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Adesso - Film Festival Popoli e Religioni 2017 · Francesco Casali, Luca Mannaioli Sandra Gomez ......

Date post: 24-Feb-2019
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Adessoperiodico di approfondimento sociale civile e culturaleDirettore responsabileArnaldo CasaliRedazioneAferdita Demiri Giulio MarconiGrafica e impaginazioneSilvia CrisostomiHanno collaborato Giuseppe Piemontese Ofm conv vescovo di Terni Narni Amelia Fabio Paparelli vicepresidente della Regione Umbria Catherine McGilvray - registaGian Luca Diamanti - giornalistaDavid Riondino - attore e registaLilia Sebastiani - teologaAngela Chermaddi - scrittriceAnna Maria Stanciuvincitrice del concorso “Babele” per scrittori rumeniPromosso daIstituto di Studi Teologici e Storico-Sociali di TerniDirettoreStefania ParisiSito internetwww.reteblu.orgAdesso in onda su TRTTutti i giorni dalle 20.30 alle 24 sui canali 116, 619, [email protected]/adessoinondaTwitter: @retebluImmagine di copertinaSerenella CecchettiStampaAnalogie - Terni

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Terni il 22 ottobre 1998, n. 7/98Questo numero è stato chiuso sabato 5 novembre 2016

PoPoli e ReligioniTerni Film FesTivalmedaglia del PresidenTe della rePubblica

Presidente onorarioKrzysztof Zanussi Direttore generaleStefania ParisiDirezione artisticaArnaldo CasaliCoordinamento scuole & progetto manifestoSerenella CecchettiPresidenteGiuseppe Piemontese ofm conv vescovo di Terni Narni AmeliaRedazione artisticaAferdita DemiriMarketing & IncomingEdoardo DesiderioPromosso daDiocesi di Terni Narni AmeliaOrganizzazioneIstessCollaborazioni Conferenza Episcopale UmbraBiblioteca Comunale di TerniCityplex Politeama LucioliPresidenza della Giunta Regionale UmbraCon il contributo diFondazione CaritRegione UmbriaCon il patrocinio diComune di TerniPontificio Consiglio per la CulturaMiur - Servizio Scolastico RegionalePartnerReligion Today film festival di TrentoSacrofilm di Zamosc - PoloniaGiornate di cinema e riconciliazione di Notre-Dame de La Salette - FranciaAssociazione Mirabil EcoFestival Vette in Vista - TerniServiceAndrea ZibelliniUfficio Stampa Associazione AdessoStaff organizzativoMartina Stella, Tiziana Cipicchia Ilaria Flumini, Francesca Della Bona Francesco Casali, Luca Mannaioli Sandra Gomez

Focus RomaniaAlex Coman, Vasile Andreca Gina DimitriuStagistiGaia Marsili, Sofia Pinzaglia Alessandro Costantini, Andrea Shu Giada Cristofanelli, Alice Romani Rachele Mattioli, Chiara Mari Rebecca Manili, Federica Caiello (Liceo Angeloni - Terni)Classi IV B e IV C, indirizzo audiovisivo e multimediale guidate da Maria Gabriella Troiani (Liceo Artistico Orneore Metelli) AutistiFausto Tognini, Alberto Carlini Andrea BurgoStaff Cityplex PoliteamaPaolo Quondamcarlo, Mary Alogna Massimo Barbaresi, Patrizia RosatiRoberto BertoldiGrazie aRaffaele Federici, Pawel Gajewski Mario Fornaci, Livia Barlozzo Getulio Petrini, Lucrezia Proietti Cristina Montesi, Rita ZavkaFrancesco Patrizi, Anna Grabowska Simone SempriniSito internet Alessandro Solfaroli Hic Sunt Dracones Web AgencyGrafica AnalogieFotoEnrico ValentiniVideoPietro CiavattiniAutore del premioFernando Dominioni In rete con Perugia Social Film FestFestival del cinema di SpelloLe vie del cinema di NarniUmbria Film Festival di Montone

www.popoliereligioni.com

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di Giuseppe Piemontese

In genere quando si usa il termine “Babele” si vuole intendere con-fusione, dispersione, incompren-

sione. L’espressione deriva da un bra-no della Genesi – il primo libro della Bibbia – al capitolo 11, versetti 1-9, dove si racconta come in tutta la terra ci fosse un’unica lingua e come poi, emigrando dall’oriente, gli uomini si fossero stabiliti nella regione di Sinar, che gli esegeti identificano oggi con Babilonia, capitale della Mesopota-mia.

Si racconta la costruzione di una città e di una torre “la cui cima tocchi il cielo” e di come il Signore, sceso a vedere la città e la torre che stava-no costruendo, decidesse di scendere e confondere la lingua perché non comprendessero più l’uno la lingua dell’altro. Così la costruzione della città si interrompe e gli uomini vengo-no dispersi su tutta la terra.

Questo passo può essere interpreta-to in molti modi. Ma ce ne è uno par-ticolarmente interessante.

Innanzitutto va notato che si par-la di una città, non solo di una torre. Quando si conquistava un territorio veniva costruita una città, eretta a

capitale, e cinta di mura; all’interno della città veniva edificata la cittadella con il castello e la dimora dei notabili.

In Oriente c’era questo modo di dire: “Un solo labbro, una sola boc-ca” con cui i babilonesi intendevano un’armonia di intenti, di sentimenti, di governo e di religione. Si diceva in-vece che “non hanno un solo labbro” per indicare quei popoli che non erano d’accordo con il proprio Re. Avere un solo labbro significava quindi avere il “pensiero unico”: quello di chi gover-na. L’intervento del Signore, allora, può essere interpretato come un rifiu-to del pensiero unico e la dispersione di quel popolo, la modalità per creare

una diversità di linguaggi e di cultu-re, quindi una ricchezza. D’altra parte nella Bibbia è scritto anche che dopo il diluvio i figli di Noè si dispersero in Africa, Asia ed Europa, dando origine al nostro mondo.

Il nostro film festival 2016, parten-do da Babele, non vuole quindi solo evidenziare la confusione di linguag-gi, ma anche la ricchezza rappresenta-ta dal pluralismo di culture, di popoli, di religioni.

L’impegno urgente dell’umanità globalizzata deve essere quello di pro-muovere un’unità nella molteplicità, di una comprensione reciproca nella diversità delle lingue e dei linguaggi. Questo film festival 2016 vuole aiuta-re a riflettere in questo senso, e lo fa nel corso del Giubileo della Miseri-cordia, tempo della comprensione, del perdono, della riconciliazione.

Noi abbiamo fiducia che anche at-traverso il linguaggio cinematografico si possa dare un impulso alla scoper-ta della ricchezza insita nelle culture esistenti nella umanità di oggi e alla comprensione pacifica e fruttuosa tra i Popoli e le Religioni.

Ordine dei Frati Minori Conventuali Vescovo di Terni Narni Amelia

Editoriale - 03

Babele

Dopo cinquecento anni l’abbraccio tra cattolici e luterani

la ricchezza della diversità

di Stefania Parisi

Il 31 ottobre Papa Francesco si è recato a Lund, città chiave della realtà luterana, per commemorare

in modo congiunto i 500 anni dell’af-fissione da parte di Lutero delle 95 tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg in Germania. Quella data è considerata la data d’inizio della Ri-forma.

La cerimonia commemorativa ha assunto grandi significati simbolici perché mai prima d’ora un papa aveva considerato la Riforma con l’intento di cercarvi più i messaggi che uniscono che quelli che differenziano. L’incon-tro ecumenico del 31 ottobre scorso in

Svezia si col-loca pertanto nel segno del-la guarigio-ne della me-moria e del passaggio dal conflitto alla comunione.

«Ciò che sembrava impossibile è accaduto - ha detto il reverendo Mar-tin Junge, segretario della Federazio-ne luterana mondiale - siamo rami d’una stessa vite». E le parole di Papa Francesco sono state di gratitudine per quanti non si sono mai rassegna-ti alla divisione e hanno mantenuto il loro impegno per la riconciliazione.

Nel corso della celebrazione della preghiera ecumenica nella cattedrale luterana di Lund, il papa e il vescovo Munib Younan, presidente della Federazione luterana mondiale, hanno firmato una dichiarazione congiunta che si conclude con un appello ai

cattolici e ai luterani del mondo inte-ro affinché si mettano al servizio del prossimo, dei sofferenti e dei più po-veri, radicati nella Fede e nell’amore di Cristo, unico Signore.

Dal nuovo sguardo sul passato è nata la speranza di un nuovo cammino verso il futuro, nel segno della pace e della giustizia.

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di Stefania Parisi

Il titolo della dodicesima edizione di Popoli e Religioni – Terni Film Festival come ogni anno, è nato

dalla riflessione sulle caratteristiche dominanti del nostro “oggi”; caratteri-stiche che coinvolgono tutti, da orien-te ad occidente, credenti delle diverse fedi e non credenti.

Babele, anzitutto, evoca il mito bi-blico secondo cui l’umanità, quando ancora parlava una sola lingua, si ac-cordò per costruire una città e una tor-re la cui cima toccasse il cielo e, così sicura, potesse l’umanità non essere dispersa sulla terra. Ma Dio sconvolse quel progetto che nasceva dalla super-bia degli uomini che ritenevano di co-struirsi una felicità senza la relazione con il Dio creatore e senza riconoscere il proprio limite creaturale. L’umanità, cioè, secondo il mito biblico, presunse di sé e quell’eccesso fu il peccato.

Il peccato è sempre un eccesso, un porsi fuori e oltre la propria ve-rità esistenziale, un presumere di sé. “Confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”- si legge nel testo biblico “Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo là si chiamò Babe-le”.

Babele è qui spiegata dalla radice bil “confondere”. Ma il nome Babele significa anche “porta del Dio”.

Con il film festival noi intendiamo interpretare il mito di Babele proprio nella duplice accezione, l’una negati-va di confusione, caos, incomunicabi-lità e l’altra positiva di ricchezza delle diversità di popoli e culture.

Il messaggio immediatamente di-viene così metafora anche del nostro tempo, caratterizzato come non mai da confusioni esistenziali e conflittualità a tutti i livelli e da eccessi tecnologici che si configurano come sfide estreme alla pace e alla vita. La scienza, con i poteri conferiti oggi alle applicazio-

ni tecniche (informatiche, biologiche, chimiche, militari, spaziali ecc.) pone interrogativi etici fondamentali non solo per il senso del vivere ma anche per la convivenza pacifica e la stessa sopravvivenza del pianeta.

Il nuovo jihad 2.0 e Pokèmongo, il videogame del nichilismo, sia pure con le dovute differenze, ne sono un esempio. I foreign fighters del terrori-smo free lance sono nativi digitali; tut-ti tra i venti e i trent’anni, si muovono tra social network e videogiochi con più padronanza che nella realtà fisica e sociale, con la quale non sanno al-lacciare un rapporto costruttivo; sono quasi tutti dropout ai margini della società, sia che vengano dalle perife-rie disagiate che dalle metropoli e da buone scuole - come gli attentatori di Dacca - nelle quali hanno avuto modo di covare un risentimento a cui il jihad ha fornito un linguaggio, una mitolo-gia dell’ingiustizia, del complotto e della vendetta.

Si radicalizzano anzitutto via web dove hanno una compulsione per i vi-deogame violenti e dove trovano armi e istruzioni a confezionarsi bombe. In-vocano “Daesh” come una password.

Ma, accanto a questa dimensione tragicamente distruttiva, nel nostro tempo esperimentiamo anche il darsi di grandi possibilità di comunicazio-ne interpersonale e sociale e mondiale che ci rendono tutti più vicini e coin-volti: è una risorsa estremamente co-

struttiva, mai prima data all’umanità. Ba-bele, da luogo della confusione, potrebbe diventare davvero “la porta di Dio” se imparassimo a rico-noscere le diversità come ricchezza e bel-lezza; se imparassimo a comprenderci pur nella differenze delle lingue, in un’empatia che va oltre i linguag-gi delle grammatiche

perché nasce dall’unica lingua del cuore. Il cuore è la radice vera della comunicazione: sarebbe una nuova Pentecoste. Da cristiani crediamo che questo sarà possibile. Da cittadini camminiamo verso questa meta insie-me a tutti coloro che lo sognano.

Sabato 12 novembre ore 16

BABEL di Alejandro Gonzalez Inarritu(Stati Uniti, 2006; 135’)

Un tragico incidente che coinvolge una coppia di americani in Marocco provo-ca una catena di eventi che coinvolgono quattro famiglie in altrettante nazioni del mondo.

Kolossal girato in cinque lingue e cin-que luoghi del mondo dal regista messi-cano premio Oscar nel 2015 per Birdman e nel 2016 per Revenant. Con Brad Pitt, Cate Blanchett e Gael Garcia Bernal.

04 - Editoriale

Dal mito biblico al mondo contemporaneo

la sfida di Babele

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Il colore del grano“Il piccolo principe” protagonista della giornata di domenica 13 novembre

di Arnaldo Casali

“Tutti i grandi sono stati bambini (ma pochi di essi se ne ricordano)”

Con queste parole - quasi una sorta di dichiarazione programmatica - si chiude la dedica di quello che è forse il più grande classico del Novecento, un libro paragonabile quasi al Vange-lo per la semplicità con cui è scritto, per la storia di redenzione, passione e “ascensione” che racconta, per l’uni-versalità del messaggio che contiene, per l’enorme quantità di citazioni che ha raccolto nel corso di cinquant’anni.

Orson Welles ne trasse una sceneg-giatura per un film che non realizzò mai, Pier Vittorio Tondelli lo adattò per il teatro, Irene Grandi ha cantato La canzone della rosa per un musi-cal mentre i francesi avevano messo Saint-Exupery e Piccolo Principe con tanto di “elefante ingoiato dal boa” sulle banconote da 50 franchi.

Metafora del confronto di ogni uomo con la propria innocenza (rac-conta l’incontro di un pilota atterrato in pieno deserto a causa di un’avaria con un “Piccolo Principe” esploratore di mondi) Le petit Prince è un attacco al mondo degli adulti, che intrappolati

nei numeri della scienza e dell’econo-mia hanno dimenticato la poesia e la bellezza, ma anche una riflessione sul mondo, sugli affetti, sulla vita, una sa-tira sociale e una fiaba surreale.

Un libro, tra l’altro, di una pulizia stilista incredibile, che grazie ad un grandissimo senso dell’ironia riesce a non essere mai stucchevole o sen-timentalista pur trattando sentimenti profondi come l’amicizia e l’amore. In straordinaria analogia con la vita stessa del suo autore (che scomparve misteriosamente durante una missione di guerra senza lasciare tracce a pochi mesi dall’uscita del libro), il Piccolo Principe ha lasciato il segno in inte-re generazioni di artisti, anche dove non è stato apertamente citato: basti pensare alle opere di Richard Bach, lo scrittore-pilota autore de Il gabbiano Jonathan Livingston, che in Via dal

nido racconta l’incontro con il sé stes-so bambino e a E.T. di Steven Spiel-berg: il regista Peter Pan per eccellen-za ha fatto del suo capolavoro - anche se forse inconsapevolmente - una vera e propria versione cinematografica del libro di Saint-Exupery: se infatti il personaggio di Elliot è direttamente ispirato all’infanzia del regista, E.T., il dolce ed etereo extraterrestre che col-tiva le piante ed esplora i pianeti, è a sua volta un alter ego di Elliot, con il quale vive in simbiosi (d’altra parte lo stesso nome Elliot riprende nella pri-ma e l’ultima lettera quello di E.T.). Non a caso, come Saint-Exupery, an-che Spielberg il suo piccolo principe lo ha incontrato nel deserto. «Ero in mezzo al Sahara - racconta- durante le riprese de I predatori dell’arca perdu-ta tra nazisti assassini e proiettili che volavano da tutte le parti. Passeggian-do da solo ad un certo punto mi dissi: che ci faccio qui?». D’altra parte - an-che se appena accennato - nel film c’è anche il personaggio adulto, lo scien-ziato interpretato da Peter Coyote, che di fronte ad Elliot e ad E.T. ritrova l’innocenza della sua infanzia perduta.

Primo piano - 05

Antoine nasce il 29 giugno del 1900 a Lione, da una famiglia aristo-cratica: suo padre era ispettore delle assicurazioni e sua madre pittrice di talento. Nel 1921 parte per il servizio militare e viene mandato a Strasbur-go per diventare pilota. Ottiene la li-cenza di pilota nel 1922 e torna a Pa-

rigi dove inizia a scrivere. Fa diversi lavori, inclusi il contabile ed il ven-ditore di auto. Durante la Seconda guerra mondiale entra nell’aviazione militare e compie diverse missioni di guerra, nonostante sia considera-to inabile al volo a causa dei troppi malanni. Il 31 luglio parte per una missione e non torna più. Il mistero sulla sua morte è stato svelato solo nel 2008 quando il pilota tedesco Horst Rippert ha ammesso di aver abbattuto il suo aereo, senza sapere che a pilotarlo era uno dei suoi scrit-tori preferiti, già molto conosciuto in Germania.

Antoine De Saint-Exupery

Incontri, proiezioni e Sand Art

È proprio il classico di Saint-Exupery il protagonista della seconda giornata del festival Popoli e Religioni, domenica 13 novembre a partire dalle 15.30 al Cityplex Politeama. Dopo il film diretto nel 2015 da Mark Osborne, la kermesse propone alle 17 un incontro con Arnaldo Colasanti, criti-co letterario e conduttore televisivo, che ha curato la nuova edizione del libro, mentre la celebre sand artist Gabriella Compagno-ne proporrà una performance incentrata proprio sul grande classico. A chiudere il pomeriggio la proiezione in prima italiana, dell’unico film “live action” mai prodotto sul libro: l’americano The little prince che vede nel cast anche Gene Wilder nel ruolo della volpe. Uscito nel 1974, pur essendo stato candidato all’Oscar il film non è mai stato distribuito in Italia.

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Raccontare il cinema che verrà è ormai da anni una delle ca-ratteristiche peculiari di Popo-

li e Religioni. Oltre ad anteprime e retrospettive,

infatti, il Terni Film Festival dedica sin dalle prime edizioni una sezione ai film ancora in fase di produzione o di sceneggiatura. Tra i tanti film annun-ciati, “incubati” o presentati da Popoli e Religioni in undici anni ci sono Il sole nero di Zanussi e Il sole dentro di Bianchini, Alice di Crisostomi, Il Girotondo di Stuhr, Astrosamantha di Cerasola e il terzo Francesco di Lilia-

na Cavani. Quest’anno a chiudere il festival

sarà la serata dedicata a In arte Nino, il film con cui Luca Manfredi racconta la giovinezza di suo padre, interpreta-to da Elio Germano, che ha debuttato come sceneggiatore firmando il copio-ne insieme allo stesso regista.

Ad affiancare Germano nel film - girato in gran parte nel territorio terna-

no - Duccio Camerini, Massimo Wertmuller, Anna Ferruzzo, Sara Lazzaro e Stefano Fresi (nel ruolo di Tino Buazzelli, il ce-lebre Nero Wolfe te-levisivo) che saranno al Cityplex Politeama insieme a Manfredi domenica 20 novem-bre alle 21, per una serata che si conclu-derà con la proiezione di Per grazia ricevuta diretto e interpretato

dallo stesso Nino Manfredi nel 1971, ispirato proprio alla sua giovinezza e girato anch’esso nella bassa Umbria.

06 - Il cinema che verrà

In arte Nino

Da qui passa la rinascita del cinema in Umbria

di Fabio Paparelli

Il festival Popoli e Religioni segna quest’anno una svolta importante nel percorso che è stato fatto da

parte della Regione Umbria, sul fronte della produzione cinematografica ma anche su quello spirituale e turistico. E lo segna attraverso due novità im-portanti che rientrano nella nuova pro-grammazione regionale: una riguarda il Giubileo della Misericordia, che ha visto la stipula di un protocollo di in-tesa tra la Regione Umbria e la Con-ferenza episcopale regionale per l’or-ganizzazione di una serie di eventi, tra cui anche l’incontro di Assisi con papa Francesco e tutti i capi religiosi del mondo. L’altro rientra nel rilancio del polo cinematografico, che ha visto anche il bando per la realizzazione della nuova Umbria Film Commis-

sion, e la costituzione della Rete dei festival del cinema dell’Umbria, di cui fanno parte - oltre a Popoli e Religio-ni - il Social Film Festival di Perugia, l’Umbria Film Festival di Montone, il festival del cinema di Spello e Le vie del cinema di Narni. Questi due assi - la promozione turistico-religiosa e quella del cinema - si sono incontrati nel film Il sogno di Francesco, che è stato girato in Umbria lo scorso anno e la cui anteprima mondiale abbiamo voluto inserire all’interno della pro-grammazione di Popoli e Religioni, con la proiezione speciale ad Assisi il 2 ottobre e la consegna del premio alla carriera a Elio Germano. Ma anche la realizzazione – nel territorio ternano - di buona parte delle riprese di In arte Nino, il film sulla vita di Nino Man-fredi diretto dal figlio Luca e interpre-tato anch’esso da Elio Germano, che

sarà al centro della serata di chiusu-ra di Popoli e Religioni domenica 20 novembre. Questo è il contesto in cui si svolge dunque quest’anno il Terni Film Festival, evento che rappresen-ta senza dubbio uno dei prodotti di eccellenza del nostro territorio e che coglie pienamente lo spirito di Aldo Capitini dell’Umbria come terra della pace, della solidarietà e della spiritua-lità, non solo in termini religiosi ma anche squisitamente laici.

Vicepresidente della Regione Umbria

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Profeti del Novecento - 07

Swami Sadananddi Catherine McGilvray

Padre Michael Porattukara (noto come Swami Sadanand: “gioia perenne”) della Congregazione

dei Carmelitani di Maria Immacolata, è morto il 25 aprile 2016 per arresto cardiaco a Sendwa, in Madhya Pra-desh, India Centrale. Il sacerdote ave-va 68 anni ed era stato sottoposto a un intervento chirurgico di bypass nel 2009. Secondo le volontà espresse nel testamento, il suo corpo è stato donato alla scuola di medicina All India Insti-tute of Medical Sciences di Bhopal.

Gente di ogni credo ha pianto la morte di Swami, che aveva abbando-nato l’abito e andava scalzo vestito con il dhoti color arancio degli asceti indù, per essere vicino ai più poveri e per unire e riconciliare i fratelli in-duisti, cristiani e musulmani. Per lui non esistevano nemici, ma solo amici. L’Ashram interreligioso da lui fondato a Bhamodi, in Madhya Pradesh, ve-deva gente di ogni religione pregare insieme e dialogare. Swami era l’apo-stolo del perdono e della riconciliazio-ne: ha contribuito a risolvere migliaia di conflitti tra famiglie, comunità di fede diversa, fazioni politiche, in va-rie regioni dell’India. Grazie alla sua intermediazione i famigliari di suor Rani Maria, la missionaria francesca-na uccisa da un giovane fanatico indù, poterono incontrare l’assassino in car-cere per offrirgli il perdono, e succes-sivamente ottenerne la scarcerazione.

Nel 1979, all’età di trentun anni, appena laureato in Filosofia all’uni-versità di Bangalore, Swami fu ordi-nato sacerdote. Trasferitosi dal Kerala in Madhya Pradesh, nell’India centro-settentrionale, si adoperò sin da su-bito per migliorare la condizione dei più poveri e dei fuori casta. Vedeva in ogni uomo e ogni donna un figlio o una figlia dell’Eterno Padre. Il suo impegno, soprattutto il suo attivismo a favore degli intoccabili, non fu ben visto. «Una notte, di ritorno da una

manifestazione, sentii bussare alla mia porta. Aprii. Entrarono tre uomini. Mi colpirono più volte. Caddi a terra perdendo conoscenza. Quando ripresi i sensi, li sentii complottare tra loro. Volevano uccidermi e bruciare la casa. Capii che sarei morto, e mi rattristai. Chiusi gli occhi e rimasi immobile. Un

pensiero mi attraversò la mente: ‘È il momento di abbracciarli con il cuore, è l’ultima occasione che ho’. Presi un pezzo di carta e iniziai a scrivere. Non dovevano essere puniti. La vita che mi era stata data in dono non era mia. E non apparteneva solo ai poveri, ma a tutti, anche a quelli che stavano per uccidermi. Non sarebbero stati loro a prendere la mia vita, io l’avrei offerta. Non dovevano essere puniti. Scrissi una lettera e chiesi loro di consegnar-la al sindaco. La lessero e rimasero sbigottiti. Uno, scuotendo la testa, disse: ‘Ma cosa ha scritto? Perché lo fa? Perché ci protegge?’. Un altro, con le lacrime agli occhi: ‘Vuole davve-ro proteggerci’. Discussero tra loro e conclusero: ‘È un mahatma, una gran-de anima, non possiamo ucciderlo’». In quella notte Swami fu toccato da una nuova consapevolezza: «Oh Dio, questa notte ho avvertito il Tuo toc-co, il Tuo sguardo su di me. Quando verrai di nuovo, per elevarmi al Cielo? Bramo di poter abbracciare l’Eterno, questo desiderio è la mia forza». Ora il suo desiderio si è avverato, e tutti

coloro che l’hanno co-nosciuto sono tristi, ma di una tristezza dolce. Perché hanno la assolu-ta certezza che Swami è accolto dall’abbraccio del Padre. Perché, han-no potuto godere dell’a-micizia e dell’esempio di un vero Cristiano.

(Rishur, 21 marzo 1948 - Sendwa, 25 aprile 2016)

Martedì 15 novembre al Festival Popoli e ReligioniTributo a padre Swami Sadanand è il titolo del cortometraggio che Catherine McGilvray - regista del film Il cuore di un assassino, in cui raccontava, nel 2013, la vicenda di perdo-no legata all’assassinio di suor Rani Maria - ha dedicato a padre Swami. In concorso alla dodicesima edizione di Popoli e Religioni - Terni Film Festival, sarà proiettato martedì 15 novembre ore 21 al Cityplex.

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di Gian Luca Diamanti

Q uando le fontane sono secche bisogna andare a prendere l’acqua al fiume, occorre tor-

nare all’origine. L’Italia ha la gola arsa e per ritrovare se stessa ha bisogno an-che di luoghi dove confrontarsi con i propri archetipi, dove l’italiano possa provare a riscoprirsi italico, come sul-

le montagne d’Appennino, così ricche di sorgenti e d’energia.

Di un ritorno alle antiche fonti, alle radici, scrive nei suoi ultimi libri Giovanni Lindo Ferretti. L’ex cantan-te dei CCCP, folgorato dalla fede, ha saputo trasformarsi da musicista punk a cantore dei valori appenninici, con un percorso impervio ed elegante. Nei suoi libri si definisce barbarico, italico e appenninico, ma non è certo l’unico

ad aver percorso questa stretta via di ritorno, dalla città ai monti.

Un viaggio difficile e facilissimo, così lontano così vicino, privo di eso-tismi, un ritorno a casa, verso la spina dorsale dell’Italia, verso il suo midol-lo, quell’Appennino che Paolo Ru-miz ben definisce come la catena dei “monti naviganti” e che resta la radice più profonda del nostro essere, oggi troppo spesso ridotta ad un offuscato fondale della vita frenetica nelle città delle pianure.

«Oggi - dice Ferretti - la montagna è un’emozione estetica, coniugata, per lo più, nella dimensione sportiva, come luogo privilegiato dello spirito, tensione all’assoluto». I suoi borghi e le sue case di pietra sono abbando-nate o trasformate in abitazioni per le vacanze, non più benedette dal prete. Nessuno ci nasce, nessuno ci muo-re. I veri montanari sono espropriati, quelli nuovi sono solo occasionali e il paesaggio è stato trasformato per leg-ge in ambiente, spesso in parco. O in riserva.

Del futuro della montagna non fre-gava niente quasi a nessuno, fino a

poco tempo fa. Ora no. Ci sono fon-dazioni come quella intitolata a Gar-rone (Erg) che lanciano il RestartApp, dove App sta per Appennino che deve ripartire, magari con idee innovative, con start up di montagna. E poi c’è Slow Food che da quattro anni ha con-vocato gli Stati Generali dei Comuni d’Appennino ed ha anche appronta-to un Manifesto per la rinascita delle Terre Alte attraverso la qualità dei loro prodotti.

Ma della vera cultura della mon-tagna, del rigore e della misura, del-la sobrietà e del senso del sacro cosa rimane davvero? E chi è in grado di comprenderla e di attualizzarla nell’I-talia di oggi?

Forse ci voleva il dramma del ter-remoto per capire le differenze. For-se è stato necessario il terremoto per ricordare agli italiani che enorme patrimonio di umanità, di sapienza e di coraggio si nasconde ancora, asse-diato, sulle nostre montagne. E che il viaggio di ricerca verso questo tesoro non è poi così lungo.

08 - Dossier

Un viaggio di ricerca sui monti

Se con la loro torre gli abitanti di Babele volevano “toccare” il cielo, il festival Popoli e Re-

ligioni racconta anche l’aspirazione dell’uomo a salire sempre più in alto, guardando le nuvole dall’alto e im-m e r g e n -dosi tra le stelle.

Un’ in -tera gior-nata è de-dicata così all’alpinismo e ai viaggi nello spazio: giovedì 17 novembre la Biblioteca comunale di Terni ospita un pomerig-gio incentrato sulla conquista del K2 organizzato in collaborazione con il festival “Vette in vista” e l’esperien-za di realtà virtuale Sideralia di Paul Harden e Grazia Genovese - realizza-ta appositamente per il festival Popoli e Religioni e riproposta quest’anno

dopo il grande successo dell’anno scorso - che permetterà a tutti gli spettatori del festival di indossare un casco ed effettuare un viaggio onirico sul pianeta Kepler452B.

Alle 21 ci si sposta al Cityplex Politeama per la proiezione di Astrosamantha, Il primo film girato nello spazio, che rac-conta i tre anni della vita di Samantha Cristoforetti, dalla preparazione fino alla missione spaziale. Il film - di cui l’anno

scorso erano stati proiettati in ante-prima alcuni minuti - svela al grande pubblico una versione inedita della donna detentrice del record europeo di permanenza nello spazio. A chiu-dere la serata il primo film di fanta-scienza in assoluto: Viaggio sulla luna di George Méliès, prodotto nel 1902 e ispirato a Dalla terra alla luna di Ju-les Verne.

Sabato 12 novembre ore 23

K2 AND THE INVISIBLE FOOTMEN di Iara Lee (Stati Uniti, 2015; 54’)

Nonostante siano pagati molto meno dei capi spedizione internazionali, è sem-pre grazie ai portatori di alta quota che è possibile raggiungere la cima del K2. Sia-no portatori pakistani o sherpa nepalesi, tocca sempre a loro portare a termine tutte le operazioni più faticose e rischiose.

A un passo dal cielo

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Dossier - 09

di Arnaldo Casali

È salito due volte sul K2, Stefano Zavka, l’alpinista ternano cui è

intitolata l’associazione che organizza il festival “Vette in vista”, partner di Popoli e Religioni per le tre iniziative dedicate alla montagna in programma al Cityplex Politeama per il 12 no-vembre alle 23 e il 16 alle 16.30, e in Bct il 17, con un pomeriggio incentra-to proprio sulla conquista del K2, che con i suoi 8600 metri è la seconda vet-ta più alta del mondo ma in assoluto la più difficile da scalare.

Nel 2004 Zavka, ex Boy Scout e unica guida alpina umbra, a 32 anni tentò la vetta prendendo parte alla spedizione organizzata dal Governo per celebrare il cinquantenario della conquista della montagna, tutta ita-liana, del 1954. Allora la mancò per poco. Ci riprovò nel 2007 con un’altra spedizione: questa volta riuscì ad ar-rivare fino in cima, ma non tornò mai indietro. Quella che segue è una sin-tesi delle due interviste che abbiamo realizzato nel 2004, prima e dopo la prima impresa.

PrimaQuale è l’aspetto più difficile del-

la scalata al K2?«L’adattamento alla quota. La sca-

lata in sé non mi preoccupa, perché sono allenato. Ma l’adattamento alla quota lo puoi fare solo là. In Europa la cima più alta è 4800 metri; più bassa del campo base che avremo in Paki-stan».

Che problemi può creare l’alta quota?

«C’è meno ossigeno, quindi respiri di meno, il battito cardiaco deve rego-larsi diversamente. Per questo bisogna essere in condizioni fisiche ottimali. Anche solo un raffreddore non sareb-be recuperabile».

Allora perché avete scelto di non usare le bombole di ossigeno?

«È una questione etica. La nostra non è una spedizione con finalità

scientifiche ma sportive, quindi vo-gliamo farcela con le nostre forze».

In 50 anni solo cento persone sono riuscite a salire sulla vetta mentre quasi sessanta sono morte durante il tentativo. Non hai paura?

«Certo, i rischi sono alti: se arriva una tempesta mentre tenti la vetta non hai scampo. Ma al K2 un alpinista non può dire di no. E poi anche andare in autostrada è pericoloso, se uno doves-se assecondare le proprie paure non dovrebbe più uscire di casa».

Come si scala una montagna come il K2?

«Ci si sposta attraverso i campi, partendo di notte e arrivando nel po-meriggio, a tratti camminando, a tratti arrampicandosi, legati con la corda. Così andremo avanti fino alla fine di luglio. Poi, quando tutto sarà pronto, si tenterà la vetta, che dovremmo rag-giungere in quattro o cinque giorni».

Cosa penserai quando sopra di te non ci sarà più nulla?

«Beh, prima bisogna vedere se ci arrivo. Le possibilità, in realtà, sono minime. La salita alla vetta è solo un plusvalore».

Cosa ti spinge a scalare le mon-tagne?

«Quando sei lassù hai un senso di benessere, di libertà, che è impossibile descrivere a parole».

DopoTi mancavano solo 500 metri per

arrivare alla vetta, quando hai de-ciso di tornare indietro. Ti sei pen-tito?

«Quando ero lì non ho avuto esita-zioni. Senza i guanti per l’alta quota non ero nelle condizioni necessarie per continuare. Certo, adesso i dub-bi cominciano a venire: cosa sarebbe successo se avessi proseguito? Ma se penso che dei nove scalatori che han-no raggiunto la vetta, quattro ci han-no lasciato le dita, beh, sono contento di non aver rischiato, perché le mani mi servono, anche per lavorare. Tieni conto del fatto che erano tutte persone

più esperte di me e che si trovavano in condizioni migliori delle mie. Lo spagnolo che abbiamo salvato per miracolo era al suo ventiduesimo ot-tomila».

Come è andato questo salvatag-gio?

«Lui stava tornando dalla vetta. Gli spagnoli lo hanno aspettato per ore ed ore al campo, ma lui non si vedeva. Così sono partite le ricerche. A due dei nostri che stavano raggiungendo la vetta è stato ordinato il dietro-front per cercarlo. Poi lo hanno ritrovato privo di sensi. Io, appena arrivato al campo base, sono ripartito insieme ad altri ragazzi per soccorrerli».

Quale è stato l’aspetto più diffici-le di questa impresa?

«Il clima sicuramente. Rispetto alle nostre montagne queste sono molto più semplici da scalare, ma è l’alti-tudine, la mancanza di ossigeno che debilita e rende tutto più complicato e pericoloso. E anche l’escursione ter-mica è abbastanza traumatica: si pas-sa da 40 gradi dentro la tenda a meno venti».

In questi due mesi è stato tutto un susseguirsi di eventi drammatici. Sin dall’inizio, quando sono morti cinque vostri portatori in un inci-dente.

«È stato molto triste, anche perché quella è stata una tragedia che si po-teva evitare. Dovevamo attraversare un fiume, ma anziché passare per il ponte hanno voluto tagliare calandosi nell’acqua, con 20 chili di materiale sulle spalle, e sono stati trascinati via dalla corrente».

Poi sono cominciati a venire fuori i cadaveri dalla neve…

«Anche quello non è stato piacevo-le, anche se è una cosa che metti in conto. Sul K2 muore gente in conti-nuazione. Anche prima che partissimo ci sono stati tre dispersi in una spedi-zione russa. Certo, fa un certo effetto imbattersi in scheletri con ancora gli scarponi addosso».

I precipizi relativi di Stefano Zavka

Un’intervista inedita all’alpinista umbro scomparso sul K2 nel 2007

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Un omaggio teatrale al ca-polavoro di Krzysztof Kieslowski per affrontare un tema delicato e contro-

verso come l’aborto terapeutico.C’è anche la prima parte di Il De-

calogo di Stefano Alleva, alla dodi-cesima edizione del festival Popoli e Religioni, in programma a Terni dal 12 al 20 novembre. Il progetto teatrale, sulla scia di quello televisivo che rese celebre il regista polacco alla fine degli anni ’80, rilegge i dieci comandamenti in chia-ve contemporanea, affrontan-do in ogni episodio un tema di scottante attualità.

Già presentato con succes-so al Festival dei Due Mondi di Spo-leto, Il Decalogo approda a Terni con il primo comandamento: Non avrai altro Dio all’infuori di me. Interpreta-to da Giorgio Borghetti, Ewa Spadlo, Carlo Maria Rossi e Giulia Rebecca Urso, lo spettacolo - che si avvale del-

le musiche di Angelo Bruzzese - rac-conta il dramma di una coppia che si trova a dover scegliere se dare la vita ad un bambino con gravissimi proble-mi di salute o abortire.

Unico appuntamento a pagamento del festival, lo spettacolo va in scena mercoledì 16 novembre alle 21 al Tea-

tro Secci di Terni. L’ingresso costa 10 euro e i biglietti si possono acquistare presso il New Sinfony (Galleria del Corso) o al Cenacolo San Marco (Via del Leone, 12) oltre che al botteghino del teatro il giorno stesso dello spet-tacolo.

Sette documentari in concor-so, 6 film e ben 20 cortome-traggi, provenienti da tutto il mondo, selezionati tra gli

oltre 800 lavori arrivati alla redazione artistica del festival e quelli visionati nei festival partner: Il Sacrofilm di Zamosc, in Polonia, Le Giornate di Cinema e Riconciliazione di Notre-Dame de La Salette in Francia, il festival Religion Today di Trento, l’Umbria Film Festival di Montone e Vette in Vista di Terni.

I film che si contenderanno l’An-gelo di Dominioni saranno Mariam della regista saudita Faiza Ambah, Il mattino senza fine del rumeno Ci-prian Mega, L’Apotre della francese Cheyenne Carron, Il sogno di Fran-cesco, dei francesi Arnauld Louvet e Renauld Fely, Dough dell’ungherese John Goldschmidt e l’italiano Il no-

stro ultimo di Ludovico De Martino. Tra i documentari a sfidarsi saranno

invece A tempo debito di Christian Ci-netto, Il Papa in versi di David Rion-dino, It’s harder for Yakkes dell’isra-eliano Yuval Gidron, Coming from di Alfredo Federico, La mia autostrada per il cielo di Matteo Ceccarelli e Wo-men in sink dell’israeliana Iris Zaki. (Tutte le schede sul programma del festival).

C’è anche il cortometraggio di fantascienza La mac-china umana di Adelmo

Togliani e Simone Siragusano nella sezione “Il cinema che verrà” di Po-poli e Religioni 2016, il cui trailer verrà presentato in anteprima al Cit-yplex Politeama domenica 13 novem-bre alle 21.30 dallo stesso Togliani e Valentina Corti (Trilussa, Un medico in famiglia, Romeo & Juliet) che in-terpreta un ingegnere di laboratorio di nome Gaia. La vicenda, ambientata in

un futuro prossimo venturo, racconta una seduta di psicanalisi in cui sono impegnati un analista sui sessant’anni e il suo paziente Stefano (interpretato dallo stesso Adelmo Togliani) che non riesce a relazionarsi serenamente con l’amore, e in particolare con la bella e sfuggente Gaia.

«È una storia che riflette intorno ai temi dell’intelligenza artificiale - spie-ga Togliani - L’uomo sta dimentican-do che il vero senso della vita risiede nelle proprie debolezze, angosce, en-tusiasmi, in sostanza, dei propri sen-timenti».

10 - Popoli e Religioni 2016

I film in concorsoLa macchina umana

Il Decalogo di Alleva

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ANGELITA FIORECritico cinematografico e regista, in-segna cinema al carcere di Bologna ed è tra gli organizzatori di “Cineva-sioni”, festival del cinema in carcere nato nel 2016. Con il documentario Uomini proibiti - incentrato sulle vi-cende dei preti sposati - ha vinto l’e-dizione 2015 di Popoli e Religioni.

KATIA MALATESTANata a Pisa, lavora alla Soprinten-denza per i Beni Storico-artistici della Provincia di Trento. Dal 2008 è direttrice artistica del Religion Today Filmfestival, giun-to quest’anno alla diciannovesima edizione.

MARIALUNA CIPOLLACantautrice e leader del gruppo Bac-klight, è stata candidata al David di Donatello con il brano Wrong Skin scritto per la colonna sonora del film Il ragazzo invisibile di Gabriele Sal-vatores. Si è esibita da sola e con la sua formazione nelle edizioni 2014 e 2015 del festival Popoli e Religioni.

Popoli e Religioni 2016 - 11

La giuria

I cortometraggi in concorso

L’americano Adam & Eve di Dave e Bianca Morrison è un’irresistibile rilettura

della cacciata dai Giardini dell’Eden dopo il famigerato furto della mela, La morte del sarago di Alessandro Zizzo con protagonisti Adelmo To-gliani e Paolo Briguglia affronta con leggerezza e sarcasmo il tema della morte. Con Hey You! Maria Rosaria Omaggio, al suo debutto come regista, rende omaggio a Charlie Chaplin con la colonna sonora della PFM. Salaam StDenis2015 di Federica Pacifico ri-costruisce i retroscena dell’attentato di Parigi, avvenuto peraltro proprio alla vigilia dell’edizione 2015 di Po-poli e Religioni. Slor dell’attrice da-nese Charlotte Schioler, è un tentativo di mettersi nei panni delle donne vela-te realizzato con una follia che ricorda una sorta di Nanni Moretti al femmi-

nile. Helena di Nicola Sorcinelli vede Sandra Ceccarelli e Marzia Ubaldi tra gli orrori della Seconda guerra mondiale. Prayer - A work of mercy di Lia Beltrami è un breve e intenso documentario, così come Holy City di Imbal Bentzur e Mor Galperin, Oltre il varco lo Shangri La di Maurizio Se-rafini e Tributo a padre Swami di Ca-therine McGilvray mentre Unmissing part di Ahmed Alkudari affronta con delicatezza e ironia la tragedia delle mine; The Little dictator dell’israe-liana Nurith Cohn vede un professore ebreo sottomesso e frustrato trasfor-marsi improvvisamente in Adolf Hit-ler, il polacco Razonans di Giovanni Pierangeli è una storia familiare con al centro una scandalosa fotografia, mentre CrISIS di Ali Kareem raccon-ta dall’interno il terrorismo islamico. Sonar di Mohamed Salam è una pic-

cola storia ambientata in un cinema nel deserto, in Il potere dell’oro rosso il regista Davide Minnella mette in scena le divertenti schermaglie tra l’imprenditore razzista interpretato da Fabrizio Sassanelli e il suo di-pendente africano. In Bubbles don’t lies di Stepan Etrykc all’improvviso vicino alla testa di ogni abitante del pianeta compare un misterioso nume-ro il cui significato è tutto da svelare e piuttosto imbarazzante. Il cartoon Frontiers di Hermes Mangialardo vede protagonisti due bambini divisi da un muro, My awsome sonorous life di Giordano Torregiani è una po-etica storia di un fonico interpretato da Mico Cundari. Infine, Cambio di destinazione d’uso di Edoardo Siravo racconta la paradossale vicenda di un supermercato chiuso per essere tra-sformato in un teatro.

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adelmo togliani Attore, sceneggiatore e regista. Figlio di Achille Togliani e presidente dell’omonima Accademia, ha interpretato - tra l’al-tro - Naja, Una casa piena di specchi e Boris - il film. Nel 2015 ha presentato a Popoli e Religioni il cortometraggio L’uomo volante e quest’anno è in concorso con il corto La morte del sarago. È affidata a lui l’apertura del festival con la lettura del racconto biblico della torre di Babele.

elio germano Tra i più grandi attori della sua generazione, ha vinto tre volte in David di Do-natello e interpretato personaggi che vanno da “Il sorcio” di Romanzo Criminale a Marco Baldini, da Giacomo Leopardi a Padre Pio, da Manfredi Borsel-lino a Enzo Ferrari, da Francesco d’Assisi (interpre-tato in Il sogno di Francesco) a Nino Manfredi in In arte Nino, che ha segnato anche il suo debutto come sceneggiatore. A lui è stato assegnato l’Angelo alla carriera del festival Popoli e Religioni 2016.

gabriella compagnone Prima “sand artist” europea, è divenuta celebre nel 2009, a soli 19 anni, con il programma televisivo Italia’s got talent. Per la prima volta al festival di Terni (città in cui si è diplomata all’Istituto d’arte) presenta tre lavori ispirati al tema Babele, ai viaggi nello spazio e al Piccolo Principe.

david riondino Cantautore, umorista, at-tore, regista, scrittore, è divenuto celebre alla fine degli anni ’80 con programmi televisivi come Lupo solitario, Zanzibar e Maurizio Costanzo Show. Ha pubblicato 8 album e interpretato 12 film e ha lavo-rato a lungo con Sabina Guzzanti (per la quale ha scritto anche il film Troppo sole). È in concorso con il documentario Il papa in versi dedicato al viaggio di papa Francesco a Cuba.

arnaldo colasanti Scrittore e critico lette-rario, vincitore del premio Grinzane-Cavour e con-duttore televisivo, ha preso parte già 7 volte al festi-val Popoli e Religioni e nel 2014 è stato presidente della giuria. Quest’anno presenterà la nuova edizio-ne del Piccolo Principe da lui curata e tradotta.

wieslaw mokrzycki & andrzej bubela Rispettivamente sacerdote e direttore del Centro cinematografico “Stylowy”, sono gli organizzato-ri delle Giornate internazionali di cinema religioso “Sacrofilm” che si svolgono dal 1996 a Zamosc, in Polonia. Dal 2006 la manifestazione è gemellata con il festival Popoli e Religioni.

12 - Popoli e Religioni 2016

andré ferranti Lavora al santuario di No-tre Dame de La Salette in Francia ed è presidente dell’associazione Cine Acrs, che organizza ogni anno le Giornate di Cinema e Riconcilazione, giunte quest’anno alla settima edizione e che dal 2013 co-stituiscono una rete di festival europei interreligiosi con il Sacrofilm di Zamosc e Popoli e Religioni di Terni.

edoardo siravo Attore e doppiatore, cele-bre per i ruoli televisivi nella soap opera Vivere e nel telefilm Distretto di polizia, è la voce di Kevin Costner, Jeremy Irons e Gerard Depardieu. Al festi-val è in concorso come regista con il corto Cambio di destinazione d’uso e come attore in Babilonia di Folco Napolini.

valentina corti Si fa conoscere recitando in varie serie televisive, fra cui Un medico in famiglia. Ha recitato tra l’altro in K2 - la montagna degli Ita-liani, Romeo and Juliet, Fango e Gloria - La Grande Guerra. Al festival presenta l’anteprima di La mac-china umana di Adelmo Togliani.

catherine mcgilvray Romana, anche se di origini francesi e australiane, è stata tra i re-gisti che hanno tenuto a battesimo il festival Popoli e Religioni nel 2005 partecipando con Rielo, poeta de Dios. A tre anni dal documentario Il cuore di un assassino, quest’anno è in concorso con il corto Tri-buto a padre Swami Sadanan.

maria rosaria omaggio Cantante, at-trice, scrittrice e ambasciatrice dell’Unicef, ha in-terpretato Oriana Fallaci a teatro, con Le parole di Oriana affiancata dalla pianista Cristiana Pegoraro e al cinema in Walesa di Andrzej Wajda. È in concorso come regista con il cortometraggio Hey You! e come attrice con Babilonia di Folco Napolini.

stefano alleva Regista e drammaturgo, in televisione ha diretto episodi di Un medico in fami-glia, La Squadra, Un posto al sole e Elisa di Rivom-brosa. Al festival presenta lo spettacolo teatrale Il Decalogo - 1 interpretato da Giorgio Borghetti, Ewa Spadlo, Carlo Maria Rossi, Giulia Rebecca Urso, con le musiche di Angelo Bruzzese.

emanuel cohn Attore e sceneggiatore isra-eliano di origine svizzera, è in concorso al festival come autore e protagonista del cortometraggio Il piccolo dittatore diretto dalla sorella Nurith in cui interpreta un professore di storia contemporanea sot-tomesso e bistrattato, che all’improvviso si ritrova nei panni di Adolf Hitler.

matteo ceccarelli Musicista e regista, è stato direttore artistico del festival Popoli e Reli-gioni dal 2006 al 2010. Quest’anno è in concorso con il documentario La mia autostrada per il cielo incentrato sulla figura di Carlo Acutis, una sorta di Piergiorgio Frassati contemporaneo.

gli ospiti

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Popoli e Religioni 2016 - 13

krzysztof zanussi Sceneggiatore e regista, è il maestro del cinema polacco: come direttore della casa di produzione Tor ha prodotto tutti i capolavo-ri di Krzysztof Kieslowski e lanciato il talento di Agnieszka Holland. Come regista ha diretto - tra gli altri - Da un paese lontano (primo film su Giovan-ni Paolo II) e Corpo estraneo, presentato lo scorso anno a Popoli e Religioni. Premio alla carriera nel 2006, ha vinto il festival nel 2009 con Le voci inte-riori e dal 2011 ne è presidente onorario. Quest’anno presenterà il film Supplemento.

rafal rozmus Compositore e direttore d’or-chestra, ha musicato molti capolavori del cinema muto: tra questi Sherlock Junior di Buster Keaton, presentato a Popoli e Religioni nel 2008 e Nosferatu di Murnau, che sarà presentato quest’anno nell’am-bito del focus dedicato alla Romania.

luca manfredi Figlio di Nino, ha diretto il padre in gran parte dei celebri spot per la Lavazza, nelle fiction Un commissario a Roma e Un posto tranquillo e nel film Grazie di tutto. Tra i suoi lavori anche L’ultimo papa Re con Gigi Proietti. Nel 2012 ha fatto parte della giuria del festival Popoli e Reli-gioni. Quest’anno presenterà un’anteprima del film In arte Nino sulla giovinezza del padre.

anna ferruzzo Attrice, al cinema ha interpre-tato - tra gli altri - Saimir e Anime nere di Francesco Munzi, Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart e Pecore in erba, e in televisione Incantesimo, Distret-to di polizia, Don Matteo, La leggenda del bandito e del campione e Braccialetti rossi.

massimo wertmüller Nipote di Lina Wertmüller, è uno dei più noti caratteristi del cinema italiano. Ha segnato film come In nome del popo-lo sovrano, Il viaggio di Capitan Fracassa, Cuore cattivo, Croce e delizia, Il cielo è sempre più blu, Commediasexi e L’ultima ruota del carro. È nel cast di In arte Nino.

duccio camerini Attore, regista e sceneg-giatore, ha interpretato - tra gli altri - le serie Quo va-dis baby?, Il mostro di Firenze e Romanzo criminale e i film L’ultimo papa Re e Diaz. In In arte Nino in-terpreta l’intenso ruolo del padre di Nino Manfredi.

stefano fresi Divenuto in poco tempo uno dei volti più popolari della commedia italiana, ha iniziato la sua carriera come compositore di sigle e colonne sonore e ha debuttato al cinema nel 2005 con Romanzo criminale, cui sono seguiti - tra gli altri - Smetto quando voglio, Noi e la Giulia, Gli ultimi saranno ultimi, Forever young, e il recentissimo Al posto tuo. In In arte Nino veste i panni di Tino Buazzelli, leggendario interprete di Nero Wolfe.

maurizio serafini Musicista ed esploratore. Diret-tore artistico e organizzatore del Montelago Celtic Festi-val, polistrumentista e leader di vari gruppi musicali. Ha viaggiato in tutto il mondo, in particolare in Birmania e in Nepal. Ha ideato e gestisce il Cammino francescano della Marca.

gianluca cerasola Giornalista, regista e produttore, è direttore della rivista online Worldpass.it e titolare della società di produzione cinematogra-fica e televisiva Morol. Ha scritto e prodotto il film Attesa e cambiamenti, uscito a ottobre e interpretato da Martina Stella, Corrado Fortuna, Antonio Ca-tania, Eleonora Giorgi e Corinne Clery. Lo scorso anno ha presentato al festival un’anteprima del do-cumentario Astrosamantha, che quest’anno viene proiettato integralmente.

david fratini Regista televisivo e autore di cortometraggi e documentari, lavora per la Rai e ha partecipato numerose volte al festival Popoli e Reli-gioni, riscuotendo sempre molto successo. Quest’an-no è in concorso con il documentario Uomini rossi.

marcello mazzarella Dopo una carriera militare che lo ha portato anche in Libano nel 1982 ha iniziato a fare l’attore interpretando - tra gli altri - Marcel Proust in Il tempo ritrovato di Ruiz e Placido Rizzotto nell’omonimo film. Ha vinto il festival Po-poli e Religioni nel 2015 con Biagio di cui è autore e protagonista. Quest’anno è in concorso con Il sogno di Francesco dove interpreta Rufino.

chiara frugoni Figlia di Arsenio Frugoni, tra i più grandi medievisti italiani, ha insegnato storia medievale all’Università Tor Vergata di Roma ed è la più autorevole studiosa di san Francesco in Italia.

alessandro brustenghi Frate francesca-no e tenore, è il primo religioso ad aver firmato un contratto discografico con una delle principali eti-chette discografiche mondiali - la Decca - con cui ha pubblicato tre album registrati nei leggendari Abbey Road studios.

paola rinaldi Scrittrice e attrice, si è diplo-mata alla scuola di Gigi Proietti, ha lavorato in teatro con Gabriele Lavia e al cinema con Carlo Verdone e Alberto Sordi. È stata anche protagonista del video-clip All I want is you degli U2, ma a farla conoscere al grande pubblico è stata la soap opera Un posto al sole. L’anno scorso era membro della giuria, mentre quest’anno è il concorso come attrice con il film Il nostro ultimo di Ludovico Di Martino.

sara lazzaro Ha frequentato il Drama Cen-tre di Londra, perfezionandosi successivamente con Anatoly Vasiliev. Trasferitasi in California, è tornata in Italia per girare il film The Young Messiah, usci-to a marzo negli Stati Uniti, con una interpretazione che le è valsa il Leone di Vetro all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. È nel cast di In arte Nino.

marek lis Scrittore, critico cinematografico e docente all’Università di Opole, ha fatto parte della giuria di Popoli e Religioni nel 2014. È membro di Signis, l’associazione cattolica mondiale per la co-municazione.

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Il castello La tomba di DraculaAnche se il castello di Bran viene

presentato ai turisti come il castello di Dracula, in verità questo castello ven-ne costruito dai sassoni di Brașov. Il vero castello di Dracula, ora in rovina, è situato sulle rive dell’Argeș ed è la fortezza di Poenari.

14 - Focus Romania

Da Vlad a Draculatra storia e leggenda

di Aferdita Demiri

“Invitò a casa tutti i signori e nobili del paese. Quando il pranzo ebbe fine si rivolse al

più anziano e gli chiese quanti princi-pi avessero regnato nel paese. L’uomo rispose quel che sapeva. Poi interrogò gli altri, giovani e vecchi. Uno rispose cinquanta, un altro trenta, e nessuno era abbastanza giovane per ricordar-sene meno di sette. Allora fece impa-lare tutti quei signori, che erano cin-quecento”.

Questo racconto è tratto da un opu-scolo anonimo in lingua tedesca che uscì a Vienna nel 1463 e che racconta una delle tante atrocità di Vlad III Te-pes (l’impalatore) principe di Valac-chia, principato d’Ungheria, divulgato dai suoi nemici politici.

I Turchi erano in piena espansione e i principi, anche se giuravano fedel-tà al re d’Ungheria Mattia Corvino e al cristianesimo, erano costretti a sot-tostare ad alcune imposizioni turche. Dal 1417 pagavano un tributo di sot-tomissione alla Turchia e permetteva-no che i loro figli venissero presi come ostaggio ed educati alla turca. Anche a Vlad era toccata questa sorte ed era

tornato in patria a reclamare il trono solo dopo quattro anni. Vlad vinse sempre più bat-taglie rivelandosi un guerriero formidabi-le, per questo acqui-sì sempre più potere tanto da destare pre-occupazioni nel re Mattia Corvino e nei turchi che facevano sempre più pressione vicino ai confini.

Uno degli episodi più ce-lebri è del 1462, quando Maometto II arrivò alle porte di Targoviste, ma non la conquistò, perché ad attender-lo trovò una foresta di cadaveri turchi impalati: era tutta opera di Vlad che utilizzava la pena del palo in maniera massiccia e sistematica, senza guarda-re se la vittima fosse nobile o plebea, per intimorire il nemico. Il re Mattia dopo questo episodio preoccupato dal potere di Vlad decise di arrestarlo po-nendo sul trono valacco il fratello di Vlad, Radu Cel Frumos, ossia Il Bel-lo, nel 1463. Nello stesso anno Mattia fece recapitare al papa lettere di Vlad con l’intenzione di simulare il suo tra-dimento e quindi la sua vicinanza e alleanza con il Sultano.

Radu non era capace di frenare l’avanzata turca e il re Mat-

tia fu costretto a liberare Vlad che venne ucciso

in battaglia. La sua te-sta venne esposta dal Sultano sul muro del palazzo imperiale.

Morì dunque da eroe della cristianità.

Quasi dimenticato in patria, venne riscoperto

dagli storici rumeni solo nel XIX secolo. La Romania

divenne nazione nel 1918 attraver-so l’unione di Valacchia, Moldavia e Transilvania e Vlad Tepes aveva le ca-ratteristiche per essere inserito tra gli eroi nazionali.

Nello stesso periodo un impresario teatrale irlandese - Bram Stoker – con il suo romanzo si apprestava a trasfor-mare Vlad Dracul nel vampiro più ce-lebre della storia della letteratura.

Il vero Dracula non fu mai accusa-to di vampirismo, ma le leggende sui vampiri sono diffuse nell’area balca-nica e rumena fin dal XVI secolo.

Con Bram Stoker Vlad Tepes non c’è più, è rimasto solo Dracula, il vampiro.

Non si conosce il luogo dove vennero inuma-ti i resti di Vlad Tepes: la tradizione vuole che quando la testa di Vlad fu portata a Costantino-poli, il suo corpo venne sepolto senza cerimonie dal suo rivale, Basarab Laiota, nel monastero di Comana. Solamente a partire dal XIX secolo si è sparsa la voce che Vlad sia stato sepolto nel mo-nastero di Snagov, su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a trentacinque chilometri a nord di Bucarest.

Studi archeologici sul sito, avvenuti nel 1933, hanno portato alla scoperta che la presunta tomba di Vlad è completamente vuota. Secondo alcuni studiosi è pro-babile che il corpo di Vlad Tepes sia stato bruciato mentre secondo altri sarebbe stato smembrato dai turchi sul campo di battaglia oppure a Istanbul. Nel giugno del 2014 sono state avviate delle ricerche che sostengono che il sacello di Vlad sia custodito nella chiesa di Santa Maria la Nova nella città di Napoli.

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Focus Romania - 15

di Giulio Marconi

Tra miti e leggende il capolavo-ro del regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, proiettato

per la prima volta nel 1921, resta an-cora un punto cardine dei film dell’or-rore. La storia di questa pellicola è decisamente particolare, e nel tempo la realtà si è fusa con la leggenda ren-dendo Nosferatu un cult.

Primo film ispirato al Dracula di

Bram Stoker, appena 24 anni dopo la sua pubblicazione, non ottenne i diritti d’autore dalla famiglia dello scrittore irlandese (morto undici anni prima) e così la figura di Dracula divenne il conte Orlok e l’ambientazione si spo-stò da Londra a Wisborg.

Nonostante questo i parenti di Sto-ker, fecero causa alla casa di produ-zione Pran, che dichiarò fallimento poco dopo, e la vinsero ottenendo la distruzione di tutte le pellicole del film. Solo una rimase intatta.

La figura di maggiore spicco, sia sotto il profilo cinematografico, sia a livello di immaginario, resta quella ovviamente del personaggio cardine: Il conte Orlok.

Si dice che il regista Murnau fece un viaggio nei Carpazi alla ricerca di un vero e proprio vampiro o che lui stesso vestì i panni del conte. La verità però, è che il ruolo fu interpretato da un attore teatrale chiamato Max Sh-reck, che tradotto suona curiosamente come “massimo spavento”; una pe-culiarità utilizzata anche dallo stesso regista per pubblicizzare il film.

Altre leggende narrano che l’atto-re volesse sempre girare ad orari im-proponibili e sempre in spazi chiusi e

che addirittura nessuno lo avesse mai visto struccato, portando a pensare che quello fosse il suo reale aspetto. In merito a questo fatto, nel 2000, il regista Elias Merhige ha diretto il film L’ombra del vampiro, dove Murnau è interpretato da John Malkovich e Sh-reck da Willem Dafoe.

Un altro grande omaggio all’opera del 1921 è il film di Werner Herzog Nosferatu il principe della notte, usci-to nel 1979, con Bruno Ganz e Klaus Kinski nel ruolo di Dracula. Herzog vede in Nosferatu uno dei più grandi film del cinema espressionista tedesco e un ponte che simbolicamente unisce il vecchio cinema tedesco ed il nuovo che nasceva in quegli anni.

Nosferatu al di là dei miti e delle storie che lo circondano, resta il primo film su Dracula, ed capolavoro dell’e-spressionismo. Molte le metafore uti-

lizzate, a partire dalla figura del conte Orlok, che secondo i critici rappresen-ta la figura del dittatore, il male che scivola nella Germania alla fine della prima guerra mondiale. Le immagini e inquadrature al limite dell’onirico, rendono l’intero girato un insieme di sensazioni e angosce che spingono lo spettatore all’orrore, appunto. La rap-presentazione del male che si muove in mezzo a noi, che ci contagia come una malattia - la peste, nel film - ed è sempre pronto ad attaccarci.

Max Shreck rende benissimo l’idea di bestia famelica, pronta ad azzanna-re la sua preda, i movimenti son ben

studiati e colpiscono per la loro “orro-rifica naturalezza”. Nosferatu, quindi, è un film che deve essere visto, non solo dagli amanti dell’horror, ma da-gli amanti del cinema in generale, per quel che è stato e per quel che tutt’ora è a livello di immagini, luci e sensa-zioni che coinvolgono lo spettatore per tutta la durata di questa visione tra realtà ed incubo.

Focus Romania a Popoli e Religioni domenica 20 novembre

Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau chiuderà domenica 20 no-vembre il focus di Popoli e Religio-ni dedicato alla Romania, che vedrà anche una degustazione di prodotti tipici polacchi, canti tradizionali e la proiezione del film in concorso Il mat-tino che non finisce di Ciprian Mega alla presenza del cast del film e dei rappresentanti dell’ambasciata della Romania. Grazie alla collaborazione del festival Sacrofilm di Zamosc e del Piediluco Festival diretto da Lucrezia Proietti, Nosferatu verrà proiettato con le musiche composte appositamente dal musicista polacco Rafal Rozmus, che dirigerà un’orchestra di sette ele-menti composta da Giovanni Petrini (flauto), Simona Mancinelli (oboe), Pierluigi Ruggiero (violoncello), Mat-teo Fabrizi (contrabbasso), Francesca Del Bianco e Gionatan Scoppetta (violini) e Sofia Nisio (viola).

La leggenda diNOSFERATU

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di Anna Maria Stanciu

Anno 2016: popolazione mon-diale: 7.450 miliardi di perso-ne. Lingue parlate: 103.

La nostra bella Terra si è ormai evoluta tantissimo: ha subito molte trasformazioni, ha visto nascere e mo-rire ormai troppe generazioni, ha visto cambiare il suo volto e quello della sua popolazione in un tempo lunghissimo ma che ora sembra essersi trasformato un campione di Formula Uno che cor-re senza freni.

Siamo nel 2016 e viviamo in un Mondo ormai assai diverso da quello delle generazioni passate: abbiamo telefoni capaci di calcolare la circon-ferenza della Terra in un nanosecon-do, televisori che si piegano, orologi luminosi in grado di ascoltare e per-cepire il battito cardiaco di ognuno di noi, le pagine profumate dei libri sono state sostituite da piccoli display sem-pre più all’avanguardia e ogni cosa intorno noi sembra, giorno dopo gior-no, prendere vita. Siamo in un mondo evoluto, dove la tecnologia ha preso un posto importante, quasi come un bene primario. Un mondo senza confi-ni: inglesi, italiani, francesi, tedeschi, cinesi vivono in una sola comunità: passeggiano per le stesse vie, abitano negli stessi quartieri, prendono lo stes-so autobus, ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film e possono gusta-re cibi provenienti da chilometri e chi-lometri di distanza. Nonostante tutto questo, nonostante i cambiamenti ap-portati, i confini tagliati e l’evoluzione subita, il nostro Mondo sta andando alla rovina lentamente.

Siamo più di 7.450 miliardi di per-sone in questo piccolo grande Mondo, parliamo più di 103 lingue diverse ma nonostante questo, noto purtroppo sempre più spesso che non sappiamo più comunicare fra di noi, non sap-piamo parlare quasi più, tendiamo a chiuderci in noi come se nulla fosse, diventiamo freddi, apatici, quasi sen-

za più sentimenti. Non saprei dire da quando questo fenomeno si sia sempre più in fretta diffu-so all’interno del nostro globo ma di sicuro non è un bene.

Il fenomeno sopra indicato l’ho notato so-prattutto nella mia generazione. I miei coetanei e me compresa tendiamo sempre più spesso a descriverci come persone timide: persone che difficilmente rie-scono a comunicare con persone appe-na conosciute, parlando e guardandosi negli occhi, sorridendo. Facciamo fa-tica ad affrontare sguardi nuovi, forse per paura del giudizio, per paura di essere guardati come delle persone “strambe”, strane e ci ritroviamo così a ristringere sempre di più il nostro cerchio di conoscenze perché spesso la paura supera ogni aspettativa preim-postata da ognuno di noi. Tendiamo a costruirci corazze: annegando nell’a-bisso di noi tutte le nostre emozioni, paure, dolori, sentimenti. Celiamo le nostre anime e non mettiamo sul piat-to ciò che realmente stiamo provando, quelli che realmente siamo: mostrarlo agli altri ci renderebbe fragili, indifesi e ci farebbe solo barcollare e perdere stabilità: ogni appiglio si ridurrebbe a niente e così precipiteremmo senza ombra di dubbio in un abisso senza fine. Ogni nostro vano tentativo di co-municazione avviene attraverso altri mezzi. Il linguaggio, inteso come vera e propria comunicazione orale, senza musica di sottofondo, sta scomparen-do quasi del tutto, risulta particolar-mente difficile mettersi a nudo avendo a disposizione solo la voce e le parole, con gli occhi delle persone puntati ad-dosso, quasi come se ognuno di loro stesse aspettando un tuo errore. Aven-do a disposizione invece una penna, un po’ di inchiostro e una superficie

infinitamente bianca sulla quale scri-vere, tutto cambia, tutto migliora im-

provvisamente: le emozioni riescono a risalire più in fretta, ogni emozione vie-ne esposta immedia-tamente e viene ste-sa sul banco davanti a noi: lì nessuno ti guarda, nessuno ti giudica, nessuno aspetta un tuo erro-

re, ci sei solo tu e il foglio e nessuno più. Stessa cosa avviene con la musi-ca: prendiamo in mano uno strumento e fondiamo assieme tutte le note pos-sibili e immaginabili dando vita a una melodia unica, indimenticabile, capa-ce di raccontare noi stessi, tutta la no-stra anima. Oggi è realmente difficile per molti di noi confrontarsi a voce su qualsiasi argomento, molto spesso non si ha il tempo giusto per riflettere, non si ha il tempo di dire ciò che si pensa, non si ha la prontezza di utilizzare un ampio vocabolario in modo consono e così ci ritroviamo a navigare nell’i-gnoto, senza sapere quale sarà il punto d’attracco del nostro discorso. Questo non accade invece quando possiamo comunicare attraverso l’uso dell’arte, dello spettacolo, della musica, della scrittura: si trova più sicurezza e im-provvisamente sappiamo maneggiare il timone della nostra barca a mera-viglia e non la facciamo disperdere nell’ignoto.

Quindi nel 2016 possiamo parlare di difficoltà nel comunicare? Sì, la difficoltà c’è sempre, è proprio il fatto di dimostrare agli altri cosa sentiamo, proviamo o pensiamo che ci fa sentire fragili e in difficoltà ed è un gradino difficile superare per ognuno di noi ma tutta la difficoltà che noi possiamo incontrare potrebbe benissimo essere alleviata se la comunicazione non av-venisse in modo frontale ma attraver-so un mezzo: un mezzo che unisce noi all’ascoltatore.

Verso la deriva della comunicazioneBabele 2016

16 - Focus Romania

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Focus francescano - 17

di Arnaldo Casali

«Raccontare Francesco d’Assisi come un santo significa allontanare la

sua esperienza nella possibilità degli altri. Da questo punto di vista, allora, Il sogno di Francesco è forse il film più francescano che sia stato mai fat-to, perché non mette al centro il san-to ma i suoi compagni: è un film che parla di una comunità, non di un per-sonaggio, e in questo credo che abbia colto davvero lo spirito di Francesco d’Assisi. Il suo messaggio era: “Sia-mo tutti uguali, ciascuno può fare que-sto cammino”».

Romano, classe 1980, Elio Germa-no è senza dubbio il più grande attore della sua generazione e uno dei pochi in grado di trasformarsi in qualsiasi personaggio gli venga affidato. Una recitazione “americana” praticata dai giganti del cinema ma molto diversa dall’istrionismo italiano, dove preval-gono artisti chiusi più o meno sempre nello stesso ruolo.

Non a caso l’attore di origini moli-sane ha vestito i panni di molti perso-naggi reali: da Marco Baldini a Folco Terzani, da Ernesto Marchetti (autista di Carlo Verdone) a Padre Pio, passan-do per Enzo Ferrari, Felice Maniero e Manfredi Borsellino fino a Giaco-mo Leopardi (per il quale ha vinto il suo terzo David di Donatello), Nino Manfredi (vedi l’articolo a pagina 6) e Francesco d’Assisi, appunto. Che interpreta nel film diretto dai francesi Arnauld Louvet e Renauld Fely e in cui è affiancato – tra gli altri – da Mar-cello Mazzarella (vincitore di Popoli e Religioni 2015 con Biagio di Pasquale Scimeca) e Alba Rohwacher nei panni di Chiara d’Assisi.

Germano ha ricevuto l’Angelo alla carriera di Popoli e Religioni il 2 ottobre al Teatro Lyrick di Assisi, in occasione dell’anteprima del festival organizzata per il debutto di Il sogno di Francesco; film che torna al festival venerdì 18 novembre alle 21, quando sarà proiettato al Cityplex Politeama

nel corso di una serata che vedrà la par-t e c i p a z i o n e della france-scanista Chia-ra Frugoni e del frate teno-re Alessandro Brustenghi.

«Ri spe t to alla tradizione iconografica e cinematografica - spie-ga Elio - il Francesco che interpreto è un uomo risolto: non ha quel dissidio interiore che abbiamo visto in altre opere. È un Francesco più intimo e meno “giullare”, che cerca di dare una testimonianza personale senza metter-si in mostra. Una persona che si sente parte del gregge e non pastore, che si mette al di sotto delle cose, riempien-dosi del suo percorso di vita».

Che idea avevi di Francesco pri-ma di girare questo film?

«Io non ho avuto un’educazione cattolica ma la figura di san Francesco la conosciamo tutti; o meglio, pen-siamo di conoscerla. Il bello del mio lavoro è che ti permette di passare dei mesi a studiare dei personaggi, cam-biando completamente la tua prospet-tiva».

Un approccio laico ad un santo laico.

«Sì, profondamente laico. E da questo punto di vista quello che mi ha colpito è stata la sua ricerca di gioia e di serenità. Un’esperienza umana molto affascinante che poi la santifi-cazione ha cercato di trasformare in un simbolo».

È vero che sul set, in Francia, cu-cinavi per tutto il cast?

«Sì, sul set c’era un’atmosfera davvero ‘comunitaria’. Anche perché quando lavori all’aperto dieci ore al giorno, tutti insieme, a piedi nudi e con indosso un saio, beh, si crea una certa fraternità».

Il tuo è un Francesco “politico”? «È un film politico nella misura in

cui racconta una “polis”: una comu-

nità che cerca il sistema per seguire i propri valori. Spesso, però, Francesco è stato raccon-tato come un rivoluzionario o una sorta di socialista ante litteram, e non lo era. France-

sco vuole condividere la povertà, non combatterla».

Negli ultimi due anni sei passato da Giacomo Leopardi a Francesco d’Assisi a Nino Manfredi.

«Giacomo Leopardi e san Fran-cesco penso che siano davvero i per-sonaggi più agli antipodi tra quelli che ho fatto, anche se come tutti gli opposti finiscono per assomigliarsi: uno è tutto testa e dice che il mondo è male, l’altro è tutto corpo e dice che il mondo è bene. Ma nutrono entrambi forme di venerazione e rispetto per il mistero, sognano un mondo di esseri umani vicini l’uno all’altro: in social catena diceva Leopardi, fratelli dice-va Francesco. Vivono questo senso di fraternità con le piante, gli animali, la terra».

Ho letto che per prepararti al ruolo di Francesco sei andato in In-dia.

«Ho approfittato di un visto anco-ra aperto, perché c’ero stato da poco. Sono stato nel nord dell’India, a Ri-shikesh: un luogo dove trovi uomini che loro chiamano santi e noi santoni, che vivono in preghiera e assoluta po-vertà. D’altra parte una cosa che mi ha stupito nel cammino di Francesco e di tanti altri personaggi di altre religioni e di altre epoche storiche, è lo spo-gliarsi delle ricchezze e abbracciare la povertà. Nel fare questo film ho pen-sato anche ai percorsi di tante persone del nostro tempo, che davvero si spo-gliano di tutto e dedicano la loro vita agli altri, come, ad esempio, i medici di Emergency».

Intervista a Elio Germano, Angelo alla carriera 2016

Francesco, il santo laico

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I segreti della basilica di AssisiIntervista a Chiara Frugoni

18 - Focus francescano

La basilica di San Francesco di Assisi è uno scrigno di segre-ti: da una parte ci sono le im-

magini abbiamo sempre visto senza capirle, dall’altra quelle rimaste na-scoste per secoli. Su tutto una visione teologica che mira a sanare le con-traddizioni esplose sin dalla morte di Francesco in seno ai suoi discepoli.

A spiegarlo, alla seconda edizio-ne del Festival del Medioevo che si è svolta a Gubbio dal 4 al 9 ottobre, la più celebre francescanista italiana: Chiara Furgoni.

Autrice di pietre miliari degli studi francescani come Francesco e l’in-venzione delle stimmate e il recentis-simo e imponente Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi, la medievista pisana sarà al festival Po-poli e Religioni venerdì 18 novembre alle 21 per commentare il film Il so-gno di Francesco.

Quali sono i segreti nascosti nella basilica di Assisi?

«Ci sono le immagini di cui nes-suno, fino ad oggi, si era mai accor-to, come il diavolo che si trova nella nuvola che porta Francesco in cielo, oppure che nessuno aveva identifica-to: nel presepe di Greccio, ad esem-pio, attaccato al leggìo c’è uno strano strumento che solo io sono riuscita ad identificare: si tratta di una tavoletta che usavano anche i bambini per im-parare a leggere, e che facilitava il servizio liturgico durante la veglia di

Natale».Ci sono altre immagini nascoste?«Sì ce ne sono molte: altri diavoli,

l’anticristo, i gladiatori. Ma ciò a cui tengo di più è l’essere riuscita a tro-vare la chiave per comprendere questi affreschi. Affreschi destinanti ad un pubblico molto colto: quello dei frati che parte-cipavano alle riunioni dei ca-pitoli generali».

Quale scena-rio ha aperto la chiave?

«In una sua opera Bonaven-tura unendo sia le profezie di Gioachino da Fiore sia quelle che nel medioevo gli venivano attri-buite, ha ipotizzato un ritorno di Fran-cesco - perfetto e quindi inimitabile - alla fine dei tempi insieme all’ordine serafico. Francesco voleva applicare radicalmente il Vangelo: andare a pie-di nudi, non avere edifici in muratura. Ma di questa povertà radicale i suoi frati non volevano più sentir parlare: l’ordine francescano aveva conventi e persino una cattedra a Parigi. Era dif-ficile, quindi, giustificare questa deri-va. Attraverso l’artificio di Bonaven-tura la questione viene risolta. E negli affreschi di Assisi vediamo Francesco dipinto sempre a piedi nudi e con la barba, mentre i frati vicino a lui sono tutti rasati e calzati. I frati sono chieri-

ci inseriti nella Chiesa contempo-ranea mentre Francesco è sempre in preghiera perché appartiene a quella Chiesa estatica, purificata, senza più strutture né potere, che verrà alla fine dei tempi».

Una contraddizione esibita, quindi?

«Sì ma sanata, dicendo che Francesco è come Giovanni Bat-tista mandato dal Signore a prepa-rare la via».

Quanto c’è di Francesco nella basilica di Assisi?

«Io direi che il Francesco vero si vede meglio nelle tavole precedenti alla biografia di Bonvantura che lo ha normalizzato. Ad Assisi si possono vedere affreschi stupendi, ma il vero

Francesco è tutto il controluce».Affreschi che sono adesso a ri-

schio.«Se ci fossero meno concerti, meno

grandi luci e un più attento monitorag-gio sui flussi delle persone e quindi dell’umidità che entra sarebbe molto meglio, perché io studiando le foto-grafie dell’inizio Novecento a oggi devo dire che ci sono alcuni volti che non si vedono assolutamente più».

(a.c.)

da www.festivaldelmedioevo.it

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Focus francescano - 19

di Arnaldo Casali

Il segreto per tenere i piedi per terra e la corda stretta al saio?

«Non prendo soldi per i concer-ti e non dormo mai in albergo».

Frate minore francescano, clas-se 1978, Alessandro Brustenghi è la “Voce di Assisi”, ed è entrato nel Guinnes dei primati per essere stato – nel 2012 - il primo religioso a firmare un contratto con una major: la leggen-daria Decca, con cui ha pubblicato quattro album registrati negli Abbey Road studios (quelli dei Beatles) e venduti in tutto il mondo. Quest’anno ha debuttato anche come scrittore, con il libro La melodia nascosta del Can-tico delle Creature in cui sostiene di essere riuscito a ricostruire la musica che accompagnava la prima poesia della storia della letteratura italiana, commissionata dallo stesso France-sco a un ex giullare. Il frate tenore ne parlerà al Cityplex Politeama venerdì 18 novembre alle 21, nell’ambito del focus francescano del festival Popoli e Religioni.

Nei primi anni ‘80 gli U2 vole-vano sciogliersi perché considera-vano incompatibile la carriera da rockstar con la vita cristiana. Tu come concili queste due anime?

«Effettivamente tutto ciò che ruo-ta intorno alla carriera, al successo, alla fama, oggi è un banco di prova anche a livello di tentazioni: circola molta droga e compromessi a livel-lo economico e sessuale, anche nella lirica. Quindi devi avere delle spalle forti e una cotenna da cinghiale, e si rischia anche di dare cattiva testimo-nianza perché quando la gente si trova di fronte a casi come il mio o quello di suor Cristina dice: ecco dei religio-si che sono immischiati in contratti milionari, in affari economici enormi. Cosa che peraltro non corrisponde nemmeno a verità».

Come fai a difenderti da tutte queste tentazioni?

«Mi faccio sempre accompagnare da un frate, non prendo soldi per esibir-mi e non sto mai in albergo: sono sem-pre ospite in una comunità religiosa».

Non raccogli nemmeno offerte da devolvere in beneficienza?

«No, io non prendo soldi. Poi mi capita essere chiamato a cantare in concerti benefici, ma sono gli organiz-zatori, eventualmente, a devolvere il ricavato in beneficienza, non io”.

E il ricavato dei dischi?«Per contratto va direttamente alle

missioni, senza passare attraverso il mio convento. Poi ci sono anche armi spirituali: io relativizzo sia i compli-menti che le critiche. Non credo né alla gente che mi viene a toccare per avere la grazia, né a chi mi dice che faccio tutto questo solo per mania di protagonismo».

Come è cominciato il tuo rappor-to con la musica?

«Avevo nove anni quando ho ini-ziato a studiare tastiera, spinto da mio nonno che suonava il clarinetto nella banda del nostro paese. A quindici anni sono entrato in conservatorio. E a 16 anni ho sentito la vocazione”.

Quali sono i musicisti che ti han-no segnato di più?

«Johann Sebastian Bach e Michael Jackson. La Toccata e fuga in re mino-re e Bad mi hanno cambiato la vita».

Come hai deciso di entrare in convento?

«Subito dopo la cresima avevo ab-bandonato completamente la fede in Dio e mi ero affidato a filosofie vici-

no a Hegel. Ero convinto che tutto il mondo intorno a me fosse creazione del mio pensiero, persone comprese, e che Dio fosse la proiezione massima del mio io. Questo mi ha portato a una crisi profonda fino a ritrovarmi nell’e-ternità dell’amore di Dio».

Perché Assisi?“Ho conosciuto al figura di san

Francesco con il film di Liliana Cava-ni e ho detto: voglio vivere come lui e a 21 anni sono entrato in convento. Nel frattempo ho continuato a studiare canto e a fare concerti».

Tu non sei prete. Perché?«Me l’hanno chiesto, ma il fatto è

che non sento la vocazione al sacer-dozio. Appartengo a una minoranza: oggi tra i frati siamo meno del 10% a non essere sacerdoti. D’altra parte nemmeno Francesco lo era”.

Come hai iniziato la carriera da tenore?

«Dal 2005 mi è stato chiesto di de-dicarmi allo studio della teologia, e ho smesso di cantare per cinque anni, durante i quali ho coltivato soprattut-to la mia passione per il restauro di strumenti antichi. Poi dei vecchi amici mi chiedono di tornare a fare qualche concerto e un giorno - a sorpresa - or-ganizzano un’audizione con un ma-nanger venuto da Londra».

Così sei entrato nel Guinness dei Primati.

«E io che ero convinto che il Guin-ness dei primati fosse la birra preferita dalle scimmie!».

La cosa più strana che ti è suc-cessa?

«Richieste di soldi, lavoro, gente che ha scritto canzoni e pretende che io le incida. Ma anche proposte ses-suali, alcune molto volgari. Gente che ti chiede miracoli, altra che sostiene di averne ricevuti per mia intercessione.

Ma la cosa più bella sono quelli che dicono di essersi riavvicinati alla fede dopo avermi sentito cantare».

Intervista a frate Alessandro Brustenghi, la “Voce di Assisi”

“Così ho ritrovato la musica del Cantico delle Creature”

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20 - Il film

di David Riondino

A Cuba è significativa la pre-senza di poeti improvvisatori, che su strofe di dieci versi im-

provvisano, raccontano, contrastano. Ce ne sono circa un migliaio e questo garantisce la qualità di questa forma di cultura orale. Ho lavorato spesso a ri-cercare e documentare queste tecniche

e questi poeti. Di alcuni di loro sono diventato, nel corso degli anni, molto amico.

Quando il Papa ha deciso di andare all’Avana, ho pensato che poteva es-sere interessane usare l’estemporanei-tà dei poeti per descrivere in diretta, mentre si svolgeva, la messa in Piazza della Revolucion. Le emozioni e i co-lori dell’evento, visto e raccontato ad altezza di poeta e di fedeli in piazza. Come si sa, questi eventi in terra latina hanno caratteristiche uniche.

L’idea è dunque quella di un’epi-ca, in versi, che nasce dalla cronaca: un grande evento raccontato da questi poeti che hanno un passo epico, ma sono attenti ai dettagli, alle cose che passano sotto gli occhi. Una cronaca in versi probabilmente può rimanere nel tempo più che una cronaca in pro-sa, e comunque è una scommessa.

Vedrete quindi Alexis Diaz Pimien-ta, capofila di questi poeti antichi che si rinnovano, immergersi con altri due poeti nella messa del settembre 2015, (500.000 persone, si dice), e conti-

nuare a conversare dell’evento in altri punti dell’Avana. E ascolterete due testimoni importanti del cattolicesimo cubano: Enrique Lopez Oliva, ottua-genario professore di storia delle re-ligioni, e importante testimone della presenza cattolica nell’isola e Rafael Barrera, militante “di base”, impegna-to in quartieri periferici dell’Avana. Terzo testimone, Reinaldo Montero,

un drammaturgo assolutamente laico.

Per racconta-re un evento, o meglio per com-prenderlo nella sua dimensione epica, nel suo rimanere o meno nella memoria di un popolo, probabilmente la poesia dei “re-pentistas” è uno strumento più

efficace di altri. E comunque vale la

pena conoscere questi straordinari - ed ignorati - poeti, che malgrado tutto continuano ad esistere, lontani dalle mode e dall’accademia.

Il documentario “Il Papa in ver-si” di David Riondino, apre sabato 12 novembre alle 21.30 il concorso della dodicesima edizione del festival Popoli e Religioni. L’autore stesso in-trodurrà la proiezione e incontrerà il pubblico al Cityplex Politeama.

I poeti improvvisatori raccontano il viaggio di Francesco all’Avana

Il Papa in versi

A testimoniare la portata stori-ca della visita di Francesco a Cuba ci sono le conseguenze

che quello stesso viaggio - avvenuto nel settembre 2015 - ha avuto.

L’arrivo del primo papa latinoame-ricano nell’ultimo regime comunista occidentale ha infatti spianato la stra-da al disgelo con gli Stati Uniti, avve-nuto nel marzo del 2016 con l’ancora più storica visita del presidente Barak Obama e la cessazione dell’embrago dopo più di cinquant’anni di ostilità.

Intanto, appena un mese prima - in febbraio - Cuba aveva ospitato un altro storico incontro, atteso da quasi mille anni: quello in “terra neutrale” tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill, che ha abbattuto l’ul-timo muro di divisione rimasto tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa.

Ma oltre al suo valore simbolico

e alle conseguenze prodotte, la visita del papa nell’isola caribica ha avuto anche una particolare fascinazione sotto il profilo cinematografico, vi-sta la grande quantità di film prodotti sull’evento.

Se Gianni Minà ha realizzato Il Papa e Fidel e David Riondino è in concorso a Popoli e Religioni con Il papa in versi al festival Religion Today di Trento sono stati ben due i documentari in concorso dedicati all’evento: lo spagnolo Un milione di ostie di David Moncasi, dedicato alle suore di clausura che producono tut-te le ostie dell’isola, e il cubano Urbi et orbi Cuba di Andros Barroso che ricostruisce la storia del rapporto tra Chiesa e regime castrista, dalla rivo-luzione alle visite papali iniziate nel 1998 da Giovanni Paolo II.

Bergoglio a Cuba, un evento da cinema

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Una parola per parlarne - 21

di Lilia Sebastiani

Un mito così familiare, ma così inquietante. L’abbiamo senti-to presentare come punizione

di Dio per il peccato degli uomini, che è sempre un peccato di autosufficien-za orgogliosa (non bastava l’uscita dal Giardino di Eden?), ma forse il significato di fondo è un altro. Come sempre, il mito cerca di dare una spie-gazione in termini razionali e narrativi a un fatto rilevante, in questo caso la diversità delle lingue parlate dai di-versi popoli; e, a rileggere l’episodio babelico senza pre-interpretazioni, il progetto di Dio non sembra tan-to quello di punire, quanto quello di ‘diffondere’, di spargere l’umanità su tutta la terra.

Anche il nome ha parte nel miste-ro della torre di Babele. Nella lingua accadica, bab-ilu significa “porta/città del Dio”, ma poi è venuto in qualche modo a incrociarsi con un termine ebraico che ha il significato di ‘confu-sione’. Per noi “una babele” significa una gran confusione, ai limiti dell’in-comprensibile.

Bab-ilu: nella visione primitiva Dio “sta in alto” e vede e domina gli uomi-ni in basso. È per questo che i popoli della Mesopotamia innalzarono i loro edifici religiosi, le ziqqurat. Talvolta ancora si sentono chiamare ‘piramidi babilonesi’, per influsso delle più co-nosciute piramidi d’Egitto, ma in real-tà sono molto diverse: esteriormente, perché le piramidi hanno i lati spio-venti mentre le ziqqurat sono a grado-ni, ma soprattutto per la destinazione: le piramidi sono tombe di sovrani, le ziqqurat invece sono non propriamen-te templi, ma case del Dio.

Cosa significa che la cima della torre di Babele, nel progetto origina-rio, doveva ‘toccare il cielo’ e quindi raggiungere Dio? Dobbiamo leggerla in senso cultuale (vogliamo realizza-re una grande opera per Dio) oppure arrogante e quasi blasfemo (vogliamo porci sullo stesso piano di Dio)? Quin-di l’intento della torre di Babele sa-rebbe quello di onorare Dio, sia pure con grande e compiaciuto sfoggio di

sapienza tecnica, oppure è l’atto di superbia di chi si compiace quasi ido-latricamente delle proprie forze fino a poter fare a meno di Dio?

Difficile rispondere. Nel racconto come l’abbiamo oggi, vi è innegabil-mente qualcosa di negativo. Il popolo d’Israele aveva avuto modo di vedere la/le ziqqurat durante la deportazione in Babilonia, perciò nella sua memo-ria storica l’immagine era rimasta as-sociata a un’esperienza di oppressione e schiavitù e all’impossibilità di prati-care il culto dell’unico Tempio.

Notiamo che nel racconto si parla di una ‘città’ e di una ‘torre’. Se la città è Babilonia (che sorgeva a poca distanza dall’attuale Bagdad, e che aveva raggiunto sotto Hammurabi uno splendore ineguagliabile), la tor-re presenta qualche problema in più. L’archeologia ha ricercato assidua-mente l’edificio storico che ‘forse’ è alla base del mito di Babele. Nessuna certezza è stata raggiunta, anche per-ché le costruzioni di mattoni e bitume, che il racconto sembra ricordare, non sono durevoli come quelle di pietra e malta. Tuttavia il candidato più plau-sibile è l’Etemenanki dedicato al dio Marduk, oggi in sostanza un mucchio di mattoni, mezzo disfatto, tutt’altro che elevato - sic transit gloria mundi! -, nel sito dell’antica Babilonia.

Un interessante articolo di Massi-mo Recalcati apparso su La Repubbli-ca vede nella torre di Babele “il simbo-lo dell’antipolitica”. Una sola lingua: non si considera la lingua dell’altro. Se anche il proposito dichiarato della torre di Babele fosse cultuale, il culto di cui si tratta è quello del proprio io. Il desiderio che muove i costruttori è autogenerativo e autoreferenziale: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre… un miraggio di autosufficien-za che nega l’opera stessa di creazio-ne: Dio infatti crea differenziando e, se vogliamo, punisce rimescolando. Non è tanto un punire quanto un ri-orientare: la vita degli uomini potrà crescere solo rinunciando all’impossi-bile volontà egemonica di uniformare il mondo e rispettando il pluralismo delle lingue e delle culture, e quindi la

fatica di tradurre, di mediare. Da quando Dio per ri-orientare la

superbia degli uomini differenzia e confonde le lingue, nessuno capisce più l’altro…, nasce l’incomunicabilità tra uomo e uomo, non solo sul piano linguistico; la grande opera resta irre-alizzata.

Ma allora la costruzione della Tor-re di Babele condannata all’incompiu-tezza è più castigo o più dono di Dio?

La diversità è un dono - anche se troppo spesso la viviamo esclusiva-mente come un problema. Ma il dono per vivere deve essere accolto, e usa-to bene, illuminato dallo Spirito. Per questo la vera conclusione dell’epi-sodio non è quella in cui i popoli si disperdono sulla terra, ma un’altra, molto più oltre, in cui i popoli “di ogni nazione che è sotto il cielo” scoprono ciò che li unisce. È il racconto di Pen-tecoste.

Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, è una delle grandi feste ebraiche. Nella prima Pentecoste che segue la Pasqua di Resurrezione, i di-scepoli di Gesù ancora smarriti e incer-ti, si trovano riuniti nello stesso luogo: dubbiosi, quasi nascosti, ma insieme. E così, nella precarietà, ma pure nella memoria e nella comunione, ricevono il dono dello Spirito, il dono ‘che è’ lo Spirito, e tutto cambia. Non vi è più la paura, ma la franchezza intrepida dell’annuncio, la parrhesìa (che tanto spesso oggi ci viene ricordata da papa Francesco). I discepoli e le discepole allora ‘escono’e annunciano a tutti Gesù messo a morte e reso da Dio vin-citore sulla morte.

Gerusalemme, per la festa, è piena di Ebrei della diaspora, provenienti da altri paesi, parlanti altre lingue: per la forza dello Spirito la diversità delle lingue non sarà più di ostacolo a ca-pirsi e ognuno riceve l’annuncio della salvezza nella lingua propria.

“Si misero a parlare lingue diver-se…” dice l’autore, ma non è esatto (un po’ come dire che il Sole gira, quando a girare è la Terra). Il ‘mira-colo’, il frutto dello Spirito, non è po-liglottismo, ma comunicazione; non abolisce la diversità ma l’avvalora.

Babele

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22 - L’approfondimento

di Angela Chermaddi

I miti, nati da esperienze ripetute, interpretate e variate da religioni e ideologie, da studiosi del tempo

e della psiche, nella loro inconfutabile immobilità che li fa intangibili verità primeve rivestite di sacro, sono ineso-rabilmente belli e continuano a irrora-re di senso archetipico ogni relazione umana - ieri come oggi - trasportando il presente su un piano universale es-senziale.

Babele e la confusione, incompren-sione, molteplicità. Il mito reinventato diverso eppure nel solco antico, di-steso in orizzontale, oggi è ricerca di azione, dinamismo, energia, efficien-za, globalizzazione.

Ma la globalizzazione intesa come apertura dell’agire umano nella inter-connessione planetaria, avrebbe biso-gno della capacità morale e politica di costruire una nuova ecumene in cui poter abitare. Invece la libera cir-colazione di persone merci e culture, percepita come minaccia, ha attivato dinamiche di esclusione, contrasti tra identità e alterità, per cui la globaliz-zazione sta ripiegando. Si torna ad al-zare muri e fili spinati.

L’uomo postmoderno non è più so-stenuto dall’idea di un’unica razionali-tà logico-metafisica, di un’unica verità filosofica o religiosa, del progresso il-limitato. La sintesi culturale della mo-dernità si è dissolta con la crisi della ragione e l’avvento del pensiero debo-le. Questo ha portato all’accettazione di molte verità deboli, al soggettivi-smo individualista in un politeismo di valori. Si naviga senza mappa e senza meta nel tempo del se, delle ipotesi. L’ulissismo delle esperienze soggetti-ve tra la molteplicità delle culture por-ta a un pluralismo nell’ambito etico, al turismo dei diritti. Passando dall’uni-ca razionalità oggettiva al predominio del cuore intriso di idolatria, abbiamo dilatato il desiderio a ogni piacere esperibile, rivendicato come diritto.

Contro l’etica della responsabilità si vorrebbe una realtà a misura dei nostri desideri, promovendo l’antropologia dell’avere che non sa più la gratuità e il dono, la capacità di relazione (che non sia superficiale o virtuale). Quan-do va bene, abbiamo una convivenza che è solo contiguità di esperienze e mai pienezza d’essere.

La nostra società si caratterizza per i non-luoghi, spazi non identitari, come alberghi supermercati, stazioni di servizio, aeroporti, dove tutti fan-no le stesse cose obbedendo agli stessi meccanismi, l’uno accanto all’altro e ognuno nell’ignoranza dell’altro, nell’anonimato, nella solitudine. Spa-zi dove l’uomo non è più uomo, solo un frammento acuminato, ansioso e pauroso di vivere e di amare. Col frantumarsi dell’utopia del progresso, l’ineluttabile fragilità del vivere è fi-nita in vuoto assordante e devastante. L’uomo di oggi si chiude spesso den-tro il guscio dell’indifferenza, si na-sconde dietro lo scudo dell’insensibi-lità, si sottrae al dialogo e all’incontro. Siamo solo vicinanza di frammenti d’uomo, casuali, incerti, taglienti, in-felicemente sterili.

È il crollo non solo della nostra casa, ma della nostra identità, del senso del vivere, il trionfo del vuoto attorcigliato su sé stesso nell’illusione di reggersi in piedi. Consumismo e individualismo hanno orizzontalizza-to il mondo, ma come la dilatazione dei desideri non è la felicità, lo spazio esteso non è il Regno ecumenico della pace. Persa la dimensione verticale, si è frantumata la nostra umanità nel-la lotta egoistica per l’affermazione o in un nichilismo giocoso e dispe-rato. Domina la depressione di una vita che ha abdicato alla gioia, che è indifferente e triste fino alle briciole, vagabondaggio senza un fine da rag-giungere che lo illumini con un raggio escatologico. Non più Abramo che va a una meta promessa, ma Ulisse in ba-lia delle acque. Dall’io monade che si

riconosce nel cogito cartesiano all’io nomade. Siamo creature sofferenti, spesso crudeli e sole.

Solo riconoscendoci figli di un unico Padre possiamo riassemblare i nostri frammenti dispersi, percepire la fratellanza universale come diversità e ricchezza da accogliere e sentire la comunità come un compito da realiz-zare.

Altrimenti di Babele, che provoca interpella invita all’unità del moltepli-ce, ci resta solo il caos, la confusione e l’impulso distruttivo di un’umanità in frantumi. La circolazione fluida dell’amore umano è un frutto comu-nitario.

Lunedì 14 novembre ore 17.30

MARIE HEURETIN: DAL BUIO ALLA LUCE di Jean Pierre Ameris(Francia, 2015; 90’)

Marie Heurtin, nata nel 1885 in una casa di contadini in mezzo alla meravi-gliosa campagna francese che fino all’età di 10 anni vive la libertà nella forma più primitiva, ma limitata dal buio delle sue incapacità. I genitori, pur amandola molto, non riescono a gestire una figlia con tali difficoltà e la portano nel convento delle suore di Larnay.

Babele in orizzontale

Per un’antropologia del frammento

Fernando DominioniVuoto Contemporaneo 7 - presunzione

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Tracce di pensiero - 23

Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole.Dirigendosi verso l’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!”. Essi

adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra”.

Il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l’uno non capisca la lingua dell’altro!” .

Così il Signore li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città. Perciò a questa fu dato il nome di Babel, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la faccia della terra.

Grande Torre di Babele, Pieter Bruegel - 1563

La Torre di Babele

Anonimo Genesi, circa 600 a. C.

Sabato 19 novembre ore 22Supplemento (a La vita è una malattia mortale sessualmente trasmessa) di Krzysztof Zanussi

La storia d’amore tra Filip, studente di medicina che vorrebbe entrare in seminario e Hanka, stu-dentessa part-time e costumista per il cinema e le sfilate. Il film rappresenta un esperimento unico nella storia del cinema: racconta infatti la stessa vicenda narrata nel precedente La vita è una malattia mortale sessualmente trasmessa ma da un diverso punto di vista. Nel primo film - proiettato a Popoli e Religioni dieci anni fa - il protagonista era infatti il professore di Filip.

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