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Adunanza plenaria; ordinanza 29 giugno 1984, n. 15; Pres. Pescatore, Rel. Bozzi; Direzione centrale...

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Adunanza plenaria; ordinanza 29 giugno 1984, n. 15; Pres. Pescatore, Rel. Bozzi; Direzione centrale del personale del ministero delle poste c. Coco (Avv. Scoca) Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 10 (OTTOBRE 1984), pp. 369/370-371/372 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178123 . Accessed: 25/06/2014 08:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.229.229.162 on Wed, 25 Jun 2014 08:57:20 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Adunanza plenaria; ordinanza 29 giugno 1984, n. 15; Pres. Pescatore, Rel. Bozzi; Direzionecentrale del personale del ministero delle poste c. Coco (Avv. Scoca)Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 10 (OTTOBRE 1984), pp. 369/370-371/372Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178123 .

Accessed: 25/06/2014 08:57

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369 GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 370

CONSIGLIO DI STATO; Adunanza plenaria; ordinanza 29

giugno 1984, m. 15; Pres. Pescatore, Rei. Bozzi; Direzione cen

trale del personale del ministero delle poste c. Coco (Avv.

Scoca).

CONSIGLIO DI STATO;

Impiegato dello Stato e pubblico — Destituzione di diritto —

Delitto solo tentato — Questione non manifestamente infondata

di costituzionalità (Cost., art. 3; cod. pen., art. 56; d.p.r. 10

gennaio 1957 n. 3, statuto degli impiegati civili dello Stato,

art. 85; 1. 26 marzo 1958 n. 425, stato giuridico del personale

delle ferrovie dello Stato, art. 123).

Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame

alla Corte costituzionale) la questione di legittimità costituzio

nale dell'art. 85 d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, nella parte in cui

prevede la destituzione di diritto dell'impiegato dello Stato, con

esclusione del procedimento disciplinare, anche se esso abbia

solo tentato e non consumato uno dei reati ivi indicati, in

riferimento all'art. 3 Cost.{ 1)

Diritto. — Oggetto del giudizio è il provvedimento con il quale

il sig. Giovanni Coco, dipendente del ministero delle poste e

telecomunicazioni, è stato destituito di diritto in seguito al

passaggio in giudicato della condanna iper il reato di tentata

concussione continuata, nello svolgimento dell'attività di consiglie

re comunale.

(1) L'ordinanza di rimessione all'adunanza plenaria della sez. VI

27 febbraio 1984, n. 110, è riportata in Cons. Stato, 1984, I, 201.

La conseguente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale

dell'adunanza plenaria che si riporta, si basa sulla tesi interpreta

tiva dell'art. 85 dello statuto degli impiegati civili dello Stato,

secondo cui ai lini della destituzione di diritto del dipendente statale

per condanna passata in giudicato per uno dei delitti ivi indicati, al

delitto consumato andrebbe parificato il delitto solo tentato: soprat

tutto, perché già il solo tentativo rivelerebbe qualità psichiche e

morali del soggetto, incompatibili col suo rapporto di pubblico

impiego. Tesi interpretativa che effettivamente è affermata dalla

giurisprudenza consolidata, in particolare di quella del Consiglio di

Stato: sez. Vii 4 maggio 1982, n. 243, Foro it., 1982, IH, 402, con

nota di richiami che offre un panorama giurisprudenziale dominato

da tale tendenza. Peraltro è solo una tesi interpretativa: in

primo luogo, non mancano pronunce in senso opposto, come quella

ora appellata (TA.R. Abruzzo 7 giugno 1982, n. 289, id., Rep. 1983,

voce Impiegato dello Stato, n. 1114), secondo una linea sostenuta

soprattutto dal T.AjR. Campania (sent. 8 giugno 1983, n. 633, Trib.

amm. reg., 1983, 1, 2650, a conferma della precedente 26 marzo 1980,

n. 241, Foro it., Rep. 1980, voce cit., n. 1208, annullata dalla già citata

decisione della sez. VI n. 243/82); e, poi, quel che si è affermato

sulla base di date argomentazioni, sulla base di altre può essere

ripensato; tanto più che alcune ragioni che inducono ad escludere

l'equiparazione del tentativo di delitto alla sua consumazione ai fini

della norma da interpretare, ineriscono ai dubbi di costituzionalità di

questa, che altrimenti non potrebbero considerarsi manifestamente

infondati, come ammette l'ordinanza dell'adunanza plenaria ora ripor

tata, come è evidente già nell'ordinanza di rimessione della sez. VI

n. 110/84, e soprattutto nella sentenza appellata. In altre parole, l'adunanza plenaria ben avrebbe potuto risolvere

essa stessa il problema, senza sovraccaricare la corte di altro lavoro,

ed evitando un allungamento del giudizio amministrativo, adottando

puramente e semplicemente l'interpretazione che svincola la destitu

zione di diritto dal solo tentativo, largamente proprio per i dubbi di

costituzionalità della norma altrimenti consistenti: con un'operazione

che altre volte ha compiuto con ben maggiore audacia; un'esempio

per tutti: 16 dicembre 1983, a. 27, id., 1984, III, 1, con nota di richia

mi, sulla omogeneizzazione del trattamento economico dei magistrati.

D'altra parte, la scelta della strada della rimessione alla corte della

equiparazione del delitto tentato a quello consumato ai fini della

destituzione di diritto del dipendente statale, permetterà alla corte

stessa di valutare con maggiore ampiezza la costituzionalità del

meccanismo della destituzione di diritto: per il quale la condanna

passata in giudicato per una serie di reati, toglie all'amministrazione

ogni margine di discrezionalità nella valutazione della compatibilità

del comportamento del pubblico dipendente, e delle sue qualità

psichiche e morali che esso rivela, con la prosecuzione del suo

rapporto di impiego; giacché è proprio questa automaticità, questa

preclusione ad una più personalizzata considerazione dei singoli casi,

che è parsa di per sé di dubbia costituzionalità a varie ordinanze di

rimessione: sez. IV 8 giugno 1982, n. 337 (riportata con la data 24

novembre 1981, id., 1984, III, 51, con nota di richiami, ai quali adde,

nello stesso senso, T.A.R. Campania, sez. II, 22 dicembre 1983, n. 56,

Trib. amm. reg., 1984, I, 687; T.AjR. Abruzzo 30 giugno 1981, n.

108, Foro it., 1982, ili, 457, con nota di richiami, e anche, parzial

mente, 7 ottobre 1981, n. 238, id., Rep. 1982, voce cit., n. 1158), che

dichiara costante nel senso della manifesta infondatezza della que

stione la precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI

15 novembre e 15 dicembre 1982, nn. 607 e 690, id., Rep. 1983, voce

cit., nn. 1112, 1113; v. anche T.A.R. Basilicata 19 novembre 1983, n.

139, Trib. amm. reg., 1984, I, 377).

La disposizione applicata nei suoi confronti è la lett. a)

dell'art. 85 t.u. approvato con d.p.r. ilO gennaio 1957 n. 3, in base

alla quale l'impiegato incorre nella destituzione, escluso il proce

dimento disciplinare, per condanna, passata in giudicato, per il

delitto, fra altri, di concussione.

-Come esposto in narrativa, il T.AjR. per d'Abruzzo ha accolto il

ricorso proposto dal Coco sulla motivazione che presupposto per la destituzione di diritto sarebbe la condanna per un delitto

consumato e non anche per un delitto tentato, come nel caso in

esame.

L'amministrazione, a sostegno dell'appello, richiama il costante

orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato, secondo cui

la ratio dell'art. 85 citato, quanto alla previsione della destituzio

ne ex lege dall'impiego, è quella di collegare in modo automatico

la destituzione alla condanna per delitti a rivestire la qualità di

pubblico impiegato; sicché la legittimità del provvedimento di

destituzione di diritto conseguente a condanna per un delitto

tentato, consisterebbe nel fatto che nessuna rilevanza assumerebbe la circostanza che il delitto non sia stato consumato, risultando

parimenti evidente dal tentativo quella immoralità che la legge riconosce ostativa alla prosecuzione del rapporto di pubblico impiego (sez. IV 9 marzo 1976, n. 154, Foro it., Rep. 1976, voce

Impiegato dello Stato, n. 1641; sez. VI 9 novembre 1965, n. 806, id., 1966, III, 400).

Tale orientamento è noto all'adunanza plenaria, come del resto era ben noto alla sezione sesta allorché rimise il ricorso in esame, e sulla sua validità non possono sussistere dubbi poiché esso è aderente allo spirito e alla finalità della norma, la quale nella sua

previsione ha inteso collocare niello stesso ambito e sullo stesso

piano tanto l'ipotesi dei delitti consumati (da essa tassativamente indicati), quanto l'ipotesi del « tentativo » degli stessi delitti, sulla sostanziale considerazione che il « tentativo » ripete l'essenza e le caratteristiche del reato tipico cui si riferisce.

Si deve tuttavia osservare che, pur senza sottovalutare la giurisprudenza sin qui intervenuta, l'indagine su una vasta serie di elementi e di considerazioni può condurre alla prospettazione di fondati dubbi circa la legittimità, sotto il profilo costituzionale, della disposizione contenuta nel più volte citato art. 85.

Sulla rilevanza della questione non possono sorgere dubbi, essendo evidente che nell'ipotesi in cui il giudizio di costituziona lità dovesse concludersi con una pronuncia di illegittimità costitu zionale della norma anzidetta, il provvedimento di destituzione si rivelerebbe illegittimo, salvo il potere dell'amministrazione di

provvedere con la stessa o con altra sanzione, preceduta, tuttavia, da procedimento disciplinare.

Va in primo luogo posto in evidenza che l'orientamento giu risprudenziale dianzi richiamato è stato sottoposto ad una parzia le « ricansiderazione » .nella recente ordinanza (n. 337 dell'8 giugno 1982, id., Rep. 1982, voce cit., n. 1160), con la quale la sezione IV di questo consiglio ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 85 cit. e dell'art. 41 1. 5 marzo 1961 n. 90 (che ha esteso la normativa del t.u. del 1957

agli operai dello Stato), per contrasto con l'art. 3 Cost., sul rilievo che quelle norme vincolano l'amministrazione ad applicare la massima sanzione (qual'è la destituzione) «di diritto» e cioè

senza alcun margine di discrezionalità in ordine alla eventuale

graduazione della sanzione in rapporto alla gravità del fatto ed alla sua incidenza sulla regolarità del servizio, nonché alla

compatibilità fra il precedente penale e il mantenimento in servizio dell'impiegato.

Va poi ricordato che, come è stato esattamente posto in rilievo nella richiamata ordinanza della sezione IV, la costanza dell'o rientamento giurisprudenziale sembra avere subito un'altra notevo le attenuazione per effetto del parere n. 1083 del 24 giugno 1981

(id., 1981, III, 559) della I sezione di questo consiglio, dal quale emerse una tendenza sfavorevole alla applicazione di sanzioni

disciplinari « rigide », cioè non graduate in rapporto al caso

concreto.

Né può essere dimenticato il principio, affermato dalla Corte

costituzionale, secondo cui le pene vanno commisurate non in

maniera fissa, bensì in misura variabile, in modo che sia consenti

to al giudice di graduarle, in relazione all'entità e alle specifiche

esigenze dei singoli oasi <14 aprile 1980, n. 50, id., 1980, I, 1258).

Sin qui l'esame della giurisprudenza più recente, che, come

appare evidente, induce ad una seria meditazione sulla effettiva

rispondenza dell'art. 85 t.u. n. 3/57 ai principi di uguaglianza e

di ragionevolezza. Ma radunanza plenaria è dell'opinione che anche l'esame della

normativa in materia conduca a motivi di concreta perplessità sulla costituzionalità dell'art. 85 cit., in relazione alla previsione, in esso contenuta, dell'uguale trattamento usato nei riguardi degli

Il Foro Italiano — 1984 — Parte III-27.

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PARTE TERZA

impiegati civili dello Stato condannati per la consumazione di

uno dei delitti ivi previsti e di quelli condannati per il « tentati

vo » degli stessi delitti.

Innanzitutto, va richiamato l'art. 123 1. 26 marzo 1958 m. 425

(che regola il rapporto del personale delle ferrovie dello Stato):

questa disposizione, nel prevedere che « il tentativo, quando sia

configurabile e non sia contemplato espressamente come mancan

za autonoma, è punito con la sanzione prevista per la mancanza

perfetta, diminuita di un grado », si riferisce di certo ai compor tamenti individuati dai precedenti art. 116, 117 e 118 e cioè a

fatti che sono contemplati come « mancanze » e puniti con

sanzioni disciplinari, indipendentemente dalla loro rilevanza pena le.

Circa quest'ultimo aspetto resta, da ultima, la considerazione

del diverso trattamento che la legge penale prevede per il delitto

consumato e per il delitto tentato.

L'art. 56 c.p., infatti, diminuisce, al capoverso, la pena del

danno tentato in confronto con quella del danno consumato, e

ciò perché il tentativo è un « reato secondario » previsto in

relazione a un reato principale: il tentativo, cioè, è « un altro

reato » che la legge classifica e punisce come reato di pericolo. Tanto premesso, sulla base delle considerazioni esposte si può

configurare il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 85, lett.

a), 2* parte, t.u. approvato con d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto i profili: 1) della violazione del

principio della ragionevolezza, per irragionevole equiparazione della condanna penale per il reato di tentata concussione con la condanna penale per il reato di concussione; 2) della violazione del principio di uguaglianza per ingiustificata imposizione a

situazioni che in base alla legge penale (art. 317 e 56 c.p.) sono

oggettivamente diverse, di un'identica disciplina legislativa, men

tre costituisce un principio fermo quello secondo cui la sanzione

unica può essere giustificata solamente quando, per la sua misura

e per la natura dell'illecito, essa possa ragionevolmente conside

rarsi proporzionata all'intera gamma di comportamenti, riconduci

bili allo specifico tipo di reato (Corte cost., n. 50/80, cit.) ; 3) della violazione del principio di uguaglianza per la ingiustificata discriminazione (in relazione all'art. 123 1. 26 marzo 1958 n. 425)

degli impiegati delle ferrovie dello Stato.

Nei sensi e nei limiti dianzi esposti va pertanto sollevata la

questione di legittimità costituzionale dell'art. 85, lett. a), 2a parte, t.u. approvato con d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, in riferimento

all'art. 3 Cost., disponendosi la trasmissione degli atti alla Corte

costituzionale, previ gli adempimenti di rito, ai sensi dell'art. 23 1.

11 marzo 1953 n. 87 e disponendosi altresì la sospensione di

questo giudizio sino all'esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

CONSIGLIO DI STATO; Adunanza plenaria; decisione 19

giugno 1984, n. 13; Pres. Pescatore, Est. Baccarini; Botti

glione (Avv. Lazzara) c. Min. poste e telecomunicazioni (Avv. dello Stato Carbone). Conferma T.A.R. Basilicata 25 febbraio

1981, n. 3.

Giustizia amministrativa — Sentenza del tribunale amministra

tivo regionale — Notificazione al procuratore costituito — Ap

pello — Proposizione oltre il sessantesimo giorno — Irricevibi

lità (Cod. proc. civ., art. 170, 285; 1. 3 aprile 1979 n. 103, mo

difiche dell'ordinamento dell'avvocatura dello Stato). Giustizia amministrativa — Sentenza del tribunale amministrativo

regionale — Difetto di elezione di domicilio — Notificazione

presso la segreteria — Appello — Proposizione oltre il sessan

tesimo giorno — Irricevibilità (Cod. proc. civ., art. 314, 366;

disp. att. cod. proc. civ., art. 58; cod. proc. pen., art. 171;

r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, t.u. sul Consiglio di Stato, art. 35; 1. 6

dicembre 1971 n. 1034, istituzione dei tribunali amministrativi

regionali, art. 19).

È irricevibile l'appello proposto oltre il sessantesimo giorno dalla

notificazione della sentenza del tribunale amministrativo regio nale al procuratore costituito in primo grado presso il suo

domicilio reale, anche se il ricorrente non aveva dichiarato di

eleggere domicilio presso di lui. (1)

(1-2) L'ordinanza di rimessione della sez. VI 27 febbraio 1984, n.

109, è riportata in Cons. Stato, 1984, I, 198. La pronuncia dell'adunanza plenaria che ora si riporta (sulla

seconda massima non si rinvengono precedenti specifici), completa una specie di trittico.

È irricevibile l'appello proposto oltre il sessantesimo giorno dalla

notificazione della sentenza del tribunale amministrativo regio nale presso la segreteria di questo, se il procuratore costituito in primo grado, avente domicilio al di fuori della circoscrizione

del tribunale stesso, non lo aveva eletto nel luogo della sua

sede. (2)

Diritto. — 1. - La questione preliminare che l'ordinanza di

rimessione della VI sezione ha devoluto alla cognizione dell'a

dunanza plenaria si appunta sulla ricevibilità dell'appello in

relazione alla controversa validità delle due notificazioni della

sentenza di primo grado eseguite dall'amministrazione al procura tore del ricorrente costituito in primo grado l'ima nel domicilio

reale e l'altra, presso la segreteria del T.A.R.

In punto di fatto, occorre precisare che nel giudizio di primo grado il ricorrente non aveva dichiarato di eleggere domicilio

presso il procuratore e che quest'ultimo aveva indicato il proprio domicilio iki Brindisi, e pertanto in luogo sito fuori della circo scrizione del T.A.R. della Basilicata presso il quale si svolgeva il

giudizio, senza eleggere domicilio nel luogo dove aveva sede il

T.A.R.

In tale situazione processuale, l'amministrazione vincitrice aveva

eseguito la notificazione della sentenza di primo grado al procura tore costituito sia nel domicilio reale che presso la segreteria del

T.A.R.

2. - Quanto alla validità della prima notificazione al procurato re (presso il domicilio reale), i dubbi prospettati nell'ordinanza di

rimessione non resistono ad una approfondita riflessione.

Anzitutto, la decisione 7 dicembre 1979, n. 31, Foro it., 1980, III, 166, con nota di richiami (confermata dalla decisione 6 maggio 1980, n. 6, ibid., 391, con nota di richiami), che, capovolgendo il

precedente orientamento basato su un ricorso in appello modellato su un ricorso giurisdizionale amministrativo da notificare tradizionalmen te all'amministrazione resistente presso la sua sede, aveva valorizzato il ruolo dell'avvocatura dello Stato: ed aveva cosi affermato che, ai fini della decorrenza del c.d. termine breve per appellare, la sentenza che il tribunale amministrativo regionale aveva pronunciato nei confronti di un'amministrazione statale, o comunque difesa da tale

avvocatura, deve essere notificata presso quest'ultima, e non presso la sede dell'amministrazione stessa (per la successiva, conforme giuris prudenza delle sezioni semplici, v. la nota di richiami alia decisione dell'adunanza plenaria 5 aprile 1984, n. 8, id., 1984, ili, 294, ai quali adde, sempre nello stesso senso, sez. VI 21 maggio 1984, n. 295, Cons. Stato, 1984, I, 609, nei confronti dell'il.c.e., ente difeso dall'av vocatura dello Stato).

(Poi, la decisione 8/84 ora ricordata. Questa aveva affermato che, sempre agli stessi fini, la sentenza che un tribunale amministrativo

regionale aveva pronunciato nei confronti di un'amministrazione non

statale, o comunque non difesa dall'avvocatura dello Stato, va notificata presso il procuratore costituito in primo grado, e non presso la sua sede (v., nella suddetta nota di richiami, le indicazioni dei precedenti contrari, anche della adunanza plenaria; successiva mente, la stessa questione è stata rimessa a questa, dal sez. IV con ordinanza 4 maggio 1984, n. 314, Cons. Stato, 1984, I, 492). Molto interessante la motivazione, evidentemente di grande forza espansiva: non sarebbe opportuno differenziare il regime degli atti processuali, a seconda della qualità della parte che ne sia autrice o destinataria. E, in attesa dei presagiti ulteriori sviluppi, in tal modo la decisione già rendeva omogenea la disciplina del luogo di notificazione della sentenza del tribunale amministrativo regionale nei confronti della parte pubblica, indipendentemente dal carattere statale o meno di questa: in ogni caso, non presso la sua sede, ma presso chi la aveva rappresentata in primo grado.

Cosi, rimaneva ancora (formalmente) aperta la questione, nell'ipo tesi nella quale la sentenza del tribunale amministrativo regionale sia da notificare al ricorrente, in ordine alla quale la giurisprudenza appariva divisa, come rilevato nella nota di richiami alla decisione n.

8/84. A chiuderla, provvede ora la decisione che si riporta, la quale, accentuando il ruolo di domiciliatario funzionale del procuratore costituito, indipendentemente da ogni esplicita elezione di domicilio della parte da esso rappresentata, perviene ad una duplice reductio ad unitatem: all'interno del processo amministrativo, nel quale, ormai, indipendentemente dal carattere statale, pubblico in genere o privato della parte alla quale la sentenza del tribunale amministrati vo regionale deve essere notificata ai fini della decorrenza del c.d. termine breve per appellare, mai tale notifica deve essere fatta presso la sua sede o domicilio, ma sempre presso l'avvocatura dello Stato o il procuratore che l'aveva rappresentata in primo grado. E della disciplina del processo amministrativo con quella del processo civile, con l'applicazione generalizzata al primo del principio di stabilità per il secondo dagli art. 170 e 285 c.p.c.: secondo una linea di progressiva omogeneizzazione dei regimi dei due processi, che l'adu nanza plenaria persegue da molti anni, presumibilmente in una sorta di preventiva elaborazione giurisprudenziale della futura (e futuribi le) nuova legge sul processo amministrativo (sulla quale cfr., da ultimo, Rubrica parlamentare, a cura di R. Moretti, Foro it., 1984, V, 150 e 312).

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