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ACCADEMIA PER LA RIPROGRAMMAZIONE CORSO IN COUNSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE EMS DIRETTORE DOTT. MARIO PAPADIA TESI DI DIPLOMA IN COUNSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE ESISTENZIALE IL COUNSELING PER LE PERSONE IN CONDIZIONE CRONICA “La mia storia tra malattia e disabilità come opportunità di cambiamento” Relatore: Chiar.mo Prof. MARIO PAPADIA Diplomando: RAFFAELE CONVERTINO ANNO ACCADEMICO 2012-2013
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ACCADEMIA PER LA RIPROGRAMMAZIONE CORSO IN COUNSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE EMS

DIRETTORE DOTT. MARIO PAPADIA

TESI DI DIPLOMA

IN

COUNSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE ESISTENZIALE

IL COUNSELING PER LE PERSONE

IN CONDIZIONE CRONICA

“La mia storia tra malattia e disabilità

come opportunità di cambiamento”

Relatore:

Chiar.mo Prof. MARIO PAPADIA

Diplomando:

RAFFAELE CONVERTINO

ANNO ACCADEMICO 2012-2013

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INDICE

INTRODUZIONE......................................................................... pag. 5

CAPITOLO I

MALATTIA E DISABILITÀ

1.1 La malattia e le diverse visioni filosofiche ................................. » 9

1.2 La disabilità: legami e differenze con la malattia ...................... » 14

1.3 Gli approcci socio-psicologici al problema della persona

malata con disabilità .................................................................... » 20

CAPITOLO II

LA MIA STORIA TRA MALATTIA E DISABILITÀ

2.1 Sintomatologia clinica ................................................................ » 25

2.2 L’infanzia in ospedale ................................................................. » 26

2.3 Una strana adolescenza .............................................................. » 28

2.4 Il disagio rifiutato ....................................................................... » 29

2.5 Il disagio ascoltato ...................................................................... » 31

2.6 La crisi come spinta al cambiamento ......................................... » 33

2.7 Strategia e problem solving ........................................................ » 35

2.8 Obbiettivo raggiunto ................................................................... » 39

2.9 Il nuovo programma .................................................................... » 39

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CAPITOLO III

TRE ANNI D’ACCADEMIA E LA MIA NUOVA

“VALIGIA DEGLI ATTREZZI”

3.1 Cenni sul Modello della Riprogrammazione .............................. pag. 43

3.2 La mia malattia sotto la lente della riprogrammazione ............. » 44

3.3 Un nuovo equipaggiamento emotivo, mentale e comportamentale .. » 50

3.4 Creatività, epigenetica, PNEI ..................................................... » 54

CONCLUSIONI

LA MIA FILOSOFIA COME IDEA PER UN

CONSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE ... » 58

BIBLIOGRAFIA ........................................................................... » 65

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A mio padre

che mi ha lasciato in eredità

il suo spirito libero e la forza

di non mollare mai

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INTRODUZIONE

L’idea di applicare un counseling per le persone in condizione cronica

ha da subito destato la mia curiosità emotiva ed intellettuale sin da quando ho

iniziato il percorso triennale dell’Accademia della Riprogrammazione.

Mi chiamo Raffaele Convertino, ho trentotto anni e sono affetto da una

malattia cronica a carattere altamente invalidante da quando ne avevo quattro.

Vivendo in prima persona la condizione di malato cronico con

disabilità da ben trentaquattro anni ed essendomi appassionato al Counseling

della Riprogrammazione ho potuto confrontare gli studi intrapresi con

l’esperienza vissuta. Questo continuo approfondimento teorico e la

sperimentazione del materiale studiato mi ha spinto a scegliere l’argomento di

questa tesi: Il counseling per le persone in condizione cronica dal titolo

“La mia storia tra malattia e disabilità come opportunità di cambiamento”.

Nel cap. I affronterò l’evoluzione del concetto di malattia nel corso dei

secoli per via dei diversi approcci filosofici, approfondirò il legame che può

instaurarsi tra malattia e disabilità e il momento in cui queste ultime uscendo

dalle mura domestiche si confrontano con la società.

Il cap. II è interamente dedicato alla mia esperienza personale e alle

diverse fasi che hanno caratterizzato, prima la negazione della patologia, e, in

seguito, la presa di coscienza della condizione cronica che ha determinato la

messa in atto di scelte e comportamenti finalizzati al ripristino del mio

benessere psico-fisico.

Nel cap. III, previa una breve introduzione sul modello, analizzerò con

la metodologica del counselor della riprogrammazione, le paure e la strategia

“È veramente bello battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con

passione. Perdere con classe e vincere osando perché il mondo appartiene a chi osa!

La vita è troppo bella per essere insignificante.

(CHARLIE CHAPLIN)

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reattiva che ho adottato nell’approcciarmi alla malattia, il nuovo

equipaggiamento emotivo, mentale e comportamentale acquisito dopo tre anni

di Accademia ed il concetto di PNEI ed epigenetica per spiegare quanto i

nostri stati d’animo e le nostre convinzioni siano in stretta relazione con la

nostra salute.

Nelle Conclusioni di questo lavoro avanzerò una proposta di counseling

rivolto a tutte quelle persone che, trovandosi in una condizione di malattia e

disabilità, hanno smesso di sognare e di sperare in una qualità di vita migliore.

È proprio nel cambio di atteggiamento mentale e nella messa in atto di

azioni concrete per affrontare la malattia cronica e ridurre la disabilità ad essa

connessa, che ho riscontrato un punto di contatto con il Modello della

Riprogrammazione. Pertanto a distanza di anni ho potuto attribuire un

significato metodologico ad un cambiamento psico-fisiologico che ha

caratterizzato la mia esperienza di persona in condizione di malattia e

disabilità.

Vivere con una malattia cronica significa per la persona che ne è affetta

rimodulare la propria esistenza in funzione di una nuova condizione.

Ma questo adattamento non deve necessariamente intendersi come un

progressivo peggioramento della qualità di vita per le rinunce e le limitazioni

che la patologia a carattere cronico necessariamente comporta.

Frequentemente accade, invece, che la persona affetta da una malattia a

carattere invalidante riduca in maniera considerevole, il suo campo

esistenziale, prediligendo un atteggiamento passivo e deresponsabilizzante.

E allora come si può vivere in una condizione di patologia cronica e

disabilità senza rinunciare alle opportunità che l’esistenza offre ad ogni

individuo?

Il Counseling della Riprogrammazione Esistenziale fondato sul

modello genetico/informativo e sull’antropologia evoluzionistica darwiniana

risponde a questa domanda e lo fa con il concetto di “programma” e di

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“malleabilità”. Ogni persona è un programma ha, cioè, un obiettivo, una

strategia e l’energia per raggiungerlo ed in quanto organismo vivente ha

iscritto nel suo codice genetico e nelle sue connessioni sinaptiche gli scopi

biologici fondamentali quali la sopravvivenza, la relazione e l’autoaffermazione.

“(…) La vita non è mai vissuta a casaccio, perché è l’esecuzione

dell’insieme di programmazioni collettive e individuali, genetiche e personali,

che hanno formato l’essere bioenergetico, mentale e spirituale di quella

persona”. Di conseguenza per uscire da esse è necessario un apposito

intervento attivo, chiamato «riprogrammazione»”1. Una visione dell’uomo

basata su tre livelli di esistenza bioenergetico, mentale e spirituale esalta le sue

infinite potenzialità e valorizza la sua unicità rispetto alle altre specie. “L’uomo

è un’unità non disgregata di energia, di mente, di emozioni, di decisioni, di

fatti, di rapporti; la digestione, la filosofia, l’emozione, l’etica, il far di conto,

le amicizie e le inamicizie, ecc. le situazioni esterne che sostanziano la vita di

ogni persona, non sono che facce del suo unicum”2.

Nella mia lunga esperienza cronica di malattia e disabilità ho dovuto

effettuare una vera e propria opera di riadattamento della mia strategia di vita

a causa del disagio esistenziale che si aggiungeva a quello fisico.

Un evento traumatico mi ha spinto a cambiare l’atteggiamento mentale

alla malattia, ad attuare una nuova strategia di comportamento, a valorizzare

le mie risorse fisiche, mentali e motivazionali e a pormi obiettivi concreti

finalizzati al miglioramento della malattia e della disabilità.

Cambiando alcune abitudini, attuando nuove scelte terapeutiche e

chirurgiche, migliorando la relazione con l’ambiente ed il modo di

comunicare, arricchendo i miei interessi, la condizione della malattia è

migliorata sensibilmente e con essa la mia qualità di vita.

1 M. PAPADIA, La riprogrammazione esistenziale. Psicoterapia, counseling, medicina

naturale, Armando Editore, Roma 2010, pp.14-15. 2 Ivi, p. 14.

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Attraverso la riattivazione delle energie vitali che caratterizzano

l’esistenza umana, ogni individuo può sperimentare il benessere del

cambiamento.

Oggi convivo, nonostante le tante difficoltà, con un’artrite reumatoide

sistemica, consapevole di poterla fronteggiare grazie alle risorse bioenergetiche,

mentali e spirituali che ogni giorno scopro dentro ed intorno a me.

L’intento di questo lavoro è dare, attraverso la mia esperienza diretta di

malattia e di disabilità, un contributo di arricchimento al Counseling della

Riprogrammazione Esistenziale.

Spero in tutta umiltà di riuscire nello scopo.

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CAPITOLO I

MALATTIA E DISABILITÀ

1.1 La malattia e le diverse visioni filosofiche

Da un punto di vista etimologico il termine “malattia” deriva dal latino

mala-actio, letteralmente mala azione e cioè malattia provocata da un’azione

sbagliata, conseguenza dell’ignoranza della mente del soggetto.

Nel corso dei secoli il concetto di malattia si è evoluto in conseguenza

dello sviluppo socio-culturale.

“Ogni cultura dominante ha espresso una sua verità estemporanea,

formule sull’uomo costituite a proprio uso e costume. Verità legate al proprio

tempo soggette a continue smentite nella ricerca di nuove verità”1.

Si tratta di un concetto, quello di malattia, legato alle credenze, ai

valori, alle abitudini, agli stili di vita e, pertanto, come afferma l’antropologia

medica, alla cultura e al contesto di riferimento.

Anticamente la malattia assumeva una connotazione morale, pertanto,

l’uomo era giudicato dai sui comportamenti sociali e di conseguenza punito o

salvato dagli dei. “Cosi l’uomo che trasgrediva una norma, che mancava ad

un dovere, che portava a termine azioni non gradite agli Dei poteva essere

punito da una divinità adirata”2.

Omero nei suoi poemi narra delle malattie attribuite ai dardi di Apollo e

alla folgore di Zeus e della salute raffigurata da Asclepio figlio di Apollo.

1 D. TONEGUZZI, G. PEDRINELLI (a cura di), Il counseling socio-sanitario. Le componenti

relazionali al servizio della salute, Edito da Istituto Gestalt, Pordenone 2000, pag. 42. 2 E. SAITA (a cura di), Pensare alla salute e alla malattia. Legami tra mente, corpo e

contesto di appartenenza, pag. 10.

“Il modo in cui lo spirito è unito al corpo non può essere compreso dall'uomo,

e tuttavia in questa unione consiste l'uomo”.

(SANT’AGOSTINO)

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Alcmeone (VI- V sec. a.C.) interpreta la malattia in analogia al

funzionamento della politica. La malattia viene vista come squilibrio

derivante dal dominio di un elemento sull’altro (monarchia), mentre la salute

si caratterizza come un equilibrio delle forze organiche (democrazia). Anche

nella visione di Alcmeone, sebbene la malattia sia vista come un’alterazione

dell’equilibrio organico, gli uomini sono posti, comunque, in una condizione

di inferiorità rispetto agli dei e soltanto a questi ultimi è data la facoltà di

concedere la salute o di diffondere la malattia.

Emerge chiaramente in queste visioni filosofiche la dicotomia tra salute

e malattia, una perenne competizione in cui la presenza dell’una non ammette

la presenza dell’altra, in un rapporto di dominio esclusivo dell’una sull’altra.

L’uomo, inoltre, non è responsabile dei suoi comportamenti e delle sue

azioni per cui salute e malattia sfuggono al suo controllo diventando esclusiva

prerogativa degli dei.

Ippocrate (V e IV sec. a.C.) ebbe il merito di distaccare la medicina

dalla filosofia ed è ritenuto, a ragion veduta, il padre della medicina moderna

in virtù dei suoi metodi di cura che sono all’origine della cultura medica

occidentale.

Egli considerava il corpo come un contenitore di umori (sangue,

flemma, bile gialla e bile nera) ai quali corrispondevano delle qualità (caldo-

freddo-umido-secco) in stretta connessione con gli elementi della natura (aria,

acqua, fuoco, terra), in base ad una corrispondenza tra microcosmo e

macrocosmo.

La malattia insorgeva quando si verificava la rottura di un equilibrio tra

gli umori e le qualità che ad essi si riferivano mentre la cura consisteva nel

ripristino dell’equilibrio perduto attraverso una serie di indicazioni di cui il

paziente iniziava ad esserne responsabile. Il medico di Cos sosteneva che la

malattia insorge per cause e circostanze riconducibili all’esistenza umana e

non più a causa dell’intervento divino.

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Egli studiò in maniera approfondita l’anatomia arrivando a praticare sui

cadaveri delle vere e proprie autopsie. È grazie all’attenta e sistematica

osservazione che Ippocrate riservava ai suoi pazienti, se oggi la medicina

dispone di strumenti come la cartella clinica e l’anamnesi, nonché di concetti

come diagnosi e prognosi.

L’idea ippocratica “organicistica” di malattia viene ripresa da Galeno

(II sec.a.C.) il quale definisce la malattia come un’alterazione del normale

funzionamento di specifici organi.

Le successive scoperte nel campo dell’anatomia, della fisiologia e della

chimica, grazie a Vesalio, Paracelso e Fracastoro, contribuirono ad uno

sviluppo qualitativo della scienza medica e ad una maggiore efficacia nella

cura di alcune malattie di cui si incominciavano a comprenderne i meccanismi

di insorgenza e di trasmissione.

Grazie a Galileo s’introducono la matematica e i metodi di calcolo nei

processi di osservazione dei fenomeni naturali; Harwey scopre il meccanismo

della circolazione sanguigna traendo ispirazione dal moto dei corpi celesti

intorno al sole, in analogia al cuore.

È un periodo in cui la medicina si integra con la matematica e le

valutazioni oggettive dei fenomeni.

A partire dall’800 in avanti la scienza medica compie numerosi

progressi frutto dell’individuazione delle cause di malattia. La malattia è

considerata come qualcosa di evidente, di verificabile e dimostrabile, attivata

da uno specifico agente o da uno specifico processo.

“In linea con il modello delle scienze esatte, la medicina basata

sull'evidenza ha sviluppato il concetto che le “evidenze”, cioè le informazioni

aggiornate e ritenute metodologicamente valide dalla letteratura medica,

devono avere un ruolo preminente nelle decisioni terapeutiche”3.

3 Ivi, pag. 66.

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Tuttavia è Cartesio con la sua concezione dualistica dell’uomo a dare

un contributo fondamentale ad un’idea meccanicistica della medicina secondo

la quale i fenomeni vitali sono spiegati sulla base di dinamiche del mondo

inanimato. Cartesio sancisce il dualismo tra sostanza spirituale, cioè la res

cogitans e corpo materiale, cioè la res extensa. La relazione tra le due entità si

rendeva possibile solo grazie alla ghiandola pineale, collocata al centro del

cervello. L’uomo è visto come una “macchina corporea”, costituita da tanti

pezzi, la malattia come un guasto delle sue parti meccaniche e la cura,

pertanto, come la riparazione del pezzo difettoso.

Il ventesimo secolo è attraversato da numerosi successi scientifici

soprattutto nell’ambito della biologia molecolare e tra queste, la scoperta della

struttura del Dna (WATSON e CRICK, 1954) è sicuramente quella più

rivoluzionaria. In seguito, la lettura del codice genetico (NIREMBERG, 1961) e

la scoperta del funzionamento dei geni (JACOB e MONOD, 1962) favoriranno

lo la nascita dell’ingegneria genetica, una branca della medicina fondamentale

per la diagnosi precoce nelle malattie ereditarie.

Una riflessione, a questo punto del nostro lavoro, si rende opportuna.

Tutte queste scoperte scientifiche, dal microscopio al Dna, se da un lato hanno

contribuito ad aumentare le possibilità di prevenzione, diagnosi e cura di

malattie un tempo considerate mortali, dall’altro hanno relegato l’uomo ad un

ruolo passivo, negandone, così, la sua individualità e la sua complessità di

essere dotato di autocoscienza e libero arbitrio.

Una tale visione emerge nettamente nell’ambito del rapporto medico-

paziente in cui da una parte c’è il medico, l’unico depositario della scienza

medica e a cui, in modo unidirezionale, spetta la gestione della malattia,

dall’altra parte c’è il paziente totalmente deresponsabilizzato e spettatore

passivo della sua salute psico-fisica.

Sorgeva pertanto la necessità di un nuovo modello che tenesse in

considerazione non solo i fattori biologici, ma anche la dimensione

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psicologica e sociale in cui l’uomo si muove promuovendo il proprio

benessere. Un modello centrato sull’essere umano che diventa parte attiva nel

rapporto medico-paziente, e non più destinatario muto di un processo

terapeutico. Il vissuto del paziente diventa fattore fondamentale per la

diagnosi e la cura della malattia.

Accanto al modello biomedico, a cui la medicina naturalmente tendeva

perché la sola legittimata a spiegare la malattia ontologicamente, si faceva

strada, dunque, il cosiddetto modello bio-psico-sociale più coerente con una

multidimensionalità dell’essere umano4. Tale modello, il cui padre ispiratore

è certamente Engel, nasce dal paradigma della complessità. “Il suo

presupposto è l’integrazione tra il livello biologico, psicologico e sociale, a

partire dall’idea secondo cui la persona è erede genetico (bio), soggetto di

riflessione e decisione (psico), nonché soggetto storico-culturale (sociale)”5.

Il modello bio-psico-sociale prendeva corpo in virtù della

consapevolezza di numerosi punti deboli del modello biomedico e tra questi,

innanzitutto, la difficoltà di comprendere la relazione causale tra mente e soma.

Infatti, in diverse condizioni rilevanti da un punto di vista epidemiologico, ad

esempio, l’esposizione ad un agente infettivo, si traduce solo in una percentuale

di casi, e non nella totalità, nello sviluppo della malattia.

Engel, in un articolo pubblicato su Sience nel 1977, afferma che il

limite del modello biomedico è di non considerare al suo interno la

dimensione sociale, psicologica e comportamentale inerente la malattia.

Sempre Engel dichiara che la diagnosi di una malattia cronica sebbene sia

spiegata da manifestazioni cliniche centrali e poi sia confermata dai dati di

laboratorio che indicano a livello biologico la presenza della malattia, i modi

in cui queste manifestazioni cliniche vengono vissute e riferite dal singolo

4 Cfr. E. SAITA (a cura di), Pensare alla Salute e alla malattia. Legami tra mente, corpo e

contesto di appartenenza, pp. 9-31. 5 CIGOLI, SAITA, MARGOLA, 2006, in E. SAITA (a cura di), Pensare alla Salute e alla

malattia. Legami tra mente, corpo e contesto di appartenenza, p. 32.

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individuo, e il modo in cui incidono su di lui, richiedono la necessità di

considerare quei fattori psicologici, sociali e culturali tralasciati dal modello

biomedico6.

L’individuo in qualsiasi esperienza, anche la più grave, è in grado di

attingere a risorse mai prima utilizzate, a quelle energie vitali, iscritte nel suo

patrimonio genetico e di sfruttare a suo vantaggio le risorse ambientali allo scopo

della sopravvivenza. Ogni emozione, ogni pensiero ed ogni comportamento che

l’individuo adotta con l’intenzione di raggiungere un obiettivo di cambiamento,

può generare una risposta adattiva che prima non c’era.

Nella mia lunga storia di “persona affetta da artrite reumatoide” ho

sperimentato come l’andamento della mia malattia fosse influenzato da un

complesso di fattori emotivi, mentali, comportamentali ed ambientali che

solo oggi, alla luce degli studi sul Counseling della Riprogrammazione,

ritengo siano stati determinanti per il cambiamento evolutivo della mia

condizione.

Ma di questo parlerò più approfonditamente nel cap. II quando

racconterò la storia della mia malattia e la sua evoluzione clinica.

1.2 La disabilità: legami e differenze con la malattia

Nel paragrafo precedente ho parlato della malattia e di come il suo

significato sia cambiato nel corso dei secoli in relazione allo sviluppo

socio-culturale del contesto di riferimento.

Si è passati, pertanto, da una visione morale-religiosa, in cui la malattia

è vista come entità esogena, estranea all’individuo ed esclusiva prerogativa

delle divinità, ad una visione scientifica in cui essa è rappresentata come un

6 Cfr. G.L. ENGEL, “La necessità di un nuovo modello di medicina: una sfida per la

biomedicina” articolo pubblicato in «AeR-Abilitazione e Riabilitazione», Anno XV, n. 1,

2006, trad. it. Cesare Albasi e Carlo Alfredo Clerici.

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alterato funzionamento della “macchina corporea”, di cui l’individuo non è

responsabile e la cui terapia consiste nella “riparazione del guasto biologico”.

In seguito si è cominciato a dare importanza all’esperienza soggettiva

di malattia e alle relazioni dell’individuo con la società attraverso quello che

venne battezzato il modello bio-psico-sociale.

A questo punto del lavoro, per aver un quadro completo dell’individuo

e delle risorse che egli può attivare a prescindere da quale sia la sua

condizione, è opportuno chiarire meglio il concetto di disabilità e la differenza

o relazione che intercorre con la malattia. È enorme la confusione della

terminologia che spesso coinvolge anche gli operatori del settore e le stesse

persone che vivono l’esperienza di malattia e/o disabilità.

Cominciamo col dire che spesso la malattia non provoca

necessariamente la disabilità, ovvero che non vi è un nesso causale tra le due

condizioni, anzi, la disabilità, spesso, non è originata da una malattia. A

questo punto considero sia importante definire il concetto di disabilità per

separarlo o metterlo in relazione da quello di malattia.

Con il termine disabilità generalmente si indica una “limitazione di

maggiore o minore gravità, limitazione permanente o transitoria, nello

sviluppo o nell’uso di una determinata funzione fisica o psichica, che colpisce

un individuo fin dalla nascita o nel corso della sua esistenza e che lo

condiziona”7. Leggendo questa definizione del Devoto, non si evince un

riferimento esplicito alla malattia nella sua dimensione prettamente organica,

piuttosto la si deduce quando si fa riferimento all’uso delle funzioni fisiche o

psichiche di un individuo.

Vorrei sgombrare subito il campo da ogni ulteriore confusione

affermando che la disabilità è una difficoltà oggettiva a compiere del tutto o

7 DEVOTO E OLI, Dizionario della lingua italiana, ed. 2003, in F. FERRUCCI, La disabilità

come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Rubettino Editore,

Catanzaro 2004, pag. 19.

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in parte atti o funzioni che normalmente si attendono da un individuo che non

ha alcuna limitazione.

Se in un incidente stradale, ad esempio, un individuo riportasse gravi

lesioni agli arti inferiori con deficit o perdita dell’uso delle gambe, l’apparato

locomotore sarebbe seriamente compromesso ed al soggetto ne deriverebbe

una disabilità acquisita di tipo fisico.

Nel caso in cui, invece, un individuo cadendo da un impalcatura

battesse gravemente il capo, come conseguenza del trauma potrebbe riportare

gravi lesioni alla testa con una compromissione dell’apparato cognitivo da cui

deriverebbe una disabilità di tipo psichico. Queste difficoltà nell’uso di

funzioni fisiche o psichiche possono essere generate da un trauma accidentale

che nulla condivide con la malattia. Gli esempi precedenti rappresentano un

tipo di disabilità fisica nel primo caso, e psichica nel secondo, generati da una

condizione traumatica e non da uno stato patologico.

La disabilità può essere transitoria o permanente ovvero acuta o

cronica. Nelle fratture ad un arto, ad esempio, si è in presenza di una disabilità

temporanea che cesserà nel momento in cui l’arto, dopo una riabilitazione di

tipo ortopedico, riacquisterà la funzione originaria. La paraplegia, invece, è

una condizione cronica di disabilità e quindi di tipo permanente che può

essere la causa di una malattia, come nel caso della distrofia muscolare e di

altre patologie autoimmuni, o la conseguenza di un evento traumatico, come

nel caso di un incidente stradale.

Spesso la malattia cronica si accompagna a disabilità permanenti

che compromettono in modo determinante la qualità di vita della persona

che ne è affetta.

La malattia, come la disabilità possono insorgere in diverse fasi della

vita di un individuo generando un diverso processo adattivo. Sperimentare

una disabilità congenita, in una fase iniziale di sviluppo anatomo-fisio-

psicologico, produrrà una risposta adattiva diversa rispetto ad una disabilità

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acquisita in fase adulta. Il soggetto che nasce o sperimenta precocemente una

condizione cronica di malattia, dovrà necessariamente trovare, sin da subito,

una strategia di adattamento che sarà graduale e strettamente connessa alla

gravità e all’andamento della malattia. Egli percepirà come “normale” la sua

patologia cronica e considererà come malattia solo la sintomatologia non

legata con la sua condizione di base. Diversa sarà la reazione di una persona

che, a causa di una malattia o di un trauma, avendo vissuto gran parte della

propria vita in condizioni “normali”, improvvisamente si scopre disabile.

L’evento produrrà necessariamente una crisi emotiva nella persona costretta a

vivere, suo malgrado, una condizione nuova ed inaspettata, con cui dovrà

misurarsi, ogni giorno, se non vorrà determinare un peggioramento della sua

qualità di vita.

Riepilogando possiamo affermare che la malattia e la disabilità possono

essere legate tra loro ma senza nesso di causa-effetto. Ad una malattia anche

grave, non necessariamente corrisponde una disabilità che può essere, invece,

spesso la causa di un evento traumatico. La disabilità, pertanto, non è

sinonimo di malattia e l’ambiente naturale della persona disabile, non è un

luogo di cura.

Il confine di separazione dei diversi significati è molto sottile ed è per

questo che si è sentita la necessità di uno schema di riferimento allo scopo di

definire e distinguere termini spesso intercambiabili ed utilizzati in maniera

confusionaria tra gli stessi addetti ai lavori.

Una prima classificazione fu avanzata dall’OMS nel 1980 attraverso il

modello ICIDH (International Classification of Impariments, Disabilities

and Handicaps) che definiva e distingueva i concetti di menomazione,

disabilità ed handicap nel modo seguente:

1) menomazione: una mancanza o un’anomalia delle strutture

anatomiche, fisiologiche o psicologiche o delle loro funzioni;

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18

2) disabilità: qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a

menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o

nell’ampiezza considerati normali per un essere umano;

3) handicap: condizione di svantaggio conseguente a una

menomazione o a una disabilità, che in un certo soggetto limita o

impedisce l’adempimento del ruolo normale o in relazione all’età,

al sesso e ai fattori socioculturali.

L’ICIDH segue l’impostazione dell’approccio biomedico che tende a

minimizzare la componente relazionale dell’individuo e la sua soggettività.

Inoltre i concetti di menomazione, disabilità ed handicap sono connessi tra

loro in una logica lineare di causa ed effetto. Successivamente, nel 1997

l’OMS ha proposto l’ICIDH-2 per attribuire un valore positivo a tali termini

connessi tra loro in una logica circolare e complessa, esaltando la relazione e

la partecipazione sociale della persona. Tuttavia in entrambi i modelli ICIDH

gli interventi di riabilitazione o di integrazione scolastica e lavorativa

avevano come unico obiettivo la riduzione dell’handicap, connotando la

menomazione e la disabilità come qualcosa di ineluttabile e che si potevano

affrontare esclusivamente con interventi specialistici e di tipo biomedico.

Nel 2001 l’ICIDH viene sostituito dall’ICF “modello di classificazione

internazionale del funzionamento della disabilità e della salute”, il cui scopo

è quello di evidenziare le componenti della salute ed eliminare il concetto di

handicap che viene inglobato in quello di disabilità. Non si pone più l’accento

sulla menomazione, abbracciando una popolazione specifica, ma sul concetto

di salute, ampliando, di fatto, la platea all’intera popolazione. Nella nuova

concezione la disabilità è la conseguenza di una discordanza tra le richieste

dell’ambiente e le prestazioni del singolo individuo8.

8 Cfr. SLIDE DAL TITOLO: M1. Le definizioni di menomazione, disabilità ed handicap, in

www.psicologiadellasalute.org/archivio/membri/allegato_89.pdf.

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19

Si deduce quindi che l’ICF prende in considerazione l’aspetto

relazionale della disabilità con l’ambiente circostante aderendo a quel

modello bio-psico-sociale già esaminato nel paragrafo precedente9.

Sia nella malattia, come nella disabilità, l’atteggiamento del soggetto

risulta determinante per una riduzione delle implicazioni negative dello stato

invalidante. Il soggetto reattivo, anche se affetto da forti menomazioni e

disabilità, attiverà risposte efficaci e soluzioni adattive che gli consentiranno

una gestione ottimale della propria condizione.

Giunto a questo punto del lavoro ho esaminato la malattia e la disabilità

soffermandomi sulle differenze e sui legami che intercorrono tra di esse, ma il

mio focus si è indirizzato, principalmente, alle manifestazioni oggettive delle

due situazioni, non considerando affatto il vissuto della persona e la relazione

con la società.

Nel terzo ed ultimo paragrafo di questo capitolo affronterò la malattia e

la disabilità partendo dalla relazione sociale e dall’esperienza soggettiva di chi

vive la condizione cronica.

Analizzando il campo mentale, emotivo e spirituale di chi vive

l’esperienza e la sua relazione con l’ambiente potremo avere un quadro di

riferimento più complesso ove inserire la malattia e la disabilità e mettere in

luce le strategie di sopravvivenza che ogni individuo attiva nel corso della

propria esistenza10

.

9 Cfr. F. FERRUCCI, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra

natura e cultura, pp. 25-51. 10

Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come Riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, Armando Editore, Roma 2005, pp. 131-142.

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20

1.3 Gli approcci socio-psicologici al problema della persona malata con

disabilità

Esiste un concetto che possa definire la “normalità” in modo

inconfutabile?

Credo sia cultura diffusa associare la definizione di “normale” solo a

quelle persone che siano in grado di interagire, senza alcuna difficoltà, con

l’ambiente circostante. Se l’ambiente in questione, invece, venisse adattato

alle esigenze di coloro che hanno delle limitazioni, anche queste persone

sarebbero in grado di rapportarsi con esso, senza difficoltà.

Non si parlerebbe più di “normali” o di “disabili” ma di individui con

differenti capacità di mobilità e interazione con l’ambiente. Questa

affermazione di molti anni fa, frutto di una mia considerazione sulla

disabilità, non guardava alla tematica in tutta la sua complessità. Se ad una

prima lettura potrebbe risultare coerente, esaminandola più attentamente,

invece, essa manca della dimensione relazionale che attribuisce il carico delle

responsabilità tanto sul disabile, quanto sull’ambiente.

Scaricando, invece, la causa del problema totalmente sull’ambiente reo

di non essere adatto alle limitazioni del disabile, svuota l’uomo della

possibilità creativa, di quella libertà che lo contraddistingue dagli animali

prigionieri del determinismo causa-effetto.

Non si può negare, comunque, che la disabilità sia a tutti gli effetti un

fenomeno sociale per diversi motivi:

– per la sua drammaticità;

– perché richiama aspetti profondamente radicati nella cultura;

– perché politicamente vitale.

Le società convivono da secoli con il fenomeno della disabilità ed

hanno elaborato, nel corso dei secoli, modelli e approcci sempre più

complessi, allo scopo di inquadrare il fenomeno ed offrire risposte adeguate.

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21

Malattia e disabilità cominciano ad essere certificate secondo criteri

medici oggettivi dal sistema sanitario, in grado di distinguere fra veri e falsi

invalidi.

La disabilità entra in un sistema di tutela governativa attraverso il

cosiddetto Welfare State, “un tipo di sistema sociale che vuole garantire a

tutti i cittadini la fruizione dei servizi ritenuti indispensabili per la crescita

della collettività”11

.

Accanto ad un sistema di protezione di tipo assistenziale si inizia a

parlare di inclusione dei disabili nel tessuto produttivo attraverso norme

(L. 68/99) che vanno in una direzione di valorizzazione del potenziale

lavorativo e delle professionalità che quella persona, anche se in una

condizione di disabilità, è in grado di esprimere.

Si tenta, attraverso l’istituzionalizzazione della malattia e della

disabilità, di fornire risposte ad un problema sociale con una normativa che

considerasse l’inclusione e l’integrazione come fattori determinanti per lo

sviluppo individuale.

Dai primi approcci di tipo assistenzialistico, si passa così, a quelli di

tipo inclusivo delle società moderne, superando quella cultura dello stigma

(GOFFMAN, I saggi, 1963) secondo la quale la disabilità è “una identità

sociale stigmatizzata che influenza in diversi modi l’ordine delle relazioni

intersoggettive”12

.

Malattia e disabilità escono, così, dai confini biologici in cui erano state

chiuse dal modello medico e si confrontano apertamente con la società.

Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, nascono le

prime aggregazioni di disabili che spingono verso nuove forme di

partecipazione sociale.

11

SABATINI, COLETTI, Dizionario della lingua italiana, ed. 2008. 12

F. FERRUCCI, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e

cultura, pag. 35.

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22

Si va verso quel paradigma sociale che attribuisce alla società la

responsabilità delle condizioni disabilitanti. Si ridefinisce il concetto di

disabilità come “lo svantaggio sociale o la limitazione prodotta dall’attuale

organizzazione sociale la quale tiene poco, o per nulla, conto delle persone

che hanno deficit fisici, e così facendo li esclude dalla partecipazione alla

principali attività sociali”13

.

Il modello sociale, nato per superare il modello medico, è attraversato

al suo interno da diverse tipologie di approccio alla disabilità, allo scopo di

individuare i fattori sociali, ognuno dal proprio punto di osservazione, che

favoriscono la nascita delle condizioni disabilitanti.

Il concetto di ruolo, di identità sociale, di esperienza soggettiva della

condizione cronica sono tutti rivendicati dalle diverse prospettive del modello

sociale, a cui va dato il merito di aver superato i confini della dimensione

privata per approdare ad una dimensione pubblica della disabilità.

Entrambi gli approcci, però, hanno un limite e cioè quello di

assolutizzare una parte del problema. Da un lato l’approccio medico che

guardando alla disabilità come problema individuale legato alla

menomazione, trascura totalmente l‘organizzazione sociale come fattore

“discriminate”, dall’altro l’approccio sociale che negando la disabilità come

la conseguenza di una menomazione, sopravvaluta i fattori disabilitanti

generati da una specifica organizzazione sociale14

.

Riepilogando in questo paragrafo ho analizzato i diversi approcci

sociologici alla disabilità evidenziando i limiti che li contraddistinguono. Non

si può negare che la disabilità non sia connessa ad una menomazione

biologica dell’organismo, né si può trascurare il ruolo della società

nell’accentuare tali disabilità.

13

Ivi, pag. 51. 14

Cfr. F. FERRUCCI, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra

natura e cultura, pag. 70.

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Tuttavia per comprendere meglio il fenomeno della malattia e della

disabilità si deve partire dalla persona che vive la condizione cronica e dal

modo con cui si relaziona con la società.

L’evoluzionismo ci insegna che la rigidità è stato un fattore di

estinzione della specie ed invece l’adattamento si è rivelato un fattore

determinante per la sopravvivenza.

Non si può negare che la società “discrimina chi non corre

velocemente”, ma l’essere umano è dotato della creatività necessaria per non

restare indietro, anche partendo da una condizione di svantaggio. Molto

dipende dagli obiettivi, dalle strategie e dalle motivazioni che la persona è

capace di attivare nel suo campo esistenziale.

Attraverso la relazione con il proprio ambiente la persona è in grado di

promuovere cambiamenti a proprio vantaggio.

Nella mia esperienza di malato cronico ho vissuto momenti di chiusura

nei confronti degli altri. Il mio modo di vivere la malattia e la disabilità per

anni è stato controproducente in virtù della mia scelta di non condividere la

mia condizione di malato cronico con la società. Questo tipo di atteggiamento

amplificava il mio senso di disagio perché l’altro era da me visto come un

nemico che non poteva in ogni caso essermi d’aiuto.

“Qualsiasi organismo, in caso di necessità, cerca le risorse di cui ha

bisogno prima di tutto dentro di sé e, nel caso queste non fossero sufficienti,

nell’ambiente circostante”15

. Io, invece, al contrario di un atteggiamento

evoluzionistico/adattivo, avevo rinchiuso la mia malattia e le mie speranze di

cambiamento in una prigione interiore di cui ero l’unico custode. Così

facendo perdevo delle opportunità di crescita che solo attraverso il

confronto/scontro con l’ambiente avrei potuto cogliere.

15

M. PAPADIA, Il counseling come Riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia non

convenzionale, pag. 141.

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Otto Rank affermava che “la nevrosi è da attribuirsi proprio al

fatto che il paziente non può volere in maniera creativa”16

. Assumevo un

atteggiamento nevrotico come conseguenza della negazione della mia

malattia che riduceva notevolmente le mie possibilità di scelta.

“Maggiore è la salute mentale che un individuo acquisisce, maggiore è

la sua capacità di plasmare in maniera creativa gli elementi della vita, e di

conseguenza, più adeguato diventa il suo potenziale di libertà”17

.

Concludendo, la malattia e la disabilità, condizioni distinte ma spesso

collegate, non possono essere esaminate solo attraverso un approccio di tipo

biomedico.

Per comprendere le reali implicazione sulla vita della persona affettane

bisogna necessariamente considerare la dimensione soggettiva, diversa da

persona a persona, e il tipo di relazione ambientale che solo un approccio di

tipo bio-psico-sociale è in grado di evidenziare.

16

R. MAY, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Astrolabio, Roma

1991, pag. 17. 17

Ibidem.

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25

CAPITOLO II

LA MIA STORIA TRA MALATTIA E DISABILITÀ

2.1 Sintomatologia clinica

1982: artrite reumatoide sistemica infantile. Inizia ufficialmente

all’età di otto anni, con la diagnosi su esposta, il mio viaggio senza ritorno

nell’universo della malattia cronica ed in seguito in quello della disabilità.

Non potevo immaginare le conseguenze di quella malattia, troppo

piccolo per comprendere il significato di patologia progressiva e troppo

incosciente per capire il significato di malattia cronica ovvero “un disturbo di

durata indeterminata dovuto a cause non reversibili e per il quale non vi è

alcuna cura risolutiva”1; e così la mia infanzia è stata scandita da lunghi

ricoveri in ospedale e brevi rientri a casa.

L’artrite reumatoide è una malattia altamente invalidante ad esito

progressivo appartenente alla famiglia delle malattie autoimmuni cioè quelle

in cui il sistema immunitario impazzisce prendendo come bersaglio cellule

dello stesso organismo. La funzione del sistema immunitario, infatti, è

mantenere integri i confini dell’organismo e difendere l’identità biologica in

presenza di un agente esterno2.

Nell’artrite reumatoide il sistema immunitario prende come bersaglio

le articolazioni infiammandole e alterando, nel tempo, la loro normale

anatomia. Questo processo infiammatorio protratto nel tempo compromette

1 V. GUERRIERO, E. D’ONOFRIO, G.C. ZAVATTINI, Diagnosi ingrate. Perdita, dolore e

accettazione, in «Psicologia Contemporanea», n. 239, sett.-ott. 2013. 2 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, Armando Editore, Roma 2005, pag. 22.

“Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità,

bensì uscire da quella “zona grigia” in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva,

bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”.

(RITA LEVI MONTALCINI)

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la struttura delle articolazioni colpite provocando, nel breve periodo,

disabilità il più delle volte molto gravi.

Gesti naturali come alzarsi dal letto la mattina, scendere e salire le

scale, aprire il tappo di una bottiglia possono diventare difficoltosi e in alcuni

casi impossibili per i malati con rigidità o deformazioni importanti degli arti

superiori e/o inferiori.

Al mattino, i movimenti di una persona affetta da patologie reumatiche

possono essere paragonati alle scene rallentate di un film.

Nell’artrite reumatoide, in particolare, la caratteristica della rigidità

mattutina è molto accentuata e occorrono quelle due ore prima di riuscire a

muoversi con una “certa normalità”.

Il cambio posturale è molto difficoltoso, soprattutto dopo molte ore

trascorse a letto.

La malattia ha uno sviluppo simmetrico e progressivo. La mia prima

articolazione colpita è stata l’anca destra. Fu mia madre che si accorse il mio

zoppicare all’età di quattro anni. Correvo e poi cascavo per terra piangendo

senza un apparente motivo. Ma una madre sente il proprio bambino ed è così

che qualche giorno dopo cominciò il mio pellegrinaggio negli ospedali per

avere risposte in merito ad una malattia che bruscamente entrava nella mia vita.

2.2 L’infanzia in ospedale

Nel 1982 approdai a Milano e dopo una biopsia al polso destro, mi fu

fatta la diagnosi di artrite reumatoide sistemica infantile.

La dottoressa Gerloni entrò nella mia stanza dopo l’esito della biopsia e

fu molto dolce nel spiegarmi che si trattativa di una malattia cronica dalla

quale non si poteva guarire, ma con cui si poteva convivere se avessi seguito

le terapie e mi fossi impegnato nel fare la ginnastica.

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27

Nel breve periodo dovetti imparare a prendermi le mie prime

responsabilità. Iniziai a familiarizzare con il nome dei farmaci che ogni giorno

dovevo assumere dopo la colazione, il pranzo e la cena e compresi che ogni

pillola aveva una funzione diversa: la pillola per il calcio, la pillola per il

dolore acuto, la pillola per proteggere lo stomaco ed infine la pillola per

bloccare la progressione della malattia.

All’inizio era mia madre che mi ricordava gli orari e le pillole che

dovevo assumere, ma ben presto diventai autonomo in quella pratica

quotidiana che cominciava tristemente a far parte della mia vita.

La mattina presto noi bambini del Gaetano Pini venivamo svegliati

dalla puzza di alcol dei termometri per il controllo della temperatura. Quando

l’infermiera ritornava a riprendersi il termometro le chiedevo immediatamente

quanto segnasse perché imparai presto che nel caso avessi avuto più di

trentasette, allora la malattia era ancora “arrabbiata”.

Il tempo di dormire ancora un po’ e subito venivamo svegliati dal

rumore del carrello per la colazione.

Mia madre, ricoverata con me nel reparto infantile di reumatologia del

Gaetano Pini di Milano, mi aiutava pazientemente nel lavarmi e nel vestirmi,

e dopo aver assunto le mie pillole, mi accompagnava in palestra.

Il trattamento riabilitativo in queste patologie è di fondamentale

importanza nella riduzione delle rigidità e delle deformazioni articolari e nel

rinforzo muscolare.

La palestra del Gaetano Pini era, pertanto, il luogo del recupero funzionale,

ma per noi bambini, quella palestra rappresentava il luogo delle torture. Le

terapiste, Maurizia, Giusy e Suor Lorenza non potevano essere dolci nel

trattamento riabilitativo che altrimenti avrebbe perso la sua efficacia. E pertanto

piegavano ed estendevano con forza le nostre dolenti articolazioni (collo, spalle,

gomiti, mani, dita, ginocchia, piedi) noncuranti dei nostri piagnistei e in alcuni casi

delle nostre grida, anche se in fondo sapevamo che lo facevano per il nostro bene.

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2.3 Una strana adolescenza

Dal 1982 al 1991 per nove anni consecutivi i miei contatti con Milano

furono periodici. I tempi di degenza erano lunghi, alternavo ricoveri in

ospedale a terapie da proseguire a casa.

Ho seguito parte delle scuole elementari nell’ospedale. Una stanza del

Pini era adibita ad aula scolastica e c’era anche l’insegnante che consentiva a

noi ragazzi di non restare indietro con i programmi e non perdere anni di

scuola. Ho frequentato la prima media interamente, mentre la seconda e la

terza non le ho frequentate a causa di un ricovero che mi ha tenuto lontano da

casa per due anni consecutivi intervallato soltanto dalle pause festive.

Recuperai due anni in uno, preparandomi da privatista.

In quel periodo avevo grossi problemi agli arti inferiori. Iniziavano a

formarsi delle erosioni alle anche e alle ginocchia.

I medici mi prospettarono degli interventi chirurgici ai tendini per

evitare un peggioramento della situazione.

Le anche erano quasi bloccate, ugualmente le ginocchia e questo mi

creava enormi difficoltà nella deambulazione al punto che nel 1989, l’anno in

cui cominciai la prima ragioneria, deambulavo ormai con tutori e stampelle.

Nei primi diciotto anni della mia vita, la malattia non mi ha concesso

alcuna tregua, l’andamento è stato acuto e progressivo nonostante rispettassi

le terapie e le indicazioni dei reumatologi di Milano.

Il mio corpo progressivamente si andava trasformando e perdevo

l’immagine di salute che mi aveva ancora accompagnato sino alla quinta

elementare. Le mie mani, le mie braccia, le mie gambe, ormai segnate dalla

malattia, nonché il pallore del viso, riflettevano un’immagine di sofferenza.

Ormai non camminavo più. Le ginocchia erano quasi flesse e il bacino

era condizionato da quella flessione. Mi spostavo a fatica con un deambulatore

con il quale riuscivo ad accennare una forma di passo, appoggiandomi sugli

ascellari e scaricando tutta la forza sulle braccia.

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Nell’estate del 1993, nonostante i lunghi periodi di assenza per la

cura della malattia, conquistai l’agognato diploma in ragioneria con la

votazione di 46/60.

2.4 Il disagio rifiutato

Nel settembre dello stesso anno mi sarei dovuto recare al Gaetano Pini

per sottopormi a degli interventi chirurgici ai tendini delle ginocchia e

scongiurare in tal modo gli interventi ben più invasivi di sostituzione

protesica agli arti inferiori.

Decisi, invece, di fuggire dalla malattia e forse da me stesso, ero stanco

di tutti quegli anni trascorsi in ospedale, non ero più disposto a pagare quel

prezzo senza ricevere in cambio alcun miglioramento della mia condizione.

Non ero pronto, non ero maturo, non ero consapevole, la paura mi

dominava. L’idea di sottopormi nuovamente a lunghi ricoveri in ospedale, a

quegli innumerevoli esami, ai camici bianchi, a chissà quanti interventi e a

chissà quante anestesie, mi terrorizzava. Non ero forte abbastanza per

affrontare tutto quello. E così in piena libertà decisi di prendermi un periodo

di “ferie dalla malattia”. Ormai ero maggiorenne e potevo decidere cosa fare

di me stesso.

La mia condizione, all’epoca, era di forte disabilità, ero dipendente da

mia madre in tutte le attività di vita quotidiana. In casa mi muovevo seduto su

una sedia a ruote da studio spingendomi con le gambe. Non accettavo, infatti,

la sedia a rotelle propriamente detta, perché dentro di me sapevo benissimo

che quella non era la mia condizione finale.

Una persona paraplegica è consapevole di non potersi spostare senza

sedia a rotelle e quindi accetta quel mezzo funzionale alla sua mobilità, anzi

quella sedia diventa parte di sé, diventa cioè le sue gambe. Non potrebbe fare

altrimenti. Diversamente io mi trovavo in quella condizione quasi per scelta e

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vivendo un forte senso di colpa per non aver fatto gli interventi chirurgici che

mi avrebbero forse consentito di camminare, accettando la sedia a rotelle,

avrei guardato in faccia il mio fallimento. Era una maniera elegante per

compensare quella vigliaccheria, lasciare aperta la porta alla speranza.

Dovevo pensare al mio futuro e decisi di iscrivermi alla facoltà di

Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari.

Studiai il mio primo esame, diritto privato, con enorme dispendio di

energie fisiche e mentali. Il giorno dell’esame non mi presentai. Mi accorsi

subito che quello non era il mio cammino. Non potendo frequentare le lezioni

e non avendo la possibilità di confrontarmi con gli altri studenti, da cui avrei

potuto trarre esperienza e motivazione, vidi lo studio come una condanna

all’isolamento.

Ripensando oggi a quell’anno da studente universitario, la mia

condizione di forte disabilità ha pesato tanto nella scelta di rinunciare alla

carriera universitaria.

Dovevo inventarmi qualcosa. Comprai un computer ed una stampante e

allestii una piccola tipografia casalinga. Cominciai a frequentare corsi di

informatica conseguendo diverse certificazioni per accrescere la mia

professionalità.

Divenni così un esperto di elaborazione testi. Mi ero inventato un

lavoro che si adattava bene alla mia condizione di estremo disagio fisico

perché mi consentiva di svolgerlo comodamente da casa evitando così il

problema di superare le barriere architettoniche presenti nel mio

appartamento.

Per sei anni da ottobre 1994 all’aprile 2000 la mia vita fu scandita dal

lavoro informatico che mi gratificava e mi consentiva di appigliarmi alla vita

nonostante il mio grave stato di disabilità.

L’estate, con i soldi guadagnati durante l’inverno, partivo in vacanza

accompagnato sempre da un membro della mia famiglia. Grecia, Croazia,

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Maratea, Sirmione hanno caratterizzato quei viaggi in cui mi sentivo come

trasportato dalla corrente.

Dal lunedì al venerdì veniva a farmi riabilitazione un fisioterapista e

con lui ascoltavo tristemente ogni giorno la stessa musica. Non riuscivo a fare

alcun progresso e anche quella fisioterapia era tristemente entrata a far parte

di un copione.

Ogni venti sedute il fisioterapista lasciava sul mio comodino un

biglietto e ricordo ancora la faccia di mio padre, quando glielo consegnavo,

che comunicava tutti i suoi dubbi sull’utilità di quella stanca pratica

quotidiana che si trascinava da otto anni senza un sussulto, senza un benché

minimo segnale di miglioramento; io lo guardavo tristemente e me ne andavo

con i suoi soldi e il mio senso di colpa.

La malattia mi stava concedendo una tregua. Anche mentalmente mi

ero distaccato al punto da seppellire nei meandri dell’inconscio, tutti gli anni

trascorsi a Milano.

2.5 Il disagio ascoltato

Nel 1999 qualcosa stava cambiando in me. L’inconscio era in subbuglio.

Ogni notte sognavo l’ospedale milanese, la terapista Maurizia e la dottoressa

Gerloni.

L’angoscia con cui mi svegliavo ogni mattina era il segnale che mi

trovavo nel pieno di una crisi interiore.

Cominciai ad ascoltare quel disagio e spesso mi assentavo con la mente

riflettendo sugli ultimi nove anni della mia vita. Era un disagio diverso dal

solito, spingeva di notte attraverso l’inconscio e si manifestava con l’angoscia

mattutina. Ma non ero ancora attrezzato per fare la rivoluzione. Dovevo

comunque fare qualcosa, altrimenti rischiavo di impazzire.

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32

L’inconscio mi diceva che la salute richiedeva un’attenzione, un

maggiore senso di responsabilità.

La prima azione fu cambiare il fisioterapista. Mi attivai a richiedere il

servizio dell’ASL che prevedeva il trattamento domiciliare in convezione per

le persone affette da patologie croniche.

Mariangela era la mia nuova fisioterapista. Mi disse durante un caffè

molti anni dopo che il primo giorno in cui venne a fare la valutazione con

l’assistente sociale, non voleva prendermi come paziente perché le avevo

trasmesso chiusura e ostilità. Ma immediatamente si ricredette e accettò di

prendermi in carico perché comprese il mio bisogno d’aiuto.

La musica cambiò sin dal primo giorno. Mi parlava, mi incitava, mi

chiamava per nome. In punta di piedi entrò nella mia storia. Indagò

sull’ospedale che mi teneva in cura, su chi fosse il mio reumatologo e

ascoltando le mie risposte vaghe e confuse, cominciò lentamente a farsi un

quadro della situazione personale e familiare.

Ci dedicammo al rinforzo muscolare degli arti inferiori con esercizi

progressivi e mirati. Dopo appena tre mesi di trattamento riuscivo a

deambulare molto meglio con il girello e riuscivo a caricare anche sulle

gambe. Poi passammo agli arti superiori e lentamente riacquistai l’autonomia

di lavarmi i capelli.

Mi sentivo rinnovato nel fisico, ma anche nella testa. La mia autostima

si nutriva di nuovi stimoli e non soltanto di lavoro. Cominciavo, grazie a

Mariangela, ad accettare la mia condizione, senza più nascondermi.

Mi stimolò ad indossare i tutori ortopedici che non utilizzavo più dagli

anni della ragioneria. Avevano un sistema di bloccaggio sulle ginocchia e mi

consentivano insieme alle stampelle di avere una discreta deambulazione

scaricando il peso anche sulle gambe.

Non fu facile riabituarmi poiché mi provocavano dei punti di

compressione e indolenzimento alle ginocchia e alle caviglie. Ma con

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costanza ed allenamento, piano piano, iniziai ad aumentare il tempo di

utilizzo e a camminare con più scioltezza, riuscendo anche a scendere e a

salire le scale con una strategia tutta personale: non piegando le ginocchia, le

scendevo saltando i gradini come un canguro, quando le dovevo salire,

invece, mi afferravo con un braccio al corrimano e con l’altro mi tiravo su

facendo forza sulla stampella.

Cominciammo a fare riabilitazione occupazionale all’esterno. Ricordo

quando mi lasciò da solo per mezzora in un centro commerciale per abituarmi

agli spazi aperti, ordinai un caffè e mi recai allo sportello bancomat per

effettuare il mio primo prelievo in libertà. Quando ritornò le dissi che ero

felice perché finalmente qualcuno credeva nelle mie potenzialità e lei rispose

che mi aveva semplicemente aiutato a tirarle fuori.

Avevo fatto enormi progressi in poco tempo. Nonostante le forti

limitazioni fisiche che l’artrite mi aveva provocato negli anni, cambiando

l’approccio mentale ero riuscito a riacquistare abilità insperate e a migliorare

decisamente la mia qualità di vita.

Nell’arco dell’esistenza di una persona si fanno esperienze, si

incontrano persone. Io avevo intercettato il mio mentore che aveva risposto al

mio SOS. Mariangela mi stava aiutando ad avere un atteggiamento nuovo,

aperto e fiducioso, in cui l’altro interviene quando non si è in grado di

procedere da soli. Il messaggio che mi stava trasmettendo era quello di non

aver paura di chiedere aiuto.

2.6 La crisi come spinta al cambiamento

Nel maggio del 2000 l’artrite reumatoide si riacutizzò dopo nove anni

di tregua, gettandomi in uno sconforto totale. Ero nel pieno della crisi e non

potevo più fuggire. Decisi di assumermi la responsabilità della situazione. La

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scelta di allontanarmi per così tanto tempo dalla reumatologia milanese

comportava di pagare il prezzo di quella profonda crisi.

Dovevo riallacciare i rapporti con Milano. Ricordo di aver balbettato

quando telefonai alla dott.ssa Gerloni che non sentivo da molti anni. Fu molto

accogliente e non mi giudicò per quel silenzio durato nove anni. Mi fissò una

visita con il chirurgo ortopedico che effettuava interventi di artroprotesi in

pazienti in condizioni difficili.

Il 18 gennaio 2001 fui visitato dal dottor Viganò che guardandomi negli

occhi mi rincuorò dicendomi che gli interventi, nonostante la situazione

rappresentata dalla lastre non fosse così semplice, erano fattibili. Ricordo di

aver avvertito la sensazione di poter volare nel preciso istante in cui udii

quelle parole.

Naturalmente la strada che mi si prospettava davanti era piena di

ostacoli e insidie. Dovevo sottopormi a quattro interventi molto invasivi di

sostituzione delle articolazioni di anche e ginocchia bilateralmente con protesi

in lega di titanio. Iniziavo con la gamba sinistra, quella più compromessa,

prima l’anca e successivamente il ginocchio a distanza di pochi giorni. Inoltre

non avrei potuto caricare la gamba operata almeno per tre mesi e mezzo, e

solo dopo questo periodo, avrei potuto poggiare per terra il piede ma con un

carico sfiorante. Durante gli interventi si perdeva molto sangue e pertanto mi

consigliava di fare dei salassi prima di ogni sessione operatoria per evitare

così di fare trasfusioni di altro donatore.

Ascoltavo parola per parola, mentre spiegava tecnicamente la

dinamica degli interventi, le tecniche utilizzate e i tempi di degenza e

contemporaneamente nella mia mente scorrevano le immagini di tutte le tappe

che avrei dovuto affrontare come se le stessi vivendo in quell’istante.

Mi disse mentre si congedava che il 30% della riuscita di un intervento

lo fa il chirurgo mentre il 70% lo fa il paziente con la riabilitazione e

l’atteggiamento, ed io guardandolo negli occhi gli risposi che la percentuale

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del mio contributo sarebbe stata più del 100% e che la mia unica paura era

sentirmi rispondere che gli interventi non si potessero fare. E lui mi rispose

che prima di mettermi in lista operatoria voleva guardarmi in faccia e

verificare di persona quanto forte era la mia determinazione nell’affrontare un

percorso che non sarebbe stato una passeggiata.

2.7 Strategia e problem solving

Nell’anno 2001 mi preparai psicologicamente e fisicamente agli

interventi. Frequentai una piscina per tonificare i muscoli delle gambe e con

la fisioterapista facemmo un programma di rinforzo ulteriore dei quadricipiti

femorali.

Mi recai due volte a Milano durante il corso del 2001 per eseguire gli

esami preparatori, come le tac tridimensionali, per valutare il diametro del

femore e della tibia. L’equipe chirurgica optò per delle protesi su misura per

le anche a causa delle piccole dimensioni del femore. Ebbi la fortuna di

conoscere anche l’ingegnere che avrebbe costruito quelle che in futuro

sarebbero diventate le mie gambe.

Gli strinsi la mano e gli chiesi di fare il massimo nel progettazione delle

protesi e lui mi rispose sorridendo che avrebbe messo tutta la sua esperienza

dato il caso delicato.

Il grande giorno arrivò. Quindici giorni prima depositai due sacche di

sangue da 400 gr ed il 5 febbraio 2002 mi sottoposi al primo intervento di

protesi all’anca sinistra.

Il mattino seguente, il dott. Viganò mi aggiornò che l’intervento era

andato bene e che la protesi progettata dall’ingegnere era perfetta, calzava al

millimetro.

A diciassette giorni dal primo intervento, come mi aveva preventivato,

ero nuovamente in sala operatoria per la protesi al ginocchio sinistro.

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Purtroppo il femore si scheggiò durante l’intervento chirurgico ed ebbi anche

un leggero collasso in sala operatoria che mi costrinse a dover accettare,

anche se a malincuore, una trasfusione di donatore in quanto avevo già

utilizzato entrambe le mie sacche di sangue.

L’incidente al femore fortunatamente non fu così grave da dovermi

ingessare, ma comportò comunque uno slittamento di circa venti giorni

dell’inizio della fisioterapia.

Furono giorni duri quelli che seguirono. La riabilitazione era molto

dolorosa. Per quattordici anni le mie ginocchia erano state piegate ed ora ne

avevo uno completamente esteso. Si stavano creando le condizioni per

ritornare a camminare.

Ricordo quando Margherita, la fisioterapista del reparto, mi estendeva il

ginocchio ed io pur di ottenere il massimo da quel trattamento stringevo i

denti, nel vero senso della parola, e per non mordermi le mani, mettevo in

bocca un fazzoletto. Mi spiegò che se ci fossimo fermati appena avvertivo il

dolore, il recupero dell’articolazione non sarebbe stato dei migliori e che il

massimo del guadagno si otteneva nell’immediato post-operatorio, quando

ancora non si erano venute a creare le aderenze che in una seconda fase,

invece, avrebbero limitato l’elasticità dell’articolazione.

Mi feci il segno della croce e mi abbandonai letteralmente al dolore

senza opporre alcuna resistenza e così, a distanza di un mese dall’intervento,

già apprezzavo i primi risultati.

Fui trasferito alla sede riabilitativa del Pini circa un mese e mezzo

dopo. La mia nuova terapista si chiamava Roberta e nonostante fosse più

giovane e apparentemente più sorridente di Margherita, mi dovetti ricredere

sulla dolcezza di un trattamento che rispecchiasse quell’immagine di donna.

Le sue mani erano forti e dure e non aveva pietà nel piegare ed

estendere un ginocchio in preda al panico più del sottoscritto. Ancora una

volta mi feci il segno della croce e mi abbandonai alle mani di Roberta che si

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affrettò a spiegarmi che lo faceva per il mio bene e che l’articolazione aveva

ancora margine di recupero per cui bisognava continuare su quella strada. E la

strada la calpestai letteralmente appena un mese dopo.

Il chirurgo in visita dalla sede centrale mi dette il nulla osta al carico

sfiorante che consisteva nel poggiare il piede per terra senza metterci tutto il

peso. Con l’aiuto delle stampelle ascellari, assaporai, dopo circa quattordici

anni, cosa significasse mettere un passo, piegando ed estendendo il ginocchio,

come una persona “normale”.

Il tempo di degenza nel reparto riabilitativo volò senza accorgermene e

si concludeva così la prima fase del mio programma verso l’autonomia.

Il 29 maggio del 2002 rientrai in Puglia con mia madre che mi era stata

accanto tutto quel tempo e anche grazie al suo sostegno e alla sua ironia

creativa ero riuscito a superare quella prima fase.

L’estate l’ha trascorsi in un centro di riabilitazione ad Acquaviva Delle

Fonti. Non volevo assolutamente fermarmi con il recupero della mia nuova

gamba. Non sbagliai a fare quella scelta in quanto tonificai ulteriormente la

muscolatura.

Agli inizi di settembre salì a Milano per i salassi ed il 24 settembre del

2002 entrai in sala operatoria per la terza volta nell’arco di sette mesi.

Nonostante si è accompagnati da una forte motivazione e

consapevolezza, ogni volta che si entra in sala operatoria, si viene dominati

dalla paura, la circolazione si ferma e il corpo si mummifica per il freddo che

ti avvolge completamente. Sfido chiunque a non aver provato queste

sensazioni in vita sua, anche se ci si deve sottoporre al più banale degli

interventi. Sei ore dopo ero già nella mia stanza con la gamba destra che per

spirito di solidarietà nei confronti della gamba sinistra, iniziava il suo

percorso di restyling.

La notte non chiusi occhi dai dolori e fui costretto a chiamare più volte

l’infermiera per farmi somministrare gli antidolorifici.

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Avevo già utilizzato una delle mie due sacche di sangue e ne avanzava

un’altra per l’ultimo intervento. Esposi con fermezza le mie preoccupazioni al

dottor Viganò che fece mettere in cartella una terapia che usano

impropriamente alcuni sportivi per aumentare le loro prestazioni atletiche.

Pensai che stavo per essere dopato.

Il giorno dopo iniziai una terapia a base di eritropoietina e fiale di ferro

e la settimana seguente, meravigliandosi dell’ottimo recupero delle condizioni

generali, l’equipe chirurgica programmò l’intervento al ginocchio destro,

quello che sarebbe stato il taglio del traguardo finale.

La vigilia del mio ultimo intervento coincideva con il giorno del mio

compleanno. Mi dovevo accontentare di un menù a base di un’ottima pasta in

bianco, un pollo lesso e come dolce, frutta cotta. La sera il programma

prevedeva una depilazione completa della gamba, una cena a base di pastina

in brodo di verdure e la frutta cotta come dessert. In tarda serata la ciliegina

finale: l’infermiere entrò nella stanza con un clistere colmo di un liquido

trasparente ed io pensai che quello sarebbe stato per me un compleanno

davvero “speciale”.

Uscii dalla sala operatoria in splendida forma. La notte riuscii anche a

riposare. Il giorno seguente, terminato l’effetto dell’anestesia, il dolore arrivò

come da copione e per circa un mesetto fui dipendente dagli antidolorifici.

Seguii lo stesso iter della gamba sinistra. Scarico totale per circa tre

mesi e riabilitazione con Margherita.

Il 15 ottobre fui trasferito al polo riabilitativo per la seconda volta

nell’arco di quell’anno e iniziai nuovamente il trattamento con Roberta. Dopo

circa un mese di riabilitazione arrivò il grande giorno.

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39

2.8 Obbiettivo raggiunto

Il 28 novembre del 2002 è rimasto scolpito nella mia memoria come il

giorno più bello della mia vita.

Il chirurgo in visita dalla sede centrale mi disse che avrei potuto

caricare anche la gamba destra in quanto il processo di calcificazione osseo

era ormai a buon punto, pertanto, mi invitò ad alzarmi in piedi.

Era la prima volta, dopo quattordici anni dall’ultima, che mi rimettevo

in piedi senza tutori. Avevo assaporato già quella sensazione con l’altra

gamba, ma ora era diverso, perché entrambe le gambe erano libere da quelle

fastidiose imbragature ortopediche.

Il sogno diventava realtà. Mia madre mi aiutò ad alzarmi e senza troppa

fatica ero in piedi da solo. Il chirurgo guardandomi negli occhi mi disse:

«Raffaele ce l’abbiamo fatta».

Il 20 aprile del 2004 ho conseguito la patente di guida e con essa la mia

libertà di spostamento.

2.9 Il nuovo programma

Oggi posso serenamente affermare che la mia artrite reumatoide è

clinicamente spenta.

Non ho più paura di affrontarla. L’ho presa sotto braccio senza più

abbandonarla.

Circa una volta ogni due mesi mi reco presso la reumatologia del

Policlinico di Bari per la somministrazione di una terapia infusionale che ha

come obiettivo quello di stabilizzare la progressione della malattia da un

punto di vista clinico. Una volta ogni due anni, invece, mi reco all’Istituto

Ortopedico Gaetano Pini di Milano per eseguire dei controlli chirurgici alle

protesi e a tutte le articolazioni.

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Avere una patologia cronica significa per la persona affettane assumersi

la responsabilità di dover convivere per tutta la vita con le difficoltà e i

sacrifici che la malattia comporta per fronteggiarla efficacemente.

Prendere coscienza della malattia è indispensabile per una gestione

ottimale della propria condizione. Non si possono superare o quantomeno

alleggerire le problematiche che una malattia cronica comporta, come nel

caso dell’artrite reumatoide, se non ci si pone con un atteggiamento maturo e

responsabile che porti alla risoluzione delle problematiche connesse alla

patologia, man mano che si presentano.

Deambulo senza stampelle sulle superfici piane. Le difficoltà maggiori

le incontro nel fare i dislivelli a causa della limitata flessione delle anche e

delle ginocchia.

Nelle attività di vita quotidiana ho raggiunto la piena autonomia.

Naturalmente ho dovuto ingegnarmi per conquistarla e pertanto nel vestirmi

utilizzo degli ausili che mi permettono di superare la limitazione della

flessione degli arti inferiori.

Apprendere dall’esperienza. È questo che ho iniziato a fare per

soddisfare la mia sete di autonomia.

Un episodio è stato illuminante. Ero in auto fermo in una piazzola di

sosta mentre parlavo con una mia amica che mi indicava la strada per

raggiungerla nel luogo dell’appuntamento. Improvvisamente il cellulare mi

scivolò dalle mani e si incastrò tra il sedile e lo sportello conducente. La

batteria si sganciò e la chiamata si interruppe bruscamente. Fui colto dal

panico, tentai di raccoglierlo ma invano a causa della limitazione ai polsi e

alle dita che mi impediva di infilare la mano negli spazi stretti. Raggiunsi la

prima stazione di servizio ed un benzinaio mi aiutò a raccogliere il cellulare e

la batteria. Lo ringraziai e approfittai della sosta per fare il pieno.

È stato quell’episodio che mi ha messo in faccia la mia disabilità e tutti

i miei limiti di persona affetta da malattia cronica.

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Da quel giorno per raccogliere gli oggetti da terra utilizzo delle pinze

prensili che ho distribuito in diversi ambienti della casa per essere sempre

pronto ed attrezzato ogni qual volta cade un oggetto per terra. Anche in auto

ho una pinza prensile ed una calamita che utilizzo per la mia autonomia.

Oggi quando cade per terra il cellulare o qualsiasi oggetto non vado più

nel panico. Serenamente, apro il bagagliaio, prendo la pinza prensile e sono

felice di risolvere il problema in totale libertà.

“Il numero di comportamenti che noi esseri umani possiamo mettere in

atto in risposta ad una determinata sollecitazione esterna è incomparabilmente

superiore a quello di tutte le altre specie animali (…)”3.

La conoscenza dei miei limiti fisici ha stimolato la mia mente creativa

affinché potessi trovare delle soluzioni per superare i limiti stessi. L’uomo,

infatti, non rincorre l’accettazione del limite bensì il modo di come superarlo4.

L’essermi posto l’obiettivo dell’autonomia personale mi ha

permesso di mettere in atto una tale quantità di risorse che nemmeno

io pensavo di avere.

L’uomo, in quanto essere bioenergetico-mentale e spirituale, ha dentro

sé l’attitudine al porsi e a risolvere problemi, sia per scelta, sia per necessità,

seguendo una dinamica evolutiva5.

La malattia cronica, secondo la mia esperienza, se da una parte priva

della possibilità di fare alcune esperienze, dall’altra offre la possibilità di

viverne molte altre diverse ed ugualmente intense.

La malattia mi ha reso più semplice e l’aver vissuto il dolore mi ha

aiutato a comprendere la complessità delle emozioni umane. Non esiste solo la

3 M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia non

convenzionale, pag. 24. 4 Frase pronunciata dal Prof. MARIO PAPADIA durante una lezione sulle tecniche

dell’autobiografia. 5 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pag. 132.

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gioia e questa non la si può apprezzare autenticamente se non si è avuto il

privilegio di vivere anche l’emozione opposta.

Ho imparato a non farmi più inibire dalla malattia. Affronto meglio le

sfide, spesso le cerco ed apprendo sia dai miei successi, sia dalle mie

sconfitte, vivendole con un atteggiamento di crescita e di maturazione

personale. Ho sperimentato, inoltre, quanto l’autoironia possa aiutare ad una

relazione con gli altri, aperta e priva di ogni imbarazzo.

È stata questa consapevolezza la chiave che ha favorito il mio nuovo

modo di vivere e sentire la malattia e la disabilità.

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CAPITOLO III

TRE ANNI D’ACCADEMIA

e

LA MIA NUOVA VALIGIA DEGLI ATTREZZI

3.1 Cenni sul Modello della Riprogrammazione

L’essere umano è il risultato di un processo di selezione naturale che è

avvenuto nel corso di miliardi di anni.

La specie umana non nasce damblè e la struttura anatomo-fisio-

psicologica di cui ogni individuo è composto, si è formata grazie alla

trasmissione del codice genetico, da un organismo ad un altro, attraverso una

logica intelligente che prevedeva la ripetibilità, la permanenza e la

malleabilità delle informazioni geniche.

Il Dna è, dunque, il “programma vitale” che ha permesso la presenza

dell’uomo sulla terra. Grazie al codice genetico, sequela d’istruzioni

contenute al suo interno, ha reso possibile l’evoluzione delle specie superiori.

Ma l’essere umano non è solo programmato biologicamente, il suo patrimonio

genetico costituisce, infatti, la piattaforma su cui si installeranno altre

programmazioni frutto dell’interazione con l’ambiente.

L’uomo è, quindi, una “macchina programmatica” il cui scopo

principale è quello della sopravvivenza che persegue attraverso la

riproduzione, i legami parentali, la solidarietà comunitaria, l’affermazione

del proprio sé, nel tempo e nello spazio.

Attraverso la relazione ambientale si creano e si sviluppano le sue

competenze esistenziali, la sua filosofia di vita, la sua scala di valori, la

percezione del sé, il suo modo di agire, etc. Tutto questo è programma, cioè

“La nostra grandezza di esseri umani risiede non tanto nella grandezza di ricostruire

il mondo, quanto in quella di ricostruire noi stessi”. (MAHATMA GANDHI)

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che assolve ad una struttura ripetibile costituita da un obiettivo, una strategia

per realizzarlo ed un’energia per sostenere il lavoro verso lo scopo prefissato.

Il lavoro compiuto dalla famiglia, dalla scuola, dalla società

nell’interazione con l’individuo è definita programmazione sociale.

Nulla di ciò che appartiene all’essere umano dovrebbe essere

immutabile. Riprogrammarsi è possibile, infatti, una persona adeguatamente

motivata, formata in un ambiente sufficientemente positivo e stimolante, può

generare in se stessa un cambiamento volontario nel suo modo di pensare, nel

suo modo di reagire agli stimoli, nel suo modo di relazionarsi con l’ambiente,

può sperimentare, se determinata, una nuova strategia di vita1.

3.2 La mia malattia sotto la lente della riprogrammazione

L’assunto “Ciò che mi accade è ciò che io sono” apre una delle cinque

tappe del Counseling come Riprogrammazione e più precisamente quella in

cui il consulente lavora per la definizione del problema che il cliente porta nel

setting. Seguono la definizione dell’obiettivo e l’instaurazione del patto di

consulenza, la deprogrammazione con cui attraverso tecniche di

disconnessione mentale (confutazione credenze) e disaggregazione

bioenergetica (disgusto) si destruttura il programma operante fonte del

disagio, l’inserimento del nuovo programma con cui si creano nuovi obiettivi

e nuove strategie attraverso tecniche di maieutica ed infine la messa in moto

delle risorse necessarie al cambiamento.

Se analizzo le diverse fasi che hanno caratterizzato la storia della

malattia sino alla decisione di sottopormi agli interventi di artroprotesi è

1 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, Armando Editore, Roma 2005, pp. 10, 15, 16, 17, 56, 57, 70; ID, La

riprogrammazione esistenziale. Psicoterapia, counseling, medicina naturale, Armando

Editore, Roma 2010, pp. 87-88.

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possibile compiere un’analogia con le tappe del counseling della

riprogrammazione.

Durante la mia infanzia la gestione della mia salute era delegata ai miei

genitori. Nonostante, però, fossi appena un bambino, come scritto nel capitolo

precedente, ero molto informato sulla mia patologia e mi caratterizzava un

atteggiamento responsabile.

Il mio ruolo di bambino, comunque, non mi consentiva di incidere più

di tanto sulle scelte che riguardavano la gestione della mia malattia e le mie

responsabilità si limitavano alla conoscenza dei nomi e degli orari di

assunzione dei farmaci.

Raggiunta la fase della maturità biologica, non è seguita la maturità

dell’Io, ovvero una programmazione capace di esprimere la libertà, la

capacità di giudizio e di affrontare i problemi secondo criteri di valutazione e

di opportunità. Allorquando la situazione richiedeva una critica importante,

cioè una deprogrammazione della mia filosofia esistenziale, ha prevalso una

programmazione rigida e resistente al cambiamento.

Non ho abbracciato la crisi come opportunità di crescita rimanendo

ancorato alla vecchia strategia di vita che mi aveva sostenuto sino a quel

momento. È evidente che non disponevo degli strumenti utili per

comprendere che il disagio esistenziale non andava rifiutato, ma piuttosto

indagato, palesato, criticato ed in seguito sfruttato per promuovere il

cambiamento.

Il disagio era rappresentato dalla mia malattia che chiedeva di essere

ascoltata: l’avevo rimossa dalla mia dimensione biologica; l’avevo

allontanata dalla mia dimensione energetica, non occupandomene più

amorevolmente; l’avevo rifiutata a livello mentale, negandola concettualmente

e comportandomi come se non fossi affetto da una malattia cronica; ed infine

l’avevo rimossa dal mio livello spirituale in quanto non avendo la

consapevolezza di andare oltre il mio corpo e la mia malattia, ne rimanevo

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imprigionato non riuscendo così ad intercettare valori di riferimento

universale.

La mia fase non evolutiva è durata nove anni. Guardando a quel periodo

con gli occhi del counselor della riprogrammazione la resistenza ad

abbandonare la vecchia strategia di vita si è dimostrata più forte del mio

bisogno di autonomia.

La programmazione rigida che mi sosteneva in quegli anni non mi

consentiva di apportare grossi cambiamenti alla mia strategia esistenziale,

nonostante il forte disagio.

Avevo ridotto in maniera considerevole il mio campo esistenziale,

scegliendo un atteggiamento passivo e poco responsabile.

Le mie risorse energetiche erano notevolmente basse, non avendo fonti

sufficienti per alimentarle anche a causa di un ritiro sociale molto importante.

L’ambiente era per me un nemico da cui star lontano in quanto

l’esposizione ed il confronto con gli altri avrebbe comportato una messa in

discussione di quella strategia esistenziale il cui scopo consisteva nel riuscire

a rimanere in quel “guscio protettivo” quanto più tempo possibile.

L’unica fonte energetica consisteva nel lavoro di battitura tesi che mi

aiutava a non pensare alla malattia e nutriva il mio bisogno di autoaffermazione.

Caratterialmente ero introverso, chiuso e poco empatico. Ogni persona

che cercava di avvicinarsi con lo scopo di indagare il mio vissuto,

l’allontanavo con scuse e bugie. Mi sceglievo le persone con cui relazionarmi.

“Si entra in rapporto consapevole solo con soggetti con i quali si è già

legati dallo stesso linguaggio programmatico, per assonanza o dissonanza.

Coloro che sono al di fuori della pertinenza bioenergetica, mentale e

spirituale di un individuo non sono nemmeno visti da quest’ultimo (…)2.

2 M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia non

convenzionale, pag. 67.

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Persone superficiali e chiuse da cui non avrei potuto aspettarmi

domande e riflessioni, rappresentavano il mio campo di assonanza. E così la

mia vita si trascinava in un alternarsi di schemi e rigidità, situazioni e

abitudini ripetitive che manifestavano la mia incapacità di vivere come

individuo libero.

La condizione di chiusura in cui avevo scelto di vivere si rifletteva sulla

patologia che era ferma con me, quasi volesse attendere, come in una partita a

scacchi, le mie mosse per infliggermi lo scacco matto finale.

La riacutizzazione della mia artrite reumatoide, dopo dieci anni di

apparente tregua, come già esposto precedentemente, è stata la conseguenza

diretta di scelte e comportamenti che non promuovevano il mio benessere

olistico, bensì la negazione di una condizione cronica che, invece, richiedeva

tutt’altro genere di attenzione.

Cosa ha determinato il desiderio di innovare quella strategia

esistenziale ormai obsoleta per le nuove sfide che la vita mi chiedeva di

cogliere? Certamente l’aver ascoltato il mio disagio che si affacciava di notte

in tutta la sua potenza ed anche il desiderio di riappropriarmi di un’esistenza

in cui mi limitavo, ormai, a ricoprire un ruolo di comparsa.

Come affermava giustamente Jung, “i grandi cambiamenti della vita,

hanno molto più a che fare, di regola, con gli istinti e con altri misteriosi

fattori inconsci che con la volontà cosciente e con le buone intenzioni”3.

Ma poiché l’uomo è dotato di una struttura multidimensionale in cui

l’Io connette la totalità di ciò che un organismo è bioenergeticamente,

mentalmente e spiritualmente, va da sé che quel mio disagio che si

manifestava attraverso l’inconscio, è stato successivamente accolto ed

elaborato dalla mia mente razionale e grazie alle energie motivazionali è stato,

in fine, trasformato nel mio nuovo programma.

3 R. MAY, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Astrolabio, Roma

1991, pag. 20.

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48

Nel momento stesso in cui decisi a livello mentale di affrontare la dura

prova degli interventi, cioè quando fissai chiaramente il mio obiettivo,

immediatamente misi in atto una strategia finalizzata al suo raggiungimento.

Un obiettivo chiaro e distinto ha il potere di sprigionare tutte le forze

energetiche di cui dispone l’essere umano e di svolgere la funzione del faro

attrattore che illumina la strada da percorrere4.

La deprogrammazione e la riprogrammazione si intrecciavano in una

spirale fluida e dinamica. E così, man mano che mi disaffezionavo

emotivamente dal mio vecchio schema di vita, lentamente si facevano strada

nuovi pensieri, nuove relazioni e persino nuove abitudini di comportamento.

Il vuoto creato dalla cancellazione della vecchia strategia esistenziale

veniva riempito da una consapevolezza che coinvolgeva totalmente la mia

natura di essere umano.

Contattai l’ospedale che mi aveva tenuto in cura nell’infanzia, fissai

l’appuntamento con il chirurgo ortopedico ed una volta che quest’ultimo mi

rassicurò sulla fattibilità degli interventi, mi sottoposi ad un allenamento

fisico per elasticizzare e tonificare quanto più possibile la mia muscolatura e

prepararmi così, in maniera ottimale, alla sfida che avevo ingaggiato con

l’evoluzione.

Raggiungere l’obbiettivo non è semplice, ma se hai uno scopo,

probabilmente con un po’ di coraggio è facile che tu possa arrivare dove ti sei

prefissato.

È stata la mia determinazione, l’umiltà di ammettere che errare è

umano, il mio aprirmi alla vita, l’assunzione delle mie responsabilità e

soprattutto l’atto d’amore verso me stesso che mi ha permesso di ritornare a

camminare dopo tredici anni e ridurre notevolmente la mia condizione di

disabilità.

4 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 29, 106, 131.

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“Ciò che mi accade è ciò che io sono” è la storia della mia malattia.

Attraverso “un cambiamento” nel modo di relazionarmi con la malattia e con

l’ambiente ho generato “un cambiamento” che si è riflesso positivamente

sulla condizione di salute e non solo.

La messa in atto del mio nuovo programma, infatti, si è

automaticamente riflesso anche sul mio ambiente familiare e sociale con cui

ho creato una relazione più empatica ed autentica. Ogni comportamento

umano è, infatti, un movimento, simbolico o reale, che si svolge all’interno di

un ambiente di campi interattivi5.

Il movimento e i cambiamenti che ho sollecitato nella mia vita nei dieci

anni dal 2000 al 2010 li ho compiuti spontaneamente ed autonomamente.

Poiché ogni programmazione tende a sopravvivere per inerzia e quindi a

permanere finché è utile, normalmente solo una crisi genera l’esigenza del

cambiamento e rende possibile un intervento di riprogrammazione per

rimettere in moto l’evoluzione6.

È necessario, quindi, che la persona non fugga dal disagio ma lo utilizzi

per mettere in discussione (deprogrammazione) la “programmazione

operante” responsabile del suo malessere e non più adatta a sostenerlo nella

sua spinta evolutiva7.

Spesso accade, invece, che la persona non abbia gli strumenti per uscire

dal disagio ed è in questi contesti che un intervento di counseling si rende

strettamente necessario.

5 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 66, 71, 103. 6 Cfr. M. PAPADIA, La riprogrammazione esistenziale. Psicoterapia, counseling, medicina

naturale, p. 87. 7 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 69-70.

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50

3.3 Un nuovo equipaggiamento emotivo, mentale e comportamentale

Attraverso gli studi sul Counseling della Riprogrammazione Esistenziale

ho potuto comprendere i cambiamenti fondamentali che hanno caratterizzato

la storia della mia malattia e inquadrarli come appartenenti ad un processo

evolutivo di cui ogni essere umano può esserne l’artefice.

Grazie ai tre anni di formazione nell’Accademia, infatti, ho acquisito

degli strumenti che mi consentono di avere con la realtà un approccio più

diretto e concreto eliminando quella tendenza, che avevo in passato,

d’interpretare ogni evento con il filtro del pregiudizio.

L’assunzione della responsabilità personale celebrata dall’assunto

“Ciò che mi accade e ciò che io sono” ha contribuito a cambiare l’atteggiamento

di scaricare sull’ambiente la frustrazione derivante dai miei fallimenti.

Partendo da questa prospettiva, le responsabilità ricadono su noi stessi e

non, come spesso tendiamo a fare, sull’ambiente circostante, reo di essere la

causa dei nostri fallimenti e delle nostre frustrazioni.

Ma non sempre si ha l’onestà intellettuale di pensare e comportarsi

secondo questa visione, in quanto, è più facile prendersi i meriti personali di

un successo e scaricare sugli altri le responsabilità delle nostre sconfitte. È

comodo pensare che siano gli altri la causa dei nostri insuccessi, perché in tal

modo evitiamo di guardare negli occhi il nostro fallimento alleggerendone il

peso sulla nostra coscienza. “Accettare l’idea che le nostre sconfitte

dipendano, di regola, da noi e non dal prossimo o dal destino avverso, ci

consente di apprendere da esse, cogliendo le opportunità di crescita che esse

ci propongono”8.

Nel raggiungimento dei nostri personali obiettivi e nelle relazioni

familiari e sociali non dobbiamo mai dimenticare il contributo personale, la

quota di responsabilità e le complicità che mettiamo in atto per favorire una

8 G. CAROFIGLIO, Il destino non è sempre cinico è baro, in «Myself», L’ultima pagina,

febbraio 2013, p. 196.

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51

data situazione o una certa relazione. Tendiamo, infatti, a non vedere le

complicità e a colpevolizzare gli altri, soprattutto quando, ad un certo punto,

vogliamo cambiare abitudini di vita o desideriamo uscire da ruoli fissi e non

abbiamo l’onesta di assumerci la responsabilità della scelta che stiamo per

compiere.

Il ruolo, se da una parte caratterizza l’azione di un individuo nel gruppo

di appartenenza, dall’altro rischia di vincolarlo in maniera rigida ad esso e

condurlo nel disagio.

Ma i conflitti rimossi ritornano sotto forme di tensioni interne e si

ripercuotono sulla nostra struttura anatomo-psico-fisiologica.

La mia salute olistica è molto migliorata da quando ho compreso che

ogni mia azione, emozione, reazione sono il frutto di una filosofia di vita di

cui sono io l’unico responsabile.

Ho imparato ad assumermi le conseguenze di ogni mia scelta e di ogni

mio comportamento consapevole del fatto che esso non cade mai nel vuoto,

ma produce una risposta nell’ambiente in cui avviene. L’essere umano in

quanto creatura che esiste e agisce, genera campo.

Il campo è lo spazio creato dalla relazione che la nostra struttura

multidimensionale ha con se stessa e/o con gli altri scambiando contenuti

mentali ed emotivi. È l’aria che respiriamo in famiglia, in un’associazione

o in qualsiasi altro contesto in cui si condividono, umori, pensieri e

decisioni9.

Grazie a questa nuova consapevolezza sono riuscito a mettere in crisi

un ruolo familiare che non mi faceva evolvere, riappropriandomi di uno

spazio di libertà personale.

La libertà è un altro concetto che la riprogrammazione esistenziale mi

ha fornito, un’invenzione dalla mente umana nel corso del tempo.

9 Cfr. M. PAPADIA, La riprogrammazione esistenziale. Psicoterapia, counseling, medicina

naturale, pp. 47-48.

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52

Noi non nasciamo liberi, ma comunque veniamo al mondo con il

potenziale della libertà sviluppato via via che diventiamo adulti.

La libertà è, pertanto, una programmazione che l’individuo apprende

durante la fase formativa e grazie alle sue esperienze personali, attraverso la

quale scegliamo tra le diverse opzioni dell’esistenza sulla base di un giudizio

di convenienza personale.

Ma l’efficacia della relazione con l’ambiente in cui ci si muove dipende

molto dal tipo di comunicazione che si intende sviluppare.

La comunicazione è autentica quando colui che parla non è in

disaccordo con quanto percepito interiormente, perché altrimenti si corre il

rischio di generare una sensazione di “non detto” e di disagio nell’ascoltatore

che non coglierà il reale contenuto del messaggio.

L’empatia, invece, è quella capacità di ascoltare l’altro non solo dal

punto di vista del “parlato”, ma percepirlo anche nella sua dimensione

corporea, mentale e spirituale. Sentire l’altro dentro se stessi pur mantenendo

la propria individualità ed interiorità10

.

Attraverso una comunicazione il più possibile chiara ed empatica sono

riuscito a ridurre notevolmente quelle incomprensioni che in passato

rendevano problematiche le mie relazioni, in particolar modo, in ambito

familiare, anche grazie all’utilizzo di un ascolto attivo che mi ha permesso di

sentire l’altro nella sua interezza, eliminando ogni mio pregiudizio.

L’abilità appresa nel percorso della riprogrammazione di leggere la

realtà attraverso l’occhio della concretezza, mi consente di gestire con molta

più efficacia, le difficoltà della vita quotidiana.

Sospendendo il giudizio e osservando la situazione per quella che è

realmente, si riesce a focalizzare l’attenzione sull’oggetto del contendere

senza cadere nell’errore di farne una questione personale.

10

Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 46-47.

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53

“Farne una questione personale” riguardo ad un problema, è quello che

cambia completamente il registro della comunicazione. Se, invece, si entra in

una logica di negoziazione in cui si valutano costi e benefici di una

determinata situazione, si riuscirà a gestire meglio il problema, senza la

necessità di colpevolizzare l’interlocutore11

.

Abbiamo pertanto bisogno di oggettivare i problemi e di considerarli

non come una minaccia alla nostra libertà, ma piuttosto come appartenenti

all’evoluzione della nostra specie.

Il problem solving si basa sulle leggi evoluzionistiche della specie

umana, la quale, in archi temporali molto ampi, ha acquisito dall’esperienza

nuove strategie di risoluzione dei problemi finalizzate al raggiungimento dei

suoi scopi biologici.

Nella società di oggi, tutti, bene o male, utilizziamo procedure per

risolvere questioni, incombenze e problematiche che si interpongono nel

corso della nostra esistenza come ostacoli al nostro benessere.

Ma se esistiamo come specie forse è perché ci siamo evoluti riuscendo

a superare e a risolvere situazioni drammatiche che minacciavano, persino, la

nostra stessa possibilità di sopravvivere.

Riuscire, pertanto, ad elaborare strategie mentali ed emotive per

risolvere i problemi che l’esistenza ci mette continuamente davanti, equivale

al nostro desiderio di “vivere oltre e nonostante” qualsiasi ostacolo12

.

Nell’affrontare un problema dovremmo, innanzitutto, non negarne

l’esistenza, verificare quale sia la soluzione abituale che utilizziamo per

affrontarlo e poi sospendere la soluzione a noi familiare. Esplorare, senza

pregiudiziali, l’effetto emotivo di una soluzione che sia opposta a quella

abituale e cambiare il punto di vista attraverso il paradosso.

11

Cfr. D. TONEGUZZI, G. PEDRINELLI (a cura di), Il counseling socio-sanitario. Le

componenti relazionali al servizio della salute, Edito da Istituto Gestalt, Pordenone 2000,

pp. 85-87. 12

Cfr. M. PAPADIA, «Eros e Kratos», in www.riprogrammazione.it, pp. 1, 20-21.

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54

Infine, confrontando le nostre soluzioni con quelle di altri ne

verificheremo l’efficacia sulla base di quattro criteri importanti:

1) i vantaggi concreti sono superiori rispetto agli svantaggi; 2) decidiamo di

accettare le eventuali emozioni derivanti dalla soluzione opposta; 3) le

soluzioni sono malleabili al punto da poter essere cambiate in corso d’opera;

4) la scelta permette l’evoluzione.

E poi non ci resta che verificare nella vita reale la soluzione che

abbiamo trovato.

3.4 Creatività, epigenetica, PNEI

A questo punto del nostro lavoro, una riflessione è doverosa.

Riprogrammarsi significa essere creativi? E l’essere creativi ci permette di

influenzare la nostra salute e in che modo?

Nell’istante stesso in cui percepiamo che sia maturo il tempo di un

cambiamento di una parte di noi stessi, di un nostro comportamento, di una

nostra abitudine, di una nostra relazione, inneschiamo nella mente il processo

creativo e, come per magia, la parte razionale comincia a collaborare con la

parte emotiva del nostro cervello.

L’atto creativo stimola gli emisferi cerebrali a lavorare in sinergia per

l’elaborazione di un prodotto che prima non esisteva, se non a livello mentale.

Diventiamo curiosi, esploratori di mondi nuovi dentro e fuori di noi,

cominciamo ad immaginare qualcosa che ancora non ha una forma, pensiamo

a possibili soluzioni, annusiamo l’aria intorno a noi, facciamo scoperte e tutto

questo si trasforma in energia, strategia, obiettivo.

Attraverso il processo della riprogrammazione decidiamo di riprendere

in mano il governo della nostra vita, introducendo una variazione ottimale e

produttiva nella nostra programmazione esistenziale. Ci riappropriamo di

pensieri, emozioni, abitudini alimentari, li sottoponiamo a verifica e a critica,

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55

e attraverso un atto di volontà creativa, li trasformiamo per sperimentare un

cambiamento nel nostro sistema di vita abituale13

.

E se come individui liberi e coscienti fossimo capaci non solo di

convivere adeguatamente in situazioni di sofferenza cronica, ma addirittura

essere in grado con i nostri pensieri e i nostri comportamenti di influenzare il

decorso clinico o addirittura prevenire l’insorgenza di una malattia?

Intendiamoci, non mi riferisco a guarigioni miracolose o a formule

magiche, ma a quella straordinaria possibilità che ci viene offerta dalla nostra

natura bio-psico-fisiologica, una struttura che scambia continuamente

informazioni al suo interno e con l’ambiente circostante.

Il counseling della riprogrammazione, come accennato nell’introduzione

di questa tesi, si basa oltre che sul modello evoluzionistico darwiniano

anche sul modello genetico/informativo il quale prende in considerazione

la relazione costante tra la nostra struttura genetica e l’ambiente in

cui viviamo.

È doveroso introdurre, quindi, per avere un quadro complessivo di

questo lavoro, il concetto di PNEI e di epigenetica, merito delle scoperte

provenienti dalle neuroscienze e dalla biologia molecolare, per ricollegarci

alla possibilità che abbiamo di influenzare positivamente la nostra salute con

il nostro modo di sentire e di agire.

Il PNEI è un supersistema psico-neuro-endocrino-immunitario che

mette in relazione il vissuto emozionale con la fisiologia della persona. È una

struttura supercomplessa costituita dal cervello, a livello biologico, e dall’Io, a

livello psichico.

La rivoluzione introdotta dalla scoperta del sistema PNEI è che i

grandi sistemi di regolazione biologica, cioè il sistema nervoso, endocrino

ed immunitario comunicano tra loro e sono profondamente sollecitati dagli

13

Cfr. M. PAPADIA, La riprogrammazione esistenziale. Psicoterapia, counseling, medicina

naturale, p. 87.

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56

stati psicologici. Il dialogo avviene in quanto i mediatori chimici delle

connessioni sinaptiche condividono con gli altri sistemi molti componenti

biochimici14

.

La psiconeuroendocrinologia costituisce, pertanto, l’approccio olistico

della medicina e rappresenta il punto d’incontro tra scienza e coscienza. Ci

permette di comprendere l’organismo umano nel suo insieme e nel suo

rapporto vitale con l’ambiente.

Lo sviluppo delle ricerca in questo campo ha permesso di recuperare

tradizioni mediche millenarie riconducibili alla cosiddetta medicina non

convenzionale la quale prende in considerazione, non soltanto la malattia, ma

anche e soprattutto l’uomo con le sue emozioni, le sue relazioni e i suoi

comportamenti all’interno dell’ambiente in cui si muove.

Lo scambio continuo di informazioni tra l’individuo e l’ambiente è

foriero di modificazioni a livello biologico.

L’epigenetica, branca della biologia molecolare, studia le modifiche

che il materiale genetico può subire durante la vita di ognuno di noi senza che

si verifichino cambiamenti nella struttura e nella sequenza del Dna.

I nostri geni possono essere accesi o spenti dall’ambiente interno così

come dall’ambiente esterno al nostro corpo. L’ambiente interno è

rappresentato dalla morfologia emotiva, biochimica, mentale, energetica e

spirituale dell’individuo, mentre l’ambiente esterno include la rete familiare e

sociale in cui la persona si muove. Le abitudini alimentari, le tossine, gli stili

di vita, i rituali sociali, il corteggiamento sono esempi dell’influenza

ambientale esterna che coinvolgono l’espressione genica.

Quotidianamente i nostri geni sono influenzati dall’ambiente dei nostri

pensieri e delle nostre emozioni, come da quello delle nostre famiglie, uffici,

associazioni culturali, parchi, etc.

14

Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 22-23.

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57

È come se i nostri geni si sintonizzassero con il ritmo che noi

decidiamo di dettare alla nostra vita.

Le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre convinzioni, come anche

gli stili di vita, l’esercizio fisico, le relazioni sociali, creano la musica che fa

danzare i nostri geni.

Una mente che non sia organizzata e disciplina perde energia vitale in

un continuo flusso di pensieri, preoccupazioni e percezioni distorti, molti dei

quali scatenano nel corpo emozioni negative e processi chimici degenerativi.

Le molecole delle emozioni condividono intime connessioni con la

nostra fisiologia, dalla quale sono in realtà inseparabili.

Ogni emozione o convinzione libera nei nostri organi una particolare

cascata di sostanze biochimiche (cortisolo, endorfine, adrenalina,

noradrenalina, dopamina) e ogni nostra esperienza è in grado di favorire

modifiche genetiche nelle nostre cellule.

Pertanto, consciamente o, più spesso, inconsciamente scegliamo come

sentirci in ogni singolo momento della nostra esistenza15

.

15

Cfr. D. CHURCH, Medicina epigenetica. Felicità e salute attraverso la trasformazione

consapevole del DNA, Edizioni Mediterranee, Roma 2008, pp. 19, 25-26, 30, 34.

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58

CONCLUSIONI

LA MIA FILOSOFIA COME IDEA

PER UN CONSELING DELLA RIPROGRAMMAZIONE

La mia esperienza di persona affetta da malattia cronica con disabilità

insieme al percorso del counseling della riprogrammazione hanno animato le

pagine di questa tesi.

Sulla base del materiale elaborato nei capitoli precedenti un messaggio

emerge con forza.

L’uomo si è superato rispetto alle altre specie viventi perché, non

accontentandosi della sola sopravvivenza, ha liberato il suo potenziale

creativo e immaginativo che gli ha permesso di indagare profondamente la

realtà e spingersi sino all’esplorazione e alla conoscenza di sé. L’uomo non si

esaurisce nella sua biologia. Egli è una realtà bioenergetica, mentale e

spirituale ed è in grado anche in situazioni estreme di rilanciare la spinta

evolutiva, attraverso obiettivi, strategie e risorse nuove. È in questa

multidimensionalità che va compresa la sua azione.

E così possiamo spiegarci, grazie al sapere fornitoci dall’evoluzionismo

darwiniano (variazione, ereditarietà, selezione, adattamento), dalle

neuroscienze (PNEI, sinapsi, neuroni) e dalla biologia molecolare (Dna, geni,

epigenetica), come alcune persone riescono ad affrontare con successo

malattie importanti o a superare limiti inspiegabili dalla medicina ontologica

ed altre perdersi in dilemmi e preoccupazioni, importanti per chi li vive, ma

considerati “stupidità” per altri.

Come si spiegano queste differenze di percezione e di reattività agli

eventi importanti della vita?

“La vita è molto più creativa, molto più varia e ricca di possibilità

di quanto in genere non si pensi”.

(ROLLO MAY)

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59

Il modello proposto dal Prof. Mario Papadia risponde alla domanda

attraverso il concetto di programmazione. La nostra filosofia di vita, il nostro

modo di pensare ed emozionarci, le nostre azioni e reazioni, il come ci

alimentiamo, la nostra capacità di autodeterminarci e di risolvere i problemi

sono in parte fornitici dalla nostra biologia ed in parte acquisiti dalla relazione

con la famiglia e la società.

Con questo manuale d’istruzioni ci muoviamo nella realtà e scegliamo

quale direzione impostare alla nostra esistenza.

Come accade che ad un certo punto della nostra vita non sappiamo più

quale rotta seguire, non riusciamo più a risolvere efficacemente i quesiti posti

dall’esistenza? (lutti, lavoro, separazioni, conflitti, aspirazioni, malattia,

disabilità, etc.). Accade che il nostro “equipaggiamento esistenziale” non è

più adatto a rispondere alla spinta evolutiva insita nella nostra biologia.

Stiamo vivendo una crisi che ci sta spingendo al cambiamento

evolutivo dei nostri obiettivi e della nostra strategia esistenziale. Ci sono

persone che spontaneamente riescono a rimodulare la propria esistenza in

funzione di nuovi obiettivi e strategie ed altre che restano imprigionate nella

loro crisi.

La crisi che non muta in senso evolutivo diventa disagio esistenziale e

successivamente disagio psichico1.

L’obiettivo di questo lavoro è arricchire il modello della

riprogrammazione attraverso il racconto personale della mia storia di

malattia e disabilità, ed offrire, contestualmente, una base di partenza per

un counseling rivolto a tutte quelli individui che, al disagio della malattia,

sommano il disagio esistenziale. Quest’ultimo, se trascurato, rischia di

trasformarsi in rifiuto per la vita.

1 Cfr. M. PAPADIA, Il counseling come riprogrammazione. Teoria e pratica di una terapia

non convenzionale, pp. 19, 31, 32, 36-37; ID, La riprogrammazione esistenziale.

Psicoterapia, counseling, medicina naturale, Armando Editore, Roma 2010, pp. 33, 75.

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60

Il tipo di counseling che vorrei proporre ha come obiettivo quello

d’intervenire precocemente sulle persone che vivono un disagio esistenziale

relativo ad una condizione cronica e rischiano di cadere nelle problematiche

psichiche, con il conseguente peggioramento anche della malattia e/o della

disabilità.

Ma non escludo anche la possibilità, magari in collaborazione con altre

figure professionali, di poter sostenere quelle persone che già vivono un forte

disagio psicologico che causa atteggiamenti di chiusura emotiva, mentale e

sociale, a tutto svantaggio della condizione cronica di base. Un counseling,

quindi, che aiuti la persona sofferente a indirizzare le proprie energie verso

una guarigione intesa non come miracolo, ma piuttosto come presa di

coscienza di uno stato di salute e che la stimoli a mettere in atto quelle azioni

positive per vivere la vita serenamente e nonostante tutto. Come dire, aiutarla

a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Un counseling che provochi nella persona l’opportunità di andare oltre la

malattia, di percepire un senso di sanità nonostante la malattia, di andare oltre

la sua “diversa biologia” e vedersi come persona che ha emozioni, possibilità e

capacità di migliorarsi in ogni momento della propria vita. Offrirgli la

possibilità di vivere la malattia e la disabilità in forma evolutiva e costruttiva,

come un elemento naturale ed inscindibile di ogni vicenda umana2.

Quando l’intervento di counseling non è di tipo direttivo ma fondato

sull’empatia e sul rispetto incondizionato, la persona che viene in consulenza

giungerà spontaneamente a questa nuova comprensione di sé stessa e delle

proprie potenzialità in un clima di calore e di fiducia. La riuscita di una

relazione d’aiuto si fonda, infatti, sulla complicità empatica che counselor e

cliente saranno in grado di co-creare nel setting3.

2 Cfr. D. TONEGUZZI, G. PEDRINELLI (a cura di), Il counseling socio-sanitario. Le componenti

relazionali al servizio della salute, Edito da Istituto Gestalt, Pordenone 2000, pag. 41. 3 Cfr. C.R. ROGERS, Terapia centrata sul cliente, trad. it a cura di Lucia Lumbelli, Edizioni

La Meridiana, 2007, pp. 7-8-9.

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61

Con questo nuovo equipaggiamento uno stato di sofferenza, malattia,

o qualsiasi altro problema di salute può essere affrontato e in molti casi

risolto.

La persona si porrà bioenergeticamente, mentalmente e spiritualmente

nella condizione di raggiungere l’obiettivo che è quello della salute in senso

olistico, attuando una strategia e attivando le risorse.

Coloro che hanno difficoltà a riorganizzare il proprio mondo interno in

seguito alla scoperta di una malattia o di una disabilità possono sentirsi molto

tristi, emotivamente sopraffatti, arrabbiati e in un secondo momento, se non

saranno sostenuti, dalla famiglia e dal contesto sociale, nella elaborazione e

nella presa di coscienza della propria condizione, finiranno col rinchiudere

nei meandri dell’inconscio ogni opportunità di cambiamento a livello

bioenergetico-mentale e spirituale4.

La persona sostenuta dalla consapevolezza del proprio stato, invece,

non accontentandosi, quasi certamente provocherà un cambiamento

energetico che immetterà nella sua esistenza, nuove istruzioni, nuovi

contenuti, una nuova filosofia di vita.

La struttura bioenergetica, mentale e spirituale di cui siamo fatti ci

permette di attingere a risorse inimmaginabili che gli altri viventi non

dispongono.

E così una disabilità fisica non limita le potenzialità di quella persona,

se saprà attingere a quel patrimonio di idee, energia, emozioni a sua

disposizione.

E ancora una disabilità psichica non annulla completamente le

opportunità di crescita di quell’individuo, nella misura in cui egli sarà capace

di sopperire a quel deficit attingendo alle risorse bioenergetiche, mentali e

spirituali che ha dentro di sé.

4 V. GUERRIERO, E. D’ONOFRIO, G.C. ZAVATTINI, Diagnosi ingrate. Perdita, dolore e

accettazione, in «Psicologia Contemporanea», n. 239, sett.-ott. 2013.

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Una malattia cronica ed una disabilità non riducono il potenziale

di rinnovamento della persona, grazie all’azione della creatività e

dell’autocoscienza che la rendono capace di adattarsi ad ogni evento della

vita, anche il più difficile.

Ho sperimentato personalmente quanto un atteggiamento passivo e

rigido influenzi negativamente il decorso della malattia rispetto ad una

condotta di vita attiva e malleabile che mi ha aperto una finestra sul mondo

delle opportunità.

Resta fondamentale in questo cammino di guarigione la comunicazione

con gli attori della cura (medici, infermieri, fisioterapisti, etc.) e la

consapevolezza del cliente che la sua salute potrebbe migliorare se lo volesse

veramente.

La famiglia gioca un ruolo fondamentale nel processo evolutivo del

cliente di questa tesi. La programmazione che l’istituzione famiglia trasmette,

se troppo rigida e poco favorevole alla promozione dell’autonomia personale,

certamente non aiuterà il figlio disabile a sviluppare quell’autodeterminazione

necessaria per superare grandi e piccoli problemi relativi alla propria

condizione.

Un figlio affetto da malattia cronica e disabilità che sia stato educato

con maggiore protezione rispetto agli altri fratelli, può incontrare difficoltà ad

utilizzare il problem solving fondamentale nel superare difficoltà oggettive

connesse alla propria condizione.

La mia esperienza diretta di malattia proposta sotto forma di

suggestione e se funzionale al problema portato in consulenza, potrebbe

essere per il cliente un ulteriore stimolo affinché egli comprenda che,

mettendosi nella giusta disposizione d’animo, sarà in grado di sperimentare

una qualità di vita mai raggiunta prima.

Il lavoro di questa tesi è il risultato della storia della mia malattia, dello

studio sul counseling della riprogrammazione ed anche e soprattutto di una

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creatività che non pensavo di possedere se non dopo aver letto le pagine di

questo lavoro.

La tesi mi ha regalato la possibilità di andare oltre la malattia, di nutrire

la mia autostima e la mia spiritualità. Rappresenta una risorsa nuova per il

mio futuro e per tutte le persone che si trovano in una condizione di forte

disagio fisico ed esistenziale.

La scrittura, la danza, la musica, la canzone, etc. sono tutte tecniche che

se proposte alle persone che vivono uno disagio esistenziale per una diagnosi

di malattia cronica, alle persone che già vivono una condizione di malattia e

disabilità e a tutte quelle persone che si lasciano andare in comportamenti ed

abitudini dannosi per la propria salute, possono stimolarne il campo

energetico e sensibilizzarle a percepire oltre la sofferenza del disagio e della

malattia, la bellezza artistica della vita.

Il cliente che si trovi in una condizione di malattia cronica e disabilità,

seppur gravi, può, lavorando sull’aspetto bioenergetico, mentale e spirituale,

superare i limiti della propria corporeità e rimettere in circolo il processo

evolutivo. Egli può ritornare ad essere il promotore della propria salute

causando in sé stesso piccoli cambiamenti messaggeri di grandi e nuovi

progetti.

Un intervento di counseling della riprogrammazione esistenziale

favorirà nel cliente l’acquisizione di nuovi obiettivi, nuove strategie, nuove

risorse affinché egli possa, nonostante la malattia e/o la disabilità, vivere di

altra grazia.

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RINGRAZIAMENTI

Sono numerose le persone che devo ringraziare per essere giunto alla

fine di un percorso durato tre anni che si conclude con la stesura di questa tesi

e la relativa discussione.

Ringrazio, innanzitutto, la mia famiglia ed in particolare mia madre che

pazientemente mi ha ascoltato e incoraggiato nel corso di questi tre anni.

Ringrazio Mariella Pace che con la sua dolcezza e sensibilità mi ha

introdotto nell’universo del counseling e fatto conoscere l’Accademia della

Riprogrammazione.

Ringrazio Marialuce Giannaccari tutor e preside della succursale

pugliese della Riprogrammazione che con la sua solarità e serenità d’animo

mi ha ufficialmente accolto nell’Accademia.

Ringrazio il Prof. Mario Papadia fondatore del Modello della

Riprogrammazione e direttore dell’Accademia che con la sua elevata

professionalità e il suo sapere nell’ambito della psicoterapia, dell’antropologia,

della filosofia, della sociologia e del counseling è riuscito a fare breccia tra le

mie resistenze e ad aprirmi una finestra sul mondo delle opportunità. Delle

sue lezioni, svolte con tutta la passione e l’amore per il suo lavoro, sono

intrise le pagine di questo elaborato.

Ringrazio tutti i miei colleghi di corso in modo particolare Alina e

Camillo che, con i loro spunti preziosi e suggerimenti appropriati, mi hanno

aiutato a superare gli ostacoli incontrati durante il lavoro di ricerca ed

elaborazione.

Ringrazio Stella Carparelli e Francesca Ronchetti che, grazie ad una

attenta lettura di queste pagine e alla loro esperienza di docenza e conoscenza nel

campo del disagio e della disabilità, hanno confermato il buon risultato della tesi.

Ringrazio, infine, tutti coloro che non ho nominato e che, direttamente

o indirettamente, hanno contribuito alla conclusione del mio percorso.

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