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A cura di Luigi De Vittorio - Auserimages.auser.it/f/palestina/de/devittorio.pdf · 3. Il Muro, che...

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A cura di Luigi De Vittorio Premessa La questione della terra, del suo possesso privato e pubblico, è un nodo strategico decisivo del conflitto palestinese-israeliano. Il ritorno degli ebrei in Palestina, prima e dopo la Shoah, per tutto il corso del novecento, fu avviato attraverso l’ acquisto della terra, già di proprietà dei palestinesi abbienti. I primi conflitti si produssero tra i nuovi proprietari e i contadini che lavoravano sulle terre acquistate. A partire dal 1947, le porzioni di terra occupate dall’ una e dall’ altra parte, costituirono le premesse e gli esiti della guerra. E si tratta di un territorio di dimensioni ridotte, circostanza questa che acuisce i problemi della convivenza, rende intollerabili le limitazioni, più dirompente lo sfregio anche ambientale del Muro in corso di costruzione che raggiungerà la lunghezza di 700 Km, forse impossibile il ritorno in Palestina di circa 4,5 mln di profughi sparsi per il mondo.

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Da “ I figli come arma: la demografia del conflitto” , saggio di Sergio Della Pergola pubblicato sul n. 2/2002 di “ Limes” : “ Quel lembo di terra compreso tra la sponda orientale del Mediterraneo ed il

fiume Giordano, la storica Terra di Israele o Palestina (Eretz Isra’ el in ebraico, Filastin in arabo), si estende su 27.555 Km quadrati, poco più di una

grossa regione italiana come la Sicilia. Lo Stato d’ Israele nei confini anteriori alla guerra del giugno 1967 include 20.043 Km quadrati di terra più

di 474 Km quadrati di acque interne; i quartieri orientale di Gerusalemme annessi da Israele nel 1967, 73 Km quadrati; le colline del Golan al confine

con la Siria, 1.154 Km quadrati; la Cisgiordania, 5,506 Km quadrati e la zona di Gaza, 378 Km quadrati. Queste due ultime zone, occupate militarmente

ma non annesse da Israele nel 1967, costituiscono in seguito agli accordi di Oslo del 1993 un mosaico gestito in parte dall’ Autorità nazionale

palestinese, in parte da Israele ed in parte congiuntamente dalle due amministrazioni. Dalla fine del settembre 2000, il conflitto armato noto come

la seconda Intifada, oltre a determinare molte migliaia fra morti e feriti, ha gravemente compromesso i fragili equilibri del dopo-Oslo sul piano della

legalità, dell’ economia e della vita quotidiana” .

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ISRAELE E PALESTINA Brevi cenni della storia più recente

(tratti da un incontro con l’ associazione israeliana Acab)* Fine 800

Le organizzazioni del sionismo laico definiscono la proposta della Palestina come “ casa nazionale degli ebrei” e organizzano i primi insediamenti.

Si procede all’ acquisto, intorno a Gerusalemme, di terreni di proprietà di latifondisti palestinesi, residenti a Gerusalemme. Prime tensioni tra i nuovi acquirenti ebrei e i contadini palestinesi che coltivano le terre vendute.

Fine della 1^ guerra mondiale

La Palestina diventa protettorato inglese. Gli inglesi avviano una politica “ dei del doppio gioco” con ebrei e palestinesi, fanno promesse ad entrambi. Ma gli ebrei sono organizzati, colti, uniti. Il 70% dei palestinesi è invece analfabeta, non ha coscienza nazionale, è organizzato attraverso legami tribali.

Fine della 2^ guerra mondiale

Crisi dell’ impero britannico; in Palestina le tensioni tra ebrei e arabi si accentuano. Gli inglesi tentano, senza successo, di dar vita a stati distinti, per i rispettivi popoli.

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14 maggio 1948 Gli inglesi trasferiscono all’ ONU la responsabilità politica dell’ area. _______________ * Acab si occupa in particolare di aiutare i palestinesi di Gerusalemme le cui abitazioni

vengono demolite dall’ autorità israeliana.

L’ ONU aveva inviato nel 1947 in Palestina una commissione incaricata di definire una soluzione. Gli ebrei sviluppano immediatamente proficue relazioni con la Commissione che è invece boicottata dai palestinesi. La Commissione definisce un piano di spartizione, sostanzialmente accettato dagli ebrei (i residenti ebrei, 30% della popolazione, riceverebbero il 55% del territorio). L’ ONU approva il piano. Nello stesso giorno, scoppia la prima guerra tra ebrei e palestinesi. Tentativi di pulizia etnica da entrambi le parti, con evacuazione di villaggi. Gli ebrei proclamano lo stato di Israele, senza precisarne i confini, si trattava, all’ inizio, del 11% del territorio palestinese. Alla fine della guerra, nell’ agosto del ’ 49, l’ occupazione si estende al 78% del territorio palestinese. 750.000 palestinesi diventano profughi e sono costretti ad abbandonare le loro case: è la catastrofe dei palestinesi (la cosiddetta Nakba).

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L’ ONU legittima lo stato di fatto con una risoluzione ambigua sul punto della restituzione delle terre occupate durante la guerra dagli ebrei. 500.000 palestinesi restano in territorio israeliano ma con diritti di cittadinanza affievoliti rispetto a quelli degli ebrei israeliani. Gli ebrei occupano Gerusalemme ovest. La Giordania controlla la Cisgiordania e Gerusalemme est: i palestinesi di questa zona diventano cittadini giordani. Gaza va sotto il controllo egiziano ma i palestinesi di questa zona non diventano cittadini egiziani. Si definisce così la famosa “ Green line” alla quale in seguito si farà riferimento per i possibili confini dello stato palestinese. Nei 20 anni successivi, cresce l’ immigrazione ebraica dal Magreb e dall’ Europa.

Giugno 1967- guerra dei 6 giorni

Israele occupa Sinai, Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme est, alture del Golan, triplicando il suo territorio. Oltre 2 milioni di palestinesi di Cisgiordania e Gaza restano profughi, sotto occupazione militare. A Gerusalemme est si stabilisce un regime amministrativo particolare, ma i palestinesi, ivi residenti, non acquistano la cittadinanza israeliana.

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Con due risoluzioni (la 242 del 1967 e la 338 dell’ anno successivo), l’ Onu impone agli israeliani di ritirarsi dai territori compresi nella green line.

I988

La leadership palestinese si struttura. L’ Olp si era costituita già nel 1964, ma è solo nel 1988 che si può parlare di leadership palestinese che organizza la prima intifada, movimento popolare vasto che pratica una limitata violenza senza armi, solo contro l’ esercito occupante Gaza e Cisgiordania.

1993 – 1995 Accordi di Oslo

1^ fase: Cisgiordania e Gaza sono divise in 3 aree: A e B sotto controllo palestinese – C sotto controllo israeliano. Viene rimandata ad una 2^ fase una serie di questioni aperte: confini dello stato palestinese; regime di Gerusalemme; il problema dei rifugiati. La seconda fase è svanita.

Fine anni 90 – la situazione precipita

Si moltiplicano gli insediamenti dei coloni nei territori occupati, rendendo progressivamente sempre più difficile la definizione di un territorio palestinese unitario in Cisgiordania. Gli israeliani piazzano 600 posti di blocco nei territori occupati della Cisgiordania mentre iniziano gli attentati palestinesi contro i civili israeliani; i primi Kamikaze palestinesi.

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2000 – 2^ Intifada Condotta prevalentemente da Hamas è violenta, colpisce i civili, viene repressa militarmente. 2003 – Il Muro Si comincia a costruire il muro che pensato all’ inizio come una struttura limitata - 11 Km - dovrà raggiungere alla fine la lunghezza di oltre 700 Km. I posti di blocco diventano permanenti e inseriti nei sistemi militare del Muro (metal detectors, registrazione delle impronte ecc…). I coloni israeliani abbandonano Gaza nel 2005, ma continuano ad insediarsi in Cisgiordania. 2007 – Hamas prende il potere a Gaza

Dicembre 2008 – Gennaio 2009 – Operazione “ Piombo Fuso”

Per reazione ai missili Kassam sparati da Gaza in territorio israeliano, Israele occupa militarmente Gaza dopo bombardamenti spietati, contro obiettivi civili, che non risparmiano neppure le sedi delle Nazioni Unite. Poi l’ esercito israeliano si ritira, ma stringe Gaza con un embargo totale. Non passa nulla; dopo 10 mesi dalla fine della guerra, Gaza è ancora oggi un cumulo di rovine, in cui vivono però quasi 1 milione e mezzo di persone.

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LA SITUAZIONE ATTUALE

(notizie raccolte a Betlemme, nella giornata di apertura della manifestazione, in particolare attraverso l’ intervento di Alegra Paceco,

rappresentante di O.C.A.; ufficio delle N.U.)

Gaza

Dopo un embargo durissimo che dura da 3 anni ed è stato mantenuto anche dopo l’ operazione “ Piombo fuso” , nonostante l’ appello del Consigli di Sicurezza, Gaza è un luogo di desolazione e di morte. Il blocco delle merci è totale; il commercio via mare è impossibile, l’ aeroporto – costruito con i contributi dell’ Unione Europea – e distrutto dai bombardamenti israeliani – è chiuso. Le merci accedono solo attraverso il varco di Rafa al confine con l’ Egitto, aperto solo due tre volte al mese. Tutto questo rende impossibile la ricostruzione ed aggrava l’ emergenza sanitaria. L’ elettricità è disponibile solo per quattro, cinque ore al giorno con effetti devastanti su acqua e sistema fognario. Il 95% delle falde si è inquinato e l’ acqua non è più potabile. Il blocco dell’ afflusso di merci è pari all’ 80% e questo fa crescere la disoccupazione: si sono persi 120.000 posti di lavoro e la disoccupazione è superiore all’ 80%.

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L’ operazione “ Piombo fuso” ha prodotto 1.400 morti civili, 5.000 feriti, 4.000 case civili distrutte, 55 sedi Onu danneggiate dai bombardamenti. Un rapporto commissionato dall’ Onu (Rapporto Goldstone) sembra documentare gravissime violazioni dei diritti umani, ma se ne impedisce la discussione all’ Onu, anche con la complicità dell’ autorità palestinese. Sarebbero già impegnabili 5 mld di dollari di aiuti da parte della Comunità internazionale, ma l’ embargo israeliano impedisce il loro effettivo utilizzo a Gaza.

Cisgiordania (West Bank)

L’ emergenza è qui rappresentata, in particolare, dalla frammentazione del territorio palestinese, come definito attraverso la green line. Si produce in danno dei palestinesi un vero e proprio soffocamento dello spazio vitale. Tre sono gli strumenti di tale obiettivo: 1. l’ insediamento di colonie ebraiche in territorio palestinese. Esso è

stato progressivamente intensificato, sia nelle forme legali (acquisto di terreni) che in quelle legate all’ occupazione militare (utilizzo di terreni requisiti dagli israeliani), sia, infine, attraverso forme illegali di occupazioni di fatto. Le colonie hanno il controllo predominante delle risorse idriche della West Bank; secondo il segretario generale del sindacato palestinese PGFTO, tale controllo arriva al 70% mentre ai

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palestinesi l’ acqua viene razionata, con disponibilità che arriva a sole 7 h ogni 5 giorni. Nel solo distretto palestinese di Betlemme, sono insediati 86.000 coloni israeliani, in tutta la West Bank i coloni sarebbero non meno di 500.000. Le colonie sono insediate strategicamente, in particolare intorno a Gerusalemme per impedire l’ attuazione delle risoluzioni Onu sulla green line. A questo stesso fine, vaste zone sono state dichiarate dagli occupanti zone militari e sono state istituite riserve naturali chiuse. In quello che resta ai palestinesi, ad esempio nella città di Betlemme, la densità della popolazione sarebbe di 4.650 abitanti per Km quadrato

2. Il controllo totale israeliano dell’ urbanistica nei territori occupati:

viene utilizzato per impedire ai palestinesi di costruirsi le case. Molte case palestinesi vengono demolite con motivazioni o pretesti legali, si calcola che almeno 28.000 case sono state demolite dal ’ 67 ad oggi. I palestinesi ricorrono alle costruzioni illegali ma queste sono prive di allacci idrici, sostituiti da allacciamenti indiretti e abusivi che fanno crescere il prezzo dell’ acqua potabile. Abbiamo incontrato un palestinese a cui la casa è stata distrutta per 5 volte, dopo successive riedificazioni

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3. Il Muro, che una volta completato si estenderà per 700 Km. Da notare

che gli israeliani non costruiscono il muro sulla green line, ma ne scelgono il percorso secondo le loro convenienze militari e di sicurezza e, comunque, sempre ben dentro il territorio palestinese. Il muro si integra ad un sistema fisso e sofisticato di 580 ceck points. Le automobili palestinesi (targa verde) non possono varcare il muro. I palestinesi possono varcarlo solo se muniti di particolari permessi e documenti e, in ogni caso, previo controllo elettronico delle impronte. Questo determina una situazione intollerabile sulla mobilità, con conseguenze pesantissime a proposito di fondamentali diritti umani: il lavoro, la salute, l’ istruzione. Le conseguenze sono gravissime, in particolare per i soggetti più deboli: disoccupati (la disoccupazione è intorno al 40-50%), bambini in età di istruzione, vecchi e malati. Nel 2008, tutti i ceck points sono stati chiusi per 61 giorni consecutivi

Gerusalemme est

Il controllo amministrativo e militare degli israeliani è assoluto. L’ urbanistica è utilizzata in funzione di esigenze militari e di operazioni di pulizia etnica. E’ a Gerusalemme che il problema dell’ abitare è per i palestinesi particolarmente acuto. Gli stessi arabi di cittadinanza israeliana non hanno gli stessi diritti politici degli ebrei. A Gerusalemme est, è quasi impossibile costruire, specie per i palestinesi.

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L’ autorità amministrativa israeliana non garantisce neppure i servizi fondamentali (a partire dalla raccolta della nettezza urbana e dalla manutenzione delle strade) agli arabi. 3.000 case abitate da palestinesi sono a rischio di demolizione a Gerusalemme. Nei quartieri arabi, mancano 13.000 aule e 60.000 bambini non possono frequentare la scuola pubblica. Eventuali emigranti o profughi palestinesi di Gerusalemme, trovano ostacoli pesantissimi al loro ritorno: una legge urbanistica israeliana prevede la requisizione delle case non occupate per almeno 20 anni; attraversi questa legge, ad esempio, il quartiere armeno di Gerusalemme est rischia di essere inglobato nel quartiere ebraico.

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ALCUNI APPROFONDIMENTI

Il lavoro e le sue tutele

(notizie tratte dagli incontri con il segretario generale della Confederazione dei sindacati palestinesi a Nablus, PGFTO; con l’ organizzazione israeliana Wac a Nazareth; con studiosi israeliani dei problemi del lavoro a Tel Aviv) Nei territori palestinesi operano due sindacati, quello storicamente insediato (PGFTO) e un’ altra organizzazione nota durante l’ esilio dell’ autorità palestinese a Tunisi. Le retribuzioni nei territori sono notevolmente più basse che in Israele: se si prende come riferimento l’ indicatore Onu della soglia di povertà pari ad 1 euro al giorno, sono sotto la soglia il 50-60% degli adulti in Cisgiordania e l’ 80% a Gaza. L’ occupazione di palestinesi in Israele si è nell’ ultimo decennio drasticamente ridotta. Attualmente lavorano in Israele 20.000 palestinesi forniti di permesso regolare e 50.000 senza permesso e privi di qualsiasi tutela. Altri 35.000 palestinesi dispongono di permesso per lavoro autonomo, ma in realtà sono utilizzati come dipendenti e non dispongono di tutele adeguate. Nelle colonie, i lavoratori palestinesi sono impiegati specialmente in lavorazioni insalubri e pericolose.

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Il salario medio, di fatto, è inferiore del 60% a quello previsto dalle vigenti disposizioni. E’ diffuso il caporalato, sia da parte israeliana che palestinese. Le possibilità di intervento del PGFTO sono assolutamente limitate. In Israele opera un sindacato paraistituzionale denominato Histadrut. Storicamente esso si configura come un’ emanazione del partito laburista. Histadrut ha aperto le iscrizioni agli arabi solo negli anni ’ 60. Fino agli inizi degli anni ’ 80, questo sindacato ha operato in un regime di sostanziale monopolio: ad esempio, la tessera sindacale era il canale per godere dell’ assistenza sanitaria gratuita e degli altri benefici sociali. A partire dalla metà degli anni ’ 80, il sistema economico e sociale israeliano è stato profondamente modificato in direzione di un accentuato liberismo. Il ruolo paraistituzionale di Histadrut è stato smantellato mentre si è accentuata la flessibilizzazione delle forme di lavoro. Questo ha determinato una crisi verticale della sindacalizzazione, passata dall’ 85% dei lavoratori al 30%. Dei sindacalizzati, solo il 20% è iscritto ad Histadrut. Emergono esperienze nuove di sindacalizzazione che partono dal basso, cercando di legittimarsi attraverso il consenso dei lavoratori,

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organizzando le rivendicazioni e le lotte e cercando di stipulare contratti collettivi. Questi nuovi movimenti si caratterizzano per essere interetnici e porre particolare attenzione al lavoro dei giovani e delle donne (quelle arabe lavorano solo al 20%). I lavoratori precari o, comunque, inquadrati in forme diverse dal tipico modello del lavoro dipendente, sono ormai il 10% ed il precariato investe a questo punto anche mestieri ad alta qualificazione come quello di insegnante. C’ è una crescita esponenziale del lavoro degli immigrati, raddoppiati in percentuale nell’ ultimo decennio, dal 5 al 10%. Questi immigrati provengono soprattutto dai paesi dell’ estremo oriente e dall’ Europa orientale. L’ immigrazione è regolata da leggi che favoriscono il controllo ed il potere disciplinare dei datori di lavoro: è il datore di lavoro che gestisce il permesso di soggiorno dell’ immigrato ed è in grado di revocarlo. In caso di revoca del permesso, l’ immigrato viene deportato nel paese d’ origine oppure cade in clandestinità. Ci sono poi immigrati che si sono introdotti illegalmente in Israele (20.000 dall’ Egitto) o che lavorano utilizzando visti turistici. Le contraddizioni sociali in Israele sono largamente ignorate. E’ evidente che la varietà delle situazioni lavorative (palestinesi, regolari o

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meno, immigrati, regolari o irregolari, arabi israeliani a cui sono inibiti alcuni lavori) e la crescente precarizzazione finiscono per danneggiare gravemente anche il lavoro degli israeliani. Le stesse leggi sullo sciopero che sono avanzate rispetto a quelle esistenti nel mondo arabo, non hanno la forza e le garanzie offerte dalle leggi israeliane al diritto di proprietà. La situazione politica generale, la militarizzazione, le leggi speciali sulla sicurezza ostacolano la formazione di una coscienza unitaria dei lavoratori. Prevale su tutto, l’ insicurezza e la paura dell’ accerchiamento.

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I profughi (Da una visita al campo profughi di Shu’ fat nei pressi di Gerusalemme) Ancora prima della proclamazione dello stato di Israele, la questione della omogeneità etnica nel territorio era già motivo di attrito tra arabi ed ebrei. Ma furono questi ultimi a progettare veri e propri piani organici di pulizia etnica. Già prima della scadenza del mandato britannico, tra il ’ 47 ed il ’ 48, furono espulsi dai loro luoghi di residenza nei territori occupati dagli israeliani, più di 500.000 profughi palestinesi. Alla fine della guerra, nel ’ 49, i profughi erano diventati 935.000, espulsi da 531 città e villaggi occupati. Il numero attuale complessivo dei profughi, secondo le statistiche del 1998, è pari a 4,9 milioni, dei quali solo 3,6 milioni sono registrati dall’ Agenzia dell’ Onu (Unrwa). Secondo calcoli di origine araba, il 46% dei profughi vive nei territori occupati; il 42% nei paesi vicini: Siria, Giordania, Libano; il 12% in altre parti del mondo. Il governo israeliano sostiene dal 1948 di non poter acconsentire al ritorno di alcun profugo finché non sarà firmato un trattato di pace. Il campo di Shu’ fat fu aperto dal governo giordano prima della guerra dei 6 giorni per ospitare 3.500 profughi espulsi dai territori occupati dagli

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israeliani durante la guerra del 1948, prevalentemente provenienti da villaggi vicini a Gerusalemme Ovest. Oggi nel campo, gestito dall’ Agenzia Onu per i rifugiati (Unrwa), vivono in condizioni miserande 18.000 persone. Ci sono in tutto il Medio Oriente altri 57 campi simili. Gli abitanti dei campi sono i più poveri tra tutti i profughi palestinesi. Dopo la costruzione del muro, la vita degli abitanti di Shu’ fat si è fatta più dura. Il campo che è a 3 Km dal centro di Gerusalemme, è circondato da reticolati del tipo non ammesso dalle convenzioni di Ginevra (non filo spinato, ma filo munito di piccole lame). Per entrare ed uscire dal campo, gli abitanti debbono attraversare un check point gestito da militari israeliani. La municipalità israeliana di Gerusalemme non si occupa della nettezza urbana del campo, per cui l’ immondizia, raccolta in grandi recipienti, viene periodicamente bruciata. L’ Unrwa gestisce nel campo 3 scuole (due maschili e una femminile) e 2 centri sociali. L’ Agenzia Unrwa attraversa gravi difficoltà economiche: ad esempio il governo italiano ha drasticamente ridotto i finanziamenti.

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LE PROSPETTIVE POLITICHE

(Impressioni tratte dalla Conferenza sul ruolo dell’ Europa per la pace in Medio Oriente svoltasi a Gerusalemme il 13 ottobre; dall’ incontro con il

presidente del Consiglio dell’ autorità palestinese Salam Fayyad; dall’ incontro con “ Parents’ Circle” ; da colloqui con esponenti della

società civile, palestinesi e israeliani) Nella sostanziale indifferenza dell’ opinione pubblica mondiale, si sta consumando una grande tragedia umana, l’ occupazione causa infinite sofferenze. Colpisce soprattutto la perdita di ogni speranza. Nei territori occupati, i palestinesi sono politicamente divisi, manca una leadership autorevole e stimata: le parole “ pace e dialogo” sono usurate. Le aperture di Obama vengono valutate con diffidenza ed incredulità. In Israele, esistono forze consapevoli e critiche della conduzione governativa, ma sono minoritarie; manca anche qui un’ autorità politica credibile, in grado di portare avanti un progetto di pace. Ho ascoltato questa affermazione da un intellettuale israeliano: “ Nessuno vuol fare quello che ciascuno capisce che bisogna fare” . Noi italiani, europei, democratici, siamo legati alla formula: “ Due popoli e due stati” .

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Questa formula è stata rilanciata dall’ autorità palestinese con un progetto presentato nelle scorse settimane da Salam Fayyad, ma essa diventa sempre meno credibile, sia tra i palestinesi, che tra gli israeliani. La ragione prevalente sta nel fatto che le coperture e la promozione offerta dal governo israeliano agli insediamenti dei coloni, rischiano di disintegrare l’ unità del territorio della West Bank. A Gaza, Hamas, con il suo avventurismo, ha offerto il pretesto all’ operazione “ Piombo fuso” e ora appare priva di una proposta politica. Emerge, sia in campo israeliano, che in quello palestinese, l’ idea di lavorare ad una prospettiva che viene consapevolmente presentata come utopica e legata a tempi lunghi, quella di uno stato unico, diverso naturalmente da Israele, che possa riunire palestinesi ed israeliani, riconoscendo pari diritti. Ai nostri occhi, questa idea appare addirittura più ardua di quella “ Due popoli – due stati” ma colpisce che venga presentata da settori diversi, sia arabi che israeliani, anche se deve essere chiaro che si tratta di settori minoritari che sono espressione di elites intellettuali o di impegno umanitario. Abbiamo sentito avanzare questa nuova ipotesi dal presidente di “ Pingo” , un’ associazione palestinese di Nablus che si occupa di volontariato civico giovanile, dal responsabile di “ Wac” che è un’ organizzazione sindacale di base israeliana, dai giovani israeliani di Acab, organizzazione che si batte contro le demolizioni di case

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palestinesi, dall’ autorevole animatrice palestinese della “ Casa del Fenicottero” , che è un centro sociale per bambini e giovani, nel cuore di Gerusalemme Est, da Sari Nusseibeh, rettore dell’ università palestinese Al-Quds. Tutti questi soggetti guardano con nuovo interesse alla vicenda politica del Sud Africa, ma bisogna dire che in Palestina non c’ è una figura carismatica come Nelson Mandela. A queste nuove idee, si lega la prospettiva della lotta non violenta sostenuta dal “ Parents’ Circle” , forum israelo-palestinese dei familiari delle vittime. Il forum organizza oltre 500 famiglie che cercano di elaborare la loro esperienza di dolore in termini non di odio, ma di condivisione. In tal senso abbiamo ascoltato testimonianze assai coinvolgenti, anche se non appaiono finalizzate a proposte politiche organiche. Cosa possono e debbono fare gli Europei? Spetta evidentemente a palestinesi e israeliani definire le opzioni ed i percorsi politici verso la pace. Nel corso dell’ incontro dedicato al ruolo dell’ Europa, svoltosi al Notre Dame Center di Gerusalemme, abbiamo ascoltato gli interventi di Christian Burger, rappresentante della U.E. a Gerusalemme e del console generale di Svezia a Gerusalemme. Abbiamo appreso i termini dello sforzo economico dell’ U.E. per sostenere la strutturazione

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statuale dell’ Autorità Palestinese (1 mld di euro l’ anno) ma non abbiamo colto una capacità nuova di rapportarsi alle aperture politiche di Obama. Ma se l’ Europa non affiancherà ed incalzerà Obama, quelle del presidente USA rischiano di rimanere buone intenzioni, come sta avvenendo su altri terreni interni agli USA,ad esempio la riforma sanitaria. La società civile palestinese ci chiede prima di tutto di fare controinformazione, raccontando quanto sta accadendo e cercando di infrangere il muro di indifferenza e di omissioni che caratterizza la grande stampa ed i media in generale in tutto il mondo. Si è aperta una discussione sul boicottaggio dei prodotti israeliani; una campagna di questo genere è stata, ad esempio, lanciata da sindacati inglesi. Ma il boicottaggio ha un aspetto odioso e di generica discriminazione, può avere effetti contro i lavoratori palestinesi ed è, in ogni caso, di difficile applicazione. Soprattutto rischia di produrre derive antisemite che vanno rigorosamente prevenute. Se un motivo di speranza viene fuori da questo viaggio, è la constatazione di una coscienza critica che vive e si organizza nella società israeliana. Abbiamo ascoltato alcuni giovani che intendono rifiutarsi alla leva militare obbligatoria e mettono in conto di andare in carcere e di rinunciare per tutta la vita ai benefici ed alle agevolazioni previste per i militari.

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A questi giovani, a queste forze intellettuali dobbiamo guardare, perché la pace non si costruisce contro ma insieme. La società israeliana non può aver cancellato dalla propria memoria collettiva i segni storici di un patrimonio culturale alto che ha animato tutto il novecento. In nome di questa cultura, dei valori a cui gli ebrei hanno dato un decisivo contributo, in nome della tragica esperienza della Shoah, dobbiamo dialogare con gli israeliani, favorire la loro resistenza contro processo che si è variamente ripetuto nelle vicende storiche del nostro mondo: quello per cui le vittime si sono trasformate in carnefici e gli oppressi in oppressori. E’ un processo rispetto al quale nessuno può sentirsi estraneo: ha coinvolto popoli e paesi diversi, ideologie politiche ed esperienze religiose. E allora, riprendendo il tema delle nostre responsabilità, noi dobbiamo lavorare in rete non solo nelle singole nazioni, ma in tutta la U.E., affinché l’ Unione svolga un ruolo attivo, non limitato agli aiuti umanitari. Israele è legato all’ U.E. da un trattato di associazione che richiama l’ obbligo del rispetto dei diritti umani. Oggi il governo israeliano, viola sistematicamente questi diritti, attraverso l’ occupazione militare, l’ uso neo coloniale delle risorse a partire dall’ acqua, la discriminazione etnica.

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Dobbiamo fare pressione verso i governi europei e la U.E. per imporre ad Israele il rispetto del trattato di associazione. _______________ *Per approfondire:

Jeff Halper: “ Ostacoli alla pace” – Edizioni “ Unacittà” Per quanto sta avvenendo a Gaza, v.: www.andresbergamini.it

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Ho incontrato stasera il Direttore del Conservatorio Musicale di Ramallah e gli ho consegnato gli strumenti musicali donati dalla filarmonica “ Città di Carpi” . Colgo l’ occasione per ringraziare la Filarmonica ed il comune di Carpi per aver pensato ad Auser come intermediaria di questa donazione. Così pure ringrazio l’ Auser di Modena che si è accollata parte delle spese di spedizione dei materiali e la Cgil Lombardia che ci ha aiutato nelle pratiche amministrative, doganali e di trasporto. Questo dono ha il significato di una piccola pietra che tutti quanti abbiamo voluto fornire a sostegno di un progetto di pace; in un territorio martoriato, occorre partire dalle cose più semplici, dall’ offerta di un contributo di normalità rappresentato dai ragazzi che vengono messi in condizione di fare musica, di fare cose consuete appunto nel resto del mondo e che qui sono negate. Siamo ormai al termine del nostro percorso di consapevolezza e responsabilità per la pace.

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Approfitto di questa circostanza della consegna degli strumenti per proporre agli amici ed ai compagni della Tavola tre mie personali riflessione scaturite dalle numerose occasioni di esperienze e confronto che si sono determinate. Di queste occasioni ringrazio Lotti, Bassoli e tutti gli amici e i compagni con i quali le ho condivise. La prima: abbiamo verificato nei luoghi e negli incontri il dato di fondo del conflitto: ci sono gli oppressi e gli oppressori. Credo che dobbiamo guardarci dal rischio di frettolose assimilazioni tra la Shoah e l’ oppressione che sta subendo il popolo palestinese. Sarebbe un errore storico e, soprattutto, un gravissimo errore politico: noi dobbiamo costruire ponti di comunicazione con gli amici israeliani: dobbiamo parlare alle loro menti ed ai loro cuori; proprio in nome della Shoah, coinvolgerli nel giudizio sulla situazione che si chiama oppressione dei palestinesi da parte dello stato di Israele, evitare di arroccarli, rafforzare quei settori della società israeliana che si interrogano su quanto sta accadendo ed operano contro l’ oppressione.

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La seconda: si è parlato di quello che noi possiamo fare in Italia – Cercare di contrastare la falsa informazione, le omissioni ciniche ed opportunistiche – Siamo consapevoli dei limiti di ciascuno di noi – possiamo contenerli, facendo rete – rete di controinformazione. Si è parlato di organizzazione del boicottaggio – Qui c’ è una via maestra che ci proponeva l’ altro giorno Bassoli – fare pressioni a livello di reti europee per un’ applicazione rigorosa da parte della UE del trattato di associazione che obbliga Israele al rispetto dei diritti umani - Diritti che sono costantemente violati: sul lavoro, sulla casa, sulla mobilità, sulle libertà personali – Anche qui torna il valore strategico della rete. La terza: abbiamo verificato l’ articolazione delle posizioni che attraversano le due società civili, quella palestinese e quella israeliana, sul futuro delle prospettive di pace – Due popoli – due stati; un solo stato – Non spetta a noi intervenire in questo confronto – Ma in ogni caso, è evidente che bisogna intraprendere un percorso. Sono stato coinvolto, come molti di voi, in una proposta che è quella della non violenza: è un coinvolgimento non solo emotivo. Il dolore e la sofferenza possono alimentare il conflitto o la condivisione – Nel primo caso, il conflitto moltiplica il dolore, nel secondo si

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alimentano i fattori che ci uniscono rispetto a quelli che ci separano. La pace oggi è un sogno, ma la condivisione del dolore, della comune identità della condizione umana, della priorità assoluta dei diritti umani, la possono alimentare. Rebuilding hope si diceva ieri. La speranza è quella della profezia di Isaia: “ Il Signore farà scorrere su Gerusalemme un fiume di pace e di salvezza” .


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