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A T T I - difesa.it€¦ · finendo di coprire le principali angolazioni da cui trattare il tema...

Date post: 25-Aug-2020
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CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI PALAZZO SALVIATI, ROMA Presentazione del libro GUERRA E COSTITUZIONE NUOVI CONFLITTI E SFIDE ALLA DEMOCRAZIA (Prof. Giuseppe de Vergottini) A T T I Palazzo Salviati (6 dicembre 2004) SUPPLEMENTO ALL’OSSERVATORIO STRATEGICO N° 1 - 2005
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CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

PALAZZO SALVIATI, ROMA

Presentazione del libro

GUERRA E COSTITUZIONE NUOVI CONFLITTI E SFIDE ALLA DEMOCRAZIA

(Prof. Giuseppe de Vergottini)

A T T I

Palazzo Salviati (6 dicembre 2004)

SUPPLEMENTO ALL’OSSERVATORIO STRATEGICO N° 1 - 2005

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Osservatorio StrategicoCENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

PALAZZO SALVIATI, ROMA

CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ..… SUPPL. N° 1 - GENNAIO 2005

PREMESSA I recenti eventi degli anni 2000, a partire dalla crisi del Kosovo per finire a quella

irachena, hanno riacceso il dibattito politico e scientifico sul tema della guerra, in Italia e all’estero. A livello internazionale per l’interpretazione del ruolo delle Nazioni Unite nonché degli appropriati articoli della sua carta e del valore e dell’efficacia delle sue Risoluzioni. A livello nazionale, in quanto tali crisi, che hanno visto e vedono le Forze Armate italiane impegnate in operazioni fuori area, sono state oggetto di diversa valutazione, talora anche ideologica, da parte di forze politiche di varia collocazione ma, soprattutto, sono state e sono casi di attento studio da parte di coloro che intendono approfondire il tema della guerra da varie angolazioni: da quello strettamente giuridico-costituzionale a quello internazionalista, da quello storico-politico a quello istituzionale. Per di più con una attenzione più o meno marcata, a seconda dei diversi punti di vista, al principio di effettività.

Non è un caso quindi che, in tale contesto, il Prof. Giuseppe de Vergottini abbia sentito l’esigenza di affrontare la complessa tematica con una ricerca pubblicata con il libro

“Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide alla democrazia”. L’obbiettivo non era quello di costruire una teoria organica sul tema oggetto di studio

(come riconosce lo stesso Autore, “sarebbe stata una presunzione stupida”), bensì quello di compiere uno sforzo di sistematizzazione dei raccordi fra la guerra e i diversi approcci con cui analizzarla. Con l’obbiettivo reale di smuovere un dibattito su un tema, quello della guerra, che per molti anni è stato rimosso dal mondo culturale nazionale, forse perché il solo parlarne avrebbe rappresentato una “diminutio” del valore universale della pace.

Il Centro Alti Studi per la Difesa ha colto questa esigenza e ha affidato al CeMiSS, che nella sua missione ha anche l’obbiettivo di stimolare il dibattito sulle tematiche di sicurezza e difesa in collaborazione con il mondo accademico, il compito di promuovere e organizzare la presentazione del libro del prof. de Vergottini, costituendo un panel che potesse consentire di affrontare il dibattito sulla guerra dalle sue più importanti angolazioni. Oggi sono lieto di pubblicare gli atti della presentazione svoltasi a Palazzo Salviati il 6 dicembre 2004; atti prodotti rispettando il linguaggio “parlato” (vivace, interessante e talora appassionato) degli interventi.

Il panel è stato introdotto e moderato dal Gen. S.A. Vincenzo Camporini, Presidente del CASD, e ha visto la partecipazione del Prof. Natalino Ronzitti, Ordinario di Diritto Internazionale presso la LUISS “G. Carli”, del Prof. Gaetano Quagliariello, Consigliere per gli Affari culturali del Presidente del Senato, del Prof. Paolo Carnevale, Professore straordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università Roma Tre, del Dott. Giuseppe Severini, Consigliere di Stato e Consigliere giuridico del Ministro della difesa, nonché del Prof. Giuseppe de Vergottini, Ordinario di Diritto costituzionale presso l'Università di Bologna.

A tutti loro va il mio più vivo ringraziamento per la partecipazione e le dotte argomentazioni apportate, che mi auguro possano dare nuovi spunti per ulteriori riflessioni.

Il Direttore

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Osservatorio StrategicoCENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

PALAZZO SALVIATI, ROMA

ANNO VII – SUPPL. AL N°1– GENNAIO 2005

Presentazione del libro “Guerra e Costituzione

Nuovi conflitti e sfide alla democrazia” (Palazzo Salviati - 6 dicembre 2004)

SOMMARIO INTRODUZIONE ……………………………………9 Gen. S.A. Vincenzo Camporini GLI ASPETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE …….…11Prof. Natalino Ronzitti L’ANGOLAZIONE STORICO-POLITICA …………….21Prof. Gaetano Quagliariello

GLI ASPETTI DI DIRITTO INTERNO ……..…………27Prof. Paolo Carnevale

L’ANGOLAZIONE ISTITUZIONALE ……………….. 37Dott. Giuseppe Severini

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE DELL’AUTORE …...43Prof. Giuseppe de Vergottini

L’Osservatorio Strategico è una pubblicazione del CeMiSS, Centro Militare di Studi Strategici, realizzata sotto la direzione del Gen. Isp. Carlo Finizio. Le informazioni utilizzate per l’elaborazione delle analisi provengono tutte da fonti aperte (pubblicazioni a stampa e siti web) e le fonti, non citate espressamente nei testi, possono essere fornite su richiesta. L’Osservatorio Strategico viene realizzato dal CeMiSS al fine di contribuire al dibattito culturale e all’approfondimento della conoscenza delle tematiche strategiche. Quanto contenuto nelle analisi riflette, pertanto, esclusivamente il pensiero degli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono. L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file PDF) nelle pagine CeMiSS del Centro Alti Studi per la Difesa:

www.casd.difesa.it

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CeMiSS - Centro Militare di Studi Strategici Palazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMA tel. 06 4691 3219 fax 06 6879779 e-mail [email protected]

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CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ……. SUPPL. N° 1 GENNAIO 2005

La fine della Guerra Fredda e la nuova

conflittualità

La necessità di un dibattito franco e

rigoroso

INTRODUZIONE Gen. S.A. Vincenzo Camporini Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa

Oggi nel quadro delle attività culturali previste dal Centro Alti Studi per la Difesa abbiamo organizzato questa presentazione di un opera del prof. Giuseppe de Vergottini “Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide alla democrazia”.

E’ un tema che a mio avviso ha una rilevanza fondamentale,

proprio perché, con la fine della Guerra Fredda, viene meno un quadro istituzionale consolidato dai tempi del trattato di Vestfalia sulle relazioni fra Stati e la conflittualità entra in una fase che ha bisogno di una nuova definizione, cioè di un quadro giuridico entro cui muoversi. Questo vale sia in ambito internazionale che ovviamente in ambito nazionale, dove il rispetto del quadro normativo che deriva dalla costituzione è un elemento irrinunciabile di qualsiasi attività, anche in ambito militare.

È un tema pertanto di grande rilievo; un tema che si presta a

un elaborazione viva, quindi a un dibattito che non si esaurisce in una codificazione statica; bensì è qualcosa da affrontare, con intelligenza, con fantasia e con rigore.

Oggi abbiamo un panel prestigioso che discuterà di questo

volume e di questo tema. E’ quindi il caso di iniziare subito la discussione. Darò la parola in sequenza al prof. Ronzitti, Ordinario di Diritto Internazionale alla LUISS e amico e collaboratore storico del CASD. Sarà poi la volta del prof. Quagliariello, Consigliere per gli Affari culturali del Presidente del Senato, che tratterà gli aspetti storico-politici del tema. Prenderà poi la parola il prof. Carnevale, Professore straordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università Roma Tre, che analizzerà gli aspetti di Diritto Interno. Infine il dott. Giuseppe Severini, Consigliere di Stato e Consigliere giuridico del Ministro della difesa, tratterà gli aspetti istituzionali, finendo di coprire le principali angolazioni da cui trattare il tema affrontato nel libro. Spetterà in conclusione al prof. de Vergottini chiudere l’incontro, discutendo e recependo i contributi dei vari relatori.

Senza perdere ulteriore tempo, cedo la parola al prof.

Ronzitti, che ci parlerà degli aspetti di diritto internazionale.

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CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ……. SUPPL. N° 1 GENNAIO 2005

Attualità del volume

Uso della forza, conflitti armati,

guerra?

GLI ASPETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE Prof. Natalino Ronzitti Professore ordinario di Diritto Internazionale LUISS G. Carli Roma

E’ per me un piacere intervenire in questa presentazione del volume dell’amico de Vergottini per due motivi. Anzitutto, perché è un volume veramente attuale; cade in un momento storico in cui si sentiva la necessità di un libro del genere, in quanto de Vergottini, che è costituzionalista e pubblicista, non si limita soltanto a trattare i problemi di diritto costituzionale, ma fa un’incursione a ragion veduta anche nel diritto internazionale. Questa, infatti, è una materia che non può essere trattata separatamente: diritto costituzionale e diritto internazionale debbono andare di pari passo. In secondo luogo, mi fa piacere perché questo è veramente un bel volume, per cui mi congratulo con l’autore.

Mi soffermerò sugli aspetti internazionalistici e più

precisamente sui capitoli secondo e terzo dell’opera che trattano di problemi di Diritto Internazionale, in particolare del concetto di guerra, di uso della forza e di conflitti armati. Oggi in realtà, specialmente tra gli internazionalisti, c’è una certa preferenza per la dizione “uso della forza” o “conflitto armato”, invece di quella di guerra. Questo per vari motivi: in primo luogo, perché la guerra può essere un concetto limitativo, mentre “uso della forza” è un concetto omnicomprensivo di qualsiasi impiego della violenza armata; in secondo luogo, perché il Diritto Umanitario preferisce far riferimento, come condizione della sua applicabilità, alla nozione di “conflitto armato” (o comunque si hanno ambedue le dizioni: guerra e conflitto armato).

La guerra (o il conflitto armato) non è più volta, come poteva

essere un tempo, al completo annientamento dell’avversario, alla “debellatio” totale, alla distruzione delle sue forze armate. Vi possono essere dei conflitti molto più limitati, che però riescono a perseguire quello che è l’interesse nazionale di uno Stato o di una coalizione. Pensiamo, ad esempio, al bombardamento del reattore nucleare Osirak (Iraq) da parte di Israele nel 1981: quello che si proponevano gli israeliani non era l’invasione dell’Iraq, ma solo prevenire la possibilità che esso si dotasse di un armamento atomico. Oppure pensiamo a coalizioni militari che intervengono solo ed esclusivamente dal cielo e riescono a conseguire lo scopo che si propongono: l’esempio a noi vicino è quello del Kosovo, in cui la NATO è riuscita a raggiungere l’obiettivo di impedire la pulizia etnica da parte della Repubblica Federale Jugoslavia, provocando la caduta del regime di Milosevic.

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Il territorio dimenticato

Pace e sicurezza internazionale

Un’altra parte del volume affronta le cause della guerra, una

problematica molto interessante, attualmente in genere dimenticata dagli studiosi, e che invece un tempo era oggetto di frequente indagine. Tra le cause della guerra, de Vergottini giustamente prende in considerazione anche la volontà di acquisire il territorio. Oggi, con le nozioni di globalizzazione, web, internet e cose del genere, ci si dimentica di un aspetto fondamentale delle relazioni internazionali, quello del territorio. In effetti, il territorio ha una sua importanza fondamentale nella vita di relazione internazionale e ciò può essere dimostrato sia dalle guerre di conquista illecite, come ad esempio l’invasione del Kuwait da parte dell’Irak, sia dai fenomeni di autodeterminazione dei popoli, che vengono esercitati in forma lecita, e possono condurre alla nascita di nuovi Stati.

Quindi lo Stato è sempre ben presente nelle relazioni

internazionali, e questo non va mai dimenticato, e infatti de Vergottini lo sottolinea chiaramente. L’assetto costituzionale e istituzionale interno può essere causa di un conflitto? Si dice che agli Stati a regime dittatoriale piace più “volentieri” partecipare a conflitti armati o iniziare le guerre. Anche questo è qualcosa che va sfatato, smitizzato. Come dimostra l’esperienza, basta far riferimento all’America Latina, un continente dove si hanno spesso dei conflitti armati interni, ma non si hanno conflitti armati internazionali, tranne l’episodio, anomalo per la sua natura, degli anni ’80 relativo alle Falkland-Malvinas.

Un altro punto da prendere in considerazione, proprio sotto il

profilo dei rapporti internazionali, è l’interesse nazionale. Gli Stati ovviamente filtrano il diritto internazionale attraverso l’interesse nazionale, che può essere perseguito con mezzi sia pacifici sia violenti. In proposito ho fatto già riferimento all’episodio di Osirak e alla distruzione di quel reattore nucleare da parte di Israele.

Esiste un Diritto alla Pace? Anche in questo caso si tratta di

nozioni che vanno un po’ smitizzate. Ovviamente la Carta delle Nazioni Unite si interessa della pace e del suo mantenimento. Ma la Carta, accanto al mantenimento della pace, si occupa anche del mantenimento della sicurezza internazionale. Per poter mantenere la sicurezza internazionale occorre talvolta procedere attraverso mezzi bellici, quindi non soltanto con operazioni di peace-keeping, ma anche con operazioni di peace-enforcing. La dicotomia è quindi fra divieto dell’uso della forza, prescritto dall’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite, ormai divenuto una norma consuetudinaria, e liceità del ricorso alla forza armata. Le speculazioni dottrinali, ma anche quelle politiche, si concentrano spesso e volentieri sui problemi relativi alla liceità di ricorso alla forza armata.

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Ius ad bellum e Carta delle NU

Il Consiglio di Sicurezza delle NU:

fra paralisi e attivismo

Quale interpretazione oggi

del concetto di “legittima difesa”?

L’opinione tradizionale è quella secondo cui la Carta delle Nazioni Unite abbia sospeso o addirittura estinto lo ius ad bellum. La liceità del ricorso della forza armata da parte degli Stati si fonda, da una parte, su un’autorizzazione data dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (secondo un’interpretazione ormai generalmente accolta) e, dall’altra, sul concetto di legittima difesa, quale definita dall’art. 51 della Carta stessa. Esiste teoricamente la possibilità che il ricorso alla forza sia intrapreso direttamente dal Consiglio di Sicurezza, ma, come loro tutti sanno, poiché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha a disposizione dei contingenti militari, esso autorizza gli Stati ad intervenire in sua vece. Come ha detto un autore, dà una specie di lettere-patenti, così come il sovrano dava lettere-patenti ai corsari per poter organizzare la guerra contro il commercio marittimo nemico.

Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato l’uso della forza ed è

riuscito a mantenere l’ordine nella comunità internazionale, in particolare durante il decennio che va tra la caduta del Muro di Berlino e l’intervento in Kosovo. In questo periodo c’è stata una unanimità tra i membri permanenti. Prima, durante la Guerra Fredda, avevano luogo conflitti che si svolgevano completamente al di fuori delle Nazioni Unite: pensiamo, ad esempio, alla guerra del Vietnam. Sarebbe stato inconcepibile portarla nell’alveo del Consiglio di Sicurezza, perché vi sarebbe stato il veto dell’uno o dell’altro membro permanente.

Oggi il Consiglio di Sicurezza è tornato a essere paralizzato e

lo abbiamo visto tanto per l’intervento in Kosovo, quanto per quello in Iraq. Di qui l’importanza e l’esigenza di giustificare il ricorso alla forza armata, quando se ne presenti la necessità, come eccezione al divieto stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite e in particolare l’esigenza di giustificare il ricorso alla forza armata in termini di legittima difesa. Si tratta infatti di una causa di giustificazione il cui esercizio non ha bisogno di essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.

A questo punto iniziano i problemi e le varie interpretazioni.

Vi è una interpretazione restrittiva, secondo cui la legittima difesa può essere esercitata solo quando lo Stato abbia subito un attacco armato, ad esempio, quando i missili abbiano colpito il suo territorio. Questa potrebbe essere una interpretazione assurda. Una interpretazione completamente diversa è quella secondo cui la legittima difesa può essere “preventiva”, esercitatile prima che si sia verificato l’attacco armato. Ma vi sono due modi d’intendere la nozione di legittima difesa preventiva e per spiegarlo dovrò fare ricorso a una terminologia anglosassone, in quanto la terminologia italiana non rende compiutamente conto dei due concetti.

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Anticipatory Self Defence

o Pre-emptive

Self Defence?

Nuove minacce: oltre l’attacco

armato

Legittima difesa: da Stato e/o

da entità non statale?

La legittima difesa preventiva può essere esercitata nell’imminenza di un attacco armato, quella che con terminologia anglosassone si chiama anticipatory self-defence: il nemico sta per attaccarmi, io non attendo, non aspetto che i missili colpiscano il mio territorio, quindi attacco il nemico quando questi ha in corso preparativi imminenti per l’attacco. Oppure, può essere addirittura una legittima difesa esercitabile prima che inizino i preparativi per l’attacco, quando esso non sia ancora imminente: questa è la pre-emptive self-defence. Su quest’ultima nozione si basa la dottrina Bush, inesattamente chiamata “guerra preventiva”, ma in realtà ancorata alla nuova nozione di legittima difesa. Ciò è ben spiegato nel documento relativo alla National Security Strategy degli Stati Uniti. Oggi, secondo il Presidente degli Stati Uniti, è necessario un nuovo concetto di imminenza, perché ci sono delle bande terroristiche che possono colpire il territorio nazionale o perché ci sono degli “Stati canaglia” in possesso delle armi di distruzione di massa, che non stanno per attaccare in quel determinato momento, ma potrebbero farlo in seguito. E’ quindi necessario far fronte a queste nuove minacce, che vanno ben al di là della tradizionale nozione di “attacco armato”, così come configurato dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Nel ricorrere alla forza armata, si esercita il diritto di legittima difesa, da qualificare come pre-emptive self-defence, piuttosto che anticipatory self-defence, perché non c’è l’imminenza dell’attacco. Intesa nel suo significato tradizionale, imminenza dell’attacco significa che qualcuno ha acceso i motori del missile e quindi sta per colpirmi; mentre secondo il documento della National Security Strategy si ha diritto di ricorrere alla legittima difesa, poiché qualcuno è in possesso di armi di distruzione di massa che è pronto ad usarle ed un domani mi potrebbero colpire.

L’altro problema nuovo è legato alle organizzazioni

terroristiche. In questo caso si tratta di determinare se si ha diritto di reagire in legittima difesa solo quando l’attacco provenga da uno Stato oppure se la reazione sia legittima anche quando l’attacco provenga da un’entità non statale. Le organizzazioni terroristiche non stanno nella luna, ma operano da e in un territorio. Allora la vittima dell’attacco terroristico ha il diritto di colpire quel territorio, perché è la loro base di operazione (l’Afghanistan è un caso esemplare). L’art. 51 della Carta non dice che l’attacco debba provenire da uno Stato, affinché la vittima possa esercitare il diritto di legittima difesa. Questa nozione più ampia di legittima difesa è stata convalidata da un paio di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – 1368 e 1373 - che furono votate nel 2001 subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Almeno nel preambolo si afferma che si può invocare il diritto di legittima difesa. A parte poi alcune Organizzazioni Internazionali come l’Unione Europea, l’OSCE e la NATO, che hanno affermato la legittimità del ricorso alla forza armata in questi casi.

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CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ……. SUPPL. N° 1 GENNAIO 2005

Guerra legale/ guerra giusta

Un diritto speciale per la potenza

egemone?

È un concetto che però non si è ancora consolidato. Prova ne

sia il recente parere della Corte Internazionale di Giustizia sul muro voluto da Israele in Palestina (2004). La Corte dà un concetto molto restrittivo di legittima difesa, da alcuni giustamente criticato. Ad esempio il giudice R. Higgins ha criticato il parere perché parla esclusivamente di attacco armato proveniente da uno Stato, mentre è ovvio che la legittima difesa, essendo un diritto naturale, così come è specificato nella Carta delle Nazioni Unite, può essere esercitata contro qualsiasi parte da cui l’attacco armato provenga.

Un altro tema evocato e trattato ampiamente nel volume di

De Vergottini ha per oggetto il problema dell’insufficienza del concetto di guerra “legale”. Quando è che si “può” intervenire con la guerra o comunque ricorrendo alla forza armata: solo nei casi stabiliti dalla Carta delle Nazioni Unite oppure vi sono altre ipotesi? Dopo la guerra in Iraq si è cominciato a parlare da parte di alcuni giuristi, anche di quelli provenienti dalle fila del diritto internazionale, del concetto di “guerra giusta”. Di una guerra cioè che non può essere giustificata strettamente con la lettera della Carta, ma viene effettuata per una causa giusta ed è giustificata facendo riferimento al diritto naturale, secondo una rilettura degli internazionalisti, specialmente spagnoli, del XVI-XVII secolo.

Un altro tema ha invece per oggetto la protezione dei diritti

umani: gli Stati possono intervenire a protezione dei diritti umani gravemente violati, come il genocidio perpetrato contro una minoranza etnica, senza che sia necessaria un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?. Caso esemplare a questo riguardo è il Kosovo: il Consiglio di Sicurezza stabilì che c’era stata una minaccia alla pace, ma non fu in grado di adottare una successiva risoluzione autorizzativa.

Il dibattito su nuove cause giustificative di ricorso alla forza

si sta ampliando, al punto che alcuni hanno addirittura parlato, in termini critici, di un diritto egemonico, un diritto speciale di cui sarebbero titolari gli Stati Uniti, come potenza egemone. Ma questo cosa significa? Significa che per tutti gli altri membri della comunità internazionale vale la Carta delle Nazioni Unite, mentre per gli Stati Uniti la Carta delle Nazioni Unite non avrebbe un eguale valore? A mio parere, qualora ci s’incammini sulla strada accidentata di un diritto egemonico, si finisce per mettere in discussione un principio cardine del diritto internazionale, che è il principio di eguaglianza. La concezione di una comunità internazionale ordinata secondo un diritto egemonico è stata criticata da Detter F. Vagts in un editorial comment nell’American Journal of International Law (2001).

Per quanto mi riguarda, preferisco una visione tradizionale

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L’intervento umanitario

L’intervento in Iraq e il Consiglio di

Sicurezza

del diritto internazionale, senza trascurare l’evoluzione della prassi e i nuovi valori emergenti nella comunità internazionale. Il primo punto riguarda l’intervento “umanitario”: è lecito se è autorizzato dalle Nazioni Unite. Per quanto riguarda il Kosovo non c’è stata un’autorizzazione, quindi l’intervento sarebbe stato in linea di principio “illecito”. Ma c’è stata una sanatoria ex post: così come l’autorizzazione può essere data prima, essa può essere data dopo. Purché non si tratti di aggressione, ci può essere sempre una sanatoria successiva. In proposito faccio riferimento alla risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha sanato l’eventuale illiceità dell’intervento, e all’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui gli obblighi stabiliti dalla Carta prevalgono su qualsiasi altra norma di diritto internazionale. Il problema è vedere se esista o meno una consuetudine internazionale che autorizzi l’intervento d’umanità. Dubito che esista attualmente una siffatta consuetudine, perché vi sono molti Stati della comunità internazionale che sono o sono stati nettamente contrari alla teoria della liceità degli interventi umanitari. La migliore razionalizzazione, a favore della dottrina della legalità dell’intervento d’umanità, è stata fatta dal Regno Unito durante il conflitto armato del Kosovo. Ma è una posizione che appartiene solo ad alcuni membri della comunità internazionale, alla Comunità occidentale un po’ allargata. Solo pochi Paesi del Terzo Mondo si sono espressi a favore di questo tipo di intervento, ma altri sono nettamente contrari. Il gruppo dei 77 (che poi 77 non sono, ma sono molti di più) si è espresso in maniera contraria. Senza contare la posizione negativa espressa dalla Corte internazionale di giustizia nel caso Nicaragua-Stati Uniti (1986). Quindi l’intervento “umanitario” è giustificabile nella misura in cui sia autorizzato dalle Nazioni Unite e questa autorizzazione può essere preventiva oppure avvenire in “corso d’opera” o addirittura ex post.

Un’interpretazione tradizionale della Carta delle Nazioni

Unite e del diritto internazionale generale è prospettabile anche per quanto riguarda l’intervento in Iraq. Se si leggono le dichiarazioni dell’Attorney General del Regno Unito e di alcuni funzionari del Dipartimento di Stato, vediamo che la giustificazione per quanto riguarda l’intervento armato non sta nel fatto che si doveva distruggere un regime dittatoriale, ma risiede nel combinato disposto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 678 (1990), 687 (1991) e 1441 (2002). La risoluzione 678, che fu votata nel 1990 prima della Guerra del Golfo, autorizzava gli Stati a intervenire per ristabilire la pace e la sicurezza nella regione. Non era solo determinata dal diritto di legittima difesa collettiva a favore del Kuwait; infatti un intervento per ristabilire la pace e la sicurezza è qualcosa di più ampio dell’intervento in legittima difesa collettiva. E, come ha affermato l’Attorney General del Regno Unito, la risoluzione 687 non ha estinto, ma ha ribadito la precedente

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CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ……. SUPPL. N° 1 GENNAIO 2005

Il Rapporto del Panel di saggi del

Segretario Generale delle NU

Un consenso sulla “anticipatory self-

defence”?

risoluzione, lasciando intatto il potere degli Stati di intervenire, qualora l’Iraq di Saddam Hussein avesse contravvenuto agli obblighi imposti dalla risoluzione 678. La risoluzione 1441 ha stabilito che l’Iraq non aveva adempiuto ai doveri imposti dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, inclusa la risoluzione 687, e si trovava in una situazione di “violazione sostanziale” degli obblighi che avrebbe dovuto onorare. Quindi gli Stati riprendevano la libertà di azione nei confronti dell’Iraq. Per cui, anche in questo caso, si conferma quella che è l’interpretazione tradizionale, nel senso che la “guerra” in Iraq è stata autorizzata dalle Nazioni Unite. Si può concordare o essere contrari a questa opinione, ma è la giustificazione data da Regno Unito e Stati Uniti.

Se andiamo a leggere i documenti recenti relativi all’uso della

forza e al sistema di sicurezza collettiva, vediamo che essi confermano l’opinione tradizionale circa l’impiego della forza armata. Faccio riferimento al recente Rapporto del Panel di saggi che è stato istituito dal Segretario Generale per suggerire eventuali riforme alla Carta delle Nazioni Unite (Report of the High-level Panel on Threats, Challenges and Change, 1° dicembre 2004). L’attenzione per il Rapporto è confermata dall’intervento del Ministro degli Affari Esteri e da autorevoli rappresentanti dell’opposizione. L’attenzione è in particolare concentrata sulla composizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ovviamente è un argomento “molto caldo” che interessa da vicino l’Italia, ma il Rapporto del panel di saggi è molto ampio, consiste in un centinaio di pagine, e prende in considerazione altri punti.

Uno di questi riguarda la legittima difesa e l’uso della forza

nelle relazioni internazionali. Che cosa dice il Rapporto? Dice che l’art.51, relativo alla legittima difesa, non va né riscritto né re-interpretato; quindi, sotto questo profilo, la Carta sta bene così com’è e non c’è da fare nessuna modifica. Anche perché è da premettere che una modifica all’art. 51 della Carta non passerebbe mai e sarebbe irrealistica. Tuttavia, se si legge bene il Rapporto, si intravede tra le righe che una “re-interpretazione” viene data. Il Rapporto è a favore dell’interpretazione secondo cui è ammissibile la legittima difesa preventiva, nel senso di anticipatory self-defence, cioè la legittima difesa esercitabile non solo quando l’attacco armato abbia avuto luogo, ma anche quando esso sia imminente. Io credo che ormai su questa interpretazione della legittima difesa comincia a coagularsi un consenso.

Altro tema esaminato nel Rapporto è quello relativo

all’intervento umanitario e al dovere di protezione di comunità e minoranze che sono minacciate dal governo al potere. In questo caso si stabiliscono determinati criteri, alla cui esistenza o al cui rispetto è condizionata la liceità dell’intervento. Ma anche su questo punto, il

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CEMISS GUERRA E COSTITUZIONE ……. SUPPL. N° 1 GENNAIO 2005

La cogenza dell’art. 2 par. 4 della Carta e le eccezioni dell’art. 51 e delle decisioni

del Consiglio di Sicurezza

Il raccordo diritto interno/diritto internazionale

Rapporto dei saggi stabilisce che l’intervento fa capo alle Nazioni Unite: quindi o sono le Nazioni Unite che intraprendono direttamente un’azione armata oppure dovrebbero essere le Nazioni Unite che autorizzano gli Stati ad intervenire. In altri termini, non sono gli Stati singolarmente considerati che sono legittimati ad intervenire senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite.

Vi sono altre interpretazioni - qualcuna avanzata anche dai

miei colleghi italiani, ma non nel Rapporto del Panel dei saggi - secondo cui si potrebbe comunque intervenire a favore di interessi essenziali della comunità internazionale. Però in questo caso è lo Stato a essere giudice nello stabilire che cosa sia “interesse essenziale della comunità internazionale” e quindi loro ben capiscono come una interpretazione del genere possa essere usata per violare il diritto internazionale.

Concludendo, non ho che da ribadire l’interpretazione

tradizionale delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite relative all’uso della forza nelle relazioni internazionali da parte degli Stati, individualmente considerati o riuniti in una coalizione militare. Da una parte, esiste un divieto assoluto, stabilito dall’art. 2, par. 4, della Carta, la cui cogenza non può essere messa in dubbio; dall’altra, esistono le due eccezioni, rispettivamente stabilite dall’art. 51 della Carta e dall’uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. E’ nell’ambito della legittima difesa (individuale e collettiva) e dell’uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, che devono eventualmente essere individuati nuovi criteri per l’uso legittimo della forza. In altri termini, la proibizione generale stabilita dall’art. 2, par. 4, della Carta deve essere mantenuta ferma, e le norme permissive devono essere costruite come eccezioni riconducibili alle due scriminanti, affidandone la definizione all’interpretazione, alla prassi evolutiva e anche allo sviluppo del diritto internazionale consuetudinario.

Se si segue il filone di pensiero ora considerato, c’è spazio

per una interpretazione ed evoluzione per i rapporti internazionali, senza stravolgere il sistema delle Nazioni Unite. Il caso Iraq è una palese dimostrazione di una certa interpretazione, per cui l’uso della forza era stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti. Dall’altra parte il caso Kosovo dimostra che una interpretazione del genere tiene, nel senso che quella volta l’uso della forza non fu autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in via preventiva, ma fu autorizzato ex post e quindi sanava l’eventuale illiceità dell’intervento.

Ovviamente tutto questo ha un riflesso fondamentale per

quanto riguarda gli aspetti costituzionali e di diritto interno, perché la nostra Costituzione non solo contiene una disposizione quale è

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quella dell’art.11 sul ripudio della guerra, ma contiene anche una disposizione quale quella dell’art.10, in virtù del quale l’ordinamento italiano si adatta alle norme di diritto internazionale generale. Con la conseguenza che tutto ciò che è permesso dal diritto internazionale lo sarà anche nel nostro ordinamento e tutto ciò che è vietato dal diritto internazionale sarà vietato anche dal nostro diritto interno.

Ma questi problemi, che si trovano sullo spartiacque tra

diritto internazionale e diritto interno, saranno illustrati dagli altri colleghi del panel. Concludo ringraziando ancora una volta l’amico de Vergottini perché veramente ci ha dato un bel volume e un efficace strumento di lavoro. Grazie.

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Un libro nel filone degli studi realistici

Lo sviluppo dei concetti della 1^ e

della 2^ parte dell’art. 11 nel quadro storico-

politico nazionale

L’ANGOLAZIONE STORICO-POLITICA Prof. Gaetano Quagliariello Consigliere per gli Affari culturali del Presidente del Senato

Anch’io sento il bisogno di iniziare facendo dei sinceri complimenti al prof. De Vergottini per questo contributo che ha donato agli studi del nostro Paese.

Il libro ha tanti pregi, ma io vorrei sottolinearne uno in

particolare - uno che, probabilmente, è più facilmente individuato dallo sguardo di uno storico - e cioè che si tratta di un libro non ipocrita che, anche per questa sua caratteristica, si inserisce in quel filone di studi realistici che è stato uno dei grandi contributi che il nostro Paese ha dato in generale alla conoscenza. Il saggio, inoltre, ha anche un altro pregio: pur addentrandosi in territori distanti e diversi, non perde mai di vista lo sviluppo storico del concetto di guerra, nonché il rapporto tra guerra e conflittualità politica interna, così come esso si è sviluppato dall’indomani della seconda guerra mondiale, fino alle più recenti modificazioni del concetto stesso di globalizzazione.

Uno dei punti cardinali dell’opera di de Vergottini è la

differente lettura dell'articolo 11 della Costituzione rispetto a quella della vulgata, per così dire, pacifista. Permettetemi di dirlo in maniera semplificata, come può dirlo uno storico: de Vergottini ritiene che il ripudio della guerra contenuto nella prima parte dell’articolo della Costituzione non sia la proclamazione di uno stato di neutralità permanente, ma vada interpretato alla luce di ciò che emerge dalla seconda parte dell’articolo, e cioè della precipua volontà del costituente di immettere l'Italia nel circuito della politica attiva internazionale, lasciando così alla politica interna uno spazio per determinare di volta in volta l’interesse contingente del nostro Paese. Egli pone, in tal modo, le premesse per un'interpretazione non dogmatica dell'art.11, che sappia però tener conto del contesto storico e, più in particolare, delle condizioni dinamiche dell'equilibrio internazionale.

Questa intuizione di de Vergottini è innanzitutto confermata

dall’analisi dei dibattiti costituenti. Essa è poi ancor più rafforzata dall'analisi di come si sia storicamente evoluta la relazione tra il concetto di guerra esterna e quello di conflitto politico interno. De Vergottini ricorda, in apertura del suo volume, in che modo questa relazione iniziò ad esplicarsi nel secondo dopoguerra. Allora la comunità internazionale non si trovava in una situazione né semplice né scontata. Si era in presenza di una svolta storica. La categoria di antifascismo entrava nell'ordinario svolgimento delle relazioni internazionali, così com'essa era stata revisionata dalla riflessione del presidente americano Roosvelt nel corso del conflitto. Si tende a

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La 2^ guerra mondiale:

una conclusione in nome di qualcosa di diverso da quello con

cui era iniziata

Legittimità internazionale:

ripudiare la guerra e, nel contempo, restare

nel circuito della politica

internazionale

dimenticarlo, ma la seconda guerra mondiale non fu una guerra che si aprì e si chiuse in nome dell’antifascismo. Sorse su un altro terreno e con altre alleanze, tra le quali vi era anche quella tra la Germania hitleriana e la comunista Unione Sovietica che si concretizzò nell’agosto del 1939 col Patto Molotov-Ribbentrop, che dopo circa un mese si trasformò in patto di amicizia. Tale esito fu determinato, tra l'altro, dal prevalere, nell'ambito del regime sovietico, di una delle due linee di politica estera che si erano confrontate sin dall'indomani dei trattati di Versailles: quella che privilegiava l'interesse nazionale di potenza rispetto a quella che insisteva sull' ideologia. Si potrebbe rivisitare lo svolgimento delle relazioni tra Germania e Urss tra le due guerre a partire da questi due principi (quello ideologico e quello di potenza), dal loro scontrarsi e dal loro combinarsi. Tale rivisitazione aiuterebbe a comprendere come l'antifascismo del tempo di guerra, in realtà, fu un obbligo, dettato all’Unione Sovietica e a Stalin dall'invasione hitleriana del 1941. E, sulla base di quest'acquisizione, sarebbe più facile intendere come ciò che vi fu di nuovo e di non strumentale nell'evoluzione storica dell'antifascismo fu una inedita vocazione universalista, che avrebbe dovuto riverberarsi nell’organizzazione dell’equilibrio e del diritto internazionali. L’ideazione stessa di una rinnovata organizzazione sopranazionale che potesse governare i conflitti nasce, evidentemente, da questa radice. E da questa stessa radice nasce anche l’idea di una possibile "globalizzazione" dei rapporti di scambio, nell'ambito di un ordine internazionale controllato da quattro potenze "maggiori" (i quattro poliziotti di roosveltiana memoria) ognuna delle quali con il compito di vegliare su di una parte di mondo. All’interno di questa medesima concezione "revisionata" dell'antifascismo si pone anche il principio della resa incondizionata, applicato per la prima volta agli sconfitti e, in particolare, alla Germania e all’Italia.

De Vergottini, giustamente, non perde di vista questa

situazione: nel 1945 noi non eravamo solo un Paese sconfitto. Eravamo un Paese che si era dovuto arrendere senza alcuna condizione. In questo senso avevamo l'enorme problema di riguadagnare una legittimità internazionale che non avevamo più. Senza considerare questa circostanza, la lettura degli atti costituenti resta in superficie e non affronta la sostanza vera della questione. L'esigenza di riguadagnare la legittimità internazionale perduta spingeva da un lato a dover dichiarare il ripudio assoluto della guerra, e dall’altro a prospettare tale ripudio come uno strumento atto a facilitare il reinserimento del nostro Paese nel circuito della politica internazionale. Da qui nacque l'articolo 11 nella sua attuale formulazione. Quella disposizione non fu, d'altro canto, l’unica iniziativa che l'Italia assunse per raggiungere questo obiettivo. E non è certo un caso che, su questo terreno, esistano alcuni parallelismi tra Italia e Germania, che giustamente de Vergottini pone in evidenza.

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Collegamento fra guerra fredda e politica interna

La pace: un diritto naturale acquisito?

E’ possibile rintracciarli non soltanto nel campo della politica internazionale, ma anche in quello della politica tout court. Non c’è dubbio, ad esempio, che la propensione fortemente europeistica dell’Italia e della Germania a fronte delle remore di Gran Bretagna e Francia, debba essere letta e interpretata alla luce di questa comune esigenza di rilegittimazione che nasceva dall’avere subito la resa incondizionata.

L'influenza dell'antifascismo roosveltiano nell'ambito della

politica internazionale, quanto meno nelle sue forme originarie, durò lo spazio di un mattino: dal dicembre del 1941 fino ai prodromi della Guerra Fredda, che evidenziano come il campo comunista avesse interpretato in modo solo strumentale quella fase, non essendo in grado di superare nemmeno parzialmente i suoi vincoli ideologici e una concezione del ruolo internazionale che si rifà unicamente ai principi classici della politica di potenza. A partire dal 1947 - e forse anche prima, già nel 1946 quando si comprende che l’universalismo roosveltiano non è accolto dall’altra parte - tra guerra fredda e conflitto politico interno si stabilisce un legame fortissimo. Gli schieramenti interni si disegnano sugli schieramenti internazionali determinati dallo scoppio della guerra fredda. Il ’48 in Italia è un esempio di questa dinamica: i timori propri del conflitto esterno entrano e condizionano la politica interna, in quanto la paura fondamentale è che la guerra fredda possa trasformarsi in guerra calda, sfociando in un nuovo conflitto armato. Su questa dinamica abbiamo pagine di memorialistica che raccontano, ad esempio, il terrore sociale suscitato dall'inizio della guerra di Corea con l’assalto, anche da parte degli italiani, ai supermarket, al fine di creare delle scorte alimentari che consentissero di superare eventuali periodi di guerra e di carestia.

Ma sarebbe un grave errore considerare la guerra fredda

come un tempo unico e, di conseguenza, sarebbe sbagliato ritenere che il rapporto tra conflitto esterno e conflitto interno si sia fissato una volta per tutte nel corso del 1947. Con la fine della guerra di Corea, infatti, quel rapporto si modifica. Si assiste al timido inizio di una prima distensione che in seguito, con il trascorrere del tempo, verso la fine degli anni Cinquanta, avrebbe amplificato i suoi effetti psicologici per l'intervento della cosiddetta deterrenza, cioè per la considerazione degli effetti di lungo periodo che il possesso dell’arma nucleare da parte delle due superpotenze avrebbe provocato. Si crea così un diaframma tra guerra esterna e conflitto politico interno: la guerra fredda non smette di influenzare il conflitto politico interno, ma la paura che quel conflitto possa invadere e divenire un elemento condizionante la quotidianità man mano si placa. Diventa sempre più una paura distante, al punto che si assiste a una “trasformazione” dello stesso concetto di pace: essa non è più percepita come una conquista precaria da rinnovare ogni

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Con la fine della guerra fredda cade il

diaframma fra conflitto esterno e

politica interna

11 settembre: si evolve il concetto di guerra e torna

quello della sovranità dello Stato

giorno, ma con il tempo ed il trascorrere delle generazioni si trasforma in una sorta di diritto naturale acquisito per nascita, assieme alla cittadinanza. Per questo, quanti agiscono sul terreno esterno (militari, diplomatici, ecc.) è come se ricevessero il mandato a mantenere in uno stato di tranquillità l’ambito politico interno e consentire uno svolgimento del conflitto politico il più possibile “protetto”. Io credo che questa sia una delle ragioni storiche che hanno anche causato, in particolare nel corso della seconda parte della guerra fredda, un certo distacco tra esercito e comunità nazionale. E' come se quest'ultima delegasse la sua tranquillità a un'organizzazione che agiva su una frontiera "altra", e della quale voleva conoscere il meno possibile.

Queste sono circostanze che, se ci si pensa bene, hanno

fortemente condizionato anche il riflesso sociale che si è prodotto al cospetto di un'altra svolta epocale, sulla quale de Vergottini si sofferma nell'ultima parte della sua trattazione. Ci si è messo più di 10 anni a capirlo, ma già nel 1989 vengono meno le ragioni strutturali che hanno sostenuto l'esistenza del diaframma tra politica interna e conflitto esterno. Ancor prima di Huntington, già nel 1990, studiosi italiani avevano previsto che la fine dell’equilibrio dei blocchi avrebbe riattivato conflittualità di tipo religioso le quali, per le loro caratteristiche strutturali, non avrebbero potute essere tenute in disparte rispetto allo svolgimento del conflitto politico interno. Un piccolo libro da poco uscito di Luciano Pellicani, intitolato “Le radici della Jihad”, contiene un saggio del 1990 in cui lo stesso Pellicani non solo prevedeva l’inevitabilità di uno scontro di civiltà con il radicalismo islamico ma, grazie all’applicazione delle categorie di Toynbee, ipotizzava anche che tale conflitto avrebbe modificato completamente il volto della politica interna dei paesi occidentali. Ciò perché sarebbero state utilizzate tecniche di guerra proprie del terrorismo internazionale, ed anche e soprattutto perché sarebbero sorti paure e timori per la presenza interna di comunità islamiche e di flussi demografici sempre più sfavorevoli per le nazioni occidentali.

Tutto ciò diviene più chiaro dopo l’11 settembre. Si pongono

allora con forza le ragioni per una riflessione esplicita sull’evoluzione del concetto di guerra e su come essa abbia interagito con l’evoluzione della cosiddetta "globalizzazione", categoria con la quale ci si era riempiti la bocca per giustificare l'ottimismo di un decennio, senza scorgere come il fenomeno, oltre che portatore di enormi opportunità, fosse anche foriero di nuovi pericoli e di problemi inediti per la sicurezza collettiva e delle nazioni.

Questa rinnovata riflessione, tra l'altro, ha riportato in voga i

diritti della sovranità statuale, che con troppa superficialità erano

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La riabilitazione della guerra giusta

Il rapporto fra sovranità di uno

Stato forte e quella di Stati meno forti

stati considerati superati dallo sviluppo storico e dalla fine delle forme tradizionali dello Stato-nazione. In ciò che è accaduto nel mondo dopo l'11 settembre, invece, non sarebbe difficile segnalare più di un caso nel quale la difesa del territorio interno da parte dello Stato è stata ritenuta prioritaria rispetto a qualsivoglia forma di sovranazionalità. De Vergottini, d'altro canto, prende in considerazione con grande lucidità questi sviluppi, chiamando le cose con il loro nome. Che cos’è la guerra asimmetrica? Non è soltanto la guerra che vede contrapposti da un lato un potere statuale e dall'altro una entità priva di sovranità (ma che, d’altra parte, per reggere il confronto ha bisogno d'essere rifornita di soldi e di mezzi da Stati veri e propri). Essa implica anche altro. Comporta la mancanza di confini netti tra pace e guerra, situazione che è propria dell’utilizzo terroristico di armi di distruzione, e in particolare del terrorismo suicida. Comporta anche la mancanza di un limite chiaro tra uno stato di prevenzione e uno stato di guerra. Tutto ciò può essere abbellito e nobilitato attraverso delle denominazioni fantastiche, ma nella realtà delle cose si è trattato di un cambiamento epocale d'enorme portata. Da esso è derivata, tra l'altro, la riabilitazione della cosiddetta "guerra giusta", che poi, a seconda dei casi, delle circostanze e delle sensibilità, è stata chiamata guerra umanitaria oppure, in maniera meno soft, guerra preventiva (sugli stretti rapporti che vi sono tra queste due categorie vi sarebbe, sul terreno storico, molto da dire).

Ovviamente, le ragioni e le circostanze che determinano

questa nuova realtà delle cose devono essere analizzate alla luce di una realistica considerazione dei rapporti di forza esistenti in ambito internazionale. De Vergottini, anche in questa circostanza, non può essere accusato di ipocrisia. Egli, nel suo libro, dice con chiarezza che la sovranità statuale presenta una forza di esplicazione che non è uguale per tutti gli Stati-nazione. È condizionata da ragioni storiche, geopolitiche, di potenza. E, aggiungiamo noi, in ciò che è accaduto nel mondo dopo l'11 settembre si è assistito, tra l'altro, all’esplicazione della forza sovrana di uno Stato che ha cercato di condizionare quella di Stati meno potenti. Fuor di metafora, non vi è dubbio che il diritto all’autodifesa proclamato dagli Stati Uniti dopo l'attentato delle Torri Gemelle abbia fortemente condizionato la sovranità dei propri alleati. Ma, allora, il problema va posto in termini politici e non in termini morali: s'intende o meno accettare questa influenza? La si ritiene indebita o, di contro, giustificata da comuni interessi di civiltà? Ci si deve chiedere, in altri termini, se si ritiene giusto o meno confermare nella mutata temperie quella che è stata la nostra alleanza storica dal 1945 ad oggi. È questo il quesito che si è cercato di circumnavigare nel dibattito politico, per non affrontarlo nella sua essenza. Non vi è dubbio, infatti, che in occasione del conflitto iracheno, le scelte statunitensi hanno condizionato anche i nostri comportamenti. Non saremo certo noi a

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cedere all'ipocrisia. Questa realtà di fatto poteva essere accettata o rifiutata. Ma la questione si sarebbe dovuta affrontare in quanto tale, non nascondendosi dietro interpretazioni di tipo formalistico che, in fondo, implicavano un aprioristico giudizio negativo sugli Stati Uniti e sulle liceità della nostra alleanza con loro. Evidenziando come anche una lettura costituzionale non consenta questa mistificazione, de Vergottini aiuta la classe politica del Paese a porsi a cospetto delle proprie responsabilità, senza più alibi. Per questo, credo che il libro in oggetto sia un contributo importante e segni una svolta, nel dibattito costituzionale ma anche nel più generale dibattito politico.

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Il “thema” del rapporto fra

condizione bellica e diritto costituzionale

Si colma un ritardo ……

….. perché le vicende forniscono “materia

prima”

GLI ASPETTI DI DIRITTO INTERNO Prof. Paolo Carnevale Professore straordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico Università Roma Tre

Innanzitutto, sento il dovere di ringraziare gli organizzatori per l’invito a partecipare a questo incontro-riflessione in occasione della presentazione del recentissimo volume di Giuseppe de Vergottini dal titolo Guerra e Costituzione. Esprimo il mio compiacimento per essere qui quest’oggi, innanzitutto, nella mia qualità di costituzionalista – appartenente alla stessa famiglia scientifica di cui è parte l’Autore del libro di cui si discute – che da qualche anno ha preso ad interessarsi a questo thema del rapporto fra la condizione bellica e il diritto costituzionale. Thema, del quale Giuseppe de Vergottini può senz’altro considerarsi il maggiore studioso italiano; cosa, del resto, di cui proprio questo interessantissimo volume fornisce – ove ve ne fosse stato bisogno – ulteriore, quanto indiscutibile riprova.

La mia, però, non è tanto una soddisfazione di carattere – per

dir così – corporativo, di scuderia; si tratta, piuttosto, di un sentimento che scaturisce dal convincimento che con questo importante studio la scienza italiana del diritto costituzionale colma un certo qual ritardo nella trattazione di una relazione cruciale – quella tra testo costituzionale e fenomeno bellico – finora destinataria, all’interno della riflessione costituzionalistica, di una attenzione non certo adeguata. Incentrata, anzi largamente influenzata l’analisi per lungo periodo – come lo stesso de Vergottini rammenta – dal dominio egemonico (tale, perché in assenza della realtà fenomenica destinata a circoscriverlo) del prevalente valore della pace, in tempi più recenti, al momento in cui le vicende belliche hanno fornito quella “materia prima” un tempo mancante, gli studi comparsi, quando non hanno affrontato la questione nel più generale contesto di analisi del fenomeno emergenziale, hanno avuto prevalente carattere di saggio, incentrando l’indagine su specifici profili.

A questo proposito, mi viene da rilevare come, nel principale

commentario costituzionale di epoca repubblicana – mi riferisco a quello edito dalla Zanichelli e curato da Giuseppe Branca (proseguito, poi, da Alessandro Pizzorusso) – il commento agli articoli 11 e 78 sia stato affidato a due internazionalisti, come Antonio Cassese e Andrea Giardina. Alla luce di quanto sopra osservato, sono tentato di pensare che ciò non sia stato del tutto casuale.

Ebbene, il libro di de Vergottini ha, appunto, il merito di

porre rimedio a questa lacuna, proponendo una riflessione organica e

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Riflessione organica e realismo spietato

Bilanciamento fra ripudio della guerra

e tutela dei diritti umani

La crisi irakena: case study di

ponderazione fra le due esigenze

completa sul complesso rapporto che il diritto costituzionale intrattiene con la vicenda guerra, del quale – direi – si offre innanzitutto una lettura dinamica ed evolutiva, fortemente influenzata da una prospettiva realistica, che costituisce – come è stato, del resto, già rilevato – la cifra caratteristica dell’analisi svolta.

Va, tuttavia, sottolineato che il preponderante ruolo esercitato

dal “principio di effettività” nella indagine, non si risolve in una abdicazione della funzione certificatoria e regolatoria del diritto costituzionale interno, come pure a prima lettura si sarebbe portati a (affrettatamente) concludere. Quella funzione, piuttosto, più che obliterata dal peso del “fatto” risulta, semmai, da rileggere e quodammodo rimodulare in vista del concreto atteggiarsi ed evolversi delle relazioni internazionali.

Si prenda, ad esempio, la rilettura del principio del ripudio

della guerra di cui all’art. 11 della Costituzione che viene dall’A. proposta alla luce delle esigenze solidaristiche e di apertura internazionale dell’ordinamento costituzionale che pure hanno (successivo) ingresso in quella medesima previsione. L’approccio ermeneutico prospettato si caratterizza per un’impronta fortemente evolutiva, idonea a sottrarre alla portata preclusiva di quel ripudio una serie di ipotesi di conflitto che si sono affacciate sullo scenario internazionale soprattutto in questi ultimi anni, fino ad arrivare a riacquistare alla sfera dei conflitti costituzionalmente ammissibili anche ipotesi ritenute in prevalenza ad essa estranee, come, fra le altre, quella della c.d. guerra umanitaria. La conclusione, però, non è nel senso di una resa del diritto costituzionale, giacché è ben chiaro nel pensiero dell’A. che resta «tuttavia da verificarsi in concreto ad opera degli organi costituzionali italiani la legittimità del giudizio valutativo di bilanciamento fra principio del divieto del ricorso alla forza e principio dell’obbligo di tutela dei diritti che di volta in volta gli organismi cui l’Italia partecipano effettuino» (v. pag. 65).

Invero, mi sembra che la recente vicenda della guerra

irachena fornisca una buona testimonianza della validità di quest’ultima affermazione. E’ noto, infatti, come in questo caso la asserita (sia sul piano internazionale, che interno) copertura internazionale dell’intervento armato non abbia condotto alla richiesta al Parlamento di un consenso alla diretta partecipazione italiana alla missione militare, come nelle vicende precedenti (Iraq, nel 1991; Kossovo, nel 1999; Afghanistan, nel 2001), bensì, più limitatamente, a proporre l’avallo ad una posizione di non belligeranza, implicante il solo appoggio logistico alla missione stessa.

Ora, a parte il tentativo di giustificare una simile posizione

sulla base di considerazioni di carattere pragmatico, connesse al già

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Guerra e costi in termini di diritti

ingente impegno delle forze armate italiane in molteplici operazioni internazionali di peace making/building/enforcing – essendo l’Italia, come ha detto il Presidente del Consiglio, “già seriamente impegnata con i suoi soldati su altri fronti della sicurezza e della pace, dai Balcani all'Afghanistan” – è sin troppo evidente come essa sia stata modellata sulla base delle determinazioni assunte in sede di Consiglio supremo di difesa, tempestivamente convocato dal Capo dello Stato proprio nella strettissima imminenza del dibattito parlamentare sulla guerra (la mattina dello stesso 19 marzo). Come, infatti, si evince dal relativo comunicato della Presidenza della Repubblica, la proposta governativa che è stata sottoposta al vaglio e all’approvazione parlamentare appare il frutto dell’ “ampio e approfondito dibattito” svoltosi nel corso della riunione. Elemento di novità non trascurabile – questo – che, peraltro, testimonierebbe dell’assunzione di un ruolo più incisivo dell’organo in parola rispetto a quello giocato nelle precedenti occasioni, secondando, peraltro, un indirizzo che, giusta autorevole dottrina, troverebbe significativi punti di emersione già nella più recente legislazione.

Orbene, non è certo un mistero il ruolo di influenza

esercitato, in proposito, dal Capo dello Stato e che quodammodo è certificato dalle modalità di definizione della posizione governativa in seno al Consiglio supremo di difesa. Così come, del resto, non è un mistero – per quel che qui più direttamente rileva – che questa influenza sia stata esercitata sulla base della necessità di rendere compatibile quella posizione con il dettato dell’art. 11 della Costituzione italiana.

Ne è risultato, a mio parere, proprio un caso di diverso (o,

quantomeno, autonomo) bilanciamento, in sede costituzionale, fra esigenze di solidarietà internazionale (peraltro, in tal caso, di assai dubbia consistenza) e salvaguardia del valore della pace, ambo compresi sotto la folta chioma della previsione dell’art. 11 della Costituzione. Quindi, se si vuole, un esempio di recupero di prescrittività endogena del diritto costituzionale, ancorché – a mio personale parere – non coerentemente portato alle sue ultime conseguenze. Ciò posto, vorrei soffermarmi – fra i molti possibili – su di un punto della trattazione che ha particolarmente attirato la mia attenzione: quello che affronta la questione – divenuta oggi di drammatica attualità – del nesso fra emergenza bellica e salvaguardia dei diritti costituzionalmente tutelati.

Prima di procedere oltre sono costretto a premettere le mie

scuse a Giuseppe de Vergottini per il fatto che, avendo già discusso assieme di queste cose in un convegno sabato scorso e non avendo avuto io – anche volendo – il tempo per cambiare idea, sarà costretto

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Strumenti ordinari e limitazioni dei diritti

Il precedente dell’emergenza

terroristica ……..

…. ma è ripetibile con l’emergenza

bellica?

a sentire cose già ascoltate. E’ di grande interesse, a riguardo, il giro d’orizzonte che nel

volume si fa in merito all’evoluzione degli ordinamenti nazionali dopo i fatti dell’11 settembre 2001. A parte l’ampiezza dello spettro di indagine e la ricchezza informativa, che denotano la mano dello studioso di diritto comparato, quel che mi sembra da evidenziare è la notazione conclusiva cui perviene de Vergottini. L’Autore, infatti, conclude, registrando una generale tendenza al restringimento degli spazi di tutela e garanzia dei diritti costituzionalmente tutelati, aggiungendo la importante notazione che a ciò – quantomeno negli ordinamenti di ispirazione liberal-democratica – si sia pervenuti senza il ricorso all’attivazione di specifici “stati” emergenziali variamente previsti dalle Costituzioni dei singoli paesi. Ciò al fine – prosegue l’A. – di mimetizzare le misure straordinarie sotto la coltre formale degli ordinari mezzi di normazione e di tendenzialmente obliterare la natura transitoria delle stesse, rendendo in qualche modo endemica l’emergenza.

Si tratta, in sostanza, di un diffuso ricorso a quelle tecniche cc.dd. sostitutive nella gestione degli stadi di crisi che, del resto, già era stato in passato sperimentato nel nostro ordinamento all’epoca della emergenza terroristica interna, per lo più combattuta – dal punto di vista normativo –senza valersi di strumenti eccezionali, ad hoc coniati, bensì attraverso l’utilizzo degli ordinari mezzi di normazione, nonostante la necessità di varare misure straordinarie di dubbia compatibilità costituzionale.

Ora, quell’uso venne in pratica avallato dalla giurisprudenza costituzionale – come si sa – facendo leva su di una condizione emergenziale tale da venir considerata idonea a fungere da presupposto legittimante l’intervento legislativo “ordinario” in compressione di diritti e garanzie costituzionalmente riconosciuti e, quindi, a conferire allo stesso quel surplus di legittimazione necessario a prestare vulnus al principio di legittimità costituzionale (cfr., per tutte, la sentenza n. 15 del 1982).

C’è da chiedersi, tuttavia, se e in che misura questo sarebbe possibile in ipotesi di emergenza bellica; se, in specie, sarebbe ammissibile – come all’epoca – il ricorso alla decretazione d’urgenza; e se, infine, sarebbe ancora spendibile l’argomento fondato sulla funzione legittimante dell’emergenza. Si tratta, evidentemente, di interrogativi complessi che meriterebbero, per un’adeguata risposta, ben più del tempo a mia disposizione. Tuttavia, pur nei limiti della presente esposizione, ritengo si possano, sia pur sinteticamente, indicare le ragioni che conducono ad una risposta negativa.

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Potestà decisoria e potestà certificatoria

E’, anzitutto, una considerazione di diritto costituzionale positivo ad impedire di convenire con la tesi della sostanziale fungibilità fra regime ex art. 77 e regime ex art. 78 della Costituzione. Invero, quest’ultima prescrizione non conferisce alle Camere soltanto una potestà decisoria, bensì anche e prima di tutto una funzione certificatoria che si sostanzia nell’attestare l’esistenza della circostanza dell’emergenza bellica. Ed è proprio da una simile attestazione che discende l’effetto di rendere attaccabili, per così dire, le norme costituzionali attributive di diritti, implicando, immediatamente, l’apertura dell’ordinamento verso quella particolare esperienza che scaturisce dall’instaurazione di un regime giuridico straordinario, «che verrà ad assumere tutte le connotazioni di un ordinamento giuridico speciale».

Ordunque, è l’affermarsi di quel particolarissimo stato

emergenziale, testimoniato e costituito dalla decisione parlamentare, a produrre ex se l’effetto di rendere disponibili le norme costituzionali in tema di diritti individuali che si renderà necessario in vario modo sospendere, comprimendone pro tempore l’ambito di applicazione in nome dell’esigenza della sopravvivenza ordinamentale.

Ebbene, proprio quella funzione certificatoria dello stato di

necessità bellica che quest’ultima disposizione riconosce in via esclusiva alle Camere non consente di annoverare la condizione di guerra fra quei casi di necessità ed urgenza che legittimano la potestà decretizia dell’Esecutivo: difatti, discende da questo riconoscimento – come è stato ben detto – che l’«autonomia di valutazione governativa di tali circostanze [le situazioni di necessità richiamate dall’art. 77. N.d.r.] di fatto sembra tuttavia trovare un limite specifico nella previsione dell’art. 78 Cost.; laddove la constatazione di quella particolare e qualificata forma di necessità, che è lo stato di necessità bellica, viene a porsi come circostanza legittimante un diverso ordine di conseguenze».

E allora, se per un verso l’accertamento dell’emergenza ai

fini dell’adozione di congrue misure legislative per potervi far fronte è, in via generale, promiscuamente ascrivibile sia al legislatore parlamentare che a quello governativo, nondimeno, laddove si verta nell’ipotesi qui in considerazione la promiscuità cessa ed il solo soggetto chiamato a verificare il presupposto per l’intervento restano le Camere. Altrimenti opinando, il decreto-legge e la potestà di decretazione d’urgenza, da espressione di una attività di legislazione in surroga del Parlamento si trasformerebbero, in realtà, prima ancora in una (inammissibile) sostituzione dello stesso nell’esercizio di una competenza che è in primo luogo, per dir così, di accertamento-costitutivo, piuttosto che normativa. Così che, non potrebbero che ripetersi, a tale riguardo, le critiche mosse avverso la

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Esigenza di visibilità dell’emergenza bellica, non da

“presupporre” ma da “dichiarare”

possibilità che con decreto-legge il Governo deliberi lo stato di guerra.

Del resto, ciò mi pare corrisponda ad una ben comprensibile

esigenza di visibilità dell’emergenza bellica, che non può essere semplicemente “presupposta” al fine di adottare singoli provvedimenti eccedenti il disponibile con legge ordinaria, perché in compressione di diritti costituzionalmente tutelati, ma va appunto esplicitamente dichiarata, con il senso di responsabilità connaturato ad una decisione in grado di innescare una serie di conseguenze molto gravi.

D’altra parte, va pure segnalato un altro aspetto. Se è vero

che, sia nell’emergenza in generale, che nell’emergenza bellica in particolare, la necessità di adottare misure restrittive di diritti costituzionali risulta ugualmente permeata da quelle condizioni di straordinarietà e temporaneità che sole, come a suo tempo ricordato dalla Corte costituzionale, possono giustificare il vulnus apportato alle garanzie poste dalla Costituzione, non può tuttavia trascurarsi la situazione di maggiore tutela che ritengo si determini nel caso di deliberazione camerale instaurativa dello stato di guerra. Invero, il carattere di temporaneità e transitorietà del regime di guerra sembra presentare caratteri e, quindi, ingenerare conseguenze tutt’affatto peculiari, giacché esso si lega inestricabilmente con la vicenda bellica cui accede, facendone requisito non soltanto di legittimità, ma pure ed innanzitutto condizione di (perdurante) efficacia. Così che, al cessare della vicenda di belligeranza internazionale o, comunque sia, di conflitto armato, si realizza quell’evento che può definirsi come una vera e propria condizione risolutiva dell’efficacia delle norme adottate in forza ed in ragione dell’emergenza bellica, cui le stesse risultano soggette sin dall’origine, così come dimostra, del resto, il fatto che, sia l’eventuale conferimento dei poteri necessari al Governo, sia la stessa deliberazione dello stato di guerra non avrebbero bisogno di alcun atto eguale e contrario per decadere da ogni possibile ulteriore effetto.

Nel caso, invece, di emergenza bellica apprezzata dal

Governo ai fini dell’esercizio della potestà di decretazione d’urgenza il venir meno del presupposto legittimante produrrebbe, semmai, una situazione di invalidità sopravvenuta della legge di conversione, da accertarsi nelle modalità prescritte nell’ordinamento per l’accertamento dei vizi delle leggi.

Nell’una ipotesi, quindi, una perdita di vigenza ad effetti

automatici e immediati; nell’altra, una caducazione eventuale e disposta a posteriori.

Tutto questo, peraltro, non esclude del tutto l’eventualità di

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Legittimità ex post

misure decretizie impellenti, da adottarsi con immediatezza nella circostanza di un improvviso attacco, senza che vi sia la possibilità di attendere una decisione parlamentare, le quali abbiano effetti sospensivi di talune norme costituzionali.

Bisogna, innanzitutto, precisare che, in tal caso, i decreti

governativi in questione avranno solo l’apparenza – la forma esteriore – del decreto-legge ex art. 77 Cost., risultando – potrei dire – dei simulacri di quest’ultimo, perché sostantivamente eccedenti l’ambito di operatività di un atto con forza di legge; da qualificarsi piuttosto come degli atti extra ordinem, quodammodo ingabbiati nella struttura procedimentale prescritta pei decreti-legge, a fini sostanzialmente di garanzia. Simili provvedimenti, peraltro, non risulterebbero ricondotti a legittimità, né da un’improponibile conversione in legge, quantomeno ordinaria, né dalla situazione di emergenza da cui ha tratto legittimazione (ma non legittimità) il potere che li ha espressi.

Il conferimento di legittimità non potrebbe che avvenire ex

post mediante la deliberazione parlamentare sullo stato di guerra, che, retroagendo sino al momento dello scoppio delle ostilità, fungerebbe, attraverso la fictio iuris cronologica, in presupposto di quei provvedimenti, avviando la situazione al fine – per usare le parole di Mortati – della ricostituzione dell’ordine costituzionale violato. La ragione di una simile soluzione, infatti, sta tutta nel fatto che la violazione, in questa ipotesi, si arricchirebbe dell’ulteriore aspetto del momentaneo e necessitato “esproprio” governativo della potestà parlamentare di attivare il processo di innesco delle conseguenze dello stato di emergenza bellica, onde proprio dalla riconduzione di quest’ultima potestà alle Camere sarebbe possibile ritrarre l’effetto sanante dell’illegittimità perpetrata.

Ma questo, mi pare, non ponga minimamente in crisi quanto

sopra sostenuto in tema di infungibilità fra emergenza bellica e presupposti di necessità ed urgenza ex art. 77 Cost., poiché – a ben riflettere – da un lato, si richiederebbe comunque la ricorrenza del caso di impossibilità materiale effettiva, per le Camere, di riunirsi per la deliberazione dello stato di guerra, senza la quale anche la successiva decisione ex art. 78 Cost. vedrebbe perdere ogni attitudine sanante della violazione perpetrata dal Governo; dall’altro, che, resterebbe comunque ferma l’attribuzione al Parlamento della potestà di certificare lo stato di emergenza bellica e, quindi, di porre in essere la condizione essenziale per rendere costituzionalmente ammissibile la compressione dei diritti costituzionali, tanto è vero che i predetti provvedimenti governativi adottati ex ante risulterebbero sicuramente illegittimi sin tanto che non intervenga la decisione camerale sullo stato di guerra.

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Una dichiarazione di stato emergenziale

passata quasi inosservata

Quale la via legittima per restringerte

diritti tutelati dalla costituzione?

Guerra “ubiquitaria”

Per tutte queste ragioni e salva l’eccezione da ultimo considerata, reputo che sia costituzionalmente non ammissibile l’utilizzo del decreto-legge sorretto da una situazione di emergenza bellica in compressione di diritti costituzionalmente tutelati. Tornando a porre più immediatamente attenzione all’attualità c’è, a questo punto, un ultima considerazione da svolgere. Invero, in occasione sempre del recente conflitto in Iraq una dichiarazione di “stato” da noi c’è stata, anche se al fatto non è stata data, a mio avviso, adeguata attenzione. Mi riferisco alla recente proclamazione, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 28 febbraio 2003 (G.U., serie generale, n. 74 del 29/3/2003) dello stato di emergenza, in relazione all’“attuale situazione di diffusa crisi internazionale, determinata dal conflitto bellico in atto sul territorio iracheno, che comporta profili di maggiore gravità dei rischi per la pubblica e privata incolumità”. Nella stessa data è stata inoltre approvata l’ordinanza n. 3275, concernente disposizioni urgenti di protezione civile per fronteggiare l’emergenza derivante appunto dalla delicata crisi irachena e dai possibili rischi terroristici. E’ noto che, secondo quanto previsto dalla legge n. 225 del 1995, attraverso il surriferito meccanismo è attivabile un potere di ordinanza in grado di consentire l’adozione di misure derogatorie rispetto alla legislazione vigente, con il conseguente instaurarsi di un “sottosistema” di legalità, alternativo a quello ordinario, idoneo a produrre una situazione di alterazione dell’armonia costituzionale.

Ora, al di là dei problemi specifici sollevati dalla predetta normativa (su cui s’è appuntato l’interesse dei primi commentatori), mi pare che la vicenda qui richiamata riproponga la problematica sopra evocata, ma in un contesto assolutamente inedito. Mi chiedo, infatti, cosa sarebbe successo laddove la situazione, precipitando, avesse richiesto l’adozione di misure più incisive, non più semplicemente in deroga alla legge, bensì della stessa Costituzione, se ed in quanto in compressione di diritti costituzionalmente tutelati.

Sarebbe stato possibile intervenire, ad esempio, con decreto-

legge, come pure immaginato dai primi commentatori preferibile rispetto alla stessa via del ricorso al potere straordinario di ordinanza?

Ora, per poter rispondere è necessario tener conto della

natura originale della c.d. guerra al terrorismo e, segnatamente, di quella sua qualità ubiquitaria che fa sì che il fronte di quella guerra si estenda potenzialmente ben al di là dell’orizzonte proprio delle operazioni strettamente militari, coinvolgendo anche territori, beni, soggetti, istituzioni collocate aliunde, purché quodammodo riconducibili agli interessi propri dei paesi effettivamente

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Deliberazione dello stato di guerra per

guerra altrui?

Guerra decisa e guerra subita

belligeranti. Tanto che, come è stato ben sottolineato, profili di diritto internazionale e di diritto interno risultano, in questo caso, pressoché inestricabilmente fra loro implicati.

Ebbene, ove la situazione di emergenza interna, come nel

caso in esame, sia direttamente riferita alle operazioni belliche in atto e, pertanto, sia qualificabile come vera e propria emergenza bellica, allora, per quanto sopra affermato, la mia risposta circa l’utilizzabilità di decreti-legge o di leggi in compressione di diritti costituzionalmente garantiti non può che essere negativa.

Ma allora? A me pare che la via costituzionalmente imposta sia quella

del ricorso alla deliberazione prevista dall’art. 78 della Costituzione, che schiuderebbe la strada, tuttavia, ad una eventualità assolutamente inedita e imprevista: quella dell’instaurazione dello stato di guerra in assenza di quello che ne è considerato il presupposto logico e cronologico, vale a dire il coinvolgimento del nostro paese in un conflitto, anzi persino in presenza di una guerra costituzionalmente illecita perché oggetto del ripudio ex art. 11 Cost. Insomma, una deliberazione dello stato di guerra per guerra altrui!

Senonché, a ben riflettere, l’indubbia eccentricità di un simile

esito finirebbe per essere ridimensionata da un duplice considerazione. Da un lato, infatti, va rammentato che il significato proprio della deliberazione dello stato di guerra, da parte delle camere, non è quello di una decisione sulla guerra, bensì circa la opportunità di reagire all’emergenza consentendo all’apertura dell’ordinamento allo stato di eccezione bellico. Vero è che essa suppone, in qualità di presupposto, l’evento bellico, in assenza del quale sarebbe da considerarsi costituzionalmente illegittima, tuttavia non può del tutto escludersi che quest’ultimo possa presentarsi come un “caso di guerra” – per usare la terminologia dell’art. 60 della Costituzione – obiettivamente tale, ma per il nostro paese soggettivamente estraneo.

Questo è possibile – e vengo alla seconda considerazione –

laddove si determini una sorta di asimmetria fra vicenda bellica in sé e per sé ed effetti che, in termini di pregiudizio alla sicurezza dei cittadini e delle stesse istituzioni, da questa possono scaturire, in quanto coinvolgenti anche paesi terzi rispetto a quelli belligeranti. Onde, in tal caso, la rilevata bizzarria di una deliberazione dello stato di guerra per una guerra non combattuta, non sarebbe da ascriversi ad un’eccessiva arditezza ermeneutica, ma alla natura assolutamente atipica della c.d. guerra al terrorismo.

Ecco – se si vuole – un altro indizio di quel processo di rivisitazione complessiva della concettuologia bellica, imposto dallo

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sviluppo delle vicende internazionali di questi ultimi anni, su cui tanto insiste il libro di de Vergottini: vera e propria miniera, in questo senso, di sollecitazioni e di stimoli. Almeno, per me lo è stato e spero che lo sia per chiunque intenda leggerlo. Grazie.

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Guerra: negazione del diritto

Contraddizioni inevitabili senza

approccio realistico

L’ANGOLAZIONE ISTITUZIONALE Dott. Giuseppe Severini Consigliere di Stato Consigliere giuridico del Ministro della difesa

Vorrei rallegrarmi sia con il Gen. Camporini che con il CASD e il CeMiSS per avere organizzato questo incontro. Incontro che si sta mostrando di raro interesse, a testimonianza dell’interesse del libro di cui stiamo parlando. È un libro dal quale non si potrà prescindere in futuro e anzi al quale tutti gli studiosi e i pratici non potranno che riferirsi.

Il libro affronta, nei suoi cinque capitoli, i complessi aspetti costituzionali della guerra, con attenzione all’approccio non solo giuridico, ma anche delle altre scienze umane. La guerra è infatti, da sempre, elemento di intersezione di varie visuali e quella giuridica è soltanto una delle molte. Forse una delle più difficili, insieme a quella morale, perché la guerra è, ontologicamente e concettualmente, in partenza la negazione del diritto: la guerra è disordine, mentre il diritto è ordine. Non c’è guerra che ripeta, dal punto di vista del dover essere, come dal punto di vista dei comportamenti, l’esperienza delle guerre precedenti: quindi la prevedibilità, che è elemento di una compiuta giuridicità, è in essa quanto mai assente. Quando si parla di guerra con l’approccio del giurista ci si trova allora di fronte al problema di come ordinare questo disordine.

Gli eventi degli ultimi anni, non solo quelli successivi all’11 settembre 2001, ma già quelli successivi alla caduta del Muro di Berlino, hanno imposto a tutti noi, riguardo a questi temi, di riconsiderare le categorie giuridiche cui eravamo abituati e che immaginavamo così consolidate da non essere più rimesse in discussione. Questa riconsiderazione delle categorie del pensiero per il pubblicista è imposta dal riferimento al principio di effettività, che caratterizza non soltanto il diritto internazionale, ma lo stesso diritto costituzionale. Prescindere dall’effettività e dall’approccio realistico significa entrare nel labirinto delle contraddizioni e delle incongruenze.

Riguardo a questi temi, l’approccio a matrice ideologica è però frequente. Una delle virtù del libro di de Vergottini è di prescinderne, pur evocando come centrale il principio-valore della pace che, ovviamente, è bene comune e di riferimento generale. La deriva cui conducono le letture ideologizzanti entra in contraddizione quando si deve confrontare da un lato con la tendenza alla giurisdizionalizzazione (come ha ricordato il Prof. Ronzitti c’è chi teorizza un diritto della pace che è azionabile davanti ai giudici

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L’esempio del conflitto del Kosovo:

la “guerra delle ratifiche”

Il ritorno alla parola “guerra”:

l’abbandono non già del suo ripudio ma della sua rimozione

interni), dall’altro con la via del vuoto giuridico o della non regolazione.

L’esperienza di diritto interno italiano degli anni passati mostra quanto questo scostamento sia stato reale. Mi riferisco vuoi allo statuto penale delle partecipazioni italiane a missioni internazionali, che, fino al conflitto in Kosovo compreso, per un decennio circa ha fatto rinvio espresso al Codice militare di pace, vuoi alle procedure seguite sul piano costituzionale. Il Codice militare di pace è però incongruo rispetto alla realtà delle missioni e fonte di problemi per quanto riguarda, ad esempio, l’imputazione allo stato dell’esercizio individuale della forza, per quanto riguarda la tutela dei soggetti deboli (prigionieri, popolazioni civili, feriti: insomma soggetti inermi in generale), per quanto riguarda l’esigenza di coesione delle forze armate. Per l’altro aspetto, le procedure costituzionali, il conflitto in Kosovo nel marzo 1999 fu paradigmatico di questo scostamento tra realtà e diritto immaginato. Potremmo chiamare quel conflitto, se mi consentite l’espressione, la guerra delle ratifiche: sia sul piano internazionale (come è stato ricordato: la ratifica dell’ONU), sia sul piano interno, perché l’attività operativa fu avviata senza che il Parlamento fosse stato nemmeno informato. Ratifica significa legittimazione postuma di una situazione che non nasce legittimata. Questi sono alcuni esempi dei percorsi e dei paradossi cui conduce un approccio non realistico, non illuminato dal principio di effettività. L’indisponibilità e la dispersione del c.d. “diritto alla pace” genera casi paradossali. Come riferimento di piccola storia si può citare - perché è una curiosità significativa - l’ordinanza del sindaco di Falconara Marittima che, mentre erano in atto le operazioni del conflitto in Irak, cioè un conflitto inter alios (rammentiamo che l’Italia aveva una posizione di non belligeranza, di neutralità benevola, e non era parte del conflitto), emanò un’ordinanza con cui interdiceva l’uso dell’aeroporto di Falconara agli aerei militari delle parti belligeranti e mandava gli agenti municipali per la notifica alle parti medesime. Ora questi paradossi, che forse a qualcuno muovono il riso, sono effetti dell’approccio non realistico e dell’idea che i poteri a questo riguardo siano distribuibili e frammentabili.

Ma se non è così, s’impone una riconsiderazione generale dal punto di vista del diritto. Cos’è oggi la guerra per la realtà costituzionale? E cos’è oggi dal punto di vista internazionale ? Il Prof. Ronzitti bene ha rammentato che le categorie internazionalistiche sono in ridiscussione. Nel libro di de Vergottini si parla nuovamente di guerra, non più di conflitto armato: già questa scelta lessicale è indicativa di un approccio di voluto realismo e di ricercata chiarezza. L’uso di questo termine indica l’abbandono della via della rimozione (da non confondere con il ripudio, come egli sottolinea) del concetto per affrontarlo piuttosto nella sua esatta

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Le nuove guerre: la crisi delle sue

categorie storiche

Non più “guerra in forma”

dimensione e con riguardo alle esigenze che genera. La guerra, usiamo qui anche noi questo termine, è divenuta un qualcosa di assai diverso da quello che eravamo abituati a considerare tale. Alcune sue aggettivazioni sono entrate in crisi definitivamente in quest’epoca. L’interstatualità, la territorializzazione in riferimento a uno spazio determinato, la simmetria di mezzi o di apparenze, la sua stessa manifestazione, sono tutti elementi che non caratterizzano più la realtà conflittuale odierna. Entrano in crisi categorie fondamentali, come quella della pari legittimazione di entrambi i confliggenti, che un tempo, secondo la tradizione romanistica, erano definiti iusti hostes. Entra in crisi un altro elemento di distinzione che ci viene da quella tradizione: la distinzione tra nemico e criminale. Con la realtà dei conflitti di oggi, è sempre più difficile distinguere le due categorie e le due condizioni giuridiche, fino al punto da generare dubbi e contraddizioni a proposito del regime giuridico da applicare ai soggetti ostili catturati: su di essi probabilmente insistono in varia misura entrambi gli status, sia quello di sospetto criminale sia quello di combattente (seppure non legittimo), al quale l’ordinamento internazionale (le Convenzioni di Ginevra, i loro Protocolli aggiuntivi, lo Statuto della Corte penale internazionale) riconosce lo standard umanitario minimo, quello dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra. Ma la qualificazione di combattente, e quindi – se catturato - di prigioniero di guerra, comporterebbe anche effetti in contraddizione con l’altra qualificazione, per esempio il rimpatrio immediato dopo la cessazione delle ostilità. Se prevale la prima qualificazione, l’esigenza di prevenzione domina verso la restituzione in libertà. La contraddizione è ancora ben lontana dall’essere risolta, anche perché si interseca con temi con la sovranità sul territorio della cattura: lo sarà, ma con difficoltà, e l’adozione di eventuali strumenti ad hoc, a parte il tempo che richiede, incontrerà difficoltà politiche prima che concettuali.

Sette sono le volte che la Costituzione italiana del 1948 fa riferimento alla guerra. Chi confronta quel testo con la realtà odierna avverte una distanza: è che probabilmente, per parafrasare Benetto Croce, anche qui si ritenne di chiudere una parentesi e si volle tornare al diritto internazionale di prima, che però non c’era più. Quel concetto di guerra e le sue ritualità evocano quelle tardo ottocentesche del ius publicum europaeum, del diritto internazionale che nasce nella metà del ‘600 con il trattato di Westfalia. Cioè, per usare una celebre espressione di de Vattel, della “guerra in forma”: la stilizzazione della guerra come replica tra Stati di un duello tra i loro Re, e quindi con l’apparato di ritualità derivato dalla tradizione cavalleresca e applicato alle relazioni internazionali. In realtà non era più così nemmeno nella realtà italiana, prima ancora che nello scenario internazionale. L’ultima dichiarazione di guerra deliberata dal Parlamento italiano è quella del maggio 1915. Si dirà: ma poi c’è stato il regime autoritario. Certo, ma anche l’ordinamento

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Come rileggere oggi le disposizioni costituzionali?

La legge sui vertici militari e la

Risoluzione Ruffino

Missioni all’estero: decreto legge e

passaggio parlamentare

internazionale andava, con l’estensione della comunità degli Stati, abbandonando quegli stilemi. Non c’è bisogno di evocare Pearl Harbor, perché già l’occupazione della Manciuria del 1931 dette occasione a Carl Schmitt di riflettere sulla persistenza di un’altra fondamentale partizione, quella sintetizzata nella formula ciceroniana “inter pacem et bellum nihil medium”, o è pace o è guerra, non c’è situazione intermedia. Le modalità di quell’occupazione usciva dalle categorie della guerra in forma e che andava verso qualcosa d’altro. Il nostro ordinamento risente di questa concezione simmetrica (o pace o guerra) anche per le categorie che ne derivano: ma le distinzioni amico/nemico, militare/civile, territorio/non territorio, belligerante/terrorista e infine guerra/azione terroristica, sono coppie concettuali che vengono messe in crisi.

Tutto questo cambiamento impone, se non ci si vuole

rifugiare nell’irreale, di riconsiderare e di attualizzare la lettura delle disposizioni costituzionali. Occorre allora, come indica de Vergotttini, usare l’occhio di chi guarda al sistema costituzionale e non già alla lettera delle singole disposizioni. L’apparato di quelle sette disposizioni non si presta ad un’utilizzazione conforme alle esperienze recenti. L’interpretazione plausibile diviene quella meno discosta, più vicina a quell’apparato normativo. Non è quella diretta ad indicare il percorso. Questa sorta di analogia fa parte del nostro patrimonio costituzionale materiale già da prima dell’11 settembre 2001. C’è stato uno sforzo, che de Vergottini dice notevole, dell’ordinamento italiano per adeguarsi a questa nuova realtà: esso passa per l’elaborazione di alcune norme primarie o atti parlamentari. In particolare, ci si riferisce alla legge sui vertici militari del 1997 e alla cosiddetta Risoluzione Ruffino del 2001, votata dalla Camera durante gli ultimi mesi della precedente legislatura e che, applicando l’art. 1 della stessa legge n. 25 del 1997, procedimentalizza i passaggi necessari per legittimare la partecipazione italiana alle missioni, ponendo come essenziale il ruolo del Parlamento. Coerentemente, in questi ultimi tre anni mai si è fatto a meno della previa legittimazione parlamentare per tali interventi. Parimenti essenziale è il rispetto della funzione di garanzia costituzionale del Presidente della Repubblica come comandante delle Forze armate, specificata dalla relazione finale della Commissione Paladin e che, nello schema della Risoluzione, si basa sul passaggio in Consiglio Supremo di Difesa, che è luogo di informazione, di confronto e di eventuale maturazione delle iniziative per l’esercizio della garanzia da parte del Capo dello Stato.

Si può ricordare che la dottrina costituzionalistica, nel

silenzio della Costituzione circa le missioni all’estero, parlò in origine di competenza esclusiva del governo. Questo però non ha retto nella pratica costituzionale, perché la parlamentarizzazione, già

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L’attualizzazione del Codice militare penale di guerra

Benvenuto questo libro che riapre una

riflessione sulla realtà dei rapporti

giuridici

ricavabile dal sistema della costituzione, è stata indotta dalla necessità del passaggio parlamentare a proposito della conversione in legge del decreto legge che disciplina le missioni, indispensabile per definire il finanziamento e lo statuto giuridico penale della missione. Dal che la necessità del passaggio parlamentare e la sua conversione in realtà legittimante.

Uno studio significativo, la cui lettura è illuminante, è stato fatto dal Sevizio studi della Camera nel 2003, prima della partecipazione al post conflict in Irak. Con schede assai dettagliate vi si rammenta che sono state ben 77 le missioni militari all’estero alle quali l’Italia repubblicana ha partecipato. Non sempre c’è stato il passaggio parlamentare e almeno in un terzo di esse, vi si calcola, si è fatto uso di strumentazione tipica del peace enforcement, cioè uso di vis bellica. Questa è la realtà della pratica costituzionale. Da questo punto di vista, l’avere continuato a utilizzare uno strumento come il Codice penale militare di pace è stata non solo rimozione esorcizzante e simbolica, ma anche causa di guasti tutt’altro che indifferenti, ben sottolineati dalla dottrina e dalla pratica. Se infatti è vero che si adotta un apparato normativo penale come risposta alla domanda di tutela di certi beni-interessi, e se i beni-interessi sono quelli dell’imputazione allo Stato dell’esercizio della forza, della garanzia penale della coesione delle Forze armate, della garanzia penale della condizione dei soggetti deboli protetti dal diritto umanitario, allora l’apparato normativo cui fare riferimento, al di là dei nominalismi, era uno soltanto: il Codice penale militare di guerra e ad esso si sarebbe dovuto lasciare il rinvio. Così peraltro, chiudendo con le disapplicazioni espresse, si è fatto a partire dalla partecipazione all’intervento in Afghanistan. Quella è stata anche l’occasione per un primo aggiustamento, una prima attualizzazione di quel Codice, che salvo l’abolizione della pena di morte (1994), era rimasto immutato dal 1941. E’ in riferimento all’attualizzazione di quel Codice, auspicata da due atti di indirizzo parlamentare di allora, che oggi il Parlamento sta esaminando un disegno di legge di revisione generale della legge penale militare. Il 18 novembre 2004 questo è stato approvato dall’aula del Senato e ora sta passando alla Camera. Esso, improntato alle esigenze di tutela penale che derivano dalla realtà, è coerente con le esigenze effettuali che sopra ho richiamato.

Vorrei chiudere ricordando, come fa de Vergottini, una frase del Prof. Conforti, che dice che la radicalizzazione che da certi giuristi è stata operata circa l’approccio scientifico a questi temi ha soppresso la libertà del dibattito e ha impedito una riflessione sulla realtà dei rapporti giuridici, e quindi anche sulla effettività della tutela di quei beni-interessi che sono coinvolti dalla realtà dei conflitti. È quindi quanto mai benvenuto, e per gli studiosi e per i pratici, un libro come questo di Giuseppe de Vergottini.

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Un rischio nel dibattito:

la visione troppo specialisica

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE DELL’AUTORE Prof. Giuseppe de Vergottini Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Bologna

Grazie al CASD e al CeMiSS per avermi invitato e per aver dato la possibilità di confronto sul mio lavoro. Grazie agli amici e colleghi, che hanno dato un apporto non solo di commenti su quello che hanno letto, ma hanno anche offerto una serie di suggerimenti e di sollecitazioni che sicuramente provocheranno, credo, ulteriori riflessioni un po’ di tutti e, vi assicuro, anche le mie.

Dal momento che il tempo a disposizione - credo - non sarà

molto, non voglio annoiare i presenti e cercherò di essere il più sintetico possibile. Ciò significa che non è realistico avviarsi a fare una sorta di replica punto per punto a quanto è stato esposto da chi mi ha preceduto. Mi limitarò quindi a qualche ossservazione sui profili generali degli argomento trattati.

Innanzitutto volevo fare alcune riflessioni più che altro di quadro, e in particolare vorrei iniziare sottolineando l’importanza di una trattazione dell’argomento “guerra” in modo organico valorizzandone la interdisciplinarità. Nell’affrontare il tema del rapporto fra guerra e costituzione ho sentito l’esigenza di impegnarmi in una analisi che tenesse in conto non solo i profili abitualmente considerati dai costituzionalisti ma anche quelli famigliari ad altre discipline e in particolare al diritto internazionale. Ciò ha comportato la necessità di allargare l’analisi a campi non sempre famigliari al giurista, evitando o tentando di evitare di rimanere confinati a una visione riduttiva del fenomeno. Il che sarebbe particolarmente pericoloso perché l’insufficienza di conoscenza di una ricca serie di elementi di valutazione rischia di avere effetti penalizzanti sulla conoscenza della effettività del fenomeno “guerra”. Il che conduce a conseguenze del tutto inaccettabili perché si rischia di rimanere legati alla analisi meramente formale del dato giuridico ignorando la fattualità che è componente essenziale della effettività delle regole giuridiche applicabili al fenomeno guerra. Bisogna quindi fare uno sforzo per non ragionare a compartimenti stagni e utilizzare gli apporti di svariate discipline. Ma in realtà è inevitabile, come avete sentito, anche il raccordo con l’approccio storico-politico, geostrategico, sociologico. Insomma ci sono veramente tanti versanti di estremo interesse che emergono in una ricerca di questo genere e che, ripeto, sono talmente ampi e sconfinati che è difficile da riportare e da collegare insieme.

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Non un momento di arrivo ma uno sforzo di sistematizzazione utile a dare spazio a riflessioni e dibattiti

Parlare di “guerra”:“diminutio” del

valore universale della pace?

L’importanza di un approccio realistico

Questa premessa per dire che quello che ho cercato di scrivere non può essere un momento di arrivo, ma lo considero uno sforzo di sistematizzazione che dovrebbe essere seguito da ulteriori riflessioni, da ulteriori dibattiti. E mi pare che già quello che abbiamo sentito oggi sia l’apertura per possibili riflessioni congiunte su questi temi.

Ecco, detto questo vorrei sottolineare che il tema della guerra nella costituzione è stato - diciamo - in parte rimosso dalla dottrina costituzionalistica; ma è stato rimosso anche perché è stato rimosso dalla politica. Quindi è vero che i giuristi hanno esorcizzato, come è stato detto, l’argomento; c’è stata una sorta di rifiuto di considerare il tema della guerra, perché si è sempre concentrata l’attenzione sul tema della pace. In tal modo il tema della pace ha finito per offuscare la drammaticità dei profili conflittuali cancellando dall’orizzonte della ricerca una parte della realtà dei nostri giorni. Di fatto qualcuno pensa, a mio parere sbagliando, che parlare della guerra significa togliere valore primario al principio costituzionale della pace; il che, perdonatemi, è veramente una sciocchezza. Non è questo il modo corretto di procedere; nessuno vuole mettere in forse che la pace deve essere un principio guida della costituzione. Quindi la forte affermazione della pace che si desume da una lettura coerente dell’articolo 11 e di altre disposizioni costituzionali pone in risalto un valore che fa emergere un principio di indirizzo del nostro ordinamento come degli altri ordinamenti che condividono questi principi; però ciò non toglie che, visto che nei rapporti reali le situazioni conflittuali esistono (e l’impressione è che si sono anche addirittura, almeno per noi, incrementate negli ultimi tempi), sarebbe probabilmente dal punto di vista scientifico non corretto rifiutarsi di prendere atto di queste situazioni.

Da un punto di vista pratico, si è opportunamente sottolineata l’importanza del principio di effettività, l’importanza cioè di un approccio realistico. Facendo riferimento alla prassi giustamente Severini ricordava che in realtà il nostro ordinamento, anche se in modo disorganico e non sistematico, ha preso atto che la realtà stava mutando. Quindi abbiamo tutta una serie di interventi legislativi che si riferiscono per esempio al nuovo ruolo delle F.A. per quanto riguarda le missioni militari all’estero nel quadro del rispetto del diritto internazionale, dei trattati internazionali; abbiamo la modifica del Codice Penale Militare di Guerra, il riconoscimento delle gravi crisi internazionali e dello stato di guerra non dichiarato. Cioè ci sono delle modifiche veramente importanti non sempre percepite e non sempre valutate in modo corretto e la legge sui vertici militari nel suo articolo 1, ricordata poco fa, come pure la risoluzione Ruffino, sono veramente importanti.

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Il recupero del concetto di sovranità

Esigenza di una lettura organica delle due parti dell’art.11

Ripudio della guerra ma …..

Ovviamente, si può rilevare criticamente che non c’è un ripensamento organico in tema di strumentazione normativa sulle attuali emergenze. E questo è un peccato. Come sapete non abbiamo una legge organica sulla difesa che affronti i problemi interni ed esterni. Ma è forse sfuggito a qualcuno che il nostro costituente di revisione nel 2001 ha introdotto nell’art.117 un riferimento importante. Quando ha disciplinato la competenza legislativa esclusiva statale, ha detto qualcosa che sicuramente si può rilevare che era ovvio, era scontato, ma ha richiamato con una certa puntigliosità la competenza statale in materia di sicurezza e di difesa delle F.A. Cioè ha dato un quadro di riferimento, che prima non c’era a livello formale nel testo costituzionale, a quelle che sono attribuzioni tipiche della sovranità: una sorta di recupero della essenza del concetto di sovranità. Ma cosa altro significa mettere in costituzione espressamente queste competenze, che sono gli attributi classici, storici della sovranità statale tradizionale, se non la presa di coscienza di una nuova rilevanza dei problemi della sicurezza e della difesa a causa dell’acuirsi della conflittualità internazionale anche in dipendenza delle aggressioni terroristiche che caratterizzano il nostro tempo? Quindi questo capita nel 2001, forse non a caso visto che questa attenzione prima non c’era stata.

Detto questo, vorrei ora rifermi a quello che è un po’ è il leit motiv, una delle chiavi di lettura degli argomenti, dei filoni di collegamento dell’analisi che mi sono proposto e cioè l’intento di dare una lettura non formalistica delle clausole costituzionali che interessano l’argomento della guerra. Quindi per esempio, ciò è avvenuto nella lettura dell’articolo 78, che è stato costantemente richiamato dalla dottrina ed evocato anche oggi. Esso è sicuramente inutilizzabile con riferimento a supposte ipotesi di guerra tradizionale ma continua a valere soprattutto per quanto riguarda i principi di competenza costituzionale che sono richiamati. Vale anche per le crisi, situazioni che non sono vere e proprie guerre in senso tecnico, che non sono cioè la guerra deliberata e dichiarata formalmente. Quindi continuano a rilevare competenza parlamentare, competenza governativa, competenza del Capo dello Stato nella assunzione delle decisioni pur senza doversi introdurre formalmente un regime di sospensione dei diritti. Ma probabilmente uno dei perni del discorso è e rimane l’art.11, con la difficoltà che è stata manifestata fino ad oggi a leggere in modo organico le due clausole, le due parti dello stesso testo. Ecco il punto, e su questo argomento sicuramente c’è stata una carenza anche dal punto di vista dell’indagine storica; cioè non si è approfondito il significato del concetto inserito nella seconda parte dell’art.11, visto che i costituenti l’hanno espressamente voluto nel testo costituzionale. Dalle analisi degli anni ’40 ad oggi, si è sempre sottolineato che i costituenti parlano non di rifiuto della guerra ma di ripudio. Quindi il ripudio è talmente forte che travolge qualsiasi possibilità anche

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….. anche rifiuto

esplicito della neutralità ……..

…….. per restare nel circuito della politica

internazionale

L’argine si rompe con la guerra del

Kosovo

minima di contemperamento, di bilanciamento con altre situazioni. Ma è vero che se c’è questa affermazione forte del ripudio della guerra, c’è anche negli atti della costituente il rifiuto esplicito della neutralità. Allora, se veramente i costituenti avessero voluto un ripudio tassativo, cioè la negazione radicale della guerra, probabilmente sarebbe stato molto più logico fare quello che fanno le costituzioni dei Paesi che, o in modo diretto o recependo clausole dei trattati internazionali come l’Austria e Malta, fanno ricorso espressamente al temine neutralità.

Da noi l’uso di tale concetto non c’è stato. Ma perché non c’è stato? Perché, per i motivi che prima Quagliariello ricordava, c’era una situazione storica per cui si voleva, e si è messo per iscritto nella seconda parte dell’art.11, il non isolamento della politica estera e di sicurezza italiana nei rapporti internazionali. Il principio di non isolamento in genere viene ricordato come principio di solidarietà nel quadro dell’organizzazione di sicurezza collettiva - e questo è giustissimo – ma allo stesso tempo il principio emerge in base alla lettura storica dei fatti. Quello che i costituenti hanno voluto è che la nostra classe politica, a prescindere dalla coloritura, di destra, di centro o di sinistra, deve sempre restare nel circuito della politica internazionale, evitando l’isolamento. La decisione del governo D’Alema per il Kosovo è la conferma macroscopica della continuità di questa linea. L’art.11 è stato scritto, come tutti riconoscono, per consentire la partecipazione dell’Italia alle Nazioni Unite; poi è servito in modo dilatato per l’Unione Europea e per tutte le altre organizzazioni che non avevano nulla a che fare, diciamo la verità, in modo diretto con il problema della sicurezza. Ma è stato inserito in Costituzione soprattutto per mettere le mani avanti sottolineando l’esigenza di non isolamento. Da allora lo sforzo di stare nel gioco della politica internazionale era la costante. Se questo è vero, possiamo capire come mai ci sono queste contraddizioni, che poi, se vogliamo, giuridicamente si pongono in termini di bilanciamento tra prima e seconda parte: e infatti si afferma il ripudio la guerra e ad un tempo se la guerra è inevitabile si ritiene inevitabile non essere assenti. Ora noi ce la siamo sempre tendenzialmente cavata dicendo “non parliamo di guerra, ma parliamo di operazioni di polizia internazionale, di gravi crisi internazionali, misure di peace-keeping o peace-enforcing”, cioè abbiamo sempre pudicamente evitato di parlare di guerra. Poi a un certo punto l’argine si è rotto nel momento in cui arriva la guerra del Kosovo. Essendo giustificata da motivi umanitari, visto che l’umanitarismo è un valore nobile che si può spendere senza arrossire, anche nonostante il bisticcio della contraddizione tra guerra e diritto umanitario, si poteva parlare di guerra. Quindi improvvisamente si è ricominciato a parlare di guerra anche nel lessico politico e non solo in quello.

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L’equilibrio fra 1^ e 2^ parte dell’art. 11:

un tema che i costituzionalisti

devono affrontare

Anche a livello internazionale le cose si muovono

E’ vero anche che gli internazionalisti preferiscono parlare di intervento umanitario non di guerra umanitaria; però resta il fatto che questo bisticcio tra prima e seconda parte costituisce veramente il fulcro di una serie di problemi che i costituzionalisti non possono continuare a evitare. Non credo che sia corretto prendere posizione in modo rigido a favore della prevalenza della prima o della seconda parte del dettato dell’articolo 11. E questo proprio perché la questione non si risolve attestandosi su pregiudizi ideologici ma ponendola più correttamente e realisticamente in termini di bilanciamento fra le due parti del dettato costituzionale. Ma a parte questo, quello che è importante è rendersi conto che questo bilanciamento, come dicevo, in concreto gli organi costituzionali sono chiamati a farlo, lo devono fare, lo hanno fatto e forse lo faranno anche in futuro. Quello che credo che dal punto di vista scientifico non si accettabile è negare oppure rifiutarsi di prendere in considerazione un’evidenza, che tra l’altro è collegata a una formulazione anche nel testo costituzionale; perché parliamo di qualcosa che non soltanto è riscontrabile in via di fatto ma che ha anche un aggancio formale reale nel testo costituzionale. Poi si può parlare delle prassi, degli indirizzi politici effettivamente seguiti in concreto. Questo problema da un punto di vista pratico, è esploso soprattutto dopo l’89, negli ultimi 10-15 anni e ancora oggi, nostante il tempo trascorso, sembra che la maggior parte dei costituzionalisti non se ne sia accorta. Quindi mentre, per esempio, gli scienziati della politica, gli esperti di politica internazionale, gli internazionalisti, queste cose le hanno prese in esame, le studiano, le dicono, le scrivono, i pochi costituzionalisti che se ne sono occupati sono ancora molto, molto cauti, hanno una specie di pudore di evocare la questione, perché esiste una specie di freno a mano nella prima parte dell’art.11. Sono convinto che questo atteggiamento mentale non sia fondato e prendo atto dei timidi cenni di attenzione che si sono manifestati negli ultimi tempi.

Ma io mi permetto anche, e lo dico all’amico Ronzitti che prima lo ha ricordato, di sottolineare che, piaccia o non piaccia, anche a livello internazionale l’”abbarbicamento” duro all’art. 2, coma 4 e all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite tiene fino ad un certo punto. Perché anche qui, come per il diritto interno, o si può risolvere il problema in termini di rispetto o violazione di queste clausole formali o si può fare un ragionamento un po’ più elastico tenendo conto dell’evolversi del diritto internazionale. Ad esempio il solo fatto che gli internazionalisti parlino dell’intervento umanitario o come qualcosa di facoltizzato dal diritto o come qualcosa di dovuto, in quanto sarebbe già formata una consuetudine, dà l’impressione che anche su questo versante, in parallelo a quello interno, le acque si stiano muovendo. Un altro esempio è quello suscitato dagli Stati Uniti che hanno affermato una sorta di diritto internazionale speciale, senza apparentemente negare la validità

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La clausola dell’art. 10: ciò che si

consolda nel diritto internazionale in tema di conflitti

armati entra automaticamente nel nostro diritto interno

delle norme internazionali ma contestando che in casi specifici e concreti perde efficacia la norma dello statuto delle Nazioni Unite e prevalga invece un diritto che viene formato dalla potenza egemone.

C’è insomma qualcosa che dimostra che le cose sono in movimento. Tutto questo, aggiunto alla paralisi o alla crisi del Consiglio di Sicurezza e quindi alla sua inefficacia, visto che solo per casi importanti ha fatto una specie di rincorsa a posteriori a riconoscere e a legittimare scelte che in via di fatto già si erano compiute, è la dimostrazione che anche il diritto internazionale, il diritto delle Nazioni Unite ha subito qualche scossa. Quindi ho l’impressione che tutto questo per noi è importante perché, come è stato anche ricordato, non dobbiamo dimenticare che nella costituzione abbiamo la clausola dell’art.10, che comporta che, qualora si consolidasse un nuovo diritto internazionale per i conflitti armati, quindi qualora si consolidasse un parziale superamento dell’art.2, 4°comma, piaccia o non piaccia la consuetudine entrerebbe automaticamente nel nostro diritto interno. Per cui anche sotto questo punto di vista, il costituzionalista deve seguire quello che succede al diritto internazionale. Conclusivamente, dunque, tutto il settore delle ricerche in tema di conflitti armati è in movimento. Lo scenario interno e internazionale si è profondamente modificato e sarebbe ingenuo pensare che le regole giuridiche sia rimaste quelle fissate alla metà degli anni quaranta del secolo trascorso.

Detto questo, io ripeto il ringraziamento a chi è intervenuto per gli interventi svolti e al pubblico che ha avuto la pazienza di seguire questo dibattito.

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