantata e i miei fratelli, di cui non ho notizia,

forse sono in chiesa a pregare anche per me".

Anche io, da solo, recitavo le mie preghiere e anche

il Santo Rosario. Il mio pensiero andava alla triste

constatazione che già da molti anni ero lontano da casa.

L‘ultimo anno in cui riuscii ad andare in licenza fu il 1937, ero a

San Candido.

Nel 1939 ero in licenza. Nel 1940 ero in Albania. Nel 1941 a Cervinia,

nel

1942 in Russia e nel 1943 qui, prigioniero in Germania.

Il giorno seguente saremmo partiti per destinazione ignota. In tre del

nostro gruppo fummo trasferiti in una fabbrica dove c‘erano frese,

trapani,

torni, ecc. Qui il lavoro era buono, al coperto. Si lavorava dieci-

dodici ore.

La domenica si riposava. Il cibo era migliore di prima.

Fortunatamente la mansione affidataci non era pesante.

Pregavo il Signore perché mi desse la salute. Sognavo sempre la

mamma.

Natale 1943. Entra la guardia, co11 il fischio. Pronuncio

le solite due parole antipatiche: "Riffsten" e "Austen"

(sveglia). Ci facemmo gli auguri per il Santo Natale. Il

cielo era sereno, il freddo intenso, venti gradi sotto zero.

La guardia chiese chi voleva andare da un agricoltore 0

per spostare dei mobili. Tale lavoro richiedeva quattro

uomini. Mangerete molto bene ci venne detto".

Siro rispose: "lo non ci vado, perché oggi e Natale, una delle feste più

grandi. Sebbene la fame sia forte, io non ci vado".Cosi si

impegnarono altri quattro, accompagnati da me, Pietrobruno, il

telescriventista.

Il 31 Dicembre 1943, in parecchi di noi, ci mettemmo d‘accordo, per

aspettare assieme la mezzanotte, ed accogliere il nuovo anno. Noi

Alpini

abbiamo festeggiato così l‘arrivo del nuovo anno.

L‘1 Gennaio 1944, quanta malinconia!

l primi giorni dell‘anno in prigionia. Tutti ci avevano

· assicurato che per Natale saremmo stati a casa, ma così

non fu. Speriamo avvenga per Pasqua.

Il 20 Gennaio 1944, Siro era ancora qui.

Al mio paese, festeggiavano San Sebastiano; come era bello negli

anni

di pace! A S. Candido alle ore dieci c‘era la S. Messa. Dopo pranzo si

cominciava a ballare. Molta gente dei paesi vicini veniva per onorare

questo Santo.

Ricordo, il 5 Febbraio 1944. La guardia entrò con una

lettera in mano, chiama Pietrobruno Bigini di Minerbe (Verona).

Tutti si erano avvicinati sperando che ce

ne fosse una anche per loro. Siro era stato fortunato (19)

perché ricevette due cartoline. Non si può immaginare

la gioia che provò in quel momento. Male rimasero quei

compagni che non ricevettero alcuna notizia da casa.

Ricordo che io, scrivendo una cartolina per un compagno,

gli dissi: "Se vuoi che scriva che qui si mangia male e che si sta male,

la tua cartolina non arriverà mai a destinazione".

Alla lettura delle lettere Siro rimase male perché non

sapeva del fratello Battista, anche lui qui in Germania.

Verso la fine Marzo, la guardia ci permise di uscire nella vicina

campagna per raccogliere erbe e spinaci. Il 5 Maggio 1944,

giunse la brutta notizia della morte di Battista. Quella sera noi tutti

abbiamo recitato il santo Rosario.

I bombardamenti, intanto, erano continui. Poi

due soldati delle SS sono venuti per ritirare il

piastrino di prigioniero con inciso il numero. Siro si

rifiutò consegnare quel piastrino di metallo. Dopo due ·

percosse con il fucile, i compagni lo invitarono a cedere.

Il tedesco gli strappò il piastrino dalla mano. Siro si

accasciò; sulla panca, piangendo per la rabbia.

Ci era stato detto che eravamo considerati civili, non più prigionieri,

ma

internati militari italiani (l.M.l.). Tuttavia io, come Alpino, volevo

essere considerato prigioniero fino alla fine della guerra.

(Questo alpino merita una medaglia di ferro).

ll 17 Ottobre 1944, Siro andò a Weimar, parlò con un cappellano

chiedendogli se poteva venire a celebrare la Messa da noi in baracca.

Il Cappellano rispose che sarebbe venuto il 21 Ottobre per celebrarla

nel refettorio della nostra baracca. Tre o quattro alpini andarono

incontro al cappellano, mentre altri lo attendevano in

strada, per accoglierlo. Lui salutò tutti, dalla pronuncia

si capì che era di Trento. Che conforto invase noi

alpini! Dopo tredici mesi, poter parlare con un prete italiano!

Iniziata la celebrazione della Messa, Siro volle avere

l‘onore di servirla. Durante la predica, parlò della

famiglia, mentre le lacrime rigavano le nostre guance e

piangevamo commossi. Tutti partecipammo alla Santa

Comunione e poi, terminata la celebrazione, il gruppo

alpini accompagnò il sacerdote alla stazione di Weimar,

essendo lui di Erfurt.

Durante il mese di novembre si susseguono, giorno e notte, allarmi e

bombardamenti.

L‘8 Dicembre 1944 — Siro si ritira nella sua stanza. Lo troviamo

Inginocchiato mentre sta cercando il Santo Rosario per la sua

mamma. Prega affinché finissero i bombardamenti e così la

guerra,per tornare a casa sani e salvi.

Gli alpini si accordano per andare in chiesa a Weimar, per assistere

alla Santa Messa. 25 Dicembre 1944 — Partenza per Weimar, con

un freddo pungente che tocca i 19 gradi sotto zero. Solo un gruppetto

di cinque/sei non viene. Capodanno 1945 — Ci si sveglia alle sette.

Alle otto partenza per Weimar, così come era avvenuto nella giornata

di Natale.

Il freddo è intenso. Il gruppo va in Chiesa per assistere alla Messa e

quando questa e terminata, entra in un caffè del luogo.

Lungo la strada del ritorno, attraversando le vie della città, il gruppo

alpini si mette a cantare. La polizia li guarda, li ascolta, ma non

dice niente. Sono tutti allegri e vengono salutati dalla

popolazione. Un anziano che parlava italiano esclamò:

"Questi italiani ci portano allegria, perché è di allegria

che abbiamo bisogno!". "Ma tanto" aggiunse un‘anziana

23 signora.

Siro ricorda che nel l939, mentre era a S. Candido,

quelli della classe del ‘ 15 si rivolgevano a lui dicendogli:

―Voialtri ritornarì a casa nel ‘45...". Ora eravamo nel

1945... .

Gennaio e Febbraio - Si susseguono i bombardamenti,

giorno e notte. La contraerea e gli aerei tedeschi non si

sentono più. Pensiamo che sia vicina la fine della guerra.

27 Marzo 1945 — Giungono notizie che la guerra finirà

presto. Siro, intanto, ci raccontava della Campagna di

Russia. La tragedia vissuta da lui e da i suoi compagni

alpini: freddo, fame, senza equipaggiamento adeguato,

scarpe di fibrone, vestiario estivo. Durante queste

sue esternazioni, che riaffioravano tanto indelebili e

dolorose, singhiozzava mentre noi, curiosi di conoscere,

lo ascoltavamo.

Questo diario ha l‘intento di ricordare l‘amico di sventura,

il Sergente Maggiore Siro. Siro, sarai sempre con noi. ..

Mai più guerra, pace con tutti!

Lezi e tasi

―Bestia balorda,

mondo infame e pure in fiamme‖

ORRORI COMUNI, ASSASSINII POLITICI, CARESTIE

L‘alleanza Stalin – Hitler nella corsa alla strage

I crimini del leader sovietico cominciarono in tempo di pace, quelli

del

Fuher si concentrarono durante la guerra.

Insieme i due fecero 14 milioni di morti.

Mario Cervi

Crediamo di sapere tutto, o almeno molto, sulle atrocità

avvenute in Europa negli anni Trenta e Quaranta del seco-

lo scorso. Ma ogni volta che leggiamo un saggio sul tema ci sembra

impossibile che quei fatti siano veramente accaduti, che

ad esempio nelle carestie volute da Stalin le famiglie ucci-

dessero i più deboli, di solito i bambini.

In un libro di 600 pagine, TERRE DI SANGUE (Rizzoli),

lo storico americano TIMOTHY SNYDER ricostruisce le

stragi comuniste e naziste che avvennero in Europa tra Polonia

centrale, Russia occidentale, Bielorussia e Stati baltici,

quattordici milioni i morti.

Il saggio, a volte un po‘ ripetitivo e ridondante, ma

straordinariamente accurato nella narrazione e nelle citazioni,

spiega che i quattordici milioni furono vittime di assassini

politici di massa, non di eventi bellici. Un quarto di essi, addebitabile

quasi interamente ai sovietici, fu ucciso addirittura prima dell‘inizio

della seconda guerra mondiale. I maggiori colpevoli di quei

macelli hanno un nome. Il sottotitolo del libro è, infatti,

"L‘Europa nella morsa di Hitler e Stalin".

Loro presero le decisioni più funeste, loro sguinzagliarono i carnefici.

Nel 1933 Stalin sapeva cosa sarebbe successo se si fosse impossessato

del cibo dei contadini affamati dell‘Ucraina, esattamente come

Hitler sapeva che cosa aspettarsi quando, otto anni più tardi, privò

del cibo i prigionieri di guerra sovietici. In entrambi i frangenti

persero la vita più di tre milioni di persone.

Snyder non si impegna, e fa bene, nel futile esercizio di stabilire quale

tra le due tirannie sia stata

la più feroce. Al di là d‘un certo limite le crudeltà sono uguali.

Se proprio si vuole operare una distinzione tra i due stermi—

ni, va detto che quello nazista culmino negli anni di guerra,

mentre quello sovietico cominciò e accumulo montagne di

cadaveri già in tempo di pace.

Nelle pagine che si occupano degli abomini tedeschi, Snyder

ripropone episodi spaventosi, la lucida e paranoica volontà dei capi

di eliminare un popolo associata alla bieca efficienza di docili

esecutori. Un poliziotto tedesco, per la precisione austriaco, descrisse

alla moglie le sue esperienze di fucilatore d‘ebrei dicendo:

―Al primo tentativo le mani mi tremavano un po‘ mentre sparavo,

ma poi ci si abitua.

Entro il decimo tentativo prendevo la mira con

calma e sparavo con sicurezza alle molte donne e bambini.

(. . .)". Cose da fare accapponare la pelle!

Nelle rievocazioni dell‘olocausto questa bestialità dei

giustizieri, dovunque fosse esercitata, ha trovato sfogo so-

prattutto nei campi di concentramento e di strage, come

Auschwitz e Buchenwald, caduti, a fine guerra, nelle mani

dei vincitori.

Meno noti mi sembrano gli orrori staliniani della lotta ai

KULAKI e delle carestie che, con i suoi ordini insensati in

una lucida paranoia stragista, il BAFFONE provocò.

La collettivizzazione delle terre fu un disastro. La dirigen-

za sovietica, anziché imputarla alla sua incapacità e alla

sua anchilosi ideologica, l‘imputò al sabotaggio dei con-

tadini abbienti, che divennero l‘oggetto di una persecuzio-

ne organizzata e implacabile, fondata essenzialmente sui campi di

concentramento.

L‘arcipelago GULAG, ossia un‘immane catena di campi,

coincise con le deportazioni di contadini, avviati al lavoro

forzato. Alla fine avrebbe incluso 476 complessi di campi

a cui erano stati inviati circa diciotto milioni di persone, delle

quali un milione e cinquecentomila sarebbero morte durante i

periodi di carcerazione.

La polizia politica infieriva. Erano state istituite TROIKE

di giustizieri che provvedevano a rispettare le quote di i~

morti stabilite dall‘alto. A Leningrado, una presunta in-

dagine portò alla fucilazione ai i35 sordomuti. In Ucraina

il capo del NKVD (l‘esecrata polizia), IZRAIL LEPLE—

VSKI], ritenne che fosse inutile deportare gli anziani ma

che era meglio metterli frettolosamente al muro.

Si! Nelle terre di sangue parve che ogni bagliore di umani-

ta andasse perduto. Dopo aver subito le efferatezze naziste, Polacchi

e

Sovietici si presero una rivincita sulle popolazioni tedesche, du-

rante l‘esodo dai territori perduti, per la follia criminale di

Hitler. Lo stupro delle donne era per l‘Armata Rossa una (32) regola,

una

sorta di legittimo bottino. La povera gente che

doveva lasciare la terra, la casa, i propri beni, fu sottoposta

a vessazioni di ogni genere. Furono sette milioni i tedeschi

i che dovettero abbandonare le aree passate alla Polonia.

Furono queste vere terre di sangue!

Il terrore staliniano, diversamente da quello hitleriano,

troncato dalla disfatta, continuò a imperversare anche

quando in Europa le armi tacquero. Tranne quelle dei plotoni di

esecuzione!

IL MIO INCONTRO CON IL COMPAESANO RENATO

ZANCANELLA

9 Settembre 1943 — Io e tanti altri eravamo radunati sul greto

del torrente Talvera (Talfer), migliaia di soldati stipati come

un gregge di pecore. Chi spingeva a destra, chi spin-

geva a sinistra, ci spostavamo contro la nostra volontà.

lo, Pietrobruno, cercavo di individuare qualche soldato

del mio paese in mezzo a migliaia di crani in movi-

mento, perciò salii sopra ad una pietra di venti, trenta

centimetri dal suolo. Da qui mi sembrava di vedere un

enorme gregge di pecore stipate l‘una all‘altra, con i cani

lupi, i soldati tedeschi, che le tenevano unite con il mitra

puntato . Finalmente riuscii a vedere un mio amico,

il bersagliere Renato Zancanella.

Che sospiro di gioia; mi sembrava di avere trovato il te-

soro, in mezzo a quella gran massa confusa!

Improvvisamente però il tesoro mi sfuggì. Un trombet-

tiere suonò un colpo di tromba e Renato, da bravo

bersagliere, scatto sull‘attenti, di corsa

alla ricerca del trombettiere.

Io, Pietrobruno fermo, rimasi impietrito come un baccalà,

aspettando il ritorno dell‘amico Renato, avvenuto nell‘agosto

del 1945, dopo due lunghi anni di prigionia in Germania.

Tanti erano però i compagni di sventura!

Renato con Pietrobruno

WEIMAR

Abitanti: 62.400 (2001)

Weimar, città della Germania centrale, situata in Turingia,

sul fiume Shale. Importante nodo ferroviario, è sede di industrie

tessili,

meccaniche,cartiere, vetrerie, di strumenti musicali e apparecchiature

elettriche. La città, con i suoi stretti vicoli e le antiche dimore dai

tetti spioventi, ha conservato un aspetto medievale.

Per gran parte del XVIII secolo e nei primi decenni del

XIX secolo, Weimar fu il maggiore centro culturale del-

la Germania, residenza di eminenti letterati del calibro di

Johann Wolfgang von Goethe, Johann Gottfried von Her-

der, Friedrich von Schiller e Christoph Martin Wieland.

Tra i numerosi monumenti di grande interesse storico-ar-

tistico si ricordano la chiesa quattrocentesca, in gran parte J

ricostruita del XVIII secolo, che ospita un altare realiz-

zato dall‘artista tedesco Lucas Cranach il Vecchio; il castello del

Belvedere

(XVIII secolo); l‘antico palazzo del

granduca, la cui costruzione fu supervisionata da Goethe;

la casa di Schiller e quella di Goethe, oggi museo (degna

di nota la sua residenza estiva, immersa in uno splendido

parco). Di grandissimo interesse artistico anche il Teatro

Nazionale (sostituito da un edificio nuovo nel 1907) di cui

fu direttore musicale il pianista e compositore ungherese

Franz Liszt (1848-1859) e dove furono eseguite numerose

opere di Richard Wagner. Nel corso del secolo precedete,

Johann Sebastian Bach visse e lavoro a Weimar. Tra i

tesori culturali cittadini si annoverano gli archivi di Goethe

e Schiller e quelli di Friedrich Nietzsche. Nel 1919,

l‘architetto Walter Gropius fondò a Weimar la scuola di

architettura e design del Bauhaus; la città è sede, inoltre,

di numerose istituzioni accademiche, biblioteche, teatri e

musei. I

Fondata nel X secolo, Weimar divenne un centro di rilievo a par-

tire dal 1547, quando fu eletta capitale del Ducato di Sas-

sonia . Nel 1919, dopo la prima guerra mondiale, l‘Assemblea

nazionale tedesca, riunitasi a Weimar, vi istituì

la repubblica nota come "Repubblica di Weimar" e redasse

una Costituzione democratica. Nel 1920, Weimar

divenne la capitale dell‘allora istituito Stato di Turingia.

Durante la seconda guerra mondiale, il governo nazista

stabilì nella vicina Buchenwald uno dei più grandi e fami-

gerati campi di sterminio.

Il Signor Gerolamo racconta della Monarchia dei Savoia, che

è stata mandata in esilio. ..

Il Popolo italiano si consideri baciato dalla fortuna tre volte! !!

Questo signore oggi sarebbe al trono, il Re degli Italiani!!!!

Mio Dio salva gli Italiani da questo monarca!

FASCIO DI MINERBE

DIRETTORIO

SEGRETARIO POLITICO

Zaffani Ruggero

AGGIUNTI: Giacomelli Giacomo — Gemma Domenico

AMMINISTRATORE: dott. De Vei Claudio

MANIPOLO UNlCO: Capo: Dani Giuseppe

Durgante Pietro Pavan Olindo

Deganello Giovanni Piovan Giovanni

Forzellini Attilio Rossini Eusebio

Forzellini Ferruccio Ronchini Silvestro

Forzellini Giacinto Saggioro Michele

Forzellini Augusto Scarabello PAsquale

Forzellini Gaetano Santinello Giovanni

Franceschetti Silvio Seno Luigi

Filippini Angelo Serinoli Luigi

Giacchetti Ildebrando Stefani Alessandro

Gonzato Augusto Strabello Emilio

Giacon Egidio Turcato Carlo

Maestri Giuseppe Turcato Giuseppe

Molon Alessandro Vivaldi Andrea

Piva Giuseppe

Ringrazio tutte le persone che mi hanno incoraggiato a

presentare questo libretto, in particolare le prof.sse

Ornella Princivalle e Cesarina Polo

Nonché

Bruno Bigini di Mites Parladore

Un nobile e generoso paesano

che rischiò la sua vita

a Weimar in Turingia

Ma un angelo lo salvò

da quel tremendo destino

e ritornò incolume al suo

Paese

Purtroppo portandosi

appresso nel cuore

Quell'orribile ricordo di

scempio e d‘orrore.

Bruno, deposta la sua pesante

Corazza,

si riveste di nuova energia

si trasforma in foctotum

garzone, rappresentante,

imprenditore, commerciante.

Finché un bel giorno incontra

la sua dolce adorata metà

Nasce una giovane famiglia

moderna, direi d‗attualità.

Ha due nipoti che adora,

quando pronuncia i loro nomi

Il suo viso s‘illumina

come vedesse l'aurora.

Lui è sempre gentile e

sorridente

Amante del bello e della

gente

Donò alla cultura i suoi versi

di vita vera e dura.

Ora il suo esempi o è stato

premiato

Pluridecorato medaglia

d'onore

Insignito cavaliere

Di ―TerraNostra‖ sostenitore

e per Minerbe un vero

signore

Il mio ricordo di Bruno

Bruno era una persona squisita: gentile, educato, cordiale, simpatico,

sempre sorridente e pronto alla battuta che provocava il sorriso.

Nella sua lunga vita aveva fatto tante esperienze, ma una in

particolare gli era rimasta impressa perché aveva sconvolto la sua

tranquilla esistenza.

Non ancora ventenne, quando si vive di sogni, speranze ed impegno

per costruirsi il futuro, egli dovette subire due anni di prigionia. Dal

1943 al ‘45, i Tedeschi, divenuti nemici dell‘Italia dopo l‘otto

settembre del ‘43, cioè dopo l‘armistizio con gli alleati americani,

portarono lui, giovane militare, successivamente in tre campi di

concentramento. Qui le esperienze vissute furono tante e dolorose:

dal carro - bestiame che li trasportava, ai campi di concentramento

dove si pativa la fame e il freddo e dove il lavoro era duro e faticoso

ed ogni giorno ci si doveva impegnare per sopravvivere . Bruno

aveva però la capacità di saper fare amicizia con tutti e di regalare a

tutti, anche ai nemici, un saluto ed un sorriso.

Tanti furono i momenti in cui rischiò di morire: o con una pistola

puntata alla tempia o per sfinimento fisico dovuto alla fame e alla

fatica o sotto il bombardamento. La fortuna, la fede, il fatto di crearsi

amici lo aiuteranno a ritornare, sia pur molto provato, da

quell‘inferno di crudeltà. Da quell‘esperienza aveva portato a casa un

diario scritto a matita su foglietti, in cui raccontava ciò che gli era

capitato giorno per giorno; e solo in tarda età avrà la forza e il

coraggio di tirar fuori quei foglietti, di farli sistemare e correggere,

così che la sua esperienza potesse diventare patrimonio di tutti e tutti

conoscessero quanto erano state terribili la prigionia, la guerra, la

dittatura, come lui l‘aveva vissuta, e che faticoso era stato il cammino

verso la democrazia e la libertà. La sua testimonianza poteva essere

così il valore di un documento storico. Ogni volta che presentava ai

ragazzi nelle varie scuole il suo ―Diario di prigionia‖, egli si

commuoveva e faticava a rispondere alle loro domande, tanto era

vivo in lui il ricordo e la sofferenza che ciò gli provocava. Tante altre

cose aveva scritto, riguardanti il lavoro, il suo paese, la moglie, suo

padre, combattente e reduce della Grande Guerra, fino agli

avvenimenti più recenti.

Amava raccontarsi e far pubblicare ciò che raccontava, così da far

partecipi gli altri di ciò che conosceva e gli era capitato,

dimostrandosi generoso e disponibile.

Ha vissuto serenamente gli ultimi anni della sua vita, amato dalla

moglie, dai figli e nipoti e stimato da tutta la gente che aveva avuto

modo di conoscerlo attraverso i suoi scritti.

Caro Bruno, riposa in pace.

Grazie per il contributo che hai dato nel conoscere la nostra storia

attraverso le storie della tua vita.

Cesarina Polo

Indice

L‘amico

Un amico di sventura, Siro sergente maggiore

L‘alleanza Stalin – Hitler

Mario Cervi

Schifani a Buchenwald

Weimar


Recommended