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Agostino- La Musica

Date post: 17-Jan-2016
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Il più celebre trattato sulla musica di Agostino di Ippona
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S. AGOSTINO LA MUSICA INDICE: LIBRO I 2 LIBRO II 21 LIBRO III 37 LIBRO IV 50 LIBRO V 69 LIBRO VI 84
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Page 1: Agostino- La Musica

S. AGOSTINO

LA MUSICA

INDICE:

LIBRO I 2 LIBRO II 21 LIBRO III 37 LIBRO IV 50

LIBRO V 69 LIBRO VI 84

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LIBRO PRIMO MUSICA MOVIMENTO NUMERI

Concetto di musica come arte e scienza (1, 1 - 6, 12) Grammatica e musica e suono. 1. 1. MAESTRO - Che piede è modus? DISCEPOLO - Un pirrichio. M. - Di quanti tempi? D. - Di due. M. - E bonus che piede è? D. - Il medesimo di modus. M. - Dunque modus e bonus sono identici. D. - No. M. - Perché hai detto medesimo dunque? D. - Sono identici nel suono, non nel significato. M. - Affermi dunque che si ha il medesimo suono nel dire modus e bonus. D. - Noto che si differenziano nel suono delle lettere, il resto è eguale. M. - E, secondo te, nel pronunciare il verbo pone e l'avverbio pone, a parte il diverso significato, il suono è differente? D. - Completamente differente. M. - E perché differente se è costituito dai medesimi tempi e dalle medesime lettere? D. - Differisce perché si ha l'accento in sillabe diverse. M. - E a quale disciplina appartengono tali nozioni? D. - Io di solito le odo dai grammatici e da loro le ho apprese, ma non so se è ufficio proprio di tale disciplina o è preso in prestito da altra. M. - Lo vedremo in seguito. Per il momento ti propongo una domanda. Se io battessi due volte un timpano o una corda d'arpa così di seguito e tanto velocemente come nel pronunciare modus e bonus, ti accorgeresti o no che anche in tal caso si hanno due tempi. D. - Me ne accorgerei. M. - Diresti dunque che è un pirrichio. D. - Sì. M. - E certamente dal grammatico hai appreso il nome del piede? D. - D'accordo. M. - Quindi il grammatico giudicherà di tutti i suoni di tal genere, ovvero hai avvertito da te le percussioni ritmiche ma hai appreso dal grammatico la terminologia da usare? D. - Certo. M. - Ed hai osato trasferire un termine, che la grammatica ti ha insegnato, ad un contenuto che, per tua ammissione, non è di competenza della grammatica? D. - Ma, a mio avviso, è stato dato un nome al piede soltanto per indicare una misura di tempo. E perché non dovrei, ogni volta che avverto tale misura, usare le parole in quel senso? Ed anche se si dovesse usare una diversa terminologia, i suoni mantengono la medesima misura e quindi non sono di competenza dei grammatici. E allora perché preoccuparsi della terminologia se il significato è chiaro? M. - Neanche io lo voglio. Tuttavia tu comprendi che si danno innumerevoli tipi

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di suoni, nei quali si possono osservare determinate misure. Ed esse, come riconosciamo, non si devono attribuire alla disciplina grammaticale. Non ritieni dunque che esiste un'altra disciplina, la quale ha come oggetto tutto ciò che nelle parole è un determinato ritmo dovuto all'arte? D. - Mi sembra probabile. M. - E quale pensi sia il suo nome? Non ti è nuovo, come credo, che alle Muse si suole attribuire un certo universale potere del canto. È questa che, salvo errore, si denomina musica. D. - Anche io penso che lo sia. Definizione della musica. 2. 2. M. - Ma siamo d'accordo di non preoccuparci affatto della terminologia. Ed ora, se lo credi opportuno, indaghiamo, con la maggiore diligenza possibile, la competenza e il metodo di questa disciplina, qualunque essa sia. D. - Indaghiamo pure. Desidero assai conoscere tutto quanto la riguarda. M. - Definisci allora la musica. D. - Non ne son capace. M. - Riesci almeno ad accettare la mia definizione? D. - Ci proverò, se la dài. M. - La musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte 1. Sei d'opinione contraria?. D. - No forse, se mi fosse evidente che cos'è misura ritmica. M. - Non hai mai sentito usare il termine misurare ritmicamente, ovvero l'hai sentito usare con significato non attinente al canto e alla danza? D. - Giusto. Ma io osservo che misurare ritmicamente deriva da misura, poiché la misura si deve usare in tutte le opere d'arte, ed invece molti pezzi di canto e di danza sono assolutamente illiberali. Vorrei quindi comprendere con esattezza che cosa significa misurare ritmicamente, questo termine, col quale da solo, si esprime la definizione di una disciplina tanto importante. Infatti per possederla non basta apprendere quanto sanno i vari cantori e mimi. M. - Non ti turbi il tema sopra enunciato che anche al di fuori della musica si deve osservare la misura in tutte le produzioni e che essa tuttavia nella musica si dice ritmica. Non dovresti ignorare infatti che il dire si attribuisce propriamente all'oratore. D. - Non lo ignoro. Ma a che scopo questa affermazione? M. - Perché anche il tuo schiavo, per quanto illetterato e popolano, quando risponde, sia pure con una parola, a una tua domanda, dice qualche cosa. Lo ammetti? D. - Sì. M. - Allora è un oratore anche lui? D. - No. M. - Dunque, anche se ha detto qualche cosa, non si è valso del dire oratorio. Eppure dobbiamo ammettere che il dire oratorio si dice dal dire. D. - D'accordo, ma anche questo concetto, chiedo, a che serve? M. - A farti comprendere che la misura ritmica è di competenza della sola musica, sebbene la misura, da cui la parola deriva, può trovarsi anche in altre arti. Allo stesso modo la dizione propriamente si attribuisce agli oratori, sebbene quando si parla, si dice qualche cosa e la dizione deriva dal dire. D. - Comincio a capire.

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Misura ritmica... 2. 3. M. - Hai poi detto che nel canto e nella danza vi sono molte produzioni illiberali e che, se dovessimo includerle nella misura ritmica, questa nobilissima disciplina diverrebbe illiberale. È stata una osservazione molto sensata. Esaminiamo dunque dapprima che cosa significa misurare ritmicamente, poi che cosa significa misurare ritmicamente secondo arte perché non è stato aggiunto invano alla definizione. Infine non si deve trascurare il motivo per cui si è usata la nozione di scienza. Infatti, salvo errore, la definizione risulta di questi tre elementi. D. - Va bene. M. - Ammettiamo dunque che misura ritmica è detta da misura. E allora non ti appare la difficoltà che soltanto nelle azioni che si compiono mediante un determinato movimento si può oltrepassare o non raggiungere la misura, oppure si può incorrere nella difficoltà che si abbia qualche cosa fuor di misura, anche senza il movimento?. D. - No, certamente. M. - Quindi misura ritmica si dice non incongruamente una determinata capacità di muovere, o almeno una capacità, con cui si ottiene che qualche cosa si muova secondo arte. Non si può infatti dire che qualche cosa si muova secondo arte, se non mantiene la misura. D. - Non si può certamente. Ma allora bisognerebbe applicare la misura ritmica così intesa a tutte le produzioni artistiche. Niente, per quanto ne capisco io, si esegue secondo arte se non col muovere secondo arte. M. - E se tutto questo fosse dovuto alla musica? Comunque il termine di misura ritmica è più usato, ed a ragione, per gli strumenti musicali. Tu devi ammettere, così almeno penso, che un conto è un pezzo di legno o argento o altro materiale passato al tornio, ed altro è il movimento dell'artigiano nell'atto di tornirli. D. - Son d'accordo che differiscono notevolmente. M. - E il movimento non s'intende per sé, ma piuttosto per l'oggetto che si vuole tornito? D. - Chiaro. M. - Ma se quegli muovesse le membra al solo scopo di muoverle con armonia ed eleganza, non diremmo che sta eseguendo una pantomima? D. - Sì. M. - E allora, secondo te, un qualche cosa ha più valore e pregio se è intesa per sé o ad altro? D. - Per sé, che dubbio? M. - Ed ora torna al tema già esposto della misura ritmica. L'abbiamo considerata come determinata capacità di muovere. Esamina se il termine ha maggiore applicazione nel movimento, per così dire, libero, che cioè s'intende per sé e di per sé genera diletto estetico, ovvero in quello che è in qualche modo illibero. Sono in certo senso illibere tutte le cose che non sono fine a sé, ma si riferiscono ad altro. D. - Nel movimento cioè che è inteso per sé. M. - Quindi è già probabile che la scienza del misurare ritmicamente è scienza del muovere secondo arte, in maniera che il movimento sia inteso per sé e di per sé generi diletto. D. - Sì, è probabile.

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...secondo arte. 3. 4. M. - Perché dunque è stato aggiunto secondo arte? È impossibile che ci sia misura ritmica, se non c'è movimento secondo arte. D. - Non lo so e non so neanche come mi sia sfuggito. Era proprio questo l'intento dell'indagine. M. - Si sarebbe anche potuto non discutere su tale termine. Espunta la clausola " secondo arte ", potevamo definire la musica soltanto come scienza del misurare ritmicamente. D. - Chi ti può seguire, se intendi svolgere così tutto l'argomento? M. - La musica è scienza dei muovere secondo arte. Ora si può dire mosso secondo arte tutto ciò che è mosso ritmicamente con l'osservanza delle misure di tempi e lunghezze. Infatti genera già piacere estetico e pertanto già si può considerare convenientemente misura ritmica. Può avvenire tuttavia che la misura ritmica generi piacere estetico, quando non dovrebbe. Supponi che un tale canti con bella voce ed esegua la pantomima con armonia, ma finisca nello sguaiato, quando il soggetto richiede austerità. Egli non usa con arte la misura ritmica. Infatti esegue senza arte, cioè fuori convenienza, il movimento che al contrario si dovrebbe eseguire secondo arte per il fatto stesso che è ritmico. Quindi un conto è misurare ritmicamente ed un altro misurare ritmicamente secondo arte. La misura ritmica si può riconoscere in qualsiasi cantante purché non sbagli negli accordi di voci e suoni. La conveniente misura ritmica invece appartiene a questa disciplina liberale, cioè la musica. Potresti ritenere che un movimento, in quanto sconveniente al soggetto, non è secondo arte, sebbene devi ammettere che è ritmica secondo le regole dell'arte. Ma rispettiamo il nostro criterio, valido in ogni trattazione, di non lasciarci assillare da una polemica verbale, se il concetto è sufficientemente chiaro. E non preoccupiamoci se la musica si deve definire scienza del misurare ritmico, ovvero del misurare ritmico secondo arte. D. - Amo disprezzare vivamente le polemiche verbali; tuttavia codesta tua distinzione non mi dispiace. Musica e scienza. 4. 5. M. - Rimane da esaminare il motivo, per cui nella definizione s'implica scienza. D. - D'accordo. Rammento che il procedimento lo richiede. M. - Rispondi dunque se, secondo te, a primavera l'usignolo moduli con arte la voce. Il suo canto è difatti ritmico e molto armonioso e, salvo errore, è conveniente alla stagione. D. - D'accordo. M. - È dunque capace di disciplina liberale? D. - No. M. - Vedi dunque che il termine di scienza è indispensabile alla definizione. D. - Lo vedo bene. M. - Rispondimi dunque, se vuoi. Ritieni eguali all'usignolo coloro che, mossi da una certa sensibilità, cantano secondo arte, cioè ritmicamente e armoniosamente, sebbene interrogati sul ritmo e la successione dei suoni acuti e gravi non sanno rispondere? D. - Li giudico del tutto eguali. M. - E quelli che, senza avere questa scienza, ascoltano volentieri, si devono paragonare a certi animali? Si può infatti vedere che elefanti, orsi e altre

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specie di animali si muovono ritmicamente al canto e che gli uccelli stessi traggono diletto dalla propria voce. Non canterebbero infatti con tanta assiduità se, essendo escluso ogni interesse, non avessero soddisfazione. D. - La penso così, ma è un'offesa contro quasi tutto il genere umano. M. - Non è come la pensi. Infatti uomini eccellenti, sebbene profani della musica, vogliono talora adattarsi alla massa che non differisce molto dalle bestie e che comprende un numero straordinario d'individui. E lo fanno con molta liberalità e tatto. Ma qui non è il caso di parlarne. Anche dopo le grandi preoccupazioni, allo scopo di ristorare e rinfrancare lo spirito, si può con grande moderazione ricevere un po' di divertimento dai canti. E prenderlo qualche volta a questa condizione è segno di grande moderazione. Ma lasciarsene prendere anche qualche volta è vergognoso e indegno. Imitazione e ragione dell'arte. 4. 6. Che te ne sembra? Coloro che suonano il flauto, la cetra e simili strumenti si possono paragonare all'usignolo? D. - No. M. - Quale n'è la differenza? D. - In costoro scorgo una certa arte, in quello la natura soltanto. M. - Esprimi un concetto probabile. Ma ti sembra che si deve considerare arte, anche se eseguono per imitazione? D. - E perché no? A mio avviso, l'imitazione ha tanto valore nelle arti che con la sua eliminazione tutte potrebbero cessare. Anche gli insegnanti si offrono ad essere imitati e questo appunto essi denominano insegnare. M.- Ritieni che l'arte è una determinata ragione e che si valgono della ragione coloro che si valgono dell'arte, ovvero no? D. - Sì. M.- Chi dunque non può usare la ragione, non può usare l'arte. D. - Anche questo concedo. M.- Ritieni che gli animali privi di parole e che quindi sono considerati irragionevoli possono usare la ragione? D. - Assolutamente no. M. - Allora o dovrai considerare animali ragionevoli le gazze, i pappagalli e i corvi, ovvero senza criterio hai congiunto l'imitazione al concetto di arte. Osserviamo infatti che questi uccelli cantano e fischiano molti motivi alla maniera degli uomini e che lo fanno per imitazione. Che te ne sembra? D. - Non comprendo ancora del tutto come hai fatto a imbastire questa conclusione e fino a qual punto essa è valida contro la mia risposta. M. - Ti avevo chiesto se, secondo te, i citaristi, i flautisti e altri suonatori del genere esercitano arte, anche se hanno raggiunto l'abilità nel suonare con l'imitazione. Hai risposto che è arte ed hai sostenuto che l'imitazione ha tanta importanza da sembrare che eliminandola tutte le arti potrebbero essere destituite. Ne può conseguire che chi ottiene un effetto mediante imitazione, fa arte, anche se eventualmente non ogni individuo che fa arte l'ha raggiunta con l'imitazione. Ma se l'imitazione è arte e l'arte è razionalità, l'imitazione è razionalità. Ma l'animale irragionevole non usa la ragione, quindi non è capace di arte, però è capace di imitazione, quindi l'arte non è imitazione. D. - Io ho affermato che molte arti si fondano sulla imitazione, non ho considerato arte la stessa imitazione. M. - Ma, a tuo parere, le arti che si fondano sulla imitazione, non si fondano

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sulla ragione? D. - Anzi io penso che si fondano su entrambe. M. - Non faccio obiezioni. Ma la scienza dove la fondi, sulla ragione o sull'imitazione? D. - Anch'essa su entrambe. M. - Dunque riconosci la scienza agli uccelli. Hai loro riconosciuto la capacità d'imitare. D. - No, perché ho affermato che la scienza sussiste in entrambe sicché è impossibile che sia nella sola imitazione. M. - E ritieni che possa essere nella sola ragione? D. - Sì. M. - Quindi pensi che arte e scienza si differenziano. Infatti la scienza può sussistere nella sola ragione, l'arte invece esige l'unione di imitazione e ragione. D. - Non veggo la conseguenza. Io avevo affermato che molte e non tutte le arti sono costituite da ragione ed insieme da imitazione. M. - E considererai scienza la nozione che risulta da entrambe, ovvero le concederai soltanto la dimensione della ragione? D. - E che cosa m'impedisce di considerarla scienza, quando alla ragione si unisce l'imitazione? Scienza ed esecuzione musicale. 4. 7. M. - Stiamo trattando ora del citarista, del flautista, e cioè delle esecuzioni musicali. Dimmi dunque se al corpo, cioè a una certa sua soggezione, si deve attribuire quanto questi individui producono per imitazione. D. - Ma io penso che si deve attribuire allo spirito e insieme al corpo. Quando hai detto soggezione al corpo, hai usato un termine veramente appropriato. Il corpo infatti può essere soggetto soltanto allo spirito. M. - Noto che con molto discernimento hai attribuito l'imitazione non soltanto al corpo. Ma potresti affermare che la scienza non appartiene esclusivamente allo spirito? D. - E chi lo potrebbe? M. - Dunque ti è assolutamente impossibile far dipendere da ragione e imitazione una scienza consistente nei suoni delle cetre e dei flauti. Infatti, come hai ammesso, non si dà imitazione senza l'intervento del corpo. Hai affermato anche al contrario che la scienza è soltanto dello spirito. D. - Riconosco che è logica conclusione delle concessioni che ho fatte. Ma che me ne importa? Anche il flautista potrà avere scienza nello spirito. Quando infatti si associa l'imitazione che, come ho detto, non è possibile senza il corpo, essa non sottrarrà l'oggetto che egli tiene presente allo spirito. M. - Non lo sottrarrà certamente. Ma io non intendo affermare che son privi di scienza tutti coloro che usano simili strumenti. Affermo che non tutti ne son capaci. Stiamo trattando questo problema per intendere, se è possibile, con quanto discernimento è stata posta la scienza nella definizione di musica. Che se di essa fossero capaci tutti i flautisti, citaristi e altri suonatori del genere, penso che nulla vi sarebbe di più banale e volgare di tale disciplina. Scienza, memoria e senso. 4. 8. Ma segui con tutta l'attenzione perché rimanga evidente il risultato della nostra lunga indagine. Mi hai già concesso che scienza è soltanto nello spirito.

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D. - E perché non concederlo? M. - E il senso dell'udito lo attribuisci allo spirito, al corpo o a entrambi? D. - Ad entrambi. M. - E la memoria? D. - Penso che sia da attribuire allo spirito. Anche se percepiamo qualche cosa sensibilmente e lo affidiamo alla memoria, non per questo si deve pensare che la memoria abbia sede nel corpo. M. - Codesto è forse un problema importante, ma non attinente all'attuale argomento. Ma per quanto basta all'intento, non puoi negare, come penso, che le bestie hanno la memoria. Le rondini dopo un anno tornano ai nidi. Delle capre è stato detto con verità: Ricordano la strada per tornare all'ovile anche le stesse 2 [capre]. Ed è cantato nel poema che il cane riconobbe l'eroe suo padrone, ormai dimenticato dai familiari 3. E se volessimo, potremmo allegare innumerevoli casi, dai quali risulta quanto sto affermando. D. - Non lo nego, ma sto aspettando con impazienza l'aiuto che ne aspetti. M. - E quale, secondo te? Affermo semplicemente che se si attribuisce scienza unicamente all'essere spirituale e la si nega a tutti i bruti, viene accreditata soltanto al pensiero e non al senso e alla memoria. Infatti il senso non sussiste fuori del corpo ed esso e la memoria sono comuni anche alle bestie. D. - Anche qui mi sto chiedendo a quale scopo. M. - A questo. Vi sono individui che si arrestano alla esteriore esteticità e affidano alla memoria quanto soddisfa il loro gusto e muovendo il corpo secondo tale regola, vi associano una certa capacità d'imitazione. Ma essi non hanno scienza, anche se apparentemente eseguono secondo le norme dell'arte e della cultura, a meno che non afferrino con puro e ideale pensiero l'azione che eseguono o esibiscono. E se ragionevolmente si potesse dimostrare che tali sono gli attori drammatici, non avresti, a mio avviso, motivo per esitare a negar loro la scienza, e conseguentemente a non conceder loro la vera musica, che è appunto scienza del misurare ritmicamente. D. - Spiega un po' il concetto, vediamone il significato. Scienza e pratica. 4. 9. M. - Penso che non accrediti alla scienza ma alla pratica la maggiore o minore agilità delle dita. D. - E perché lo penseresti? M. - Perché poco fa soltanto allo spirito hai attribuito la scienza. Ora tu puoi constatare che tale abilità è soltanto del corpo, sebbene sotto il comando dello spirito. D. - Ma appunto perché lo spirito dotato di scienza comanda al corpo tale abilità, questa, secondo me, si deve attribuire allo spirito, anziché alle membra che eseguono. M. - Secondo te, si può dare il caso che un musicante valga per scienza più d'un altro, sebbene il meno informato muove con maggior facilità e agilità le dita? D. - Sì. M. - Ma se il movimento rapido e più agile delle dita dovesse assegnarsi alla scienza, tanto più si sarebbe abili, quanto più si è dotati di scienza. D. - D'accordo. M. - Considera anche questo caso. Penso che qualche volta hai osservato

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artigiani e altri operai. Essi con l'ascia o con la scure battono sempre allo stesso posto e menano il colpo soltanto dove la loro intelligenza indica. E talora siamo da loro scherniti, se nel tentativo di fare altrettanto, non vi riusciamo. D. - È come tu dici. M. - Ma quando non vi riusciamo, non sappiamo forse il punto da colpire o la lunghezza del pezzo da staccare? D. - Qualche volta non lo sappiamo, qualche volta sì. M. - Supponi dunque che un tale sappia tutto ciò che gli artigiani debbono fare e che lo sappia alla perfezione, sebbene sia meno capace nell'esecuzione, e che sia perfino in grado di suggerire agli abilissimi esecutori con maggiore competenza di quanto essi non sappiano giudicare. Puoi affermare che questa capacità non derivi dalla pratica? D. - No. M. - Quindi non solo si devono attribuire all'esercizio anziché alla scienza la celerità e l'agilità, ma anche la misura del movimento nelle membra. Altrimenti, più si è dotati di scienza e meglio si userebbero le mani. Lo diciamo in riferimento all'auletica e alla citaristica, in cui sono interessate le dita e le articolazioni. Per noi è un affare piuttosto difficile. Ma non per questo dobbiamo pensare che si tratti di scienza, anziché di pratica e di assidua imitazione ed esercizio. D. - Non posso più obiettare. Spesso sento dire che medici assai colti sono superati dai meno colti nelle amputazioni e nelle incisioni di vario genere, per quell'aspetto che richiede l'uso delle mani e dei ferri. Definiscono chirurgia questo settore della medicina. Con tale termine si designa appunto una determinata pratica di medicare mediante l'operazione delle mani. Quindi passa ad altro e chiudi ormai l'argomento. Scienza e doti naturali. 5. 10. M. - A mio parere, ci rimane da chiarire, se ne siamo capaci, un altro argomento. Queste arti, che ci dilettano mediante l'esecuzione delle mani, per conseguire l'efficacia della pratica, non hanno derivato dalla scienza, ma dal senso e dalla memoria. Altrimenti tu mi potresti obiettare che in alcuni è possibile la scienza senza la pratica, e talora tanto più eccellente che in coloro, i quali si distinguono per la pratica, ma che tuttavia anche costoro non hanno potuto raggiungere tanta pratica senza la scienza. D. - Comincia; è chiaro che dovrebbe esser così. M. - Hai mai ascoltato con interesse i mimi? D. - Con maggior interesse di quanto vorrei. M. - Come avviene, secondo te, che la massa profana acclama un flautista il quale butta fuori banali accordi e poi applaude un bravo cantante ed è tanto più profondamente emozionata, quanto più il canto è melodioso? Si deve pensare che la massa si comporta così per competenza nell'arte musicale? D. - No. M. - E allora? D. - Penso che si deve alla natura che ha dato a tutti la facoltà di udire, competente del giudizio in materia. M. - Pensi bene. Ma considera se anche il flautista è dotato di tale facoltà. Se è così, seguendo il giudizio della facoltà stessa, può muovere le dita, mentre soffia nel flauto, fissare e consegnare alla memoria ciò che suona più agevolmente secondo una propria inclinazione e abituare le dita a muoversi

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senza esitazione ed errore. E ciò tanto nel caso che esegua la composizione di un altro o che componga lui. E, come è stato detto, è la natura che agisce da guida e da criterio. Quindi nell'atto che la memoria segue il senso, e le articolazioni, gradualmente addestrate e rese idonee, seguono la memoria, il musicante, quando lo vuole, suona con tanto maggior perizia tecnica, quanto più eccelle in quelle doti che, dianzi, l'indagine ha mostrato comuni a noi e alle bestie, e cioè la tendenza ad imitare, il senso, la memoria. Hai qualche cosa da dire in contrario? D. - No, non ho nulla. Ma ormai desidero udire le caratteristiche della disciplina, che vedo negata mediante argomenti stringenti alle capacità degli individui privi d'istruzione. Il cantante e i suoi tifosi... 6. 11. M. - Non è ancora svolto sufficientemente l'argomento e non permetterò che si passi all'argomento successivo senza una chiarifica. È stato da noi accertato che i mimi possono senza la scienza musica soddisfare il gusto della massa. Allo stesso modo dovrà essere accertato che i mimi non possono in alcuna maniera apprendere e avere conoscenza della musica. D. - Mi meraviglierei se ci riesci. M. - È facile, ma devi essere più attento alle mie parole. D. - Per quanto ne so io, non sono stato mai svagato nell'ascoltarti da quando ha avuto inizio il nostro discorso, ma confesso che ora mi costringi a concentrarmi maggiormente. M. - Te ne son grato, quantunque tu lo faccia per il tuo interesse. E allora, per piacere, rispondimi, se, secondo te, sapeva che cosa fosse un soldo aureo, quel tizio, il quale volendo valutarlo al giusto scambio, pensò che valesse dieci sesterzi. D. - Ma chi potrebbe pensarlo? M. - E allora dimmi che cosa si deve stimar di più, i contenuti di cultura della nostra intelligenza o il riconoscimento che eventualmente ci viene accordato dagli illetterati? D. - Non v'è dubbio che l'intelligenza è superiore a tutte le altre cose che neanche si dovrebbero considerar nostre. M. - E puoi negare che ogni scienza è contenuto della intelligenza? D. - E chi potrebbe? M. - Anche la musica dunque è nell'intelligenza. D. - Rilevo che consegue dalla sua definizione. M. - E non ritieni che la popolarità e le ricompense tributate agli attori appartengono a quell'ordine di cose, che è posto nel potere della fortuna e nel giudizio degli ignoranti? D. - A mio avviso, non si dà cosa tanto casuale, sottoposta agli accadimenti e soggetta al dominio e all'approvazione della massa, come quelle. M. - E a tal prezzo i mimi venderebbero i propri canti, se avessero scienza della musica? D. - Sono assai convinto della conclusione, ma avrei una leggera obiezione in contrario. Non mi pare che l'individuo, il quale scambiava il soldo, si debba paragonare al mimo. Egli infatti, col ricevere gli applausi e l'onorario elargitogli, non perde la scienza, seppur ne è in possesso, con cui ha soddisfatto il gusto della massa. Ma se ne torna a casa più colmo di ricchezza, più lieto per la popolarità e con la propria scienza incolume e integra. Sarebbe

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stolto se disprezzasse questi vantaggi, perché non ricevendoli sarebbe molto meno illustre e più povero, ricevendoli non è meno dotto. ...e i lauti guadagni. 6. 12. M. - Vedi allora se col seguente argomento otteniamo il nostro intento. Tu ritieni, penso, che ha molto più valore il fine, per cui agiamo, che l'azione stessa. D. - È chiaro. M. - Dunque chi canta o impara a cantare soltanto per ottenere l'esaltazione dal popolo o da qualche individuo, non giudica migliore quell'esaltazione che il canto? D. - Mi è impossibile negarlo. M. - E chi giudica male una cosa, secondo te, ne ha scienza? D. - Per nulla affatto, a meno che eventualmente non sia diventato in qualche modo squilibrato. M. - Quindi chi giudica migliore una cosa peggiore, senza dubbio è privo della conoscenza della cosa? D. - Sì. M. - Se dunque mi convincerai o dimostrerai che un mimo ha conseguito ed esibisce la propria abilità, seppur ce l'ha, non per piacere alla massa a scopo di lucro e di celebrità, allora ti concederò che è possibile avere scienza della musica ed essere un mimo. Ma se è assai probabile che si fa il mimo soltanto per proporsi esclusivamente come fine della professione il lucro e la celebrità, devi ammettere o che i mimi non hanno vera conoscenza della musica, oppure che fanno meglio essi a chiedere popolarità e altri vantaggi soggetti al caso, che noi l'intelligenza. [E poiché essi chiedono dagli altri fama e vantaggi, ma non chiedono da noi intelligenza, quando apprezzano sconsideratamente ciò che è illiberale appunto perché più piacevole, appare che non ne hanno scienza]. D. - Ho concesso le premesse. Veggo che devo concedere anche la conclusione. Mi pare impossibile trovare un uomo di teatro che ami la propria arte per se stessa e non per vantaggi estranei. A stento se ne potrebbe trovare qualcuno dal ginnasio. Ma se qualcuno ve n'è stato o ve ne sarà, non sembra che per questo si devono disprezzare i musici, ma piuttosto riabilitare una buona volta i mimi. Quindi esponi, per favore, le caratteristiche di questa grande disciplina, che ormai non m'è più possibile considerare illiberale.

Leggi musicali dei movimenti-numeri (7, 13 - 13, 28) Lentezza e velocità. 7. 13. M. - Lo farò, anzi lo farai tu. Io mi limiterò a porti delle frequenti domande. Tu con le risposte esporrai tutto ciò che riguarda l'argomento e ciò che ti sembra di dover cercare perché attualmente lo ignori. E prima di tutto ti chiedo se si possa correre lungamente e velocemente. D. - È possibile. M. - E lentamente e velocemente? D. - Assolutamente impossibile. M. - Altro è dunque " lungamente " e altro " lentamente ". D. - Certo. M. - Chiedo ugualmente qual è, secondo te, l'opposto di una lunga durata, come la velocità è l'opposto della lentezza. D. - Non mi viene in mente un termine in uso. Ma noto che posso opporre a

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" lungamente durevole " soltanto " non lungamente durevole ". In definitiva al termine " lungamente " è opposto l'altro " non lungamente ", allo stesso modo che se non volessi usare " velocemente " e preferissi dire " non lentamente ", si avrebbe il medesimo significato. M. - Giusto. Non si sottrae nulla alla verità, quando si parla così. Infatti anche io non ricordo se esiste questo nome che anche tu dici di non rammentare, o perché lo ignoro o al momento non mi viene in mente. Quindi stabiliamo di chiamare queste due coppie di contrari in questo modo: " lungamente " e " non lungamente ", " lentamente " e " velocemente ". E prima di tutto, se vuoi, discutiamo sul " lungamente durevole " e " non lungamente durevole ". D. - Va bene. Legge armonica nei rapporti numerici. 8. 14. M. - È evidente per te che si dice durare lungamente ciò che dura un lungo tempo e non lungamente ciò che dura un breve tempo? D. - Sì. M. - E dunque il movimento che dura, ad esempio, due ore, dura il doppio di quello di un'ora? D. - Che dubbio? M. - Dunque il concetto di " lungamente " o " non lungamente " si può ridurre a rapporti determinati e a numeri. Così un movimento è all'altro nel rapporto di due a uno, cioè uno ha due volte una durata in rapporto a un altro che l'ha una sola volta. Egualmente un movimento sta ad un altro nel rapporto di tre a due, cioè uno dura tre porzioni di tempo in rapporto ad un altro che ne dura due. Si può così percorrere la serie dei numeri, non in lunghezze illimitate e indeterminate, ma in maniera che due movimenti siano in rapporto mediante un numero, o il medesimo, come uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, o non il medesimo, come uno a due, due a tre, tre a quattro, oppure uno a tre, due a sei e tutti gli altri numeri che siano fra di sé commensurabili. D. - Più chiaramente, prego. M. - Ritorna dunque all'esempio delle ore ed applica ai singoli casi il mio discorso su un'ora e due ore che, come pensavo, doveva bastarti. Ammetti certamente che si può dare un movimento di un'ora e un altro di due. D. - D'accordo. M. - E non l'ammetti anche per un movimento di due ore e un altro di tre? D. - Sì. M. - E non è evidente anche per uno di tre e un altro di quattro, ovvero per uno di una e un altro di tre, per uno di due e un altro di sei? D. - Sì. M. - E allora perché l'esposto non sarebbe chiaro? Affermavo proprio questo, quando dicevo che il rapporto fra due movimenti può essere indicato da un numero, come uno a due, due a tre, tre a quattro, uno a tre, due a sei ed altri che si vogliano considerare. Conosciuti questi rapporti è anche possibile determinare gli altri, come di sette a dieci, di cinque a otto e all'infinito per ogni altro rapporto che si rinvenga fra due movimenti proporzionalmente commensurabili. Di essi si può dire appunto che sono proporzionali, tanto se i due numeri sono eguali, come se uno è maggiore e uno minore. D. - Ora capisco e ammetto che è possibile. Movimenti commisurati eguali e ineguali. 9. 15. M. - E comprendi anche, suppongo, che la misura e il limite sono

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giustamente da considerarsi più perfetti della mancanza di misura e di limite. D. - Indiscutibile. M. - Dunque due movimenti che sono in rapporto, come già detto, secondo una misura numerica, sono da considerarsi più perfetti di quelli che non l'hanno. D. - Anche questa conseguenza è evidente poiché la misura ben definita esistente nei numeri li rapporta l'uno all'altro. Quelli che ne sono privi non sono uniti fra di sé da una determinata ragione di commensurabilità. M. - Allora possiamo appunto denominare, se sei d'accordo, razionali quelli che sono commisurati e irrazionali quelli che sono privi di commisurazione. D. - D'accordo. M. - Ed ora rifletti se, secondo te, la proporzionalità esistente nei movimenti razionali fra di sé eguali è maggiore che in quelli ineguali. D. - Chi potrebbe avere un'altra opinione? M. - Inoltre fra gli ineguali ve ne sono alcuni, dei quali possiamo dire con quale parte proporzionale il maggiore equivale al minore o lo supera, come due a quattro e sei a otto, ed altri, di cui non è possibile dire lo stesso, come nei seguenti numeri: tre e dieci, quattro e undici. Vedi certamente che nella prima coppia la metà del maggiore equivale al minore, nella seconda che ho fatto seguire, il maggiore supera il minore di un quarto. Nelle due ultime coppie al contrario, appunto tre e dieci, quattro e undici, vediamo una certa proporzione perché le parti sono in un determinato rapporto di tanto a tanto, ma non come nelle prime due. Non si può assolutamente dire infatti qual è la parte proporzionale del maggiore che equivale al minore né quella con cui lo supera. Non si può affermare che il tre è parte proporzionale del dieci o il quattro dell'undici. Quando ti dico di considerare una parte proporzionale, intendo parlare di una parte semplice e senza altra aggiunta, come una metà, una terza, una quarta, una quinta, una sesta parte e così via. Non si deve cioè aggiungere una terza parte o una ventiquattresima parte d'una parte e altre suddivisioni del genere. D. - Adesso capisco. Movimenti ineguali connumerati e dinumerati. 9. 16. M. - Ho proposto due tipi di movimenti razionali ineguali chiarendoli con esempi di numeri. Tu dunque quali ritieni più perfetti, quelli, di cui è possibile esprimere la parte proporzionale o quelli, di cui non è possibile? D. - La logica, mi pare, ci impone di considerare più perfetti quelli, di cui, come è stato dimostrato, si può dire, nel confronto con gli altri, in cui ciò non avviene, che il maggiore equivale o supera con una sua parte proporzionale il minore. M. - Bene. Vuoi anche che imponiamo ad essi un nome? Così, quando in seguito sarà necessario richiamarli, discuteremo più speditamente. D. - Ben volentieri. M. - Denominiamo quindi connumerati quelli che abbiamo dichiarato più perfetti e dinumerati quelli meno perfetti. Ne è motivo che i primi sono numerati non solo presi singolarmente, ma sono numericamente proporzionali anche in quella parte, con cui il maggiore equivale o supera il minore; gli altri invece costituiscono un rapporto numerico soltanto presi singolarmente, mentre non sono numericamente proporzionali nella parte con cui il maggiore si equivale o supera il minore. Di essi è impossibile infatti esprimere quante volte il maggiore contiene il minore o quante volte il maggiore e il minore

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contengono quella parte, con cui il maggiore supera il minore. D. - Accetto questi termini e, per quanto ne son capace, farò di ricordarmene. Movimenti-numeri moltiplicati e sesquati. 10. 17. M. - Ora esaminiamo una possibile classificazione dei connumerati. Penso che sia chiara. Il primo tipo di connumerati è quello, in cui il numero minore misura il maggiore, cioè il maggiore contiene un determinato numero di volte il minore, secondo l'esempio già addotto di due e quattro. Osserviamo infatti che il due è contenuto nel quattro due volte. Di seguito si ha il tre, se, in rapporto col due, invece del quattro poniamo il sei, quattro, se l'otto, cinque, se il dieci. Il secondo tipo è quello, in cui la parte, con la quale il maggiore supera il minore, li misura entrambi, cioè il maggiore e il minore la contengono un determinato numero di volte. L'abbiamo osservato nei numeri sei e otto. Infatti la parte eccedente il minore è il due, che è contenuto quattro volte nell'otto e tre nel sei. Dunque anche ai movimenti in oggetto e ai numeri, per cui ci si chiarisce quanto vogliamo apprendere sui movimenti, diamo un nome distintivo, poiché ormai, salvo errore, la loro caratteristica è evidente. Pertanto, se a te è già chiara, quelli in cui il maggiore si ottiene moltiplicando il minore, siano chiamati moltiplicati, gli altri, col nome consueto, sesquati. Si dice infatti sesque un rapporto esistente fra due numeri, per cui il maggiore ha tante parti in più del minore, quanta è la parte proporzionale, con cui lo supera. Ad esempio, se è tre a due, il maggiore supera il minore di un terzo; se quattro a tre, di un quarto; se cinque a quattro, di un quinto, e così via. Il medesimo rapporto si ha anche nel sei a quattro, nell'otto a sei, nel dieci a otto. Si può apertamente avvertire tale rapporto anche nei numeri successivi e nei più alti. Non saprei dire l'etimologia del nome, a meno che sesque non significhi se absque, cioè senza di sé, perché nel cinque a quattro senza la sua quinta parte il maggiore equivale il minore. Ti chiedo che te ne sembra. D. - A me sembra che la teoria sulle misure numeriche sia assolutamente vera. Mi sembra che i termini da te introdotti siano adatti a significare i concetti da noi espressi. In quanto all'etimologia del vocabolo, che hai esposto per ultimo, non mi pare irragionevole, sebbene non sia quella tenuta presente da chi per primo ha usato il termine. Legge ritmica nell'illimite e... 11. 18. M. - Approvo e accetto il tuo parere. Ma tutti i movimenti razionali, cioè che sono in rapporto secondo una misura numerica, possono numericamente andare all'infinito, se una regola esatta non li limita e li riduce a una formula determinata. Lo vedi bene? Comincio dagli eguali. Se dico: uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, e così via, non v'è una fine perché il numero stesso non ha fine. Questa è appunto la legge del numero, che determinato è finito, non determinato è infinito. E puoi notare che quanto avviene per gli eguali, avviene anche per gli ineguali, tanto moltiplicati che sesquati, connumerati o dinumerati. Se infatti cominci con l'uno a due e persisti nella serie, dicendo uno a tre, uno a quattro, uno a cinque, e così via, non si avrà un limite. Egualmente, se la differenza è due, come uno a due, due a quattro, quattro a otto, otto a sedici e di seguito, non si ottiene un limite. Si va egualmente all'infinito, se tenti col tre, col quattro e qualsiasi altro numero. Così si comportano anche i sesquati. Infatti quando si dice: due a tre, tre a quattro, quattro a cinque, ti accorgi di poter continuare senza incontrare limite, anche se preferisci, rimanendo nello stesso tipo, dire due a tre, quattro a sei,

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sei a nove, otto a dodici, dieci a quindici, e così via. Dunque anche in questo tipo, come negli altri, non s'incontra un limite. Non c'è bisogno di parlare dei dinumerati. Da quanto è stato detto, ciascuno può ben comprendere che anche nella loro serie non si ha un limite. Non sei d'accordo?. ...legge metrica nel limite. 11. 19. D. - Niente di più vero. Ma attendo con impazienza di conoscere la regola che riduce tale illimitatezza a una determinata misura e stabilisce una formula che non si può oltrepassare. M. - Ti accorgerai di conoscere anche questa formula, come gli altri concetti, quando risponderai esattamente alle mie domande. Dunque giacché stiamo trattando dei movimenti numericamente misurabili, ti chiedo prima di tutto se dobbiamo rivolgerci ai numeri per giudicare che nei movimenti si devono avvertire e osservare le leggi indicateci come rigidamente esatte dai numeri stessi. D. - Mi va, penso che sia il metodo migliore. M. - Dunque, se vuoi, iniziamo l'indagine dal principio stesso dei numeri. Esaminiamo, per quanto siamo capaci di conoscere con le forze della nostra mente, quale sia la ragione per cui, quantunque il numero vada all'infinito, come abbiamo detto, gli uomini, nel numerare, abbiano stabilito delle partizioni, da cui tornare all'uno, che è il principio dei numeri. Nel numerare infatti progrediamo dall'uno al dieci e da lì torniamo all'uno. Se si vuole prendere la serie delle decine e si numera dieci, venti, trenta, quaranta, si progredisce fino a cento, se quella delle centinaia, si hanno cento, duecento, trecento, quattrocento e in mille è il traguardo, da cui tornare indietro. Che bisogno d'indagare ancora? Intendo parlare, lo vedi certamente, di quelle partizioni, la cui prima regola è imposta dal numero dieci. Infatti come dieci contiene dieci volte l'uno, così cento contiene dieci volte il dieci e mille dieci volte cento. Così di seguito, finché si vuol continuare, la serie delimitata dal numero dieci, si svolgerà in tali partizioni. Ti rimane incomprensibile qualche cosa?. D. - Son tutti concetti chiarissimi e assolutamente veri. Numero completo il tre... 12. 20. M. - Esaminiamo dunque, con quanta diligenza è possibile, la ragione per cui si ha l'estensione fino al dieci e indi il ritorno all'uno. Ti chiedo dunque se ciò che si denomina principio può esserlo senza esserlo di qualche cosa. D. - Assolutamente impossibile. M. - Egualmente ciò che si dice fine può esserlo senza esserlo di qualche cosa? D. - Anche questo è impossibile. M. - E pensi che si possa giungere dal principio alla fine senza attraversare il medio? D. - No. M. - Dunque perché si abbia un tutto, esso deve risultare dal principio, dal medio e dalla fine. D. - Sì. M. - Dimmi dunque in quale numero, secondo te, sono contenuti principio, medio e fine. D. - Intendi, come suppongo, che ti risponda tre, perché tre sono gli elementi, su cui mi domandi. M. - Supposizione esatta. Vedi dunque che nel tre si ha una certa perfezione

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perché è completo. Ha infatti il principio, il medio e la fine. D. - Certamente. M. - E non abbiamo appreso fin dalla fanciullezza che il numero è di per sé pari o dispari? D. - Vero. M. - Richiama alla mente dunque e dimmi come si definisce abitualmente il pari e come il dispari. D. - Si dice pari quello che si può dividere in due parti eguali, dispari quello che non si può. ...e il quattro, principi l'uno e il due. 12. 21. M. - Hai il concetto. Ora il tre è il primo dispari completo perché, come è stato detto, consta di principio, medio e fine. Non è necessario dunque che vi sia anche un pari completo e perfetto, in cui si abbiano principio, medio e fine? D. - Certamente. M. - Ma esso, qualunque sia, non può avere il medio indivisibile come il dispari. Se l'avesse, non potrebbe esser diviso in due parti eguali, perché, come abbiamo detto, questa è caratteristica del numero pari. Medio indivisibile è l'uno, divisibile il due. E medio nei numeri è quello, da cui le due parti sono fra di sé eguali. È stato esposto qualche concetto oscuro, che meno comprendi? D. - Anzi anche questi concetti sono per me evidenti. Sto cercando appunto un numero pari completo e mi si presenta per primo il quattro. Nel due non è possibile infatti rinvenire i tre elementi, per cui il numero è completo, e cioè il principio, il medio e la fine. M. - Hai risposto proprio come volevo e come la logica esige. Riprendi attentamente l'esame dell'uno. Vedrai che esso non ha né medio né fine, perché è soltanto principio, o meglio è principio perché è privo del medio e della fine. D. - Chiaro. M. - Che dire del due? In esso non possiamo concepire il principio e il medio, perché il medio si ha soltanto dove c'è la fine, né il principio e la fine, perché è impossibile raggiungere la fine senza attraversare il medio. D. - La logica mi costringe ad accettare; rimango quindi molto perplesso che rispondere su questo numero. M. - Esamina se anche esso possa essere principio di numeri. Intanto manca del medio e della fine e tu stesso hai detto che la logica ti costringe ad accettare tale conclusione. Resta che anche esso sia principio. Oppure rimani perplesso nello stabilire due principi? D. - Sì, molto perplesso. M. - Faresti bene, se i due principi fossero costituiti per opposizione. Invece nel caso nostro questo secondo principio deriva dal primo. Questo da nessuno, l'altro da esso. Infatti uno e uno fanno due, ed entrambi sono principi, pur restando che tutti i numeri derivano dall'uno. Ma poiché i numeri sono originati dalla moltiplicazione e dalla addizione, l'origine del prodotto e della somma giustamente si attribuisce al due. Ne deriva che l'uno è il principio, da cui tutti i numeri procedono e il due è il principio, per mezzo del quale tutti i numeri sono derivati. Hai qualche cosa in contrario da obiettare?. D. - No, nulla e sebbene sono io a rispondere alle tue domande, non riesco a riflettere sull'argomento senza stupore. Loro funzione nell'addizione.

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12. 22. M. - L'argomento si studia più acutamente e profondamente in aritmologia. Adesso torniamo, quanto prima possibile, all'assunto. Ti chiedo dunque quanto fanno uno più due. D. - Tre. M. - Quindi i due principi dei numeri addizionati fanno il numero completo e perfetto. D. - Sì. M. - E nel numerare, dopo l'uno e il due quale numero poniamo? D. - Il medesimo, tre. M. - Dunque il medesimo numero, che si ottiene addizionando uno e due, è posto di seguito dopo entrambi, senza interposizione di altri. D. - Sì, vedo. M. - Ora è opportuno che tu veda anche questo. In tutti i rimanenti numeri non può avvenire che nell'addizionare due numeri successivi venga di seguito, senza interposto, quello che è la somma di entrambi. D. - Anche questo vedo. Due e tre, che costituiscono la coppia successiva, addizionati danno la somma di cinque, ma immediatamente successivo non è il cinque, ma il quattro. Ancora, tre e quattro danno sette, ma fra quattro e sette ci sono il cinque e il sei. E quanto più vado avanti, tanti di più se ne interpongono. M. - V'è dunque grande raccordo fra i primi tre numeri. Noi numeriamo: uno, due, tre, senza possibile interposizione, ed uno più due fanno tre. D. - Grande davvero. M. - E, secondo te, non è degno di considerazione che quanto più tale raccordo è reciprocamente serrato, tanto più tende a una certa unità e riduce i molti all'uno? D. - Anzi di grandissima considerazione e, non so come, ammiro e amo l'unità che tu stai ponendo in rilievo. M. - Molto bene. Ma qualsiasi accostamento e raggruppamento nell'ordine delle cose allora soprattutto produce l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi. D. - Così appunto deve essere. Massima proporzione è... 12. 23. M. - Presta attenzione dunque, affinché possiamo osservare il risultato nel seguente raggruppamento. Quando diciamo uno, due, tre, di tanto l'uno è superato dal due, di quanto il due dal tre, vero? D. - Assolutamente vero. M. - E dimmi quante volte in questo raggruppamento ho nominato l'uno. D. - Una volta. M. - Il tre? D. - Una volta. M. - E il due? D. - Due volte. M. - Dunque una volta, due volte, una volta quante volte fanno? D. - Quattro. M. - Logicamente quindi il quattro segue ai primi tre numeri, poiché l'essere aggiunto gli è stato dato dalla suddetta proporzione. E abituati a riconoscere il pregio della proporzione dal fatto che essa soltanto può produrre nelle cose disposte razionalmente l'unità che hai dichiarato di amare. Il termine greco è

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. I nostri l'hanno chiamata proporzione. Usiamo questo termine, se ti piace, perché non sarei disposto a usare, salvo necessità, parole greche nel discorso latino. D. - A me piace, ma continua l'assunto. M. - D'accordo. In seguito approfondiremo, nel settore più indicato di questa disciplina, il concetto di proporzione e il suo grande dominio nella realtà. E tu quanto più avanzerai nella formazione culturale, tanto meglio conoscerai la sua funzione e natura. Frattanto puoi vedere, e per il momento basta, che i primi tre numeri, di cui hai ammirato il raccordo, nel loro raggruppamento potevano risultare soltanto nel quattro. Esso ha ottenuto pertanto di diritto, come puoi comprendere, di succedere ad essi in maniera da essere legato da un più stretto raccordo con gli stessi. Così la serie dei numeri ha un intimo legame non solo in uno, due, tre, ma in uno, due, tre, quattro. D. - Pienamente d'accordo. ...nel quattro... 12. 24. M. - Ma osserva le altre proprietà, affinché tu non debba supporre che il quattro sia privo di una caratteristica, mancante a tutti gli altri numeri e che invece è valida per il raggruppamento, di cui sto parlando. Si hanno appunto dall'uno al quattro una ben determinata numerazione e una razionale formula di successione numerica. Infatti è emerso dal nostro dialogo che allora soprattutto dai molti si ha l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi. D. - Sì. M. - Dimmi dunque quali sono gli estremi e quale il medio, quando numeriamo uno, due e tre. D. - Uno e tre sono gli estremi, due il medio. M. - E adesso rispondi quanto fa uno più tre. D. - Quattro. M. - E due, che è l'unico medio, si può addizionare soltanto a se stesso. Pertanto dimmi quanto dà due volte due. D. - Quattro. M. - Così dunque il medio è equivalente agli estremi e gli estremi al medio. Pertanto come nel tre è caratteristica determinante che è posto dopo l'uno e il due, poiché risulta da uno più due, così nel quattro è caratteristica determinante che è posto dopo uno, due e tre, poiché risulta da uno più tre e da due volte due. È questa l'equivalenza degli estremi col medio e del medio con gli estremi mediante la proporzione che in greco si dice . Dimmi se hai capito. D. - Abbastanza. ...che non si ha nelle altre proporzioni. 12. 25. M. - Prova dunque se negli altri numeri si rinvenga la suddetta caratteristica del numero quattro. D. - Sì. Se ci proponiamo due, tre, quattro, gli estremi addizionati fanno sei, altrettanto fa il medio raddoppiato, tuttavia di seguito non si ha il sei, ma il cinque. Mi propongo ugualmente tre, quattro, cinque; gli estremi addizionati fanno otto, altrettanto il medio raddoppiato, però fra il cinque e l'otto veggo interposti non soltanto uno ma due numeri, cioè il sei e il sette. E quanto più progredisco nell'operazione, tanto più numerose si rendono le interposizioni.

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M. - Vedo che hai capito e addirittura che hai scienza di quanto è stato detto. Ma per non attardarci ancora, avverti che dall'uno al quattro avviene una successione assolutamente razionale. Essa si ha prima di tutto grazie al numero dispari e pari, poiché il primo dispari completo è il tre e il primo pari completo è il quattro. Ne abbiamo parlato poco fa. Inoltre l'uno e il due sono principi e quasi semi dei numeri e da essi risulta il tre. Sono così già tre numeri. E se essi vengono assommati secondo proporzione, appare ed è generato il quattro che ad essi giustamente si unisce. Si verifica così fino a questo numero quella ben definita successione che cerchiamo. D. - Comprendo. Il dieci numero limite. 12. 26. M. - Bene. Ma ti ricordi che cosa avevamo iniziato a cercare? Dato che nella illimitatezza dei numeri vi sono determinati partizioni per numerare, l'assunto era, come penso, poter trovare la ragione, per cui la prima partizione è nel numero dieci che ha un'importante funzione nel contesto degli altri numeri, perché, cioè, chi numera avanza fino al dieci e poi torna all'uno. D. - Mi ricordo bene che a causa di questo problema abbiamo fatto parecchie digressioni, ma non trovo che abbiamo combinato qualche cosa per risolverlo. Tutta la lunga dimostrazione s'è fermata al punto che v'è razionale e ben definita successione non fino al dieci ma fino al quattro. M. - Non vedi proprio dunque qual è il risultato della somma di uno, due, tre e quattro? D. - Veggo finalmente, veggo, confesso che tutto ciò è ammirevole e che il problema proposto ha avuto soluzione. Uno più due, tre e quattro fanno proprio dieci. M. - Dunque è ragionevole che questi primi quattro numeri, la loro successione e raggruppamento siano considerati di maggior pregio degli altri. Rapporti di movimenti a numeri. 13. 27. È tempo di tornare all'esame e alla discussione dei rapporti di movimenti, che sono l'oggetto proprio di questa disciplina. Proprio per essi noi, nei limiti che ci son sembrati sufficienti allo scopo, abbiamo fatto delle considerazioni sui numeri, cioè su un'altra disciplina. Per ragioni d'intelligenza avevamo stabilito in durata di ore i movimenti che, come la logica richiedeva, sono rapportati secondo misura numerica. Poniamo dunque che un tale corra per la durata di un'ora e un altro di due. Ti chiedo dunque se ti è possibile, senza guardare orologio, clessidra o altro strumento di misura del tempo, percepire che dei due movimenti uno è scempio e l'altro è doppio, o che per lo meno, sebbene non puoi dir questo, avverti l'esteticità del rapporto e ne hai il sentimento. D. - Assolutamente impossibile. M. - Supponi che qualcuno batta le mani ritmicamente, in modo che un suono tenga una durata di tempo e l'altro due, quelli che appunto chiamano giambi, e che li ripeta legandoli in un contesto. Supponi anche che un altro balli a quel suono, muova cioè le membra rispettando quel tempo. Riconosceresti allora o esprimeresti anche la misura del tempo, cioè che quei due alternano nei movimenti un movimento scempio con uno doppio, tanto nella battuta che si ode, come nella danza che si vede? O per lo meno percepiresti l'esteticità del ritmo che ascolti, anche se non riesci a riconoscerne la misura ritmica? D. - È proprio come tu dici. Infatti quelli che conoscono tali ritmi li avvertono

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nella battuta e nel ballo e ne riconoscono la struttura. Quelli che non li conoscono e non riescono ad esprimerli, non negano tuttavia di provare un diletto estetico. La musica e i nostri sensi. 13. 28. M. - Poiché la musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte, non si può negare che appartengono alla sua stessa competenza di disciplina tutti i movimenti che sono misurati ritmicamente secondo arte e quelli soprattutto che non sono riferiti ad altro, ma hanno in sé come fine la bellezza estetica. Tuttavia se questi movimenti, come tu stesso hai detto, rispondendo con molta precisione alla mia domanda, durano troppo tempo e nella stessa misura, che è estetica, occupano un'ora o anche di più, non si adattano alla capacità dei nostri sensi. [È possibile tuttavia che il medesimo piede nel canto sia, mantenendo la struttura del rapporto, in un caso, di suoni più lunghi e in un altro, di suoni più brevi]. Pertanto la musica, uscendo in qualche modo dal suo inaccessibile recesso, ha lasciato certe impronte nei nostri sensi e negli oggetti sensibili. Non è dunque opportuno che noi dapprima seguiamo tali impronte per poter essere, se ne saremo capaci, più agevolmente condotti senza errore a quello che ho chiamato il suo recesso? D. - È proprio opportuno e facciamolo subito, te ne prego. M. - Lasciamo dunque gli intervalli di tempo che si estendono al di là della capacità dei nostri sensi. Discutiamo, nei limiti, in cui la ragione ci farà da guida, dei brevi spazi di tempo che ci dilettano nel canto e nella danza. Ma tu forse ritieni che è possibile scoprire in altro modo le orme che, come è stato già detto, questa disciplina ha impresso nei nostri sensi e negli oggetti che siamo capaci di percepire. D. - Non ritengo affatto che sia possibile in altro modo. 1 - CENSORINO, De die nat. 10, 2. 2 - VIRGILIO, Georg. 3, 316. 3 - OMERO, Odyss. 17, 291 ss.

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LIBRO SECONDO PIEDI METRICI

Piedi semplici e compositi (1, 1 - 8, 15) Fra grammatica e musica... 1. 1. M. - Stai dunque bene attento e ascolta alfine, per così dire, una nuova introduzione della nostra discussione. E prima di tutto dimmi se hai bene appreso la distinzione che i grammatici fanno fra sillabe brevi e lunghe, ovvero se preferisci, che tu l'abbia appresa o no, continuare la nostra ricerca come se fossimo del tutto inesperti in materia. Ci sarà così di guida solo il ragionamento e non ci vincoleranno l'inveterata usanza e la tradizione non esaminata criticamente. D. - Mi stimola a preferire il secondo procedimento non solo la ragione, ma anche l'ignoranza di codeste sillabe. Perché non dovrei confessarlo? M. - Ebbene, dimmi almeno se tu hai mai rilevato da te che nella nostra lingua alcune sillabe sono pronunciate rapidamente e non lungamente, altre invece più lentamente e lungamente. D. - Debbo affermare che non sono stato insensibile a queste cose. M. - Ora devi sapere che tutta quella disciplina, la quale in greco è detta grammatica e in latino letteratura, ha la funzione di difesa della tradizione, o da sola, come insegna la più sottile dimostrazione, o principalmente, come ammettono anche le menti ottuse. Per esempio, se dici cano o se per caso impieghi questa parola in un verso, in modo da allungare nella pronuncia la prima sillaba, ovvero la collochi nel verso là dove occorrerebbe una lunga, il grammatico, come custode della tradizione, ti riprenderà adducendo come unica ragione la necessità di dover abbreviare la sillaba, soltanto perché quelli che ci hanno preceduto, i cui libri restano e sono esaminati dai grammatici, ne facevano una breve e non una lunga. Nel caso dunque ha valore soltanto la tradizione. Al contrario la funzione della musica, da cui dipendono tanto la stessa razionale misura delle parole quanto il loro ritmo, esige soltanto che sia lunga o breve la sillaba, la quale si trova in questa o in quella sede, secondo la regola delle loro misure. Se tu metti la parola cano là dove bisogna mettere due lunghe e nella pronuncia allunghi la prima che è breve, la musica non se ne sdegna, poiché i tempi delle parole son giunti all'udito, quali convengono a quel ritmo. Ma il grammatico ti ordina di correggere e di mettere una parola, la cui prima sillaba deve esser lunga secondo l'autorità degli antichi, di cui egli ha in consegna gli scritti. ...diverso criterio di misurare le sillabe. 2. 2. Noi tuttavia abbiamo cominciato ad esaminare le regole della musica. Dunque, anche se ignori quale sillaba debba esser breve e quale lunga, possiamo non essere ostacolati da questa tua ignoranza e ritenere sufficiente il fatto di avere avvertito, come hai detto, che alcune sillabe sono più brevi, altre più lunghe. Pertanto ora ti chiedo se il suono di versi ti ha causato mediante l'udito un qualche diletto. D. - Sì, molto spesso, al punto che quasi sempre ascolto i versi con diletto. M. - Se dunque in un verso, che hai ascoltato con diletto, si allungano o abbreviano le sillabe là dove la regola del verso medesimo non richiede, è possibile che provi il medesimo diletto? D. - Anzi non potrei ascoltarlo senza fastidio. M. - Non v'è alcun dubbio dunque che nel suono, da cui tu riconosci di esser

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dilettato, è la misura dei ritmi che ti diletta e se essa è alterata, quel diletto non può offrirsi all'udito. D. - È chiaro. M. - Dimmi allora, per quanto attiene al suono del verso, quale differenza c'è se io dico: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris 1, oppure: Qui primis ab oris. D. - Quanto attiene alla misura, per me hanno il medesimo suono. M. - Ma è avvenuto per la mia pronuncia, cioè con quel difetto che i grammatici chiamano barbarismo; infatti primus ha una lunga e una breve, invece primis due lunghe, ma io ho abbreviato l'ultima, così che il tuo udito non è stato offeso. Pertanto si deve più volte provare se senti, mentre io parlo, cosa sia nelle sillabe il " lungamente " e il " non lungamente ", in maniera che la nostra discussione possa continuare col dialogo, come l'abbiamo cominciata. Ripeterò dunque quello stesso verso, nel quale avevo commesso un barbarismo e allungherò, come vogliono i grammatici, quella sillaba che avevo pronunciato breve per non offendere il tuo udito. Dimmi se la misura di questo verso invade il tuo senso col medesimo diletto. Io pronuncerei: Arma virumque cano Troiae qui primis ab oris. D. - Ora non posso negare di essere infastidito per non so qual difetto del suono. M. - E non a torto. Sebbene non ci sia stato barbarismo, è stato commesso l'errore che tanto la grammatica quanto la musica biasimano, la grammatica, perché la parola primis, di cui l'ultima sillaba si deve pronunciare lunga, è stata messa dove occorreva una breve, la musica, soltanto perché una lunga qualunque si trova dove occorreva una breve e il tempo richiesto dalla misura ritmica non è stato reso. Perciò se distingui abbastanza bene ciò che vuole l'udito e ciò che esige la tradizione, ci rimane da esaminare perché l'udito stesso è a volte appagato e a volte urtato da suoni lunghi e brevi. È ciò che attiene appunto al " lungamente " e " non lungamente ". Ricordi, credo, che abbiamo già iniziato a sviluppare questa parte. D. - Ho già ravvisato l'argomento e lo ricordo e aspetto il seguito con vivo interesse. Numeri e sillabe brevi e lunghe. 3. 3. M. - Quale seguito, secondo te, se non iniziare a confrontare le sillabe e vedere quali rapporti numerici hanno fra di sé, come con tanto lunga dimostrazione è stato fatto per i movimenti? Il suono è infatti nel movimento. Ora le sillabe sono suono. Puoi forse negare qualcuno di questi concetti? D. - No, di certo. M. - Quando dunque si rapportano fra di loro le sillabe, si rapportano determinati movimenti, nei quali è possibile mediante la misura della durata ravvisare determinati numeri di tempo. D. - Sì. M. - Si può dunque rapportare una sillaba a se stessa? Se non la pensi diversamente, l'esser solo non ammette alcun confronto. D. - La penso proprio così. M. - E potresti dire che non si può rapportare una sillaba ad un'altra, ovvero una o due a due o tre, e così di seguito per più sillabe? D. - Chi direbbe il contrario? M. - Osserva anche che una qualsiasi sillaba breve, pronunciata senza

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allungamento e che cessa appena proferita, occupa tuttavia un certo spazio nel tempo ed ha una sua pur piccola durata. D. - Riconosco la necessità di ciò che dici. M. - Dimmi allora da dove iniziamo il numero. D. - Naturalmente dall'uno. M. - Ragionevolmente dunque gli antichi hanno chiamato un solo tempo questo, per così dire, minimo di spazio che occupa una sillaba breve. Si passa infatti dalla breve alla lunga. D. - È vero. M. - Pertanto devi avvertire anche quanto segue. Nei numeri il primo sviluppo è dall'uno al due; allo stesso modo nelle sillabe, in quanto si passa dalla breve alla lunga, la lunga deve avere un tempo doppio. Perciò se logicamente si chiama un tempo lo spazio che occupa una breve, logicamente si chiamano due tempi lo spazio che occupa una lunga. D. - Logicamente certo, riconosco infatti che lo richiede la dimostrazione. Piedi e numeri eguali e moltiplicati. 4. 4. M. - Ed ora esaminiamo i rapporti in se stessi. Chiedo quale rapporto, secondo te, ha una sillaba breve ad un'altra breve e come si chiamano questi movimenti tra loro rapportati. Se non mi sbaglio, ricordi che nel precedente discorso abbiamo dato dei nomi a quei movimenti che hanno tra di loro un rapporto numerico. D. - Ricordo che li abbiamo chiamati eguali. Infatti hanno fra di sé il medesimo rapporto di tempo. M. - Ma pensi che si debbano lasciare senza nome queste correlazioni di sillabe, per cui esse si corrispondono in maniera da avere fra di sé un rapporto numerico? D. - Non credo. M. - Sappi dunque che gli antichi hanno chiamato piede questa correlazione di suoni. Ma dobbiamo attentamente esaminare fino a qual punto la ragione consenta l'estensione del piede. Dimmi dunque per quale ragione una sillaba breve e una lunga sono in rapporto. D. - Ritengo che tale correlazione derivi da quel genere di numeri che abbiamo chiamato moltiplicati poiché noto che il singolo viene rapportato al doppio, cioè il tempo di una sillaba breve è rapportato ai due tempi di una sillaba lunga. M. - E se si mettono in un ordine tale da pronunciare prima la sillaba lunga e dopo la breve, non rimane forse la regola dei numeri moltiplicati poiché l'ordine è mutato? Infatti in quel piede si va dal singolo al doppio, in questo dal doppio al singolo. D. - Sì. M. - E in un piede di due lunghe non si rapportano due tempi con due tempi? D. - È chiaro. M. - E da quale regola deriva questo rapporto? D. - Ovviamente dal rapporto dei numeri detti eguali. Quattro piedi di due sillabe. 4. 5. M. - Dimmi allora quanti rapporti di piedi abbiamo esaminato nella serie in cui siamo giunti da due sillabe brevi a due lunghe. D. - Quattro; infatti prima si è parlato di due brevi, poi di una breve e una lunga, in seguito di una lunga e una breve e infine di due lunghe. M. - Ed è possibile averne più di quattro, quando si rapportano fra di loro due

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sillabe? D. - Certamente no; infatti le sillabe hanno avuto questa misura, che una breve abbia un tempo e una lunga due, inoltre ogni sillaba è breve o lunga. Dunque in qual modo due sillabe possono congiungersi in rapporto in modo da formare un piede, se non unendo breve e breve, breve e lunga, lunga e breve, lunga e lunga? M. - Dimmi anche quanti tempi ha il piede più piccolo di due sillabe e così pure il più grande. D. - Il più piccolo due, il più grande quattro. M. - E vedi che l'estensione può andare soltanto fino al numero quattro, sia nei piedi che nei tempi? D. - Lo vedo chiaramente e ricordo la regola dell'estensione dei numeri e con grande diletto spirituale noto che quella proprietà è presente anche in questo caso. M. - I piedi dunque sono formati da sillabe, cioè di movimenti di suoni distinti e, per così dire, articolati, le sillabe invece si distendono nel tempo. Non è necessario perciò, secondo te, che l'estensione del piede arrivi fino a quattro sillabe, come noti che giunge fino al numero quattro quella degli stessi piedi e tempi? D. - Penso come tu stai dicendo, riconosco che ciò sembra proprio di una logica esatta e attendo la soluzione. Piedi di tre sillabe con due brevi... 5. 6. M. - Ma prima di tutto esaminiamo dunque, come l'ordine stesso richiede, quanti possono essere i piedi di tre sillabe, come abbiamo scoperto che son quattro quelli di due sillabe. D. - Va bene. M. - Certo ricordi che abbiamo cominciato l'esame da una sillaba breve, cioè di un tempo, e che abbiamo ben compreso che così si deve procedere. D. - Ricordo che abbiamo stabilito di non allontanarci da quella legge del calcolare, per cui cominciamo dall'uno che è il principio dei numeri. M. - Nei piedi di due sillabe il primo è quello che è formato di due brevi. La logica ci suggeriva appunto che bisogna riunire un tempo a un tempo, prima che a due. Quale pensi dunque che debba essere il primo nei piedi di tre sillabe? D. - Quale, se non quello che è composto di tre brevi? M. - E di quanti tempi è? D. - Di tre, ovviamente. M. - In quale rapporto sono fra di loro queste parti? È necessario infatti che ogni piede, a causa della correlazione tra i numeri, abbia due parti che si rapportino in qualche modo fra di loro. Di ciò, ricordo, abbiamo trattato prima. Ma è possibile dividere questo piede di tre sillabe in due parti eguali? D. - Assolutamente no. M. - Allora come si divide? D. - Noto soltanto questi modi, che la prima parte abbia una sillaba e la seconda due, oppure la prima due e la seconda una. M. - Dimmi anche di quale regola dei numeri si tratta. D. - Riconosco che è del genere dei moltiplicati. ...e loro ordine. 5. 7. M. - Ed ora esamina quante volte si possono combinare tre sillabe, di cui

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una è lunga e le altre brevi, cioè quanti piedi formano. Se lo trovi, dimmelo. D. - Noto che si può formare un solo piede, il quale sia composto da una lunga e due brevi. Non ne vedo altro. M. - Secondo te dunque ha una sola sillaba lunga su tre soltanto quel piede, in cui la lunga è messa per prima? D. - Non potrei pensarlo poiché le due brevi possono esser messe per primo e la lunga in ultimo. M. - Rifletti se esiste un terzo caso. D. - Sì, evidentemente; infatti la lunga può esser collocata fra le due brevi. M. - Esamina se esiste un quarto caso. D - Assolutamente impossibile. M. - Potresti rispondere ora quante volte possono combinarsi tre sillabe che hanno una lunga e due brevi, cioè quanti piedi formano? D. - Sì, certo; si sono combinate tre volte ed hanno formato tre piedi. M. - Ebbene puoi ora concludere da solo come debbono esser disposti questi tre piedi o devi esservi condotto un po' alla volta? D. - Ma non approvi la disposizione, con cui ho scoperto le varie combinazioni? Ho osservato per primo una lunga e due brevi, quindi due brevi e una lunga ed infine una breve, una lunga e una breve. M. - E a te non dispiacerebbe se si disponesse così da andare dal primo al terzo e dal terzo al secondo, e non piuttosto dal primo al secondo e poi al terzo? D. - Mi dispiace certamente, ma dimmi, scusa, se hai notato nel nostro caso un tale errore. M. - In queste tre combinazioni tu hai posto per primo il piede che comincia con una lunga. Hai notato appunto che la unità stessa della sillaba lunga, dato che qui se ne ha una sola, le conferisce la precedenza e che pertanto dovesse iniziare la disposizione, di modo che sia primo quel piede, in cui essa viene per prima. Ma allora avresti dovuto notare che è secondo il piede, in cui essa è seconda e terzo quello, in cui essa è terza. Pensi dunque di dover rimanere nella medesima opinione? D. - No, anzi la condanno senza esitazione. Chi non ammetterebbe che questa è la disposizione migliore, anzi la vera?. M. - Dimmi ora con quale regola dei numeri vengono divisi anche questi piedi e le loro parti rapportate. D. - Osservo che il primo e l'ultimo sono divisi con la regola dell'uguaglianza, poiché quello può esser diviso in una lunga e due brevi e questo in due brevi e una lunga, di modo che le singole parti hanno un tempo doppio e perciò sono eguali. Nel secondo piede invece, giacché la lunga si trova in mezzo, se viene attribuita alla prima parte, il piede è diviso in tre tempi e un tempo e se viene attribuita alla seconda parte, è diviso in un tempo e tre tempi. Perciò nella divisione di questo piede vale la regola dei numeri moltiplicati. Piedi di quattro sillabe in generale. 5. 8. M. - Vorrei che ora tu mi dicessi, da solo, se puoi, quali piedi ritieni di dover mettere dopo quelli che sono stati esaminati. Sono stati esaminati dapprima quattro piedi di due sillabe. La loro disposizione è stata derivata dalla disposizione dei numeri. Si è cominciato così dalle sillabe brevi. Quindi abbiamo iniziato ad esaminare i piedi più lunghi, cioè di tre sillabe, e poiché le cose ci erano facilitate dall'esame precedente, abbiamo cominciato da tre

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brevi. Non poteva venire di seguito che esaminare quante figure produceva una lunga con due brevi. E lo abbiamo esaminato; dopo il primo piede tre altri, come era necessario, ne sono stati disposti. Non potresti ormai da solo esaminare quelli che seguono, allo scopo di non tirar fuori ogni concetto con minute domande? D. - Dici giusto; infatti chi non vedrebbe che vengono di seguito quelli in cui sono una breve e le altre lunghe? Alla breve, per il fatto che è una sola, in base al ragionamento precedente, vien data la precedenza. Primo sarà quindi quel piede, in cui essa è prima, secondo quello in cui è seconda, terzo quello in cui essa è terza e anche ultima. M. - Tu vedi, credo, anche con quali regole questi piedi si dividono, in modo che le loro parti possano essere rapportate. D. - Certamente. Il piede che si compone di una breve e due lunghe può esser diviso soltanto in modo che la prima parte, che contiene la breve e la lunga, abbia tre tempi, e la seconda i due tempi che si trovano in una lunga. Il terzo piede è simile al precedente, in quanto ammette una sola divisione, ne differisce in quanto quello si divide in tre e due tempi e questo invece in due e tre tempi. Infatti la sillaba lunga che viene per prima ha una durata di due tempi, restano una lunga e una breve, ciò che forma una durata di tre tempi. Il piede di mezzo, che ha la breve in mezzo, può avere una doppia divisione, poiché la breve può essere attribuita all'una o all'altra parte, può, cioè, dividersi in due e tre tempi o in tre e due tempi. Pertanto è la regola dei sesquati che configura questi tre piedi. M. - Abbiamo già esaminato tutti i piedi di tre sillabe, o ne rimane un altro? D. - Noto che ne rimane uno, quello che si compone di tre lunghe. M. - Esamina dunque anche la sua divisione. D. - Là sua divisione è una e due sillabe, oppure due e una, cioè i tempi sono due e quattro, oppure quattro e due. Dunque le parti di questo piede si rapportano secondo la regola dei numeri moltiplicati. Piedi di tre sillabe con due e tre lunghe. 6. 9. M. - Ora esaminiamo con procedimento logico i piedi di quattro sillabe. Dì tu stesso quale di essi debba essere il primo e aggiungi anche la regola della sua divisione. D. - Evidentemente è il piede di quattro brevi che si divide in due parti di due sillabe, aventi due e due tempi secondo la regola dei numeri eguali. M. - Ci sei. Continua da solo ed analizza i rimanenti. Credo che non sia più necessario interrogarti in particolare. È sempre il medesimo procedimento di eliminare successivamente una per una le brevi e a loro posto mettere le lunghe, sino a che si giunga ad avere tutte lunghe, e man mano che si eliminano le brevi e si sostituiscono le lunghe, considerare quali combinazioni abbiano e quanti piedi producano. Rimane il criterio che a determinare la precedenza nella disposizione è la sillaba, sia essa lunga o breve, che rimane sola fra le altre. Ti sei esercitato precedentemente in queste operazioni. Ma dove sono due brevi e due lunghe, poiché il caso non si è mai presentato, quali, secondo te, debbono avere la precedenza? D. - È chiaro anche questo dai casi precedenti. Infatti la sillaba breve, che ha un tempo, ha maggiore unità della lunga che ne ha due. Per questo all'inizio di ogni disposizione poniamo il piede che è formato da brevi. Piedi di quattro e tre brevi...

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6. 10. M. - Niente ti impedisce dunque di esaminare tutti questi piedi, mentre io ti ascolto e giudico senza interrogarti. D. - Lo farò, se mi riesce. Dapprima si deve togliere una delle quattro brevi del primo piede e al suo posto in prima posizione porre una lunga in base al valore dell'unità. Questo piede ammette due divisioni, o in una lunga e tre brevi; oppure in una lunga e una breve e in due brevi, cioè in due e tre oppure in tre e due tempi. La lunga posta in seconda posizione forma un altro piede che può logicamente esser diviso in un unico modo, cioè in tre e due tempi, sicché la prima parte contenga una breve e una lunga e la seconda due brevi. Inoltre, se, si mette la lunga al terzo posto, si forma un piede che, come il precedente, può logicamente esser diviso soltanto in un modo, ma in maniera che la prima parte abbia due tempi di due brevi e la seconda parte tre tempi dati da una lunga e, una breve. La lunga messa per ultimo forma un quarto piede che si divide in due modi, come quello in cui la lunga è in principio. Può esser diviso infatti in due brevi e in una breve e una lunga, oppure in tre brevi e in una lunga, cioè in due e tre, oppure in tre e due tempi. Tutti questi quattro piedi, dove una lunga cambia di posizione con le tre brevi, hanno rapportate fra di sé le parti secondo la regola dei sesquati. ...con due brevi congiunte... 6. 11. Viene di seguito che eliminando due delle quattro brevi, le sostituiamo con due lunghe. Esaminiamo quante combinazioni di piedi possono produrre giacché brevi e lunghe sono a due e due. Vedo dunque che dapprima si devono porre due brevi e due lunghe poiché è più regolare l'inizio dalle brevi. Ora questo piede consente una duplice divisione. Si divide appunto in due e quattro oppure in quattro e due tempi, in maniera che le due brevi formano la prima parte e le due lunghe la seconda, oppure le due brevi e la lunga la prima parte e la lunga che rimane la seconda. Si ha un altro piede, quando le due brevi che abbiamo posto all'inizio del piede, come la disposizione richiede, sono collocate nel mezzo. La divisione di questo piede è in tre e tre tempi; infatti una lunga e una breve formano la prima parte e una breve e una lunga la seconda. Quando le brevi sono poste in ultimo, giacché questa figura viene di seguito, formano un piede che ha due divisioni: la prima parte ha due tempi con una lunga, la seconda quattro tempi con una lunga e due brevi, oppure la prima parte quattro tempi con due lunghe e la seconda due con due brevi. Le parti di questi tre piedi, per quanto attiene al primo e al terzo, si rapportano secondo la regola dei numeri moltiplicati; il mediano ha le parti eguali. ...con due brevi separate e... 6. 12. Successivamente devono esser separate le due brevi che finora abbiamo tenuto unite. La separazione minore e da cui si deve cominciare è quella in cui vi sia tra loro una sillaba lunga, la più grande quella in cui ve ne siano due. Quando una sola lunga le separa, essa lo fa in duplice maniera, si producono, cioè, due piedi. La prima maniera è che vi sia all'inizio una breve, quindi una lunga, un'altra breve e la lunga che rimane. L'altra maniera è che le brevi sono in seconda ed ultima posizione, le lunghe nella prima e nella terza; si avranno così una lunga e una breve, una lunga e una breve. La più grande separazione si ha quando le due lunghe sono nel mezzo e delle due brevi una al primo posto, l'altra all'ultimo. Questi tre piedi, in cui le brevi sono separate, si dividono in tre e tre tempi, cioè il primo in breve e lunga, breve e lunga, il secondo in lunga e breve, lunga e breve, il terzo in breve e lunga, lunga e

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breve. Così disponendo variamente tra di loro, quanto è possibile, due sillabe brevi e due lunghe, si formano sei piedi. ...con una e nessuna breve. 6. 13. Rimane ora da togliere tre delle quattro brevi e sostituirle con tre lunghe. Resterà una sola breve e poiché una sola breve posta all'inizio e seguita da tre lunghe forma un piede, posta in seconda posizione ne forma un secondo, in terza un terzo, in quarta un quarto. Di questi quattro piedi i primi due si dividono in tre e quattro tempi, gli altri due in quattro e tre, ma tutti hanno le loro parti rapportate secondo la regola dei sesquati. Infatti la prima parte del primo piede è una breve e una lunga con durata di tre tempi, la seconda due lunghe con quattro tempi. La prima parte del secondo piede è una lunga e una breve, dunque tre tempi, la seconda due lunghe, per quattro tempi. Il terzo ha come prima parte due lunghe, per quattro tempi ed una breve e una lunga, cioè tre tempi, occupano la sua seconda parte. Due lunghe formano similmente la prima parte del quarto piede, di quattro tempi e una lunga e una breve la seconda, con tre tempi. Il piede che rimane è di quattro sillabe, da cui si eliminano tutte le brevi sicché viene ad esser formato di quattro lunghe. Esso si divide in due e due lunghe in base ai numeri eguali, cioè in quattro e quattro tempi. Ecco lo svolgimento che hai voluto da me. Ora continua tu la ricerca mediante il dialogo. Il quattro limite nell'estensione del piede. 7. 14. M. - Sì. Hai osservato però quanto vale anche per i piedi lo sviluppo fino al quattro che è stato rilevato nei numeri stessi?. D. - Sì, riconosco negli uni e negli altri la medesima legge di sviluppo. M. - E se i piedi sono stati formati da un contesto di sillabe, non si deve ritenere anche che da un contesto di piedi possa esser formato un qualche cosa che non ha più né il nome di sillaba né quello di piede? D. - Certamente, a mio avviso. M. - E che cosa credi che sia? D. - Il verso penso. M. - Ma poniamo che si vogliano unire indefinitamente senza imporre loro una determinata misura, salvo che non intervenga o la mancanza della voce, ovvero l'interruzione dovuta ad un evento, o la decisione di passare ad altro. Sarà da te considerato verso un contesto che abbia venti, trenta o cento o anche più piedi, come volendo si potrebbe fare se si uniscono in una durata in qualsivoglia modo lunga? D. - Certamente no. Non darò il nome di verso a piedi qualsiasi che noterò uniti ad altri piedi qualsiasi o a molti piedi riuniti insieme in una serie indefinita, ma potrò mediante una qualche disciplina comprendere il genere e il numero dei piedi, cioè quali e quanti piedi formano il verso e in base ad essa giudicare se un verso ha urtato il mio udito. M. - Ma questa disciplina, qualunque essa sia, certamente non ha stabilito a capriccio la regola e la misura ai versi, ma in base a un qualche criterio. D. - Se è disciplina, non doveva o poteva essere altrimenti. M. - Allora, se vuoi esaminiamo e cerchiamo di comprendere questo criterio. Se infatti teniamo presente la sola autorità, sarà verso quello che un non so quale Asclepiade o Archiloco, cioè antichi poeti, han voluto che fosse chiamato verso, ovvero la poetessa Saffo e altri, da cui prendono il nome certi generi di versi, poiché essi per primi li hanno configurati e composti. Si dice appunto un

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verso asclepiadeo, archilocheo, saffico e i Greci hanno applicato mille altri nomi di autori a versi di diverso genere. Pertanto non irrazionalmente si può ritenere che se uno disporrà come vuole, quanti e quali piedi vuole, per il solo motivo che nessuno prima di lui ha fissato ai versi quella determinata misura, con ogni ragione potrà esser chiamato creatore e propagatore di un nuovo genere di versi. Se questa libertà gli viene rifiutata, c'è da chiedersi con legittimo rammarico quali meriti infine quei poeti avessero, se senza seguire un criterio, han fatto chiamare e considerare verso un contesto di piedi, composto da loro a capriccio. O sei d'altro avviso? D. - È certamente come dici e sono d'accordo che il verso è generato da un criterio razionale e non dall'autorità. Studiamolo, ti prego senza indugio. Elenco dei 28 piedi. 8. 15. M. - Esaminiamo dunque quali piedi debbono unirsi tra di loro quindi che cosa nasce da queste combinazioni giacché non si forma il verso soltanto e infine tratteremo tutto l'argomento del verso. Ma, secondo te, si potrebbe utilmente ottenere questi intenti, se non conosciamo i nomi dei piedi. In verità sono stati da noi distribuiti con tale disposizione che possono esser nominati in base alla loro stessa disposizione. Si potrebbe quindi dire: primo, secondo, terzo e così sia per i rimanenti. Ma poiché non si devono disprezzare le vecchie denominazioni e non ci si deve allontanare con leggerezza dalla consuetudine, salvo quella che vada contro ragione, si devono usare i nomi che i Greci hanno dato ai piedi e che i nostri usano già in luogo dei nomi latini. Usiamoli dunque senza perderci in una ricerca etimologica. Essa comporterebbe molte parole e scarsa utilità. Infatti adopri utilmente nella conversazione le parole pane, albero, pietra, anche se non sai perché sono stati chiamati così. D. - La intendo proprio come tu dici. M. - Il primo piede si chiama pirrichio con due brevi, di due tempi, come fuga. Il secondo, giambo, con una breve e una lunga, come parens, di tre tempi. Il terzo, trocheo o coreo, con una lunga e una breve, come meta, di tre tempi. Il quarto, spondeo, con due lunghe, come aestas, di quattro tempi. Il quinto, tribraco, con tre brevi, come macula, di tre tempi. Il sesto, dattilo, con una lunga e due brevi, come Maenalus, di quattro tempi. Il settimo, anfibraco, con una breve, una lunga e una breve, come carina, di quattro tempi. L'ottavo, anapesto, con due brevi e una lunga, come Erato, di quattro tempi. Il nono, bacchio, con una breve e due lunghe, come Achates, di cinque tempi. Il decimo, cretico o anfimacro, con una lunga, una breve e una lunga, come insulae, di cinque tempi. L'undicesimo, palimbacchio, con due lunghe e una breve, come natura, di cinque tempi. Il dodicesimo, molosso, con tre lunghe, come Aeneas, di sei tempi. Il tredicesimo, proceleusmatico, con quattro brevi, come avicula, di quattro tempi. Il quattordicesimo, peone I, con la prima lunga e tre brevi, come legitimus, di cinque tempi. Il quindicesimo, peone II, con la seconda lunga e tre brevi, come colonia, di cinque tempi. Il sedicesimo, peone III, con la terza lunga e tre brevi, come Menedemus, di cinque tempi.

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Il diciassettesimo, peone IV, con la quarta lunga e tre brevi, come celeritas, di cinque tempi. Il diciottesimo, ionico minore, con due brevi e due lunghe, come Diomedes, di sei tempi. Il diciannovesimo, coriambo, con una lunga due brevi e una lunga come armipotens, di sei tempi. Il ventesimo, ionico maggiore, con due lunghe e due brevi, come iunonius, di sei tempi. Il ventunesimo, digiambo, con una breve, una lunga, una breve e una lunga, come propinquitas, di sei tempi. Il ventiduesimo, dicoreo o ditrocheo, con una lunga, una breve, una lunga e una breve, come cantilena, di sei tempi. Il ventitreesimo, antispasto, con una breve, due lunghe e una breve, come saloninus, di sei tempi. Il ventiquattresimo, epitrito I, con una breve e tre lunghe, come sacerdotes, di sette tempi. Il venticinquesimo, epitrito II, con la seconda breve e tre lunghe, come conditores, di sette tempi. Il ventiseiesimo, epitrito III, con la terza breve e tre lunghe, come Demosthenes, di sette tempi. Il ventisettesimo, epitrito IV, con la quarta breve e tre lunghe, come Fescenninus, di sette tempi. Il ventottesimo, dispondeo, con quattro lunghe, come oratores, di otto tempi.

Piedi misti (9, 16 - 14, 26) Uguaglianza nella mistione dei piedi. 9. 16. D. - Posseggo queste nozioni. Ora spiega quali piedi si congiungono fra di loro. M. - Lo potrai intendere con facilità se intendi che l'uguaglianza e la somiglianza prevalgono sulla disuguaglianza e la dissomiglianza. D. - Ritengo che non vi sia alcuno che non la intenda così. M. - Bisogna dunque seguire questa regola soprattutto nella combinazione dei piedi e non allontanarsene, se non v'è una validissima ragione. D. - Son d'accordo. M. - Non dovrai dunque avere incertezze nell'unire fra loro pirrichi con pirrichi, giambi e trochei, che son detti anche corei, e spondei e così senza esitazione potrai unire gli altri della medesima specie. V'è infatti somma eguaglianza, quando piedi del medesimo nome e genere si susseguono. Non ti sembra? D. - Non mi può sembrar diversamente. M. - E non ammetti che alcuni piedi debbano essere uniti ad altri di differente genere, rispettando la regola dell'uguaglianza? Niente infatti è più piacevole per l'udito che essere dilettato dalla varietà, senza esser privato dell'uguaglianza. D. - Sono d'accordo. M. - E pensi che possano ritenersi eguali piedi differenti che non siano della medesima misura? D. - No, secondo me. M. - E sono da ritenersi della medesima misura soltanto quelli che occupano il medesimo tempo? D. - Certamente.

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M. - Allora riunirai, senza urtare l'udito, quei piedi che riconoscerai di tempi eguali. D. - Ne consegue, penso. Singolarità dell'anfibraco. 10. 17. M. - Bene. Ma l'argomento implica ancora qualche difficoltà. Dunque, sebbene l'anfibraco sia un piede di quattro tempi, alcuni ritengono che non lo si possa unire né ai dattili, né agli anapesti, né agli spondei, né ai proceleusmatici, quantunque questi siano tutti piedi di quattro tempi. E non solo ritengono che esso non si possa unire agli altri, ma pensano che il ritmo non proceda normalmente e per così dire legittimamente, se solo anfibraci sono ripetuti e riuniti tra di loro. È opportuno che esaminiamo la loro opinione per accertare se abbia una parte di ragione che converrebbe seguire e approvare. D. - Desidero vivamente udire gli argomenti che adducono. Mi sorprende non poco il fatto che essendovi ventotto piedi scoperti dalla ragione, questo solo sia escluso da una successione ritmica, benché abbia il medesimo tempo del dattilo e degli altri eguali, che tu hai enumerato e di cui nessuno vieta l'unione. M. - È necessario, perché tu possa comprendere, considerare come gli altri piedi si rapportano nelle loro parti. Così noterai che si verifica, in questo piede soltanto, una caratteristica singolare sicché non a capriccio si è ritenuto che non si deve usare per i ritmi. Arsi tesi e percussione... 10. 18. Ma per il nostro esame ci è opportuno ricordare questi due concetti, l'arsi e la tesi. Nel segnare la percussione infatti, dato che la mano si alza e si abbassa, l'arsi si aggiudica una parte del piede, la tesi l'altra. Chiamo parti dei piedi quelle di cui dianzi abbiamo sufficientemente parlato, quando li abbiamo enumerati per ordine. Se sei d'accordo, comincia ad esaminare brevemente le misure delle parti in tutti i piedi. Ti accorgerai così che cosa di singolare è accaduto al piede in esame. D. - Osservo per primo che il pirrichio ha eguale lunghezza in levare e in battere. Anche lo spondeo, il dattilo, l'anapesto, il proceleusmatico, il coriambo, il digiambo, il dicoreo, l'antispasto, il dispondeo si dividono ugualmente perché la percussione in essi segna eguale durata al battere che al levare. In secondo luogo noto che il giambo ha il rapporto di uno a due, e ritrovo il medesimo rapporto nel coreo, nel tribraco, nel molosso e in entrambi gli ionici. Invece il levare e il battere dell'anfibraco, giacché essi, nel raffrontarli a piedi di egual misura, successivamente mi si presentano, si trovano nel rapporto di uno a tre. Ma andando avanti non trovo proprio un altro piede, le cui parti si rapportino con lunghezza così diversa. Infatti, quando considero i piedi composti di una breve e due lunghe, cioè il bacchio, il cretico, il palimbacchio, noto che l'arsi e la tesi avviene in essi secondo la regola dei sesquati di due terzi. Il medesimo rapporto esiste in quei quattro piedi che sono formati di una lunga e tre brevi che sono denominati i quattro peoni secondo il numero ordinale. Restano i quattro epitriti, così chiamati ugualmente secondo il numero ordinale, ma il loro levare e battere sono rapportati secondo il sesquato di tre quarti. L'anfibraco è nel rapporto di uno a tre. 10. 19. M. - Non ti sembra dunque che si abbia un motivo ragionevole di escludere questo solo piede dalla serie ritmica dei suoni, dato che esso soltanto

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presenta una differenza notevole fra le sue parti, al punto che una parte è semplice e l'altra è tripla? Una certa somiglianza delle parti è tanto più da apprezzarsi quanto più è vicina alla eguaglianza. E dunque, quando si ha lo sviluppo dall'uno al quattro secondo la legge dei numeri, niente è più simile a sé che se stesso. Pertanto prima di tutto si deve apprezzare nei piedi che le parti abbiano la medesima misura fra di loro, poi ha la precedenza l'unione del semplice al doppio nell'uno e nel due, viene quindi l'unione sesquata di due terzi nel due e nel tre e infine la sesquata di tre quarti col tre e il quattro. Invece il rapporto dell'uno al tre rientra certamente nella regola dei numeri moltiplicati, ma non ha una propria conformità nella disposizione. Infatti nella numerazione non si va dall'uno al tre, ma si passa dall'uno al tre attraverso il due. Questa è la ragione, per cui si ritiene di dovere escludere l'anfibraco dalla combinazione in esame. Se tu la accetti, esaminiamo gli altri temi. D. - Certo che l'accetto; ha piena evidenza e certezza. Difficoltà per ogni ionici, il molosso e i peoni. 11. 20. M. - Dunque giacché l'accetti, in qualunque modo i piedi si rapportino nelle sillabe, purché abbiano la medesima durata nel tempo, possono essere mescolati senza nuocere alla uguaglianza, eccetto soltanto l'anfribraco. Pertanto ci si può chiedere giustamente se si possano convenientemente unire piedi che, pur avendo tempo eguale, non concordino nella percussione che rapporta fra di loro le parti del piede con l'arsi e la tesi. Infatti il dattilo, l'anapesto e lo spondeo non solo hanno tempi eguali ma anche eguali percussioni, giacché in tutti l'arsi e la tesi hanno il medesimo tempo. Dunque essi si uniscono fra di loro più regolarmente di quanto i due ionici con gli altri piedi di sei tempi. Ambedue gli ionici hanno appunto una percussione che va dal semplice al doppio, rapportando cioè due tempi a quattro. Per questo aspetto con essi concorda il molosso. Gli altri di sei tempi sono nel rapporto di altrettanto poiché in essi si dànno tre tempi all'arsi e tre alla tesi. Pertanto, quantunque tutti si dividano regolarmente, e cioè i primi tre secondo il rapporto di uno a due e gli altri quattro sono divisi in parti eguali, tuttavia, poiché questa mescolanza rende ineguale la percussione, non so se si debba rifiutare. Tu che ne pensi? D. - Propendo per questa idea. Infatti non so come una percussione irregolare non possa non offendere l'udito e se l'offende può avvenire soltanto per difetto di questa mescolanza. Mescolanza di ionici e dicorei e... 11. 21. M. - Or sappi che gli antichi hanno ritenuto di poter mescolare questi piedi e hanno composto versi mediante la loro mescolanza. Ma affinché non sembri che ti voglia convincere con l'autorità, ascolta qualcuno di questi versi e senti se offende il tuo udito. E se non solo non ti urterà, ma piuttosto ti diletterà, non vi sarà alcuna ragione di rifiutare la loro mescolanza. Sono questi i versi che voglio farti ascoltare: At consona/ quae sunt, nisi/ vocalibus/ aptes Pars dimidi/ um vocis o/ pus proferet/ ex se Pars muta so/ni comprimet/ ora moli/entum Illis sonus/ obscurior/ impediti/orque Utcumque ta/men promitur/ ore semi/cluso 2. Penso che siano sufficienti perché tu possa intendere ciò che voglio. Dimmi, ti prego, se questo ritmo non ha dilettato il tuo udito. D. - Mi pare anzi che suoni con un ritmo sommamente dilettevole.

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M. - Considera dunque i piedi. Troverai nei cinque versi che i primi due sono formati di soli ionici e gli ultimi tre contengono anche un dicoreo, sebbene tutti dilettano interamente il nostro senso per la loro comune eguaglianza. D. - L'avevo già notato e con più facilità data la tua pronuncia. M. - Perché allora esitiamo ad accettare l'opinione degli antichi, convinti non dalla loro autorità ma dalla stessa ragione? Essi ritengono appunto che possano unirsi normalmente piedi che hanno egual durata, purché abbiano percussione regolare, anche se diversa. D. - Mi rimetto interamente giacché quel ritmo non mi permette di contraddire. ...di ionici e digiambi. 12. 22. M. - Ascolta ancora questi versi: Volo tandem/ tibi parcas / labor est in/ chartis Et apertum i/re per auras/ animum per/mittas Placet hoc nam/ sapienter / remittere in/terdum Aciem re/ bus agendis/ decenter in/tentam. D. - Anche questo basta. M. - Soprattutto perché son versi rozzi che ho composto estemporaneamente per l'occorrenza. Comunque anche su questi quattro vorrei il giudizio del tuo udito. D. - Che altro potrei dirti anche per essi, se non che sono stati pronunciati con ritmica proporzione? M. - Senti che i primi due sono formati di ionici minori e gli ultimi due contengono anche un digiambo? D. - L'ho notato perché l'hai fatto risaltare nel pronunciare. M. - Non ti sorprende che nei versi di Terenziano il dicoreo sia unito allo ionico detto maggiore e che nei miei invece un digiambo si unisca allo ionico detto minore? Pensi che non abbia importanza? D. - Secondo me, sì, e credo di vederne la ragione. Lo ionico maggiore, che comincia con due lunghe, esige di esser unito con un piede, cioè il dicoreo, che comincia con una lunga, il digiambo invece, che comincia con una breve, si mescola più proporzionatamente allo ionico minore che comincia con due brevi. Mescolanza non aritmica di vari piedi di sei tempi. 12. 23. M. - Giusto. Bisogna anche sapere che tale proporzione, quando non si ha eguaglianza di tempi, deve significare qualche cosa nella mescolanza dei piedi, e non che significhi molto, ma pur sempre qualche cosa. Infatti puoi intendere, dopo avere interrogato il tuo udito, che in luogo di un piede di sei tempi, si può porre un altro qualsiasi piede di sei tempi. Dapprima prendiamo l'esempio del molosso virtutes, dello ionico minore moderatas, del coriambo percipies, dello ionico maggiore concedere, del digiambo benignitas, del dicoreo civitasque, dell'antispasto volet iusta. D. - Li tengo presenti. M. - Pronuncia in un contesto tutte queste parole o piuttosto ascoltale mentre le pronuncio io, affinché il tuo udito sia più disposto nel giudicare. Ed appunto per farti sentir bene, senza offendere il tuo udito, l'andatura eguale del ritmo, ripeterò per tre volte tutta la frase, e non dubito che basterà: Virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta; virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta; virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta. Forse qualche cosa in questa serie di piedi ha offeso il tuo udito per mancanza di uguaglianza e armonia?

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D. - No, certo. M. - Ne hai avuto diletto? Ma inutile chiederlo perché in materia consegue che genera diletto tutto ciò che non urta. D. - Non posso dire di avere altra impressione dalla tua. M. - Ammetti dunque che tutti questi piedi di sei tempi possono normalmente mescolarsi in un contesto? D. - Sì. Altra mescolanza non aritmica dei medesimi. 13. 24. M. - Qualcuno potrebbe obiettare che questi piedi, i quali rapportati con questa disposizione hanno potuto esser pronunciati tanto ritmicamente, non potrebbero esserlo se la disposizione fosse variata. Non temi questo? D. - La variazione comporta certamente qualche cosa, ma non è difficile farne l'esperimento. M. - Fallo a tempo libero. Troverai che il tuo udito è dilettato da una multiforme varietà e da una unitaria eguaglianza. D. - Lo farò, quantunque con tale esperimento non v'è alcuno, il quale non preveda che necessariamente si otterrà quell'effetto. M. - Hai ragione. Ma poiché è utile al nostro scopo, ripeterò la frase con la percussione. Così potrai giudicare se v'è qualche aritmia e insieme fare l'esperimento sul cambiamento della disposizione che, come abbiamo previsto, non comporterà alcuna aritmia. Ora cambia la disposizione e dopo avere collocato, a tuo piacimento, i medesimi piedi diversamente da come sono stati collocati da me, permettimi di declamarli con la percussione. D. - Voglio che primo sia lo ionico minore, secondo lo ionico maggiore, terzo il coriambo, quarto il digiambo, quinto l'antispasto, sesto il dicoreo, settimo il molosso. M. - Volgi dunque l'udito al suono e la vista alla battuta della percussione perché bisogna non che sia udita ma veduta la mano che batte la percussione e avvertita attentamente la durata dell'arsi e della tesi. D. - Sono interamente attento nei limiti della mia capacità. M. - Ascolta dunque la tua disposizione con la percussione: Moderatas, concedere, percipies, benignitas, volet iusta, civitasque, virtutes. D. - Mi accorgo che la percussione non è aritmica e che il levare ha la medesima durata del battere, ma sono strabiliato dal fatto che abbiano potuto avere tale percussione piedi che, come i due ionici e il molosso, sono divisi nel rapporto di uno a due. M. - Cosa avviene dunque, secondo te, dato che in essi sono dati tre tempi al levare e tre al battere? D. - Secondo me, non avviene altro se non che la sillaba lunga, la quale nello ionico maggiore e nel molosso è seconda e nello ionico minore terza, è divisa dalla percussione stessa. Poiché essa ha due tempi, ne dà uno alla prima parte, l'altro alla seconda e cosi l'arsi e la tesi hanno ciascuno tre tempi. L'anfibraco è inconciliabile al ritmo. 13. 25. M. - Non si può dire o pensare altro. Ma perché l'anfibraco, che abbiamo del tutto escluso dalla ritmicità, non può a questa condizione esser mescolato allo spondeo, al dattilo e all'anapesto, oppure ripetuto non può da sé produrre una certa ritmicità? Infatti può alla stessa maniera esser divisa dalla percussione la sillaba lunga o mediana di questo piede, in modo che dando a ciascuno degli estremi una parte, il levare e il battere non si

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aggiudichino uno e tre tempi, ma due tempi ciascuno. Hai qualche cosa da opporre? D. - Non ho altro da dire se non che anche l'anfibraco deve essere incluso. M. - Pronunziamo dunque con la percussione una frase composta di piedi di quattro tempi in cui sia inserito anche un anfibraco ed in egual modo esaminiamo con l'udito se qualche aritmia infastidisce. Ascolta dunque questo ritmo ripetuto tre volte con la percussione per facilitare il giudizio: Sumas / optima, / facias / honesta; Sumas / optima, / facias honesta; / sumas / optima, / facias / honesta. D. - Ti supplico, risparmia il mio udito perché, anche senza la percussione, la sequenza di questi piedi è violentemente aritmica nell'anfibraco. M. - Quale ragione si deve supporre perché non avviene in esso quel che avviene nel molosso e negli ionici? Forse perché in essi le parti estreme sono eguali a quella di mezzo? Fra i numeri pari appunto, il primo che si presenta con la parte di mezzo eguale agli estremi è il sei. Dunque, poiché i piedi di sei tempi hanno due tempi nel mezzo e due per ogni lato, facilmente in certo modo quello di mezzo si estende verso gli estremi, cui è congiunto dall'eguaglianza. Ciò non accade invece nell'anfibraco, in cui le parti laterali differiscono dalla mediana poiché questa ha due tempi e quelle uno. Si aggiunge che negli ionici e nel molosso, dato che il medio è assorbito dagli estremi, si hanno tre tempi per ciascuno, nei quali a loro volta gli estremi sono eguali al medio anche esso eguale. E ciò manca all'anfibraco. D. - È proprio come tu dici e non senza ragione l'anfibraco in quella serie offende l'udito, mentre gli altri lo dilettano. Combinazione di piedi sesquati. 14. 26. M. - Ora tu stesso comincia dal pirrichio ed esponi quanto più brevemente ti è possibile, secondo le ragioni sopra dette, quali piedi bisogna mescolare con altri. D. - Al pirrichio nessuno perché non se ne trova un altro del medesimo tempo. Il coreo potrebbe congiungersi col giambo, ma è da evitarsi per l'ineguaglianza della percussione giacché il giambo parte da un tempo, il coreo da due. Pertanto il tribraco può adattarsi ad ambedue. Noto che lo spondeo, il dattilo, l'anapesto e il proceleusmatico sono tra loro affini e possono esser combinati; concordano appunto fra di loro non soltanto per la durata, ma anche per la percussione. L'anfibraco, già escluso, per nessuna ragione può essere riammesso perché l'eguaglianza dei tempi non ha potuto aiutarlo a causa della discordanza tra la divisione e la percussione. Al bacchio possono essere uniti il cretico e il peone I, II e IV; al palimbacchio invece il medesimo cretico e il peone I, III e IV che concordano evidentemente nei tempi e nella percussione. Dunque al cretico e al peone I e IV, giacché la loro divisione può cominciare con due o tre tempi, possono essere uniti, senza alcuna aritmia, tutti gli altri piedi di cinque tempi. Abbiamo trattato abbastanza che si ha mirabile accordo dei piedi che sono formati di sei tempi. Difatti non entrano in disaccordo con gli altri nella cadenza neanche quelli che la condizione delle sillabe costringe a dividere in modo diverso, tanta forza ha l'eguaglianza degli estremi col medio. Per ciò che riguarda i quattro piedi di sette tempi che sono chiamati epitriti, trovo che il primo e il secondo possono unirsi tra loro poiché la divisione d'entrambi comincia da tre tempi e perciò non discordano né per durata né per percussione. A loro volta il terzo e il quarto si congiungono ritmicamente tra

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loro giacché tutti e due nella divisione cominciano da quattro tempi e perciò hanno la medesima misura e cadenza. Resta il piede di otto tempi, chiamato dispondeo che, come il pirrichio, non ha eguali. Hai ascoltato da me ciò che hai chiesto e son stato capace di fare. Il resto a te. M. - Lo farò. Ma dopo un dialogo così lungo riposiamoci un po' e ricordiamo i versi estemporanei che la stanchezza dianzi mi ha suggerito: Voglio alfine che ti risparmi; lo studio affatica, e lascia che lo spirito voli libero nello spazio. Piace, ed è da saggi, distendere l'attenzione applicata alle attività liberali. D. - Certo che piace ed io obbedisco volentieri. 1 - VIRGILIO, Aen. 1, 1. 2 - TERENZIANO MAURO, De litteris 89-93: G.L. 6, 328.

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LIBRO TERZO RITMO E METRO

Teoria di ritmo verso e metro (1, 1 - 2, 4) Ritmo e limite. 1. 1. M. - Questo terzo discorso, dato che si è detto a sufficienza sull'affinità e raccordo dei piedi, ci spinge ad esaminare che cosa ha origine da essi se sono disposti in una sequenza. E prima di tutto ti chiedo se i piedi, che è di norma congiungere, una volta congiunti, possano produrre un ritmo ininterrotto, in cui non appare un limite fisso. Il fatto accade allorché i musicanti battono con i piedi gli xilofoni e i cembali con ritmi determinati e tali che si svolgono con diletto dell'orecchio, ma con un andamento ininterrotto, in maniera che se non odi i flauti, non potresti rilevare fino a dove vada avanti la combinazione dei piedi né in qual punto essa ricominci daccapo. Sarebbe come se tu volessi allineare di seguito cento pirrichi o più, a tuo piacimento, o altri piedi che sono tra loro affini. D. - Comprendo e ammetto che si può avere una certa combinazione di piedi, in cui sia stabilito fino a quanti piedi si deve procedere e poi ricominciare. M. - E giacché non neghi che esiste una determinata disciplina del far versi e hai ammesso di aver sempre ascoltato versi con diletto, puoi dubitare che si dia una combinazione di tal genere [e non ammettere che si differenzia dal ritmo]? D. - È evidente che si dà anche questa e che differisce da quella trattata precedentemente. Ritmo, misura e metro. 1. 2. M. - Dunque perché si deve distinguere pelle parole ciò che è distinto nei concetti, sappi che i greci chiamavano ritmo il primo genere di combinazioni e metro il secondo. In latino il primo può esser chiamato numerus e il secondo mensio o mensura. Ma poiché queste parole hanno nella nostra lingua un senso molto lato e ci si deve guardare dal parlare con doppi sensi, preferiamo usare le parole greche. Tu vedi, penso, con quale precisione i due nomi sono stati imposti ai concetti. Infatti, poiché il ritmo si svolge con determinati piedi e si commette errore nel comporlo se si mescolano piedi discordanti, giustamente è stato chiamato ritmo, cioè numero, ma poiché lo svolgimento in sé non ha misura e non è stabilito con quale numero di piedi debba notarsi la fine, non si doveva chiamar metro per mancanza di misura della sequenza. Il metro appunto ha entrambe le caratteristiche giacché si svolge con piedi determinati ed ha una fine determinata. Esso è dunque non solamente metro a causa del limite riconoscibile, ma è anche ritmo per la combinazione razionale dei piedi. Dunque ogni metro è un ritmo, ma non ogni ritmo è un metro. In musica infatti il concetto di ritmo è così esteso che tutta questa parte che riguarda il " lungamente " e il " non lungamente ", è chiamata ritmo. Ma i dotti e gli scienziati hanno insegnato che non ci si deve preoccupare della terminologia se il concetto è chiaro. Hai qualche obiezione o dubbio sulle nozioni che ho esposto? D. - No, sono perfettamente d'accordo. Metro e verso. 2. 3. M. - Or dunque riflettiamo insieme se sia verso ogni metro, come è metro ogni verso. D. - Rifletto, ma non trovo da rispondere.

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M. - Perché credi che ti accada? Forse perché si tratta di parole? Infatti mentre in un dialogo possiamo rispondere sulle idee pertinenti a una disciplina, non così sulle parole, appunto perché le idee sono universalmente innate nella mente di tutti gli uomini, mentre i loro nomi sono stati imposti dall'arbitrio di individui e il loro significato si fonda sull'uso dovuto alla tradizione. Ecco perché vi può essere diversità di linguaggi, ma non certo di idee che sono stabilite nella stessa verità. Ascolta dunque da me ciò che da te non potresti rispondere. Gli antichi non hanno chiamato metro soltanto il verso. Dunque, per ciò che ti riguarda, giacché non si tratta più di nomi, cerca di comprendere se fra le due forme vi sia una differenza. Infatti un ritmo di piedi si chiude con una fine così determinata che non ha importanza dove si abbia un comma prima di giungere alla fine, un altro invece non solo si chiude con una fine determinata, ma prima della fine a un certo punto si avverte una partizione, come se fosse formato da due cola. D. - Non capisco. M. - Fai attenzione dunque a questo esempio: Ite igitur, / Camenae Fonticolae / puellae Quae canitis/sub antris Mellifluos / sonores Quae lavitis / capillum Purpureum Hip/ pocrene Fonte, ubi fu/sus olim Spumea la/vit almus Ora iubis / aquosis. Pegasus, in / nitentem Pervolatu/rus aethram. Tu noti certamente che i primi cinque versi hanno un emistichio nel medesimo punto, cioè nel coriambo. Ad esso si aggiunge il bacchio per completare il breve verso. Tutti gli undici versi sono formati appunto da un coriambo e da un bacchio. Gli altri, eccetto uno, cioè Ora iubis aquosis, non hanno nel medesimo punto un comma completo. D. - Comprendo, ma non vedo a che scopo. M. - Ma appunto per farti capire che questo metro non ha una sede, per così dire, normativa, con cui si abbia un emistichio prima della fine del verso. Se così fosse, tutti avrebbero nel medesimo punto il comma o sarebbero rarissimi quelli che non l'avessero. Ora su undici versi sei lo hanno e cinque no. D. - Capisco e attendo a che mira la dimostrazione. M. - Fai dunque attenzione a questo notissimo verso: Arma vi/rumque ca/no Tro/iae qui/ primus ab / oris. E per non portarla alle lunghe, dato che la poesia è notissima, esamina da questo fin dove vuoi i singoli versi e vi troverai un emistichio al quinto semipiede, cioè dopo due piedi e mezzo. Infatti questi versi son formati di piedi di quattro tempi e quindi la fine dell'emistichio, di cui si parla, è per così dire normativa al decimo tempo. D. - È chiaro. Verso colon e cesura. 2. 4. M. - Or dunque puoi comprendere che tra quelle due forme, che ti ho presentato prima di questi esempi, v'è una certa differenza, e cioè che un metro prima di esser chiuso non ha un comma determinato e stabilito, come abbiamo esaminato negli undici brevi versi, mentre l'altro lo ha, come indica chiaramente nel verso epico il quinto semipiede. D. - Ora mi è chiaro ciò che dici. M. - Or devi sapere che dagli antichi dotti, che hanno grande autorità, non è stato dato il nome di verso alla prima forma di metro, ma che da loro è stato descritto e chiamato verso quel metro che è formato di due cola, riuniti in base a misura e regola determinate. Tu comunque non darti pena per il nome, sul

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quale interrogato non potresti rispondere, se non ti venisse indicato da me o da qualcun altro. Ma presta la più viva attenzione a ciò che insegna la ragione, come è l'argomento, di cui adesso trattiamo. Ora la ragione insegna che fra queste due forme esiste una differenza, qualunque sia il vocabolo con cui sono indicate. Quindi adeguatamente interrogato sull'argomento, potresti rispondere affidandoti alla stessa verità, ma non potresti rispondere sui nomi, se non dopo aver conosciuto la tradizione. D. - Ho conosciuto con chiarezza queste nozioni ed ora posso valutare il peso che dài alla cosa, sulla quale tanto spesso richiami la mia attenzione. M. - Vorrei dunque che tu tenessi presenti i tre termini, che necessariamente dovremo usare per discutere: ritmo, verso e metro. Essi si distinguono perché ogni metro è anche ritmo, ma non ogni ritmo è anche metro ed ugualmente ogni verso è metro, ma non ogni metro è anche verso. Dunque ogni verso è ritmo e metro. Capisci, penso, che è logico. D. - Sì, certamente. È più chiaro della luce.

I piedi nel ritmo (3, 5 - 6, 14) Ritmo di pirrichi. 3. 5. M. - Dunque, se sei d'accordo, discutiamo prima di tutto, come ne siamo capaci, del ritmo, in cui non si ha il metro, quindi del metro, in cui non si ha il verso e infine dello stesso verso. D. - Va bene. M. - Prendi dunque fin dal principio dei piedi pirrichi e formane un ritmo. D. - Anche se lo potessi fare, quale ne sarà la misura? M. - Giacché lo facciamo solo per esempio, basta che lo estendi fino a dieci piedi poiché il verso non può andare oltre a questo numero di piedi. È un tema che sarà trattato diligentemente a suo tempo. D. - Molto giustamente non mi hai proposto di riunire molti piedi. Mi sembra però che non ricordi di aver distinto con esattezza fra grammatico e musico, quando ti risposi che delle sillabe lunghe e brevi non possedevo la disciplina trasmessa dai grammatici, a meno che non mi permetti di mostrarti il ritmo non con le parole, ma con una determinata percussione. Non nego che posso avere la capacità dell'udito per misurare la successione del tempo, ma non so proprio, giacché è stabilito dalla tradizione, quale sillaba si deve considerare breve e quale lunga. M. - Riconosco che, come dici, abbiamo distinto tra grammatico e musico e che tu hai ammesso la tua ignoranza in materia. Ascolta dunque un esempio di questa forma: Ago/ cele/riter / agi/le quod/ ago/ tibi/ quod a/nima/ velit. D. - Lo tengo presente. Il pirrichio prevale sul proceleusmatico. 3. 6. M. - Ripetendo questo metro molte volte a tuo piacere, otterrai un ritmo tanto lungo quanto vorrai, sebbene i dieci piedi siano sufficienti come saggio. Ma se qualcuno ti dicesse che il ritmo è formato non di pirrichi ma di proceleusmatici, cosa risponderesti? D. - Non lo so proprio, perché dove si hanno dieci pirrichi, posso scandire cinque proceleusmatici, e il dubbio è tanto più forte perché ci si chiede di un ritmo che si svolge senza interruzione. Infatti undici, tredici o qualsiasi altro numero dispari di pirrichi non possono formare un numero intero di proceleusmatici. Se dunque vi fosse un limite determinato nel ritmo in questione, si potrebbe dire che si svolge con pirrichi, anziché con

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proceleusmatici giacché non si avrebbero proceleusmatici tutti interi. Ora invece la illimitatezza stessa rende indeciso il nostro giudizio, come pure se ci si propongono piedi determinati in numero, ma pari, come sono appunto questi dieci. M. - Ma anche ciò che a te è sembrato evidente di un numero dispari di pirrichi, non è affatto evidente. Perché infatti non si potrebbe dire, se si dispongono undici pirrichi, che il ritmo ha cinque proceleusmatici e un semipiede? Che cosa si potrebbe obiettare, dato che si hanno molti versi catalettici di un semipiede? D. - Ti ho detto già che non so cosa si può dire sull'argomento. M. - Non sai nemmeno che il pirrichio procede il proceleusmatico? Con due pirrichi si forma un proceleusmatico e siccome uno viene prima di due e due prima di quattro, così il pirrichio viene prima del proceleusmatico. D. - È verissimo. M. - Quando dunque ci imbattiamo nell'alternativa che nel ritmo si possano scandire il pirrichio e il proceleusmatico, a quale daremo la precedenza? Al primo, dal quale questo è formato, oppure al secondo, da cui il primo non è formato? D. - Non v'è dubbio che va data al primo. M. - Perché dunque, quando ti si richiede sull'argomento, dubiti di rispondere che questo ritmo deve essere considerato pirrichio, anziché proceleusmatico? D. - Ora non ho più dubbi e mi vergogno di non aver subito compreso un ragionamento tanto evidente. La percussione decide. 4. 7. M. - E capisci che da questo ragionamento si deduce che si hanno piedi che non possono formare una sequenza ritmica? Ciò che è stato accertato per il proceleusmatico, al quale il pirrichio toglie la precedenza, credo, sia accertato anche per il digiambo, il dicoreo e il dispondeo. O sei d'altra opinione? D. - Come posso essere d'altra opinione? Avendo accettato la premessa, non posso respingere la conclusione. M. - Esamina anche i concetti che seguono, confronta e giudica. Sembra infatti, quando si verifica questa indecisione, che dalla percussione si deve distinguere con quale piede si scandisce. Quindi se vuoi scandire con un pirrichio, si deve porre un tempo in arsi e un tempo in tesi, se col proceleusmatico due e due tempi. Così il piede sarà evidenziato e nessun piede sarà escluso dall'avere una sequenza ritmica. D. - Sto per questa opinione, la quale non permette che alcun piede sia escluso dalla sequenza ritmica. M. - Fai bene e affinché tu ne sia più certo, considera che cosa possiamo rispondere sul tribraco, se ci si viene a sostenere che questo ritmo si scandisce non con pirrichi o proceleusmatici, ma con tribraci. D. - Intendo che bisogna richiamarsi alla percussione. Se si ha un tempo in arsi e due in tesi, cioè una e due sillabe, o anche due in arsi e una in tesi, si può dire che è un ritmo tribaco. Non si dà ritmo proceleusmatico. 4. 8. M. - Hai ben compreso. Dimmi ora se lo spondeo può unirsi al ritmo pirrichio. D. - No, assolutamente. La percussione non avrebbe una sequenza eguale, poiché nel pirrichio l'arsi e la tesi occupano un tempo ciascuno, mentre nello

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spondeo due tempi. M. - Dunque al proceleusmatico si può unire. D. - Sì. M. - Che cosa avviene quando gli si aggiunge? Interrogati se il ritmo è proceleusmatico o spondaico, che cosa risponderemo? D. - Che cosa dire, se non dare la precedenza allo spondeo? La controversia infatti non si compone con la percussione giacché nell'uno e nell'altro si danno due tempi all'arsi e due alla tesi. Non resta che dare la precedenza a quello che viene prima nell'ordine dei piedi. M. - Noto che hai compreso il ragionamento e intendi, come credo, ciò che se ne conclude. D. - Che cosa infine? M. - Che nessun altro piede si può unire al ritmo proceleusmatico. Infatti qualsiasi altro ritmo della stessa durata gli fosse unito, altrimenti non potrebbe essergli unito, necessariamente denominerà il ritmo che si ottiene, appunto perché tutti i piedi, che son formati dai medesimi tempi, hanno la precedenza sul proceleusmatico. E poiché gli altri sono stati scoperti prima, la logica ci obbliga a denominare il ritmo da quel piede, cui essa, come hai visto, dà la precedenza. Non sarà dunque più un ritmo proceleusmatico, quando gli sarà unito qualche altro piede di quattro tempi, ma uno spondeo o un dattilo o un anapesto. Si è d'accordo infatti che l'anfibraco resti escluso dall'unione di questi piedi. D. - Ammetto che è così. Favore per i ritmi giambici, trocaici e spondaici. 4. 9. M. - Or dunque seguendo la disposizione esamina il ritmo giambico giacché abbiamo discusso abbastanza del pirrichio e del proceleusmatico, che è generato da due pirrichi. Pertanto vorrei che tu mi dicessi quale piede pensi debba essere unito al giambo perché il ritmo giambico conservi il proprio nome. D. - Quale altro se non il tribraco che ha il medesimo tempo e la medesima percussione e poiché viene dopo non può arrogarsi la precedenza? Anche il coreo viene dopo ed ha i medesimi tempi, ma non la medesima percussione. M. - Passa ora al trocheo ed anche su di esso esponi i medesimi temi. D. - Rispondo allo stesso modo. Il tribraco può armonizzarsi col trocheo non solo per il tempo ma anche per la percussione. Ma chi non vedrebbe che si deve evitare il giambo? Se ad esso appunto si desse eguale percussione, una volta unito al trocheo, gli toglierebbe la precedenza. M. - E infine quale piede uniremo al ritmo spondaico? D. - Ve n'è abbondanza. Vedo che gli possono essere uniti il dattilo, l'anapesto e il proceleusmatico perché non lo impediscono né inegualità di tempi, né difetto di percussione, né perdita della precedenza. Ritmi commischiati e non commischiati. 4. 10. M. - Veggo ormai che puoi facilmente elencare nella disposizione tutti gli altri ritmi. Perciò senza mia interrogazione o piuttosto come se tu fossi interrogato su tutto, dimmi con tutta la brevità e chiarezza possibili come i piedi che restano, se mescolati normalmente ad altri, conservino il proprio nome nel ritmo. D. - Lo farò e non sarà una fatica, tanta è la chiarezza delle precedenti dimostrazioni. Nessun piede potrà essere unito al tribraco perché tutti quelli

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che hanno tempi eguali ai suoi hanno la precedenza. Al dattilo può essere unito l'anapesto perché viene dopo e scorre con egual tempo e eguale percussione. Ad ambedue, per la medesima ragione, può essere unito il proceleusmatico. Al bacchio possono essere uniti il cretico e i peoni I, II e IV. Al cretico possono unirsi tutti i piedi di cinque tempi che vengono dopo di lui, ma non tutti con la medesima divisione. Gli uni infatti si dividono in due e tre tempi, gli altri in tre e due tempi. Ma il cretico stesso può esser diviso in due maniere, dato che la breve di mezzo può essere attribuita alla prima o alla seconda parte. Il palimbacchio invece, per il fatto che la sua divisione inizia con due tempi e termina con tre, ha come adatti alla unione tutti i peoni, escluso il secondo. Dei trisillabi rimane il molosso, dal quale iniziano i piedi di sei tempi, che possono tutti essergli uniti, in parte perché ne condividono il rapporto dell'uno al due ed in parte per quella divisione, rilevata dalla percussione, della sillaba lunga di mezzo che cede un tempo a ciascuno degli estremi. Nel sei appunto il medio è eguale agli estremi. Per questo motivo il molosso e i due ionici sono battuti non solo nel rapporto di uno a due, ma anche in due parti eguali di tre tempi ciascuna. Avviene così che successivamente a tutti i piedi di sei tempi possono essere uniti gli altri di sei tempi. Rimane soltanto l'antispasto, il quale non ammette unione con alcun altro. Seguono i quattro epitriti. Il primo di essi ammette l'unione col secondo, il secondo rifiuta l'unione con ogni altro, il terzo si unisce col quarto e il quarto con nessuno. Resta il dispondeo che farà, anche esso, il ritmo da solo poiché non trova un ritmo dopo di sé, né ad esso eguale. Così sono otto in tutti i piedi che fanno un ritmo senza mescolanza: il pirrichio, il tribraco, il proceleusmatico, il peone IV, l'antispasto, l'epitrito II e IV e il dispondeo. Gli altri ammettono l'unione con quelli che li seguono in maniera da ottenere il nome di ritmo, anche se se ne possono contare pochi in questa serie. Questo è, credo, sufficiente per l'argomento che hai voluto da me esposto nei particolari. È tuo compito ora esaminare ciò che resta. Si danno piedi con più di quattro sillabe? 5. 11. M. - Piuttosto anche tuo assieme a me perché tutti e due stiamo conducendo una indagine. Ma infine che cosa resta, secondo te, che possa riguardare il ritmo? Non c'è da esaminare qualche altra misura di piede che, benché non superi gli otto tempi, compresi nel dispondeo, vada tuttavia al di là del numero di quattro sillabe? D. - Perché?, scusa. M. - Perché interroghi me piuttosto che te stesso? Non ritieni che senza inganno o offesa dell'udito, si possono sostituire due sillabe brevi a una lunga, in attinenza tanto alla percussione e alla divisione dei piedi quanto alla durata?. D. - E chi lo negherebbe? M. - Ecco perché dunque si pone il tribraco al posto del giambo e del coreo, il dattilo, l'anapesto e il proceleusmatico al posto dello spondeo, quando si pongono due brevi al posto della loro seconda o prima, oppure quattro brevi al posto di entrambe. D. - D'accordo. M. - Fai quindi altrettanto con uno ionico qualsiasi e con qualche altro piede quadrisillabo di sei tempi e sostituisci una loro lunga qualsiasi con due brevi. Forse che qualche cosa della misura si perde o qualche cosa impedisce la percussione?

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D. - Niente, assolutamente. M. - Considera dunque quante sillabe si danno. D. - Se ne formano cinque, evidente. M. - Vedi pertanto che può essere superato il numero di quattro sillabe. D. - Lo vedo bene. M. - E se sostituisci quattro brevi alle due lunghe dello ionico, non devi necessariamente calcolare sei sillabe in un solo piede? D. - Sì. M. - E se scomponi in brevi tutte le sillabe dell'epitrito, c'è forse da dubitare che si avrebbero sette sillabe? D. - No, certo. M.- E il dispondeo? Non fa otto sillabe se si pongono due brevi al posto di tutte le lunghe? D. - È proprio vero. Il piede con più di quattro sillabe non ha figura. 5. 12. M. - Qual è dunque la ragione per cui si è costretti a scandire dei piedi con un sì gran numero di sillabe e nello stesso tempo si deve ammettere, in base alle dimostrazioni già esposte, che il piede usato per i ritmi non deve superare le quattro sillabe? Non ti sembra che i due concetti si oppongono? D. - Sì certamente e non so come si possano accordare. M. - Anche questo è facile. Basta che ricordi di nuovo se dianzi è logicamente emerso dal nostro dialogo che il pirrichio e il proceleusmatico debbono essere riconosciuti nel loro schema dalla percussione. Così soltanto il piede a divisione normale creerà il ritmo, quanto dire che da esso il ritmo prenderà il nome. D. - Ricordo e non vedo perché mi debba pentire di aver accettato tali concetti. Ma a che scopo le tue parole? M. - Perché tutti i piedi di quattro sillabe, tranne l'anfibraco, formano un ritmo, vale a dire, hanno la precedenza nel ritmo e lo costituiscono nell'uso e nel nome. Al contrario molti dei piedi, che hanno più di quattro sillabe, possono sostituirli, ma da soli non formano un ritmo e non possono avere il nome di ritmo. Per questo penserei di non chiamarli piedi. Pertanto la opposizione che ci turbava, come penso, è risolta ed eliminata, giacché in luogo di un piede possiamo porre più di quattro sillabe e tuttavia non considerare piede se non quello con cui il ritmo si forma. Bisognava infatti che fosse stabilito al piede un certo limite dello sviluppo in sillabe. Ora il limite, che si è potuto nel miglior modo stabilire, perché derivato dalla stessa legge dei numeri, si è arrestato al quattro. Quindi si è potuto avere un piede di quattro sillabe lunghe. Quando poi a suo posto stabiliamo otto brevi, dato che occupano la medesima durata, si possono sostituire all'altro piede. Ma poiché superano la normale estensione cioè il quattro, si vieta che siano posti di per se stessi e formino un proprio ritmo, e non tanto per esigenza estetica dell'udito, ma per norma d'arte. Hai qualche cosa da obiettare? Il piede più lungo è di quattro lunghe. 5. 13. D. - Sì, e lo dico. Che cosa impediva che il piede potesse giungere fino ad otto sillabe, quando vediamo che si può accettare questo numero per ciò che riguarda il ritmo? E non mi turba il tuo assunto che il piede è messo al posto di un altro, che anzi proprio questo mi suggerisce di chiedere, anzi di lamentare, che non sia consentito anche col proprio nome un piede che lo può a posto di un altro.

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M. - Non c'è da meravigliarsi che ti sbagli, ma è facile la dimostrazione del vero. Tralascio i molti argomenti esposti a favore del quattro e la ragione, per cui lo sviluppo delle sillabe deve arrivare fino a questo numero. Supponi che io mi sia arreso a te e ti abbia concesso che la lunghezza di un piede possa essere estesa fino a otto sillabe. Potresti negare che già sarebbe possibile un piede di otto sillabe lunghe? Certamente se il piede giunge a un certo numero di sillabe, vi giunge non solo quello che è formato di sillabe brevi, ma anche quello che è formato di lunghe. Ne consegue che applicando quella legge, la quale non può essere abrogata, per cui si possono sostituire due brevi a una lunga, si arriva a sedici sillabe. E qui, se tu volessi di nuovo ottenere l'allungamento del piede, si arriva a trentadue brevi. Il tuo modo di ragionare ti costringe a estendere fin là il piede e a sua volta quella legge a porre un numero doppio di brevi a posto delle lunghe. Così non si avrà alcun limite. D. - Accetto la dimostrazione, per cui il piede si estende fino a quattro sillabe. Ma non ho obiezioni a che si possa porre, in luogo di questi piedi normali, piedi di un maggior numero di sillabe, purché due brevi occupino il posto di una lunga. Il piede con più di quattro sillabe non ha un proprio ritmo. 6. 14. M. - Ti è facile ora capire con evidenza che si hanno alcuni piedi posti in luogo di quelli che hanno la precedenza nel ritmo, ed altri che sono posti assieme ad essi. Infatti nei ritmi, in cui si pongono due brevi in luogo di una lunga, a posto del piede che dà il nome al ritmo, se ne pone un altro, come un tribraco in luogo del giambo o del trocheo, oppure un dattilo, un anapesto o un proceleusmatico in luogo di uno spondeo. Invece nei ritmi, in cui ciò non avviene, non in suo luogo, ma insieme ad esso si pone un qualsiasi piede che viene dopo e gli si può unire, come l'anapesto assieme al dattilo, il digiambo e il dicoreo assieme ai due ionici e similmente i rimanenti secondo la propria legge con gli altri. Ti sembra poco chiaro o sbagliato? D. - Ora capisco. M. - Dimmi dunque se i piedi posti in luogo di altri possono anche essi di per sé formare il ritmo. D. - Sì. M. - Tutti? D. - Sì. M. - Dunque un piede di cinque sillabe può col proprio nome formare un ritmo poiché può esser posto in luogo del bacchio, del cretico o qualunque peone? D. - Certamente no. Ma esso non si considera più un piede se ben ricordo la sua progressione fino al quattro. Quando ho risposto che tutti lo possono, intendevo dire che i veri piedi lo possono. M. - Lodo la tua diligenza e attenzione nel ritenere perfino il nome. Ma sappi che molti hanno ritenuto di dover denominare piedi anche quelli di sei sillabe, ma di più nessuno, che io sappia. Ma anche quelli che lo hanno insegnato, hanno affermato che non si devono impiegare piedi tanto lunghi per formare un ritmo o metro. E così non hanno dato ad essi neppure il nome. Pertanto è veramente esatto il limite dello sviluppo che giunge fino a quattro sillabe, poiché tutti questi piedi, congiungendosi, hanno potuto formare un piede, sebbene divisi non ne hanno potuto formare due. Così i dotti, che sono arrivati fino a sei sillabe, hanno osato attribuire soltanto il nome di piede a quelli che sorpassano le quattro sillabe, ma non hanno permesso che essi aspirassero

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alla precedenza nel ritmo e nel metro. Ma quando in luogo di una lunga si pongono due brevi, si arriva, come dimostra, la logica, fino a sette e otto sillabe, ma nessuno ha esteso il piede fino a tal numero. Veggo dunque risultare dal nostro dialogo che qualsiasi piede con più di quattro sillabe, quando si pongono due brevi in luogo di una lunga, non può essere utilizzato assieme a quelli normali, ma a loro posto e che non creano di per sé il ritmo. Quindi perché non vada oltre il limite ciò che logicamente deve averlo e poiché penso che nel nostro dialogo si è sufficientemente trattato del ritmo, passiamo, se vuoi, al metro. D. - D'accordo.

Ritmo e metro (7, 15 - 9, 21) Ritmo e costituzione del metro. 7. 15. M. - Dimmi dunque se, secondo te, il metro è formato dai piedi oppure i piedi dal metro. D. - Non capisco. M. - Piedi congiunti formano il metro ovvero i piedi sono formati di metri congiunti? D. - Ho capito ciò che dici e penso che il metro sia formato da piedi congiunti. M. - E perché lo pensi? D. - Perché hai detto che tra il ritmo e il metro vi è questa differenza, che nel ritmo la connessione dei piedi non ha alcun limite determinato, nel metro invece lo ha; perciò la connessione dei piedi è propria del ritmo e del metro, ma nel primo non ha un limite, nel secondo invece sì. M. - Un piede solo dunque non è un metro. D. - No, certamente. M. - E un piede e un semipiede? D. - Neppure. M. - Perché? Forse perché il metro è formato di più piedi e non è possibile parlare di più piedi, dove se ne hanno meno di due? D. - Sì. M. - Esaminiamo dunque quei metri da me dianzi ricordati e vediamo di quali piedi si compongono. Non ti è più lecito ormai essere incapace di riconoscerne la struttura. Eccoli: Ite igitur Camenae Fonticolae puellae Quae canitis sub antris Mellifluos sonores Credo che siano sufficienti per ciò che ci proponiamo. Scandiscili e dimmi quali piedi hanno. D. - Non posso proprio. Ritengo che si devono scandire quelli che è possibile congiungere normalmente, e non so trarmi d'impaccio. Se infatti considero il primo piede un coreo, si ha di seguito un giambo che ha tempo eguale, ma cadenza differente; se lo considero un dattilo, non si ha di seguito un piede che gli sia eguale almeno nella durata; se un coriambo, si ha la medesima difficoltà, giacché ciò che rimane non gli si accorda né per durata né per cadenza. Perciò o questo non è un metro, o è falso quanto è stato da noi discusso sull'unione dei piedi. Non trovo altro da dire. La funzione della pausa per terminare il metro. 7. 16. M. - È evidente che è un metro, sia perché è più di un piede ed ha un limite determinato, sia anche in base alla percezione dello stesso udito. Infatti non si pronuncerebbe con una eguaglianza così dilettosa, non avrebbe una cadenza con una modulazione così proporzionata, se in esso non fosse la legge

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del numero che si può avere soltanto in questo settore della musica. Mi meraviglio dunque del tuo parere che vi sia un errore nelle nostre argomentazioni. Niente infatti è più certo dei numeri o più ordinato di questa classificazione e disposizione dei piedi. Dalla stessa legge dei numeri, che è assolutamente infallibile, è stata derivata la funzione, che abbiamo discusso, di dilettare l'udito e di occupare la precedenza nel ritmo. Ma mentre io ripeto più volte: Quae canitis/ sub antris e diletto con questo ritmo il tuo udito, osserva quale differenza esiste fra questa frase ed essa stessa se aggiungessi alla fine una sillaba breve ed ugualmente ripetessi: Quae / canitis/ sub antrisve. D. - Entrambi i ritmi arrivano con diletto al mio udito; tuttavia sono costretto ad ammettere che il secondo, cui hai aggiunto una sillaba breve, ha una durata maggiore, poiché è divenuto più lungo. M. - E quando ripeto il primo: Quae canitis/sub antris, senza interporre la pausa alla fine, giunge al tuo udito il medesimo diletto? D. - Anzi mi disturba un non so che di zoppicante, a meno che non pronunci l'ultima più lunga delle altre lunghe. M. - Dunque, a tuo avviso, il maggiore allungamento o la pausa occupano un determinato spazio di tempo? D. - Come potrebbe essere altrimenti? Quando la pausa è indispensabile. 8. 17. M. - Bene. Ma dimmi anche, quanto spazio è, secondo te. D. - Mi è difficile misurarlo. M. - Giusto. Ma non pensi che a misurarlo sia la sillaba breve? Dopo che l'abbiamo aggiunta, l'udito non ha più richiesto il prolungamento fuor del normale dell'ultima lunga, né la pausa nella ripetizione del metro. D. - Sono proprio d'accordo. Infatti mentre tu declamavi più volte il primo metro, io tra me ripetevo assieme a te il secondo. Così mi sono accorto che entrambi avevano la medesima durata, poiché la mia ultima breve si accordava alla tua pausa. M. - Devi ritenere dunque che nei metri vi sono determinate pause. Perciò quando troverai che ad un piede normale manca qualche cosa, dovrai considerare se non è compensato da una proporzionata pausa ritmica. D. - Ora ho capito. Passa ad altro. L'astensione della pausa. 8. 18. M. - Ed ora, secondo me, dobbiamo ricercare la misura della durata della stessa pausa. Nel metro proposto troviamo un bacchio dopo il coriambo. E poiché al bacchio manca un tempo per avere la durata dei sei tempi del coriambo, l'udito l'ha facilmente percepito ed ha richiesto d'interporre, prima della ripetizione, una pausa di durata eguale a quella di una breve. Ma se dopo il coriambo si pone uno spondeo, per tornare a capo ci sarà necessario interporre una pausa di due tempi, come nel metro: Quae / canitis / fontem. Comprendi, credo, che la pausa si deve fare perché, quando si torna a capo, la percussione non zoppichi. Ma affinché possa riconoscere di quale lunghezza deve esser la pausa, aggiungi una sillaba lunga. Si avrà, per esempio: Quae canitis / fontem vos. Ripeti con la percussione e ti accorgerai che la percussione ha tanta durata, quanta nell'altra, sebbene lì, dopo il coriambo, erano state poste due lunghe e qui tre. È dunque chiaro che è stata interposta una pausa di due tempi. Se dopo il coriambo si pone un giambo, come in questo caso: Quae canitis / locos, si è costretti a fare una pausa di tre tempi.

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Per accertarsi del fatto, i tre tempi si aggiungano o per mezzo di un secondo giambo o di un coreo o di un tribraco, ad esempio: Quae canitis / locos / bonos; o: Quae canitis / locos / monte; o Quae canitis / locos / nemore. Aggiungendo questi piedi la ripetizione scorre dilettosa ed egualita senza la pausa e mediante la cadenza si avverte che ciascuno dei tre piedi ha una durata eguale a quella, in cui si interponeva la pausa. È dunque evidente che si aveva una pausa di tre tempi. Dopo il coriambo si può mettere una sola sillaba lunga, in modo da avere una pausa di quattro tempi. Infatti il coriambo può anche dividersi in maniera che arsi e tesi siano in rapporto di uno a due. Esempio di questo metro è: Quae canitis/ res. Se ad esso aggiungeremo o due lunghe o una lunga e due brevi o una breve, una lunga e una breve o due brevi e una lunga o quattro brevi, si avrà un piede di sei tempi che pertanto può essere ripetuto senza interporre la pausa. Tali sono: Quae canitis /res pulchras, Quae canitis /res in bona, Quae canitis /res bonumve, Quae canitis /res teneras, Quae canitis /res modo bene. Conosciuti con evidenza questi concetti, ti sarà, come penso, abbastanza chiaro che non è possibile una pausa minore di un tempo e maggiore di quattro. Questo è dunque quello sviluppo proporzionato, su cui abbiamo detto tante cose; inoltre in tutti i piedi non si hanno arsi e tesi che occupano più di quattro tempi. Bastano un piede, un semipiede e la pausa a dare un metro. 8. 19. Quando si canta dunque o si declama qualche cosa che abbia una fine determinata e più di un piede e che per movimento naturale, ancor prima del riconoscimento dei ritmi, diletta l'udito per una certa proporzione, si ha già un metro. Ma supponiamo che abbia meno di due piedi. Se comunque è più d'uno ed esige la pausa, non è senza misura, quantunque nel limite che è sufficiente a completare la durata dovuta al secondo piede. Così l'udito percepisce come due piedi ciò che, prima di tornare a capo, ha la durata di due piedi per il fatto che si aggiunge al suono anche una determinata pausa ritmica. Ed ora vorrei che tu mi dica se hai conoscenza certa delle nozioni esposte. D. - Sì ne ho conoscenza certa. M. - Perché presti fede a me o perché sei certo da te che son vere? D. - Da me son certo, sebbene le conosco come vere dietro la tua esposizione. Il verso richiede due cola. 9. 20. M. - Or dunque, poiché abbiamo scoperto il minimo che costituisce il metro, esaminiamo anche fin dove può essere esteso. Il metro ha come minimo due piedi o interi mediante il loro stesso suono o aggiungendo la pausa per completare ciò che manca. Pertanto ora devi considerare lo sviluppo fino al quattro ed espormi fino a quanti piedi si deve estendere il metro. D. - Questo è davvero facile. La ragione insegna che si estende fino ad otto piedi. M. - Abbiamo detto anche che i letterati hanno chiamato verso un ritmo di due commi proporzionatamente congiunti secondo una determinata regola. Ricordi?. D. - Lo ricordo bene. M. - E non è stato detto che il verso è formato di due piedi, ma di due cola ed è chiaro che il verso non ha un solo piede, ma più piedi. Dunque il fatto stesso non mostra che il colon è più lungo del piede? D. - Certo. M. - Ma se i due cola nel verso fossero eguali, non si potrebbero invertire di

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posto in modo che indiscriminatamente la prima parte divenga ultima e l'ultima prima? D. - Capisco. M. - Dunque perché questo non avvenga e perché appaia con sufficiente distinzione che nel verso altro è il colon con cui esso comincia ed altro quello con cui si chiude, non possiamo negare la necessità che i cola siano disuguali. D. - No, certo. M. - Consideriamo dunque, per primo, se vuoi, il caso nel pirrichio. Puoi vedere, penso, che in esso il colon non può essere minore di tre tempi perché il primo è più d'un piede. D. - Sono d'accordo. M. - Quanti tempi avrà dunque il verso più corto? D. - Direi sei, se non mi trattenesse la suddetta inversione di posto. Dunque ne avrà sette, giacché un comma non può avere meno di tre tempi e ancora non è stato scoperto un divieto che ne abbia di più. M. - Hai compreso bene, ma dimmi quanti pirrichi sono contenuti in sette tempi. D. - Tre e mezzo. M. - Bisogna dunque aggiungere la pausa di un tempo prima di tornare a capo, perché si possa completare la durata di un piede. D. - Certamente. M. - Con l'aggiunta della pausa quanti tempi si avranno? D. - Otto. M. - Come dunque il piede più piccolo, che è anche il primo, non può avere meno di due tempi, così il verso più corto, che è anche il primo, non può avere meno di otto tempi. D. - Sì. M. - E il verso più lungo, di cui non si può avere uno più esteso, di quanti tempi deve essere allora? Lo capirai subito, se ci riconduciamo l'attenzione a quello sviluppo, di cui tanto a lungo abbiamo parlato. D. - Ora capisco che il verso non può essere più lungo di trentadue tempi. L'astensione del verso e del metro. 9. 21. M. - E la lunghezza del metro? Pensi che debba superare quella del verso, giacché anche il metro più corto è più corto del verso più corto? D. - No. M. - Dunque il metro più corto è di due piedi e il verso di quattro, o anche il metro più corto è della durata di due piedi e il verso più corto della durata di quattro, pausa compresa; inoltre il metro non supera gli otto piedi. Non è necessario dunque, giacché anche il verso è metro, che il verso non superi gli otto piedi? D. - Sì. M. - Inoltre il verso non supera i trentadue tempi e il metro costituisce anche la stessa lunghezza del verso, se non ha il congiungimento dei due cola, che è indispensabile al verso, ma si chiude soltanto con una fine determinata; infine il metro non deve essere più lungo del verso. Non è dunque evidente che, come il verso non deve superare gli otto piedi, così il metro non deve superare i trentadue tempi? D. - Son d'accordo. M. - Il metro e il verso avranno dunque la medesima durata, il medesimo

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numero di piedi, il medesimo limite, oltre il quale entrambi non devono andare. Tuttavia il metro ha il suo limite quadruplicando il numero dei piedi, da cui si ha il più corto, e il verso quadruplicando il numero dei tempi, da cui si ha il verso più corto. Così nell'osservanza dell'ideale legge del quattro il metro partecipa al verso in piedi la misura dell'espandersi e il verso al metro in tempi. D. - Comprendo e approvo e mi piace che esista questo reciproco collegamento.

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LIBRO QUARTO CLASSIFICAZIONE E REGOLE DEL METRO

Classificazione dei metri (1, 1 - 12, 15) Indifferenza se l'ultima sillaba del metro è breve o lunga. 1. 1. M. - Torniamo dunque all'esame del metro. Soltanto a motivo del suo sviluppo in lunghezza sono stato costretto ad esporre qualche nozione sul verso. Ma l'occasione di trattarne viene in seguito. Per prima cosa ti chiedo se respingi l'opinione dei poeti e dei loro critici, i grammatici, che non ha alcuna importanza se l'ultima sillaba, la quale chiude il metro, sia lunga o breve. D. - La rifiuto decisamente perché non mi sembra ragionevole. M. - Dimmi, scusa, qual è il metro più corto in pirrichi? D. - Tre brevi. M. - Quale pausa dunque si deve osservare, mentre si torna a ripeterlo? D. - Un tempo che è la durata di una breve. M. - Batti dunque questo metro non con la voce, ma con la percussione. D. - Fatto. M. - Batti anche in questo modo l'anapesto. D. - Fatto anche questo. M. - Secondo te, in che cosa differiscono? D. - In nulla, proprio. M. - E puoi dirmene il motivo? D. - Mi pare abbastanza chiaro. Il tempo, che nel pirrichio è dato alla pausa, nell'anapesto è dato alla lunghezza dell'ultima sillaba, poiché allo stesso modo nel primo si batte l'ultima breve e nel secondo la lunga e dopo il medesimo intervallo si ritorna a capo. Ma nel primo si fa una pausa fino a completare la durata del piede pirrichio, nel secondo la durata della sillaba lunga. Così la pausa è uguale nelle due parti e dopo averla interposta si ritorna. M. - Dunque non irrazionalmente i grammatici vollero che non avesse importanza se l'ultima sillaba è lunga o breve. Quando si termina, segue appunto una pausa sufficiente perché il metro sia completo. Ovvero pensi che al caso avrebbero dovuto tener conto della ripetizione o del ritorno a capo e non solamente del fatto che il metro è terminato, come se non ci fosse altro da dire? D. - Ora riconosco che l'ultima sillaba va considerata senza distinzione di lunga o breve. M. - Bene. Il fatto avviene per motivo della pausa, giacché il termine viene considerato, come se chi ha terminato non abbia altro da aggiungere. Inoltre in considerazione di questa durata assai lunga nella pausa è indifferente quale sillaba sia posta in fine. Non ne consegue dunque che l'alterna possibilità, consentita alla sillaba finale a causa della lunga durata, abbia per risultato che, sia essa breve o lunga, l'udito la percepisca come lunga? D. - Capisco chiaramente che consegue. Il metro più breve è il pirrichio di quattro tempi. 2. 2. M. - Ma quando si dice che il metro più corto è il pirrichio di tre sillabe brevi, sicché si ha la pausa di una sola breve mentre si torna a capo, capisci anche che non ha importanza se si ripete questo metro o piedi anapesti? D. - Me ne sono accorto poco fa con quella percussione. M. - Non ritieni dunque che con una determinata regola si debba conferire

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ordine a simile anomalia? D. - Sì, lo ritengo. M. - E dimmi se conosci altra regola la quale dia ordine alle nozioni in parola, se non quella che il metro pirrichio più corto non è, come tu credevi, di tre brevi, ma di cinque. Infatti l'analogia con l'anapesto, come è stato già detto, non ci consente dopo un piede e un semipiede di fare la pausa di quel semipiede che si richiede per completare il piede e così tornare al principio e stabilire che questo è il metro pirrichio più corto. Dunque, se si vogliono evitare confusioni, occorrono due piedi e un semipiede per fare la pausa di un solo tempo. D. - Ma perché non due pirrichi sono il metro più corto in pirrichi, o magari quattro sillabe brevi, dopo le quali non sia necessario far la pausa, piuttosto che cinque che la richiedono? M. - Sei sveglio, eh! Però non badi che te lo può vietare il proceleusmatico, come l'anapesto nell'altro caso. D. - È vero. M. - Ammetti dunque il limite minimo in cinque brevi e nella pausa di un tempo? D. - Sì. M. - Mi pare che tu abbia dimenticato ciò che abbiamo detto sul modo di giudicare se si scandisce col pirrichio o col proceleusmatico. D. - Me ne avvisi opportunamente. Abbiamo stabilito che questi metri devono esser distinti con la percussione. Pertanto non temo più in questo caso il proceleusmatico che mediante la percussione potrò distinguere dal pirrichio. M. - Perché dunque non ti sei accorto che bisognava usare la percussione per distinguere l'anapesto dalle tre brevi, cioè un pirrichio e un semipiede, dopo il quale occorreva la pausa di un tempo? D. - Ora capisco e torno sulla via giusta. Confermo che il metro pirrichio più corto è di tre sillabe brevi che con la pausa occupano il tempo di due pirrichi. M. - Il tuo udito gradisce dunque questo schema ritmico: Si aliqua/ bene vis,/ bene dic,/ bene fac,/ Animus, / si aliquid/ male vis, / male vic, / male fac,/ Animus/ medium est. D. - Assai, soprattutto perché ho ricordato in qual modo bisogna segnar la percussione per non confondere piedi anapesti col metro pirrichio. L'ultima sillaba del metro nella norma e nella licenza poetica. 2. 3. M. - Esamina anche questi: Si aliquid es,/ age bene./ Male qui agit,/ nihil agit/ et ideo/ miser erit. D. - Anche essi si ascoltano con gradimento, tranne nel punto in cui la fine del terzo si incontra con l'inizio del quarto. M. - È proprio questo che mi aspettavo dal tuo udito. Non senza motivo il senso è contrariato quando attende un solo tempo di tutte le sillabe senza interposizione di pausa. Invece l'incontro delle due consonanti t ed n, che rendono lunga la sillaba precedente e le danno la durata di due tempi, ingannano simile attesa. È questa la forma che i grammatici chiamano sillaba lunga per posizione. Ma a causa dell'indeterminatezza dell'ultima sillaba nessuno trova difettoso questo metro, benché un udito rigidamente disciplinato lo condanna anche senza accusatore. Infatti puoi osservare quanta sia la differenza se invece di Male qui agit,/nihil agit, si dica: Male qui agit,/homo perit. D. - Questo metro è veramente genuino.

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M. - Custodiamo dunque a causa della purezza della musica ciò che i poeti trascurano per facilitare la composizione poetica. Ad esempio, ogni volta che ci sia indispensabile porre in un contesto metri, in cui non è richiesto un compenso al piede mediante la pausa, si devono porre per ultimo le sillabe che richiede la legge di quel ritmo, per non tornare dalla fine all'inizio con fastidio dell'udito e contaminazione della misura. Si dà tuttavia licenza ai poeti di terminare i metri come se non dovessero dire altro di seguito e perciò di porre indifferentemente come ultima sillaba tanto una lunga che una breve. Essi infatti nella sequenza metrica saranno avvertiti dal giudizio dell'udito di porre in ultimo la sillaba che si deve porre in base alla norma logica del metro stesso. La sequenza regolare si ha appunto quando al piede non manca qualche cosa, per cui si è costretti alla pausa. D. - Capisco e ti son grato perché mi stai promettendo esempi, in cui l'orecchio non subisce alcun fastidio. Quattordici esempi di metri pirrichi e... 3. 4. M. - Ed ora dimmi la tua opinione sui seguenti pirrichi, l'un dopo l'altro: Quid e/rit ho/mo Qui amat/ homi/nem, Si amet/ in e/o Fragi/le quod/ est? Amet/ igi/tur Ani/mum homi/nis, Et e/rit ho/mo Ali/quid a/mans. Che te ne sembra? D. - Debbo ammettere che si svolgono con una perfezione che piace. M. - E questi? Bonus/ erit/ amor, Ani/ma bo/na sit, Amor/ inha/bitat Et a/nima/ domus. Ita/ bene ha/bitat, Ubi/ bona/ domus, Ubi/ mala,/ male. D. - Anche questi ascolto con diletto nella loro sequenza. M. - Ed ora ascolta metri con tre piedi e mezzo: Ani/mus ho/minis/ est Mala/ bona/ve agi/tans. Bona/ volu/it ha/bet, Mala/ volu/it habet. D. - Anche essi, mediante la pausa di un tempo, sono esteticamente ben fatti. M. - Seguono quattro pirrichi completi. Ascoltali e giudica: Ani/mus ho/minis/ agit Ut ha/beat/ ea/ bona, Quibus/inha/bitet/ homo, Nihil/ ibi/ metu/itur. D. - Anche in essi la misura è esatta e dilettosa. M. - Ascolta ora nove sillabe brevi; ascolta e giudica: Homo/ malus/ amat/ et e/get, Malus/ete/nim ea/ bona a/mat, Nihil/ ubi/ sati/at e/um D. - Declama ora cinque pirrichi. M. - Levi/cula/ fragi/lia/ bona, Qui amat/ homo/ simi/liter/ habet. D. - È sufficiente e li giudico buoni. Ora aggiungi un semipiede. M. - Sì. Vaga/ levi/a fra/gili/a bo/na, Qui amat/ homo/ simi/lis e/rit e/is. D. - Proprio bene. Aspetto ora sei pirrichi. M. - Ascoltali: Vaga/ levi/cula/ fragi/lia/ bona, Qui ada/mat ho/mo si/milis/erit/ eis. D. - È sufficiente, aggiungi un semipiede. M. - Flui/da le/vicu/la fra/gili/a bo/na Quae ada/mat a/nima/ simi/lis e/rit e/is. D. - È sufficiente e va bene. Componi ora sette pirrichi. M. - Levi/cula/ fragi/lia/ graci/lia/ bona, Quae ada/mat a/nimu/la si/milis/ erit/ eis. D. - Sia aggiunto un semipiede. Dona al buon gusto. Vaga flui/da le/vicu/la fra/gili/a bo/na Quae ada/mat a/nimu/la fit/ ea/ simi/lis e/is. D. - Penso che restino soltanto gli otto piedi per uscire da questi particolari. E sebbene l'udito trovi belli per la genuina misura ritmica i metri

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che hai declamati, non vorrei tuttavia che ti affanni a cercare tante sillabe brevi. Se non sbaglio, trovarle riunite in una frase è più difficile che se si avesse licenza di mescolarvi delle lunghe. M. - Non sbagli proprio e per provarti la mia gioia perché ci si permette di proseguire oltre, comporrò il restante metro di questa forma con un pensiero più felice: Soli/da bo/na bo/nus am/at et/ea/ qui amat/ habet Ita/que nec/ eget/ amor/ et e/a bo/na De/us est. D. - Ho in abbondanza i metri composti del pirrichio. Seguono i metri giambici. Di essi mi son sufficienti due esempi per ciascuno. Mi piacerebbe ascoltarli senza intermissione. ...giambici... 4. 5. M. - Ti accontenterò. Ma quanti sono i metri che abbiamo già esaminato? D. - Quattordici. M. - E quanti pensi che siano i giambici? D. - Quattordici egualmente. M. - Ma se volessi sostituire il tribraco al giambo, le varie forme non sarebbero più numerose? D. - È chiaro, ma io desidero ascoltare esempi soltanto in giambi, per non portarla troppo alle lunghe. È facile apprendimento che in luogo di ogni sillaba lunga si possono porre due brevi. M. - Farò ciò che vuoi e gradisco che alleggerisci la mia fatica con la docilità dell'intelligenza. Ma rendi attento l'udito ai metri giambici. D. - Son pronto, comincia. M. - Bonus/ vir bea/tus. Malus/ miser sibi est/ malum. Bonus/ bea/tus, Deus/ bonum e/ius. Bonus/ bea/tus est, Deus/ bonum e/ius est. Bonus/vir est/ bea/tus, videt/ Deum/ bea/te. Bonus/ vir et/ sapit/ bonum videns/ Deum/ bea/tus est. Deum/ vide/re qui/ cupi/scit, bonus/que vi/vit, hic/ vide/bit. Bonum/ vide/re qui/ cupit/ diem, bonus/ sit hic/, vide/bit et/ Deum. Bonum/ vide/re qui/ cupit/ diem il/lum, bonus/ sit hic/, vide/bit et/ Deum il/lic. Bea/tus est/ bonus/, fruens/ enim est/ Deo, malus/ miser/, sed i/pse poe/na fit/sua. Bea/tus est/ videns/ Deum/, nihil/ cupit/ plus, malus/ bonum/ foris/ requi/rit, hinc/ ege/stas. Bea/tus est/ videns/ Deum/, nihil/ boni am/plius, malus/ bonum/ foris/ requi/rit, hinc/ eget/ miser. Bea/tus est/ videns/ Deum/, nihil/ boni am/plius/ vult, malus/ foris/ bonum/ requi/rit, hinc/ ege/nus, er/rat. Bea/tus est/ videns/ Deum/, nihil/boni am/plius/ volet, malus/ foris/ bonum/ requi/rit, hinc/ eget/ miser/ bono. ...trocaici... 5. 6. D. - Segue il trocheo, componi metri trocaici; i precedenti trocaici sono perfetti. M. - Lo farò, e nello stesso modo che per i giambici. Opti/mi non e/gent. Veri/tate non e/getur. Veri/tas sat/ est, semper/ haec ma/net. Veri/tas vo/catur ars De/i su/premi. Veri/tate/ factus/ est mundus/ iste/ quem vi/des. Veri/tate/ facta/ cuncta quaequel gigni/er vi/demus. Veri/tate/ facta/ cuncta/ sunt omni/umque/ forma/ veri/tas. Veri/tate/ cuncta/facta/ cerno, veri/tas ma/net, mo/ventur/ ista. Veri/tate/ facta/ cernis/ omni/a veri/tas ma/net, mo/ventur/ omni/a. Veri/tate/ facta/ cernis/ ista/ cuncta, veri/tas ta/men ma/net, mo/ventur/ ista. Veri/tate/ facta/ cuncta/ cernis/ opti/me, veri/tas ma/net,

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mo/ventur/ haec sed/ ordi/ne. Veri/tate/ facta/ cuncta/ cernis/ ordi/nata, veri/tas ma/net, no/vans mo/vet quod/ inno/vatur. Veri/tate/ facta/ cuncta/ sunt et/ ordi/nata/ sunt, veri/tas no/vat ma/nens, mo/ventur/ ut no/ventur/ haec. Veri/tate/ facta/ cuncta/ sunt et/ ordi/nata/ cuncta, veri/tas ma/ nens no/vat, mo/ventur/ ut no/ventur/ ista. ...spondaici... 6. 7. D. - Capisco che viene lo spondeo; il trocheo ha soddisfatto l'udito. M. - Questi sono i metri dello spondeo: Magno/rum est liber/tas. Magnum est/ munus liber/tatis. Solus/ liber/ fit qui erro/rem vi/cit. Solus/ liber/ vivit qui erro/rem iam/ vicit. Solus/ liber/ vere/ fit qui erro/ris vinclum vi/cit. Solus/liberl vere/ vivit qui erro/ris vin/clum iam/ vicit. Solus/ liber/ non fal/so vi/vit qui erro/ris vin/clum iam/ devi/cit. Solus/ liber/ iure ac/ vere/ vivit qui erro/ris vin/clum ma/gnus de/vicit. Solus/ liber/ iure ac/ non fal/so vi/vit qui erro/ris vin/clum fu/nestum/ devi/cit. Solus/ liber/ iure ac/ vere/ magnus/ vivit qui erro/ris vin/clum fu/nestum/ iam de/vicit. Solus/ liber/ iure ac/ non fal/so ma/gnus vi/vit qui erro/ris vin/clum fu/nestum/ prudens/ devi/cit. Solus/ liber/ iure ac/ non fal/so se/curus/ vivit qui erro/ris vin/clum fu/nestum/ prudens/ iam de/vicit. Solus/ liber/ iure ac/ non fal/so se/curus/ iam vi/vit qui erro/ris vin/clum te/trum ac fu/nestum/ prudens/ devi/cit. Solus/ liber/ iure ac/ non fal/so se/curam/ vitam/ vivit qui erro/ris vin/clum te/trum ac fu/nestum/lprudens/ iam de/vicit. Ventuno esempi di metri tribraci. 7. 8. D. - Anche sullo spondeo non ho nulla da chiedere. Passiamo al tribraco. M. - Sì. Ma poiché i quattro piedi precedenti, di cui è stato parlato, hanno dato origine a quattordici metri ciascuno, che nel totale divengono cinquantasei, dal tribraco ce n'è da aspettarsene di più. Nei precedenti infatti, poiché è in pausa soltanto la durata di un semipiede, non si richiede la pausa di più d'una sillaba. Nel tribraco invece, quando si richiede la pausa, essa, secondo te, deve durare soltanto lo spazio di una sola breve, oppure è possibile protrarla nella sosta di due brevi? Non si ha dubbio appunto che di esso si ha una duplice divisione, cioè o comincia da una breve e si termina con due, o viceversa se ha inizio da due, si termina con una. Sarebbe necessario dunque comporre ventuno metri. D. - È proprio vero. Essi infatti cominciano da quattro brevi così da avere due tempi di pausa, poi si hanno cinque brevi, in cui la pausa è di un tempo, al terzo posto sei, in cui non si ha pausa, al quarto sette, in cui di nuovo si deve la pausa di due tempi, al quinto otto con un tempo di pausa, al sesto nove, in cui non si ha pausa. E così aggiungendo via via una sillaba fino ad arrivare a ventiquattro, che sono otto tribraci, si compongono in tutto ventuno metri. M. - Con molta celerità hai eseguito il computo. Ma, secondo te, dobbiamo proprio presentare esempi per ciascuno, oppure quelli presentati per i primi quattro piedi si devono ritenere sufficienti a lumeggiare anche gli altri? D. - A mio giudizio bastano. M. - E io non chiedo altro che il tuo giudizio. Ma tu sai bene che, cambiando la cadenza, nei metri pirrichi si possono scandire dei tribraci. Vorrei sapere dunque se il primo metro del pirrichio può contenere anche un metro del tribraco. D. - No, perché il metro deve essere maggiore di un piede. M. - E il secondo? D. - Sì, perché quattro brevi formano due pirrichi, cioè un tribraco e un

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semipiede, quindi non si ha pausa nel pirrichio e due tempi di pausa nel tribraco. M. - Cambiando dunque la cadenza hai nei pirrichi anche esempi di metri tribraci fino a sedici sillabe, cioè a cinque tribraci e un semipiede. Devi contentarti. Gli altri li puoi svolgere da solo o con la voce o con la percussione, se ritieni ancora di dover esaminare simili metri con l'udito. D. - Farò ciò che riterrò opportuno. Esaminiamo i rimanenti. Dopo il dattilo la pausa è di due tempi. 8. 9. M. - Segue il dattilo che può essere diviso in un solo modo. O non sei d'accordo? D. - Sì, certamente. M. - Quanta sua parte dunque può essere in pausa? D. - Mezza, naturalmente. M. - E se ponendo un trocheo dopo il dattilo, si vuole fare la pausa di un tempo che si richiede come sillaba breve per avere un dattilo completo, che cosa potremo obiettare? Infatti non possiamo dire che la pausa non deve essere inferiore a un semipiede. La dimostrazione esposta dianzi al contrario ci aveva convinto che si deve evitare la pausa non inferiore ma superiore ad un semipiede. Infatti si ha una pausa inferiore a un semipiede nel coriambo, se dopo il coriambo stesso è posto un bacchio, come in questo esempio: Fonticolae/puellae. Puoi renderti conto che facciamo la pausa della durata di una sillaba breve, quanto si richiede per completare i sei tempi. D. - È vero. M. - Se dunque si pone il trocheo dopo il dattilo, sarà lecito anche fare la pausa di un solo tempo? D. - Son costretto a dir di sì. M. - Nessuno ti costringerebbe, se tu ricordassi quanto è stato detto. Ciò ti accade perché hai dimenticato quanto è stato esposto sulla indeterminatezza dell'ultima sillaba e sul motivo per cui l'udito richiede che la sillaba finale sia lunga, se rimane lo spazio in cui divenir lunga, anche se è breve. D. - Capisco. Dunque se l'udito percepisce come lunga l'ultima sillaba breve, qualora si abbia la pausa, come abbiamo appreso dalle precedenti dimostrazioni e dagli esempi, non ha importanza alcuna se dopo il dattilo si pone un trocheo o uno spondeo. Pertanto quando il ritorno a capo deve essere marcato dalla pausa, bisogna porre dopo il dattilo una sillaba lunga per avere la pausa di due tempi. M. - E se dopo il dattilo si pone il pirrichio, pensi che è fatto bene? D. - No, perché non fa differenza se è un pirrichio o un giambo. E bisognerebbe proprio considerarlo un giambo a causa dell'ultima che l'udito richiede lunga, giacché si ha la pausa. E chi non capirebbe che il giambo non deve essere posto dopo il dattilo a causa della diversità del levare e del battere che non possono, né l'uno né l'altro, avere nel dattilo tre tempi? Il bacchio e gli altri sesquati meno adatti alla poesia. 9. 10. M. - Segui con molta intelligenza. Ma che ne pensi dell'anapesto? È il medesimo discorso? D. - Sì, certamente. M. - Ma passiamo orinai al bacchio, se vuoi. Dimmi qual è il suo primo metro. D. - Di quattro sillabe, penso, e cioè una breve e tre lunghe, di cui due appartengono al bacchio e l'ultima all'inizio del piede che può essere unito al

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bacchio, sicché ciò che manca sia in pausa. Vorrei tuttavia esaminarlo con l'udito mediante un esempio. M. - È facile presentare degli esempi; non penso però che ne sarai dilettato come dai precedenti. I piedi di cinque tempi, come quelli di sette, non hanno la sequenza ritmica di quelli che si dividono in parti eguali o nel rapporto di uno a due o di due a uno. È grande appunto la differenza tra i movimenti sesquati e i movimenti eguali o moltiplicati, di cui abbiamo abbastanza discorso nel primo libro. Pertanto come i poeti considerano questi piedi di cinque e sette tempi con grande disprezzo, così ben volentieri li usa la prosa. Lo potrai rilevare più facilmente negli esempi che hai richiesto. Eccone uno: Laborat/ magister/ docens tar/dos. Ripetilo interponendo una pausa di tre tempi. Per fartela percepire meglio, ho posto dopo i tre piedi una lunga che è l'inizio di un cretico, il quale può essere congiunto al bacchio. Non ho dato un esempio per il primo metro che è di quattro sillabe, ritenendo che un solo piede non fosse sufficiente per avvertire il tuo udito della durata che la pausa deve avere dopo di esso ed una lunga. Ora li compongo e li ripeterò in modo che nella pausa tu possa percepire tre tempi: Labor nul/lus, // Amor ma/gnus. D. - È chiaro che questi piedi sono più adatti per la prosa ed è inutile elencare gli altri con esempi. M. - Dici bene. Ma, a tuo avviso, quando si deve osservare la pausa, si può mettere soltanto una lunga dopo il bacchio? D. - No, certamente, ma anche una breve e una lunga, che costituiscono il primo semipiede di un bacchio. Ci è stato permesso cominciare con un cretico perché può essere congiunto con un bacchio, a più forte ragione dunque ti sarà permesso di farlo col bacchio, soprattutto perché non abbiamo posto tutta la seconda parte del cretico, che è eguale in tempi alla prima parte del bacchio. Metri pausa ed uguaglianza dei tempi. 10. 11. M. - Ed ora, se sei d'accordo, mentre io ascolterò per giudicare, tu da te passa in rassegna gli altri ed esponi per tutti i rimanenti piedi che cosa si pone dopo un piede completo, quando la parte mancante di un altro si completa con la pausa. D. - La esposizione che chiedi, secondo me, è assai breve e facile. Intanto ciò che è stato detto del bacchio può dirsi anche del peone II. Dopo un cretico può esser posta una sillaba lunga, un giambo o uno spondeo, si avrà così una pausa di tre tempi, di due e di un tempo. Ciò che si è detto del cretico vale anche per il peone I e IV [a causa delle due divisioni]. Dopo il palimbacchio può esser posta una lunga o uno spondeo, pertanto anche in questo metro si avrà la pausa di tre e un tempo. È il medesimo caso del peone III. Certo in ogni caso, in cui si pone lo spondeo, di norma può esser posto anche l'anapesto. Dopo il molosso, in attinenza alla sua divisione, si pone o una lunga con pausa di quattro tempi, o due lunghe con pausa di due tempi. Ma dall'udito e dal ragionamento è stato verificato che si possono porre in sequenza con il molosso tutti i piedi di sei tempi. Di seguito ad esso dunque vi è posto per un giambo, e si avranno tre tempi di pausa, o per un cretico, e si avrà pausa di un tempo, e alla stessa condizione per il bacchio. Ma se si scomporrà in due brevi la prima lunga del cretico e la seconda del bacchio, si potrà porre anche il peone IV. Quanto ho detto per il molosso vale anche per gli altri piedi di sei tempi. Il proceleusmatico, secondo me, deve essere rapportato agli altri piedi di quattro tempi, salvo quando dopo di esso si pongono tre brevi. Ed è lo

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stesso che porre un anapesto a causa dell'ultima sillaba che con la pausa di solito si considera lunga. All'epitrito I normalmente son posti di seguito il giambo, il bacchio, il cretico e il peone IV. Ciò valga anche per l'epitrito II e la pausa sarà di quattro e due tempi. Lo spondeo e il molosso possono normalmente seguire gli altri due epitriti, a condizione che sia lecito scomporre in due brevi la prima dello spondeo e la prima o la seconda del molosso. In questi metri si avrà dunque la pausa di tre o un tempo. Resta il dispondeo. Se dopo di esso si porrà uno spondeo, si deve stare in pausa quattro tempi, se un molosso, due, con la possibilità di scomporre in due brevi una lunga, eccettuata l'ultima, tanto nello spondeo che nel molosso. Ecco quanto tu hai voluto che io passassi in rassegna. Trovi delle mende? Metri con piedi di sei tempi... 11. 12. M. - Non io, ma tu, se porgi attento l'orecchio a giudicare. Ti chiedo appunto, mentre io pronuncio con la percussione questi tre metri: Verus opti/mus,/ Verus opti/morum,/ e Veritatis/inops, se il tuo udito percepisce quest'ultimo con la medesima ritmicità degli altri due. Li potrai giudicare facilmente ripetendoli e usando le percussioni con le dovute pause. D. - Percepisce ritmici i primi due, aritmico l'ultimo, è chiaro. M. - Dunque di norma non si pone il giambo dopo il dicoreo. D. - No. M. - Si deve ammettere al contrario che può regolarmente esser posto dopo tutti gli altri piedi, se i seguenti metri si ripetono con la norma delle dovute pause: Fallacem/ cave Male castum/ cave. Multiloquum/ cave. Fallaciam/ cave. Et invidum/ cave. Et infirmum/ cave. D. - Intendo ciò che dici e son d'accordo. M. - Esaminiamo anche se ti infastidisce il metro seguente, poiché con l'interposizione della pausa di due tempi, nel ritorno a capo si svolge con cadenza aritmica. Può esso esser ritmico come i seguenti? Veraces/ regnant. Sapientes/ regnant. Veriloqui/ regnant. Prudentia/ regnat. Boni in bonis/ regnant. Pura cuncta/ regnant.. D. - No, questi si svolgono con cadenza ritmica regolare, l'altro è aritmico. M. - Terremo presente dunque che nei metri di sei tempi il dicoreo si chiude irregolarmente con il giambo e l'antispasto con lo spondeo. D. - Sì, certamente. ...e con piedi di tre tempi in fine. 11. 13. M. - Ti accorgerai senz'altro della ragione, se terrai presente che il piede è diviso in due parti dall'arsi e dalla tesi, sicché, se si ha qualche sillaba di mezzo, una o due, viene attribuita o alla prima o alla seconda parte, oppure si divide nell'una e nell'altra. D. - Lo so ed è vero, ma a che proposito? M. - Fai attenzione a ciò che ti dico e allora comprenderai più facilmente ciò che chiedi. Ti è chiaro, penso, che alcuni piedi sono senza sillabe di mezzo, come il pirrichio e i rimanenti di due sillabe, ed altri in cui il medio è eguale per durata o alla prima parte o all'ultima o a entrambe o a nessuna delle due, alla prima come nell'anapesto, nel palimbacchio, nel peone I, all'ultima come nel dattilo, nel bacchio, nel peone IV, ad entrambe come nel tribraco, nel molosso, nel coriambo e nei due ionici, a nessuna delle due come nel cretico, nel peone II e III, nel digiambo, nel dicoreo e nell'antispasto. Infatti nei piedi che possono essere divisi in tre parti eguali, la parte media è eguale alla prima e

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all'ultima, in quelli invece che non possono essere divisi così, la parte media è eguale soltanto o alla prima parte o all'ultima o a nessuna delle due. D. - So anche questo, ma vorrei sapere cosa sta ad indicare. M. - Ma a farti capire che il giambo è posto irregolarmente con la pausa dopo il dicoreo, perché esso costituisce la parte mediana del dicoreo stesso, ma non è eguale né alla prima né all'ultima e pertanto discorda nell'arsi e nella tesi. Ciò s'intende anche per lo spondeo che egualmente non vuole esser posto con la pausa dopo l'antispasto. Hai da esporre qualche difficoltà contro queste nozioni? D. - No, nessuna. Tuttavia il fastidio che si verifica nell'udito, quando i piedi suddetti sono posti con quella disposizione, si verifica nel confronto con quella euritmia che diletta l'udito, quando i medesimi piedi sono posti con la pausa dopo gli altri piedi di sei tempi. Infatti se tu mi chiedessi, dopo aver presentato degli esempi, come suonano, per tacere di altri, il giambo dopo il dicoreo e lo spondeo dopo l'antispasto con relativa pausa, ti dico lealmente che forse li approverei e loderei. M. - Non ti contraddico. A me basta che tale disposizione, nel confronto con tali ritmi, ma più euritmici, come tu dici, ti dà fastidio. Ed essa è tanto più da riprovarsi perché non avrebbe dovuto essere in aritmia con quei piedi che, essendo della medesima forma, si svolgono, come dobbiamo ammettere, tanto ritmicamente se chiusi da quei semipiedi. E non ti pare che, in base alla medesima regola, neanche dopo l'epitrito II può esser posto un giambo con la pausa? Infatti anche di questo piede il giambo costituisce la parte mediana, ma in modo che non si eguaglia né ai tempi della prima né a quelli della seconda. D. - Questa dimostrazione mi convince. I piedi da due a cinque tempi danno 250 metri regolari... 12. 14. M. Ed ora, se vuoi, dimmi il numero di tutti i metri che abbiamo trattato finora, cioè di quelli che cominciano con i relativi piedi completi e sono chiusi invece, alcuni con i relativi piedi completi e quindi senza interposizione della pausa, mentre si torna a capo, ed altri che sono chiusi con piedi incompleti e quindi con la pausa. Ovviamente, come la dimostrazione ha accertato, gli incompleti devono essere in euritmia con i completi. La numerazione inizia da due piedi incompleti fino a otto completi, senza che siano oltrepassati i trentadue tempi. D. - È faticoso ciò che mi imponi, ma ne vale la pena. Ma ricordo che poco fa eravamo già arrivati a settantasette metri dal pirrichio al tribraco. Infatti i piedi di due sillabe ne formano quattordici ciascuno, che nel totale sono cinquantasei, e il tribraco, a causa della duplice divisione, ne forma ventuno. A questi settantasette dunque si aggiungono quattordici metri dattilici e anapesti. Infatti se i piedi si pongono completi e senza pausa, giacché il metro comincia da due e arriva fino a otto piedi, essi formano sette metri ciascuno. Se poi si aggiungono un semipiede e la pausa, giacché il metro comincia da un piede e mezzo e arriva fino a sette e mezzo, se ne hanno altri sette ciascuno. E sono già in tutti centocinque metri. Il bacchio non può estendere il proprio metro fino agli otto piedi per non oltrepassare i trentadue tempi, e così ogni altro piede di cinque tempi, ma possono arrivare fino a sei piedi. Il bacchio dunque e il peone II, che gli è eguale per tempi e divisione, partendo dai due fino ai sei piedi, se completi e disposti senza pausa, formano cinque metri ciascuno; invece con la pausa, cominciando da uno fino a cinque semipiedi, formano altri

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cinque piedi ciascuno se dopo viene posta una lunga ed ugualmente cinque ciascuno se dopo si pongono una breve e una lunga. Formano dunque quindici metri ciascuno che addizionati divengono trenta. In tutti dunque sono già cento trentacinque metri. Il cretico e i peoni I e IV, che sono divisi egualmente, essendo ammesso porre dopo di essi una lunga, un giambo, uno spondeo e un anapesto, giungono a formare settantacinque metri. Infatti, giacché sono in tre, formano senza pausa cinque metri ciascuno e con la pausa ne formano venti ciascuno che nel totale divengono, come ho detto, settantacinque. Aggiungendoli alla somma precedente si arriva a duecentodieci. Il palimbacchio e il peone III, che gli è simile nella divisione, se completi senza pausa, danno cinque metri ciascuno, e con la pausa cinque ciascuno con una lunga, cinque ciascuno con uno spondeo, cinque ciascuno con un anapesto. Essi si aggiungono al totale maggiore e si avranno in tutto duecento cinquanta metri. ...e da sei a otto tempi altri 321, in tutto 571 meno tre. 12. 15. Il molosso e gli altri piedi di sei tempi, in tutti sette, se completi, formano quattro metri ciascuno; con la pausa invece, giacché si può porre dopo ciascuno di essi una lunga, un giambo, uno spondeo, un anapesto, un bacchio, un eretico e il peone IV, formano ventotto metri ciascuno, in tutti cento novantasei che, addizionati con i precedenti quattro per ciascuno, danno la somma di duecento ventiquattro. Bisogna però sottrarne otto poiché il giambo è posto irregolarmente dopo il dicoreo e lo spondeo dopo l'antispasto. Rimangono duecento sedici metri che aggiunti all'altra somma fanno in tutti quattrocento sessantasei metri. Non si è potuto rilevare la regola del proceleusmatico con i piedi con cui è in euritmia a causa dei numerosi semipiedi che dopo di esso si possono porre. Si possono aggiungere infatti una lunga con pausa come dopo il dattilo e gli altri di egual durata, di modo che si hanno due tempi di pausa, oppure tre brevi con un tempo di pausa, la quale fa sì che l'ultima breve sia considerata lunga. Gli epitriti, se completi, formano tre metri ciascuno, giacché il metro inizia da due piedi e arriva fino a quattro. Si supererebbero appunto i trentadue tempi, ed è inammissibile, se si aggiungesse un quinto piede, Con la pausa, gli epitriti I e II formano tre piedi ciascuno, se seguiti dal giambo, tre ciascuno se dal bacchio, tre ciascuno se dal eretico e tre ciascuno se dal peone IV. E fanno trenta con i tre per ciascuno senza pausa. Gli epitriti III e IV ne formano tre ciascuno prima della pausa, tre ciascuno con lo spondeo, tre ciascuno con l'anapesto, tre ciascuno col molosso, tre ciascuno con lo ionico minore, tre ciascuno con il coriambo. E sono, compresi quelli senza pausa, trentasei. Gli epitriti formano dunque in totale sessantasei metri che con ventuno proceleusmatici, addizionati alla somma precedente, fanno cinquecento cinquantatré metri. Resta il dispondeo che, se completo, produce anche esso tre metri, e aggiunta la pausa ne forma tre con lo spondeo e altrettanti con l'anapesto, il molosso, lo ionico minore e il coriambo. Ed essi, addizionati ai tre che si formano se completi, fanno diciotto metri. Sono dunque in tutti cinquecento settantuno metri.

Regole della pausa e cesura (13, 16 - 15, 29) I semipiedi possono trovarsi all'inizio del metro... 13. 16. M. - Sarebbero tutti questi, se non si dovesse sottrarne tre giacché si è detto già che il giambo non può esser posto dopo l'epitrito II. Comunque la tua esposizione è buona. Ed ora dimmi come suona al tuo udito questo metro: Triplici vides ut ortu Triviae rotetur ignis 1

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D. - Molto ritmicamente. M. - Puoi anche dirmi di quali piedi è composto? D. - No, e non trovo, mentre li scandisco, come sono in rapporto fra di loro. Se pongo all'inizio un pirrichio o un anapesto o un peone III, quelli che seguono non s'accordano ad essi. Posso ravvisare dopo il peone III un cretico e la sillaba finale lunga che il cretico non rifiuta, se è posta dopo. Questo metro però non può essere formato regolarmente da questi piedi, se non viene interposta la pausa di tre tempi, ma qui non si ha pausa perché il metro soddisfa l'udito col ritorno a capo. M. - Esamina dunque se deve cominciare da un pirrichio, poi si scandisce un dicoreo e poi uno spondeo, che completa i sei tempi, di cui due sono all'inizio. Si può avere all'inizio anche un anapesto, poi essere scandito un digiambo in modo che la finale lunga con i quattro tempi dell'anapesto completi i sei tempi corrispondenti al digiambo. Da ciò puoi comprendere che sezioni di piedi possono esser posti non solo alla fine, ma anche all'inizio dei metri. D. - Adesso capisco. ...e il piede compiuto alla fine. 13. 17. M. - E se io tolgo una sola sillaba lunga finale, così da avere questo metro: Segetes meus labor, non avverti che si ha il ritorno a capo con la pausa di due tempi? Da ciò è chiaro che si può porre una parte del piede all'inizio del metro, un'altra alla fine ed un'altra in pausa. D. - Sì, anche questo è chiaro. M. - Ed è ciò che accade se in questo metro si scandisce un dicoreo completo. Se invece un digiambo e si pone all'inizio un anapesto, si può osservare che la parte del piede posta in principio ha già quattro tempi e gli altri due richiesti sono in pausa alla fine. Da questa constatazione apprendiamo che il metro può iniziare con una sezione del piede e finire con un piede completo, ma non senza pausa. D. - Anche questo è evidente. Si dà anche la pausa non finale o cesura. 13. 18. M. - E puoi scandire il metro seguente e dire di quali piedi è formato? Iam satis/ terris nivis/ atque dirae Grandinis misit Pater et rubente Dextera sacras iaculatus arces 2. D. - Posso porre all'inizio un cretico e poi scandire altri due piedi di sei tempi, uno ionico maggiore e un dicoreo e fare la pausa di un tempo che si aggiunge al cretico per completare i sei tempi. M. - Al tuo esame è mancato qualche cosa. Il dicoreo è alla fine e, data la pausa, la sua ultima sillaba che è breve passa per lunga. Dici di no? D. - Anzi dico di sì. M. - Non bisogna dunque porre in fine un dicoreo, salvo che non vi sia la pausa nel ritorno a capo, altrimenti l'udito non percepirebbe un dicoreo, ma un epitrito II. D. - È chiaro. M. - Come lo scandiremo dunque questo metro? D. - Non lo so. 14. 18. M. - Poni attenzione dunque se il metro suona bene quando, nel pronunciarlo, dopo le prime tre sillabe faccio la pausa di un tempo. Così alla fine non sarà richiesto alcun tempo di modo che vi può esser regolarmente un dicoreo.

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D. - Suona con molta euritmia. Cesura mediana e finale. 14. 19. M. - Aggiungiamo anche questa regola all'arte poetica, e cioè che, quando si richiede, si osservi la pausa non soltanto alla fine, ma anche prima della fine. E si richiede quando, a causa dell'ultima breve, è irregolare alla fine la pausa in sostituzione dei tempi dei piedi, come nel caso citato, oppure quando si pongono due piedi incompleti, uno all'inizio, l'altra alla fine, come in questo metro: Gentiles nostros// inter oberrat equos 3//. Hai percepito, penso, che ho osservato la pausa di due tempi dopo le cinque sillabe lunghe e che si deve fare una pausa della medesima durata alla fine, mentre si torna a capo. Se infatti si scandisce questo metro con la regola dei sei tempi, si ha per primo uno spondeo, secondo un molosso, terzo un coriambo e infine un anapesto. Allo spondeo dunque e all'anapesto mancano due tempi per completare un piede di sei tempi. Pertanto si fa una pausa di due tempi dopo il molosso prima della fine e di due dopo l'anapesto alla fine. Se invece si scandisce con la regola dei quattro tempi, vi sarà una lunga all'inizio, poi si scandiscono due spondei e due dattili e infine chiuderà una lunga. Si fa dunque una pausa di due tempi dopo entrambi gli spondei prima della fine e di due alla fine, in maniera da completare i due piedi, le cui mezze parti sono state poste una al principio e una alla fine. Metri senza cesura nei quali... 14. 20. Talora tuttavia l'intervallo che si deve ai due piedi incompleti posti in principio e in fine è dato soltanto dalla pausa finale, se essa è tale che non ecceda un semipiede, come in questi due versi: Silvae la/borantes/ geluque Flumina/ constiterint/ acuto 4. Il primo metro infatti comincia da un palimbacchio, continua con un molosso e termina con un bacchio. Si hanno quindi due tempi di pausa. E se ne viene attribuito uno al bacchio, l'altro al palimbacchio, si avranno tre piedi di sei tempi ciascuno. Il secondo metro comincia al contrario con un dattilo, continua in un coriambo e si chiude con un bacchio. Si dovrà dunque osservare una pausa di tre tempi. Di essi uno sarà dato al bacchio, due al dattilo; così in tutti i piedi si avranno i sei tempi. ...la pausa va a completare il piede finale. 14. 21. Prima dunque si accorda il tempo che si richiede a completare il piede finale, poi a quello posto all'inizio. L'udito non permette proprio che avvenga diversamente. E non c'è da meravigliarsene, giacché nel ritornare a capo si riporta all'inizio ciò che è alla fine. Ora nel metro già citato: Flumina/ constiterint/ acuto, mancano tre tempi per completare i sei di ciascun metro e se non si vogliono dare con la pausa ma col suono, possono essere impiegati con un giambo, un trocheo e un tribraco, giacché tutti hanno tre tempi. Tuttavia l'udito stesso non tollera proprio che essi siano dati mediante il trocheo perché in esso la prima è lunga e l'altra è breve. Bisogna al contrario che prima si percepisca ciò che è richiesto dal bacchio finale, cioè una sillaba breve e non una lunga che è richiesta dal dattilo iniziale. Il fatto si può verificare con questi esempi: Flumina/ constiterint/ acuto/ gelu. Flumina/ constiterint/ acute/ gelida. Flumina/ constiterint/ in alta/ nocte. Nessun dubbio che i primi due si svolgono ritmicamente e il terzo no.

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La pausa di due tempi va distribuita fra i piedi incompiuti... 14. 22. Ed ugualmente quando piedi incompleti richiedono un tempo ciascuno, se si vuol rendere con il suono, l'udito non tollera e due tempi siano ridotti a una sola sillaba. Ed è giustizia degna di ammirazione. Non conviene infatti che ciò che deve esser dato separatamente, non sia posto anche separatamente. Pertanto nel metro: Silvae la/borantes/ geluque, se aggiungi alla fine una lunga in luogo della pausa, come in Silvae la/borantes/ gelu du/ro, l'udito non lo ammette, come al contrario ammette se si dice: Silvae la/borantes/ gelu et fri/gore. Lo percepirai con piena soddisfazione se li ripeterai uno per volta. ...e di essi il più piccolo va all'inizio. 14. 23. Così, quando si pongono due piedi incompleti, quello dell'inizio non deve essere più grande di quello della fine. L'orecchio lo rifiuta, come nel metro: Optimum/ tempus adest/ tandem, in cui il primo piede è un cretico, il secondo un coriambo, il terzo uno spondeo. Si hanno dunque tre tempi di pausa, di cui due vanno allo spondeo posto in fine perché si abbiano i sei tempi, ed uno va al cretico posto all'inizio. Se invece si dice: Tandem/ tempus adest/ optimum, introducendo la medesima pausa di tre tempi, ognuno può percepire che il metro torna a capo ritmicamente. Conviene pertanto che il piede incompleto alla fine abbia la medesima lunghezza di quello dell'inizio, come in questo: Silvae la/borantes/ geluque, oppure che il più corto sia in principio e il più lungo alla fine, come in Flumina/ constiterint/ acuto. E non a torto, perché da un lato se si ha l'uguaglianza non v'è disaccordo, e dall'altro se il numero è diverso, ma si va dal più piccolo al più grande, come si fa nella serie dei numeri, l'ordine stesso ristabilisce l'accordo. Pausa mediana e finale. 14. 24. E si ha un altra conseguenza. Quando si impiegano i piedi catalettici, di cui stiamo trattando, se si fa pausa in due punti, cioè prima della fine e alla fine, la pausa prima della fine duri il tempo che è dovuto a completare l'ultimo piede e la pausa alla fine duri il tempo che si deve a completare il primo piede, giacché il mezzo tende alla fine e dalla fine si deve tornare al principio. E se a completare l'uno e l'altro piede è dovuto un tempo eguale, non v'è dubbio che si deve osservare una pausa eguale prima della fine e alla fine. E la pausa deve cadere dove termina un comma. Nei ritmi che si fanno senza parole, con degli strumenti a percussione o a fiato, oppure con suoni inarticolati, non fa differenza dopo quale suono o battuta di tempo si fa la pausa. Basta che si interponga la pausa regolare in base alle norme citate. Perciò il metro più corto può essere di due piedi catalettici purché la loro durata complessiva non sia inferiore ad un piede e mezzo. Abbiamo appunto detto dianzi che si possono disporre due piedi incompiuti, se ciò che si deve a completare entrambi non superi in durata mezzo piede. Ecco un esempio: Montes/ acuti. In esso si osserva una pausa di tre tempi alla fine, oppure di un tempo dopo lo spondeo e di due alla fine. Altrimenti questo metro non si potrebbe scandire come si deve. Non si dà pausa mediana dopo sillaba breve. 15. 25. Si aggiunga anche alla nostra conoscenza che, quando si fa pausa prima della fine, non si deve avere in quel punto una parola che termina con sillaba breve. Altrimenti, secondo la regola spesso ricordata, l'udito, data la pausa che seguirebbe, la percepirebbe come lunga. Pertanto in questo metro: Montibus/ acutis, non si può fare la pausa di un tempo dopo il dattilo, come si

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poteva nel metro precedente dopo lo spondeo. In effetti non si percepirebbe un dattilo, ma un cretico e conseguentemente non sarebbero più due piedi incompiuti, come stiamo osservando, ma sembrerebbe un metro formato da un dicoreo completo e da uno spondeo finale, con una pausa di due tempi da porsi in fine. Mobilità della pausa cesura... 15. 26. Si deve notare anche che se si pone un piede catalettico in principio, o si restituisce in quel punto stesso mediante la pausa ciò che è dovuto a completarlo, come in Iam satis// terris nivis atque dirae, oppure alla fine, come in Segetes/ meus labor//. Invece a un piede catalettico posto alla fine o si restituisce con la pausa in fine ciò che è dovuto a completarlo, come in Ite igitur/ Camoenae//, ovvero in uno dei punti mediani, come in questo: Ver blandum// viget arvis//, adest hospes hirundo 5//. Infatti il tempo dovuto a completare il bacchio finale, si può trascorrere in pausa o alla fine del ritmo, o dopo il primo piede che è un molosso, o dopo il secondo che è uno ionico minore. E ciò che si deve a completare piedi incompiuti posti in mezzo deve essere restituito in quello stesso punto, come in Tuba terribilem sonitum// dedit aere curvo 6//. Se infatti si scandisce questo metro in modo da considerare il primo piede un anapesto, il secondo uno dei due ionici con cinque sillabe, dopo aver scomposto, s'intende, la lunga del principio o della fine in due brevi, il terzo un coriambo e l'ultimo un bacchio, tre saranno i tempi da restituire, uno in fine al bacchio, due in principio all'anapesto, in modo che si abbiano sei tempi ciascuno. Ma l'intera durata dei tre tempi può essere posta in pausa alla fine. Se invece si comincia da un piede intero, scandendo cinque sillabe per uno dei due ionici, di seguito si ha un coriambo e poi non si troverà altro piede compiuto. Perciò si dovrà osservare la pausa per la durata di una lunga e, inseritala nel ritmo, si avrà un altro coriambo. A chiudere resta un bacchio, il cui tempo mancante si restituisce con la pausa in fine. ...secondo i vari modi di scandire. 15. 27. Dall'esposto risulta evidente, secondo me, che, quando si fa la pausa in punti mediani, si restituiscono tempi richiesti alla fine o tempi richiesti dove si fa la pausa. Ma talora non è normativo fare la pausa in mezzo al metro, quando il metro può essere scandito in varie maniere; come nell'esempio citato. Qualche altra volta invece è normativo, come in questo: Vernat temperies, aurae//, tepent//, sunt deliciae//. Intanto è chiaro che questo ritmo può scorrere con piedi di sei e quattro tempi. Se di quattro tempi, si deve far pausa di un tempo dopo l'ottava sillaba e di due alla fine. Si può scandire per primo uno spondeo, secondo un dattilo, terzo uno spondeo, quarto un dattilo se si inserisce nel ritmo una pausa dopo la lunga poiché non è possibile dopo la breve, quinto uno spondeo, sesto un dattilo, l'ultima lunga con cui si chiude il ritmo e che si completa con due tempi di pausa alla fine. Se invece si scandiscono piedi di sei tempi, si avrà per primo un molosso, secondo uno ionico minore, terzo un cretico che diviene un dicoreo per l'aggiunta della pausa di un tempo, quarto uno ionico maggiore, l'ultima lunga, dopo la quale si ha una pausa di quattro tempi. Si potrebbe scandire anche in altro modo. Si pone all'inizio una lunga, alla quale fanno seguito uno ionico maggiore, un molosso e un bacchio che diviene un antispasto; per l'aggiunta della pausa di un tempo, in ultimo un coriambo chiude il metro, sicché la pausa di quattro tempi alla fine va a completare la lunga sola posta all'inizio. Ma l'udito rifiuta

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questo sistema di scandire, giacché una parte di piede posta in principio, a meno che non superi il semipiede, non si completa regolarmente dopo un piede completo con la pausa finale nel punto dovuto. Noi sappiamo certamente, grazie agli altri piedi, il tempo che le è dovuto, ma non è percepita dal senso una pausa di determinata durata, se non è minore il tempo che si trascorre in pausa di quello che è occupato dal suono. Quando la voce infatti ha enunciato la parte più lunga d'un piede, la più corta che rimane si rileva facilmente dovunque. Pause normative e facoltative. 15. 28. Pertanto v'è una scansione normativa, che abbiamo esposto, del metro presentato con l'esempio: Vernat temperies//, aurae// tepent//, sunt deliciae//; e si ha quando si fa pausa di un tempo dopo la decima sillaba e di quattro in fine. Ma ve n'è un'altra facoltativa, se si vuole osservare una pausa di due tempi dopo la sesta sillaba, di uno dopo l'undicesima e di due alla fine. Si avrebbe così all'inizio uno spondeo, cui fa seguito un coriambo, al terzo che è uno spondeo deve essere aggiunta la pausa di due tempi, sicché diventa un molosso o uno ionico minore, al quarto posto c'è un bacchio che con l'aggiunta della pausa di un tempo diviene un antispasto, con il coriambo al quinto posto si chiude il ritmo come suono, ma con due tempi in fine restituiti mediante la pausa allo spondeo collocato all'inizio. E vi è un'altra scansione. Se si vuole, si osserverà una pausa di un tempo dopo la sesta sillaba, di uno dopo la decima e l'undicesima e di due alla fine. Si ha così per primo uno spondeo, secondo un coriambo, terzo un palimbacchio che diviene antispasto inserendo nel ritmo la pausa di un tempo, quarto uno spondeo che diviene dicoreo con l'interposizione della pausa di un tempo, cui fa seguito un'altra pausa di un tempo, e ultimo il coriambo chiude il ritmo, di modo che si ha la pausa di due tempi dovuti allo spondeo iniziale. Esiste una terza scansione, se si osserva la pausa di un tempo dopo il primo spondeo e si mantiene il resto come nel sistema precedente. Alla fine però si avrà la pausa di un solo tempo, poiché lo spondeo, posto all'inizio, con la pausa di un tempo che lo segue è divenuto un palimbacchio, di modo che la pausa finale che serve a completarlo è di un solo tempo. Da ciò comprendi ormai che nei metri sono interposte delle pause, di cui alcune normative, altre facoltative. Sono normative quando è richiesto qualche cosa per completare il piede, facoltative quando i piedi sono regolarmente compiuti. Varietà delle pause facoltative. 15. 29. Quanto si è detto dianzi, che cioè non si deve pausa superiore ai quattro tempi, è stato detto delle pause normative, poste nei punti in cui si devono completare i tempi richiesti. Al contrario in quelle che abbiamo definito pause facoltative è anche permesso enunciare un piede e percorrerne in pausa un altro. E se si farà con intervalli eguali, non si avrà più un metro, ma un ritmo, poiché non appare un limite determinato, da cui ricominciare. Pertanto se, ad esempio, si vuole mediante pause ottenere una certa varietà fino a fare in pausa dopo il primo piede i tempi del secondo, non si può tuttavia continuare così all'infinito. Ma è permesso con qualsiasi variazione, inserendo nel ritmo le pause, estendere il metro al numero stabilito di tempi, come in questo: Nobis// verum in/ promptu est//, tu si/ verum/ dicis. Si ha facoltà di fare in esso, dopo il primo spondeo, una pausa di quattro tempi e di altri quattro dopo i due seguenti, ma non si avrà la pausa dopo i tre spondei finali

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perché sono compiuti i trentadue tempi. Però è molto più conveniente e in certo senso anche più giusto far pausa soltanto alla fine, oppure nel mezzo e alla fine. E questo si può ottenere sopprimendo un piede, così da avere: Nobis// verum in/ promptu est//, tu dic/ verum//. Dunque anche nei metri degli altri piedi si deve osservare la seguente regola. Con le pause normative tanto alla fine che nel mezzo, si attribuiscono i tempi richiesti a completare i piedi, ma non si deve fare una pausa superiore alla parte del piede occupata dall'arsi e dalla tesi. Con le pause facoltative al contrario è concesso passare in pausa parti di piedi o piedi compiuti, come abbiamo dimostrato con gli esempi presentati dianzi. Ma a questo punto si chiuda l'argomento della interposizione delle pause.

Metri misti (16, 30 - 34) Tradizione e teoria nell'arte poetica. 16. 30. Ora esponiamo qualche nozione sulla mescolanza dei piedi e sulla strofa metrica. Sono stati già esposti molti concetti quando abbiamo esaminato quali piedi si devono mescolare fra di loro. Per quanto attiene alla strofa metrica si dovranno esprimere alcuni concetti quando cominceremo a trattare del verso. In definitiva i piedi si uniscono in un contesto secondo le regole trattate nel secondo libro. Si deve sapere a proposito che tutte le forme di metro, che sono state rese celebri dai poeti, hanno i loro creatori e perfezionatori e che da essi sono state dettate leggi ben definite che è proibito abrogare. Dal momento infatti che le hanno stabilite con metodo razionale, non è conveniente derogare da esse, quantunque si potrebbe sempre nel rispetto della razionalità e senza offesa dell'estetica uditiva. La conoscenza di questo argomento non è affidata all'arte ma alla tradizione, quindi anziché avere conoscenza si accetta l'autorità. Non possiamo neanche avere scienza, se non saprei quale poeta di Falerii ha composto i metri che suonano così: Quando flagel/la ligas, ita/ liga, Vitis et ul/mus uti simul/ eant 7. Possiamo soltanto accettare la tradizione ascoltandoli e leggendoli. È invece compito, che ci riguarda, dell'arte poetica esaminare se questo metro si compone di tre dattili e di un pirrichio finale, come suppongono molti inesperti di musica. Essi non hanno capacità d'intendere che il pirrichio non può esser posto dopo il dattilo o che piuttosto, come la teoria insegna, il primo piede in questo metro deve essere un coriambo, il secondo uno ionico con una lunga divisa in due brevi e l'ultimo un giambo, dopo il quale si avrà una pausa di tre tempi. Gli individui non del tutto incolti potrebbero constatarlo se il metro fosse pronunciato e cadenzato da un grammatico secondo i due modi citati. Così con gusto naturale e proprio di tutti giudicherebbero che cosa prescrive la regola dell'arte. Metri variabili, invariabili e semivariabili. 16. 31. Comunque si deve rispettare la norma voluta dal suddetto poeta, che cioè, quando si usa questo metro, i ritmi rimangono invariabili. Infatti questo metro non delude l'udito. Non lo deluderebbe comunque, anche se si ponesse al posto del coriambo un digiambo o lo stesso ionico senza scomporre la lunga in brevi o qualunque altro fosse in euritmia. Dunque non si dovrà variare nulla in questo metro, non perché si deve evitare la mancanza di proporzione, ma perché si rispetta la tradizione. La teoria insegna che sono istituiti metri invariabili, ai quali, cioè, non bisogna cambiare nulla, come quelli di cui abbiamo già parlato abbastanza, altri invece variabili, nei quali si possono

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usare piedi in luogo di altri, come in questo: Troiae/ qui pri/mus ab o/ris, ar/ma virum/que cano. Infatti in esso è possibile sostituire in qualsiasi posto uno spondeo con un anapesto. Ve ne sono altri né totalmente invariabili né totalmente variabili, come questo: Pendeat/ ex hume/ris dul/cis chelys, Et nume/ros e/dat vari/os quibus Assonet/ omne vi/rens la/te nemus, Et tor/tis er/rans qui/ flexibus 8. Puoi osservare che in esso si possono ovunque porre spondei e dattili, tranne che all'ultimo piede che l'autore del metro ha voluto fosse sempre un dattilo. E puoi osservare che in queste tre forme di metri la tradizione ha il suo peso. Piedi misti conciliabili e inconciliabili... 16. 32. Per quanto riguarda, nella commischianza dei piedi, la competenza della facoltà razionale che sola può giudicare del dato sensibile, si deve tener presente ciò che segue. Le parti dei piedi che, quando si ha la pausa, sono poste aritmicamente dopo certi piedi, come il giambo dopo il ditrocheo o l'epitrito II, lo spondeo dopo l'antispasto, si collocano irregolarmente anche dopo altri piedi che ad essi sono mescolati. Infatti è chiaro che il giambo è posto regolarmente dopo il molosso, come indica il seguente metro se ripetuto più volte con pausa finale di tre tempi: Ver blandum/viret/ floribus. Ma se in luogo del molosso è posto un ditrocheo al principio, come in questo caso: Vere terra/ viret/floribus, l'udito lo rifiuta decisamente. Ed è facile mediante il giudizio dell'udito far la prova anche con altri metri. E se ne ha una motivazione evidente. Quando piedi fra loro congiungibili vengono congiunti, si devono aggiungere alla fine parti che si accordano con tutti i piedi collocati in quel contesto perché non nasca in qualche modo un contrasto fra i piedi commischiati. ...secondo il genere dattilico o dell'uguale... 16. 33. Il fatto che meraviglia di più è che, quantunque lo spondeo chiuda ritmicamente il digiambo e il ditrocheo, tuttavia quando entrambi questi piedi si trovano in una serie o soli o comunque mescolati con altri congiungibili ad essi, lo spondeo non può seguirli con il benestare dell'udito. Non v'è dubbio che l'udito percepisce con diletto questi due metri ripetuti ad uno ad uno e separatamente: Timenda res/ non est e Iam timere/ noli, ma se li congiungi così: Timenda res/ iam timere/ noli, non vorrei ascoltarli che in prosa. Non meno aritmico è il metro, se si congiunge in un punto qualsiasi un altro piede, come un molosso in questo modo: Vir fortis/, timenda res /, iam timere/ noli; o così: Timenda res /, vir fortis/, iam timere/ noli; o anche così: Timenda res/, iam timere/, vir fortis/, noli. E causa dell'aritmia è che il digiambo avrebbe anche la percussione del due e uno, mentre il ditrocheo dell'uno e due. Ora lo spondeo è eguale in tempi alle loro parti che hanno il due, ma poiché il digiambo attrae lo spondeo verso la propria parte iniziale e il ditrocheo a quella finale, ne nasce un certo contrasto. E in tal modo il ragionamento elimina la nostra meraviglia. ...o giambico ossia del doppio. 16. 34. Non minore stupore desta l'antispasto. Se nessun altro piede gli si unisce o il solo digiambo in un determinato modo, permette che il metro si chiuda col giambo, ma niente affatto se è accompagnato da altri piedi. Unito al dicoreo rifiuta il giambo a causa dello stesso dicoreo. E fin qui non me ne stupisco affatto. Ma non so proprio perché congiunto con altri piedi di sei tempi rifiuta alla fine il giambo che è di tre tempi. È forse una cagione più nascosta di

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quanto sia possibile a noi scoprirla con evidenza. Ma dimostro il fatto con questi esempi. Non si mette in dubbio che questi due metri: Potestate/placet e Potestate/potentium/placet, con una pausa di tre tempi alla fine si enunciano entrambi ritmicamente. Ma aritmicamente con la medesima pausa questi: Potestate/ praeclara/ placet, Potestate/ tibi multum/ placet, Potestate/ iam tibi sic/ placet, Potestate/ multum tibi placet, Potestate/ magnitudo/ placet. Per ciò che attiene alla facoltà percettiva, essa ha adempiuto alla propria funzione nel problema in parola e ha indicato ciò che ha accettato e ciò che ha rifiutato, ma sulla cagione del fenomeno bisogna consultare la facoltà razionale. E la mia in tanta oscurità non può che vederla in questi termini. L'antispasto ha la sua prima parte eguale a quella del digiambo poiché entrambi cominciano con una breve e una lunga, la seconda parte invece con un dicoreo perché sono chiusi entrambi da una lunga e una breve. Perciò l'antispasto posto da solo ammette alla fine del metro il giambo che corrisponde alla sua prima parte e lo ammette, anche se unito al digiambo col quale ha questa parte eguale. Ammetterebbe il giambo finale anche col dicoreo, se col dicoreo si accordasse tale chiusura. Unito con gli altri invece non lo ammette perché il giambo contrasta in tale congiungimento.

Considerazioni sulle strofe (17, 35 - 37) Strofe differenti per tempi e per piedi... 17. 35. Per quanto attiene alla strofe metrica, basta tener presente per ora che in essa si possono congiungere metri differenti purché convengano nella percussione, cioè nell'arsi e nella tesi. E i metri possono esser differenti per lunghezza, se metri lunghi si congiungono con metri più corti, come in questo esempio: Iam satis terris nivis atque dirae Grandinis misit Pater et rubente Dextera sacras iaculatus arces Terruit ur/bem 9. Puoi vedere infatti quanto l'ultimo di questi, conchiuso da un coriambo e da una sillaba lunga finale, sia più corto dei tre precedenti eguali fra loro. Inoltre i metri sono differenti per i piedi, come questi: Grato/ Pyrrha sub an/tro, Cui fla/vam religas/ comam 10. Puoi osservare che il primo di questi due versi è formato da uno spondeo e un coriambo, ed una sillaba lunga in fine che è richiesta dallo spondeo per completare i sei tempi. Il secondo invece si compone di uno spondeo e un coriambo e le due ultime brevi che con lo spondeo iniziale completano i sei tempi. Sono dunque eguali nei tempi ma nei piedi hanno. qualche cosa di diverso. ...e per la presenza o assenza della pausa. 17. 36. Esiste un'altra differenza delle strofe metriche. Alcuni metri sono messi insieme in modo da non richiedere fra l'uno e l'altro la pausa, come negli ultimi due, altri invece richiedono che fra l'uno e l'altro si faccia una determinata pausa, come questo: Vides ut alta stet nive candidum Soracte, nec iam sustineant onus Silvae laborantes, geluque Flumina constiterint acuto 11. Infatti se si ripetono ad uno ad uno, i primi due metri richiedono la pausa finale di un tempo, il terzo di due, il quarto di tre; ma se sono recitati l'uno dopo l'altro obbligano alla pausa di un tempo nel passare dal primo al secondo, di due dal secondo al terzo, di tre dal terzo al quarto. Se si torna dal quarto al primo, si farà la pausa di un tempo. Ma la norma che vale nel tornare al primo

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vale anche nel passare ad altra strofa. Giustamente noi latini chiamiamo questa forma di unione dei metri circuito che in greco si dice . Il circuito non può essere più piccolo di due membri, cioè due metri, ed hanno convenuto che non sia maggiore di quello che giunge fino a quattro membri. Si può dunque chiamare bimembre il più piccolo, trimembre quello di mezzo e quadrimembre l'ultimo. I greci li chiamano appunto , ,

. Giacché tratteremo, come ho detto, il problema più accuratamente nel discorso che terremo sui versi, per ora basta. Infinita possibilità di metri. 17. 37. Comprendi certamente, penso, che si hanno innumerevoli forme di metri. Noi ne abbiamo trovate cinquecento sessantotto. Però sono stati presentati modelli con le sole pause finali e non sono state considerate la commischianza dei piedi e la scomposizione delle lunghe in due brevi che prolunga il piede oltre le quattro sillabe. Ma se si volesse, usando tutte le possibili interposizioni di pausa, ogni possibile commischianza di piedi e scomposizione delle lunghe, calcolare il numero dei metri, esso risulta così grande da non potersi forse trovare il nome. E sebbene il poeta usandoli e l'universale facoltà estetica ascoltandoli rendano validi i modelli da noi presentati e tutti gli altri che è possibile comporre, tuttavia se non li affidasse all'udito la recitazione di un individuo colto ed esercitato e se il sentimento estetico di chi ascolta fosse più ottuso di quanto richiede la cultura letteraria, non è possibile considerare come vere le nozioni che abbiamo trattato. Ma ora riposiamoci per un po' di tempo e del verso trattiamo in seguito. D. - Sì. 1 - PETRONIO, attr. Terenziano, De metris 2862-63: G. L. 6, 409; MARIO VITTORINO, Ars gramm. G. L. 6, 153, 34. 2 - ORAZIO, Odi 1, 2, 1-3. 3 - TERENZIANO, De metris 1796; G.L. 6, 379. 4 - ORAZIO, Odi 1, 9, 3-4. 5 - VARRONE, Sat. Men. fr. 89. 6 - TERENZIANO, De metris 1913; G.L. 6, 382. 7 - SETTIMIO SERENO, attr. Terenziano, De metris 2001; G.L. 6, 385; MARIO VITTORINO, Ars gramm., in G.L. 6, 122, 16-17; SERVIO, In Verg. Aen. 4, 291. 8 - POMPONIO, attr. Terenziano, De metris 2135-41: G.L. 6, 389; MARIO VITTORINO, Ars gramm., in G.L. 6, 115, 15-17. 9 - ORAZIO, Odi 1, 2, 1-4. 10 - ORAZIO, Odi 1, 5, 3-4. 11 - ORAZIO, Odi 1, 9, 1-4.

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LIBRO QUINTO TEORIA DEL VERSO

Teoria generale del verso (1, 1 - 3, 4) Il verso si distingue dal metro... 1. 1. M. - Fra i letterati antichi si discusse con accesa polemica sulla natura del verso e il buon esito non è mancato. Ne fu specificato il concetto che, trasmesso mediante la letteratura alla conoscenza dei posteri, è stato convalidato non solo dalla tradizione ma anche da una teoria scientificamente autorevole. Gli antichi dunque hanno rilevato che tra metro e ritmo esiste questa differenza, che ogni metro è un ritmo, ma non ogni ritmo è un metro. Infatti ogni regolare contesto di piedi è numeroso e poiché il metro lo ha, esso non può non essere numero, cioè non essere ritmo. Ma non è la medesima cosa essere svolto con piedi, sia pure regolari, ma senza un limite determinato ed avere sviluppo, sempre con piedi regolari, ma esser conchiusi in un limite determinato. Quindi le nozioni dovevano essere distinte anche col nome, in modo che il primo fosse chiamato con significato proprio soltanto ritmo e il secondo fosse tanto ritmo da essere chiamato anche metro. D'altra parte, tra i ritmi che hanno un determinato limite, cioè i metri, ve ne sono alcuni, nei quali non si ha la regola di una divisione verso il mezzo ed altri, nei quali si ha costantemente. Si doveva dunque segnalare con dei nomi anche questa differenza. Perciò quella forma di ritmo, in cui non si ha questa regola, prende propriamente il nome di metro, hanno invece chiamato verso quel metro in cui si ha. Il ragionamento stesso ci mostrerà forse l'etimologia di questa denominazione mentre avanziamo nell'esame. Ma non pensare che la norma sia così tassativa da non permettere di chiamare versi anche altri metri. Però un conto è l'abusare di una parola sul fondamento di una somiglianza e altro il significare un oggetto col proprio nome. Ma basta con la terminologia. In materia hanno valore determinante, come abbiamo appreso, l'accordo dei dialoganti e la tradizione dell'antichità. Col nostro metodo esaminiamo dunque, se vuoi, queste altre strutture con l'udito che le fa percepire, con la teoria che ne fa avere conoscenza. Riconoscerai così che gli antichi non hanno stabilito le nozioni in parola, come se esse non esistessero già interamente e compiutamente nelle cose, ma che le hanno soltanto scoperte col ragionamento e designate con un nome. ...perché proporzionalmente divisibile in due cole. 2. 2. Dunque ti chiedo prima di tutto se un piede diletta l'udito per una ragione diversa da quella che in esso le due parti, poste una in levare ed una in battere, si implicano con ritmica proporzione. D. - Ho avuto già in precedenza una conoscenza certa del tema. M. - E si dovrebbe supporre che il metro, il quale evidentemente è formato da un insieme di piedi appartiene alla categoria delle cose indivisibili? Intanto l'indivisibile non potrebbe estendersi nel tempo e del tutto irrazionalmente si penserebbe che è indivisibile ciò che è formato di piedi divisibili. D. - Non posso non ammettere questa divisibilità. M. - E tutte le cose divisibili non sono forse più belle se le loro parti, anziché essere discordi e dissonanti, si armonizzano in una determinata proporzione? D. - Senza dubbio. M. - E quale numero è operatore di una divisione proporzionale? Il due? D. - Sì.

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M. - Abbiamo accettato allora che il piede si divide in due parti proporzionali e proprio per questo diletta l'udito. Se troviamo dunque un metro di tale fattura, non dovrà esser considerato giustamente più perfetto di quelli che non lo sono?. D. - Son d'accordo. Differenza e non invertibilità dei due cola. 3. 3. M. - Bene. Ed ora rispondimi sul tema seguente. In tutte le cose che si misurano secondo una porzione di tempo, ve n'è una che precede, una che segue, una che dà inizio ed una che pone fine. Ora secondo te, esiste una differenza fra la porzione che precede all'inizio e quella che segue alla fine? D. - Sì, credo. M. - Dimmi dunque quale differenza esiste fra questi due emistichi, dei quali uno è: Cornua velatarum e l'altro: Vertimus antennarum 1. Noi non usiamo, come il poeta, la parola obvertimus. Se dunque il verso si enuncia così: Cornua velatarum vertimus antennarum, ripetendolo più volte non diviene incerto forse quale sia il primo e quale il secondo emistichio? Infatti il verso si regge ugualmente se si pronuncia così: Vertimus antennarum cornua velatarum. D. - Secondo me, è proprio incerto. M. - E pensi che si debba evitare? D. - Sì. M. - Osserva se in quest'altro verso è stato sufficientemente evitato. Il primo comma: Arma virumque cano e il secondo: Troiae qui primus ab oris. Essi differiscono fra loro a tal punto che se cambi la disposizione e li pronunci così: Troiae qui primus ab oris, arma virumque cano, bisogna scandire piedi diversi. D. - Capisco. M. - Esamina se tale proporzione è stata osservata nei seguenti. Puoi avvertire infatti che la scansione del comma: Arma vi/rumque ca/no// è la medesima di: Itali/am fa/to//, Littora/ multum il/le et//, Vi supe/rum sae/vae//, Multa quo/que et bel/lo//, Infer/ retque de/os//, Alba/nique pa/tres//. Per non farla lunga, esaminane altri finché vorrai e troverai che questi commi iniziali hanno la medesima misura, cioè costituiscono un comma al quinto semipiede. Assai raramente si dà l'eccezione, sicché non meno proporzionali sono fra di loro i commi che seguono ai precedenti: Tro/iae qui/ primus ab/ oris, Profu/gus La/vinaque/ venit, Ter/ris iac/ tatus et/ alto, Memo/rem Iu/nonis ob/iram, Pas/sus dum/ conderet/ urbem, Lati/o genus/ unde La/tinum, At/que altae/ moenia/ Romae 2. D. - È chiarissimo. Etimologia del termine verso. 3. 4. M. - Dunque cinque e sette semipiedi dividono in due cola il verso epico che, come è ben noto, si compone di sei piedi di quattro tempi ciascuno. E non si dà verso senza una proporzione, questa o altra, fra i due cola. E in tutti i versi, come la nostra argomentazione ha verificato, si deve osservare questa norma che non si può mettere il primo emistichio a posto del secondo né il secondo a posto del primo. Altrimenti, non si chiamerà verso, se non con abuso del nome. Sarà un ritmo o un metro, come quelli che qualche rara volta si interpongono in lunghe composizioni poetiche e non son privi di bellezza, ad esempio il metro che ho ricordato poco fa: Cornua velatarum vertimus antennarum. Pertanto non sono d'opinione che sia chiamato verso, cioè volto, dal fatto che, come molti ritengono, da una fine determinata si torna a ripetere

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il medesimo ritmo. Il nome deriverebbe così dall'atto di chi si volge per tornare indietro sulla via. È evidente però che questa proprietà gli è comune con metri che non sono versi. Piuttosto forse per opposizione ha avuto il nome, allo stesso modo che i grammatici hanno chiamato deponente il verbo che non depone la lettera finale r, come lucror e conqueror. Così il metro che si compone di due commi, dei quali l'uno non può essere messo a posto dell'altro, nel rispetto della legge dei ritmi, è chiamato verso perché non può subire l'inversione. Ma anche se tu accetti l'una o l'altra etimologia o le riprovi tutte e due e ne cerchi un'altra, o se disprezzi, come me, tutte le questioni di questa portata, per ora non ha alcuna importanza. Giacché è evidente il concetto stesso che è significato dal nome, non ci si deve affannare a cercarne l'etimologia, a meno che non hai da dire qualche cosa in proposito. D. - Io no, ma passa al resto.

Teoria dei cola e della scansione (4, 5 - 6, 12) Senso e teoria... 4. 5. M. - Segue la trattazione sulla conclusione del verso. I letterati, o meglio la ragionevolezza, hanno voluto che essa fosse distintamente caratterizzata da una qualche differenza. Non è meglio dunque, secondo te, che la fine, in cui lo svolgimento del ritmo si arresta, si distingua senza violare l'eguaglianza dei tempi, anziché confondersi con le altre parti che non chiudono? D. - Non v'è dubbio che è da preferirsi ciò che si distingue di più. M. - Considera dunque se con ragione taluni hanno voluto che lo spondeo fosse la chiusura distintiva del verso epico. Infatti nelle altre cinque sedi è consentito porre esso o il dattilo, ma alla fine soltanto lo spondeo. E il fatto che alcuni lo considerano un trocheo si verifica a causa dell'indifferenza dell'ultima sillaba, sulla quale si è sufficientemente parlato trattando dei metri. Però a voler sentire costoro, il senario giambico non sarà un verso o lo sarà senza questa nota distintiva della fine. Ma l'una e l'altra spiegazione è assurda. Infatti nessuno dei più dotti ed anche di quelli che sono in possesso d'una media e perfino infinita cultura ha mai dubitato che questo sia un verso: Phaselus ille quem videtis hospites 3, o ogni altra composizione poetica col medesimo ritmo. Eppure i letterati più autorevoli perché più dotti hanno ritenuto che un ritmo senza finale riconoscibile non si deve considerare verso. ...e nota distintiva di fine verso. 4. 6. D. - È vero. Suppongo dunque che si deve cercare un'altra nota distintiva della sua chiusura e che non si debba accettare quella posta nello spondeo. M. - E puoi dubitare che, qualunque essa sia, non consista nella differenza o del piede o del tempo o di tutti e due? D. - E come potrebbe altrimenti? M. - Ma infine quale di queste tre ammetti? Il finire il verso affinché non vada oltre il richiesto riguarda soltanto la misura del tempo. Io penso dunque che la nota distintiva deve esser desunta dal tempo. O tu la pensi diversamente? D. - Anzi son d'accordo. M. - Ora il tempo può avere in questo caso la sola differenza che uno sia più lungo ed un altro più breve, perché quando si pone termine al verso, si ottiene che non sia più lungo. Non comprendi dunque che la nota distintiva della fine consista in un tempo più breve? D. - Sì che lo capisco. Ma a che allude la tua precisazione " in questo caso "? M. - A questo: non intendiamo dire che in tutti i casi la differenza di tempo

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consiste nella sola brevità o lunghezza. Tu non puoi affermare che la differenza dell'estate e inverno non appartiene al tempo, ma d'altra parte non la puoi far consistere in una durata più o meno lunga, anziché nella violenza del freddo e caldo, dell'umidità e siccità o altro fenomeno del genere. D. - Ora capisco e ammetto Che questa nota distintiva della chiusura deve esser desunta dalla brevità del tempo. I due cola tendono ad eguagliarsi. 4. 7. M. - Ascolta dunque questo verso: Roma/, Roma/, cerne/ quanta/ sit de/um be/nigni/tas. È detto trocaico. Tu scandiscilo e dimmi che cosa rilevi sui cola e sul numero dei piedi. D. - Sui piedi posso rispondere agevolmente. È chiaro che sono sette piedi e mezzo. L'argomento dei cola invece non è così elementare. Mi accorgo che un comma può esser chiuso in più punti, suppongo però che la divisione si abbia all'ottavo semipiede. Così il primo colon sarebbe: Roma, Roma, cerne quanta, e il secondo: sit deum benignitas. M. - E quanti semipiedi ha? D. - Sette. M. - È proprio la ragione che ti ha guidato. Niente è da preferirsi all'eguaglianza e la si deve ottenere nel dividere. E se non la si può ottenere, se ne deve cercare l'approssimazione per non allontanarsene troppo. Pertanto poiché questo verso ha quindici semipiedi, non può essere diviso in maniera più equa che in otto e sette; infatti la medesima approssimazione si avrebbe in sette o otto. Ma così non si otterrebbe la nota distintiva della fine mediante la maggiore brevità di tempo, mentre la ragione stessa ci induce ad osservarla. Infatti se il verso fosse così: Roma/, cerne/ quanta/ sit // tibi/ deum/ beni/gnitas, si avrebbe all'inizio il colon di sette semipiedi: Roma/, cerne/ quanta/ sit, e alla fine l'altro con questi otto: tibi/ deum/ beni/gnitas. Ma non si avrebbe un semipiede a chiudere il verso, poiché otto semipiedi fanno quattro piedi compiuti. E si avrebbe inoltre l'altra irregolarità, che non si scandirebbero nel secondo comma i piedi scanditi nel primo e che sarebbe chiuso con la nota distintiva del tempo più breve, cioè un semipiede, il primo comma anziché il secondo, cui spetta per diritto di chiusura. Infatti nel primo si scandiscono, tre trochei e mezzo: Roma/, cerne/ quanta/ sit e nel secondo quattro giambi: Tibi/ deum/ beni/gnitas. Nell'altro invece si scandiscono trochei in ambedue i commi e il verso si chiude con un semipiede, in modo che la chiusura mantenga la nota distintiva del tempo più breve. Infatti nel primo ve ne sono quattro: Roma/, Roma/, cerne/ quanta e nel secondo tre e mezzo: sit delum be/nigni/tas. Hai in mente qualche obiezione? D. - No, nessuna, son proprio d'accordo. Quattro norme sui cola. 4. 8. - M. - Teniamo dunque, se vuoi, come inderogabili le seguenti leggi. Una partizione che tenda all'eguaglianza dei due commi non manchi al verso, come manca a questo: Cornua velatarum obvertimus antennarum. Per inverso l'eguaglianza dei commi non renda, per così dire, convertibili le parti, come fa in questo: Cornua velatarum vertimus antennarum. Ancora quando si evita tale inversione, i commi non differiscano troppo fra di loro, ma per quanto è possibile tendano ad eguagliarsi in riferimento ai numeri più vicini in modo da non ritenere che il verso citato può essere diviso in un primo colon di otto semipiedi e cioè: Cornua velatarum vertimus e in un secondo di quattro:

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antennarum. Infine il secondo colon non abbia semipiedi in numero pari, come è: Tibi deum benignitas, perché il verso, chiuso con un piede completo, non avrebbe la fine caratterizzata da un tempo più breve. D. - Capisco queste leggi e per quanto ne son capace le affido alla memoria. Esempio di scansione e cola nell'esametro. 5. 9. M. - Poiché dunque sappiamo che il verso non deve esser chiuso con un piede completo, come pensi che si debba scandire il verso epico, in modo che siano rispettate la legge dei due cola e la nota distintiva della fine? D. - Vedo dunque che sono dodici semipiedi. Ora per evitare la inversione i cola non possono avere sei semipiedi, inoltre non devono tra di loro differire troppo, come tre a nove o nove a tre, infine non si deve dare all'ultimo colon semipiedi in numero pari, come otto e quattro e quattro e otto, perché il verso non finisca con un piede completo. Quindi la divisione va fatta in cinque e sette o sette e cinque. Sono infatti i numeri dispari più vicini e certamente i commi si avvicinano di più di quanto si avvicinerebbero con quattro e otto. Per considerare la norma inderogabile, ritengo che un emistichio, sempre o quasi sempre, è compiuto al quinto semipiede, come nel primo verso di Virgilio: Arma virumque cano, nel secondo: Italiam fato, nel terzo: Littora multum ille et, nel quarto: Vi superum saevae, e così di seguito in quasi tutto il poema. M. - È vero. Ma devi esaminare quali piedi scandisci per non violare alcuna parte delle leggi che abbiamo già stabilito come inderogabili. D. - Sebbene l'argomento mi sia chiaro, tuttavia sono in imbarazzo per la novità. Infatti siamo soliti scandire in questo verso soltanto lo spondeo e il dattilo e non vi è quasi nessuno, per quanto ignorante, che non l'abbia sentito dire, sebbene non lo sappia fare. Ora se voglio seguire questa diffusissima consuetudine, si deve abrogare la legge della chiusura perché il primo colon si chiuderebbe con un semipiede e il secondo con un piede compiuto, mentre deve essere il contrario. Ma è troppo irregolare abolire la legge della chiusura e d'altronde ho appreso che nei ritmi può accadere di cominciare da un piede incompiuto, Resta dunque da considerare che in questo verso con lo spondeo non si pone il dattilo ma l'anapesto. Così il verso comincerà da una sillaba lunga, e poi due piedi, spondei o anapesti, oppure alternati, rendono compiuto il primo colori; poi altri tre piedi anapesti o lo spondeo in qualsiasi posto o anche in tutti e in fine una sillaba, con cui il verso si termina regolarmente, completano il secondo colon. Accetti questa scansione?. La scansione nella tradizione e nella teoria. 5. 10. M. - Io la ritengo la più regolare, ma non è facile convincerne la massa. E così grande è la forza della consuetudine che, se inveterata e proveniente da una falsa opinione, è la peggiore nemica della verità. Comprendi infatti che per comporre un verso poco importa se si pone con lo spondeo l'anapesto oppure il dattilo. Ma per scandirlo razionalmente, che non è compito dell'udito ma della mente, si deve ricorrere a vera e innegabile argomentazione e non a una opinione priva di fondamento. E questa scansione non è stata ideata per la prima volta da me, ma è stata scoperta molto prima di questa antica consuetudine. Pertanto coloro che leggessero gli autori, i quali nella lingua greca e latina furono eruditissimi in questa disciplina, non si meraviglieranno troppo se eventualmente s'imbatteranno in questa notizia. C'è da vergognarsi tuttavia della nostra pochezza nel ricorrere all'autorità degli uomini per convalidare la ragione giacché niente dovrebbe esser più eccellente

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dell'autorità della pura ragione che è superiore a ogni individuo. Infatti in materia non esaminiamo soltanto l'autorità degli antichi, come si deve fare nel considerare breve o lunga una sillaba. In tal caso noi dobbiamo usare nella medesima forma con la quale le hanno usate loro le parole, con cui anche noi ci esprimiamo, poiché in materia è proprio della trascuratezza non seguire alcuna regola ed è proprio dell'arbitrio introdurne una nuova. Così nello scandire un verso si deve prendere in considerazione l'antica istituzione umana e non la legge eterna delle cose. Infatti prima spontaneamente con l'udito si percepisce la proporzionata durata del verso e poi essa si convalida con la razionale riflessione dei numeri. Così pure si ritenga che il verso è da chiudersi con una fine caratteristica se si ritiene che deve esser chiuso in forma più determinata degli altri metri. Ed è chiaro anche che la chiusura si deve distinguere dal tempo più breve, giacché limita e contiene in certo senso la durata del tempo. Commi e scansione nel senario giambico, trocaico... 6. 11. Stando così le cose, come avviene che il secondo colon del verso termina con un piede incompiuto? Bisogna appunto che il principio del primo colon sia o un piede intero, come nel trocaico: Roma, Roma, cerne quanta sit deum benignitas, oppure una parte di piede, come nell'epico: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris. Pertanto eliminando ogni esitazione, scandisci, se vuoi, anche il verso seguente e indicamene i cola e i piedi: Phaselus ille quem videtis, hospites. D. - Scorgo che i suoi cola sono composti di cinque e sette semipiedi. Il primo è Phaselus ille, il secondo quem videtis, hospites, e scorgo che i suoi piedi son giambi. M. - Scusa, ma non badi a non chiudere il verso con un piede compiuto? D. - Hai ragione, non so dove ero col pensiero. Chi infatti non vedrebbe che si deve cominciare da un semipiede come nell'epico? E quando s'usa tale criterio per questo genere, non si scandisce più a giambi ma a trochei in modo che lo chiuda regolarmente un semipiede. ...e nell'asclepiadeo minore. 6. 12. M. - È come tu dici. Ma cosa pensi di dover rispondere su questo verso che chiamano asclepiadeo: Maece/ nas atavis// edite re/gibus 4? In esso un emistichio si chiude alla sesta sillaba e non eventualmente, poiché ciò accade in quasi tutti i versi di questa forma. Dunque il primo colon è Maecenas atavis e il secondo edite regibus. Ma possono insorgere dubbi sul motivo per cui ciò avviene. Se infatti scandisci in esso piedi di quattro tempi ciascuno, si avranno cinque semipiedi nel primo colon e quattro nel secondo, ma la regola vieta che il secondo colon sia formato di semipiedi in numero pari affinché il verso non termini con un piede compiuto. Resta che vi si considerino piedi di sei tempi ciascuno. Ne consegue che ambedue i colon siano formati di tre semipiedi ciascuno. Infatti affinché il primo colon si chiuda con un piede compiuto, si deve cominciare con due lunghe, quindi un coriambo compiuto entra a comporre il verso, in modo che il secondo colon cominci con un altro coriambo e un semipiede di due sillabe brevi chiude il verso. Questi due tempi con lo spondeo collocato in principio rendono compiuto un piede di sei tempi. Hai qualche cosa da dire in proposito? D. - Proprio nulla. M. - Ti va dunque che i due cola siano formati di semipiedi in egual numero.

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D. - E perché no? Infatti in questo caso non si deve temere la inversione, poiché se si mette il secondo colon a posto del primo, in maniera che il primo divenga secondo, non si avrà l'eguale disposizione di piedi. Perciò non v'è motivo di negare in questo caso ai cola un egual numero di semipiedi. Tale eguaglianza infatti può rimanere senza pericolo di inversione e con adempienza anche della chiusura più segnalata giacché il verso finisce con piede incompiuto. Ed è regola da osservarsi sempre.

Eguaglianza dei cola nei vari schemi (7, 13 - 9, 19) Singolare eguaglianza dell'uno. 7. 13. M. - Hai proprio colto nel segno. La ragione allora ha dimostrato che si danno due forme di versi, uno in cui il numero dei semipiedi nei cola è eguale e un altro in cui è diverso. Dunque esaminiamo accuratamente, se vuoi, in che modo questa non proporzione dei semipiedi si riconduce ad una certa proporzione in base a una proprietà numerica un tantino oscura ma profonda. Ti chiedo quindi quanti numeri indico, quando dico due e tre. D. - Due, naturalmente. M. - Dunque anche il due è uno come numero e il tre e qualsiasi altro si possa dire. D. - Sì. M. - Non ti sembra perciò che il numero uno si può non irrazionalmente rapportare a qualsiasi altro numero? Sebbene infatti non si potrebbe dire che uno è due, tuttavia in certo senso, senza errore, si può dire che due è un uno e così tre e quattro. D. - D'accordo. M. - E ancora, dimmi quanto fa due per tre? D. - Sei. M. - E sei più tre fanno altrettanto? D. - Assolutamente no. M. - Ora moltiplica tre per quattro e dimmi il prodotto. D. - Dodici. M. - Vedi che ugualmente dodici è superiore a quattro. D. - E di molto. M. - Per non farla lunga, si deve fissare la seguente regola. Dal due in poi, prendendo due numeri qualsiasi, il minore moltiplicato per il maggiore necessariamente lo sorpassa. D. - Che dubbio? Il due è il più piccolo numero plurale, ma se lo moltiplico per mille, sorpassa il mille del doppio. M. - È vero. Ma prendi l'uno e qualsiasi altro numero superiore e poi moltiplica, come è stato fatto per gli altri numeri, il minore per il maggiore. Forse che il prodotto sarà egualmente superiore al numero maggiore? D. - Certamente no. Il minore ci sarà tante volte quante il maggiore. Infatti uno per due è due, uno per dieci è dieci, uno per mille è mille, e per qualsiasi altro numero lo moltiplicherò, l'uno ci sarà necessariamente tante volte tanto. M. - Dunque il numero uno ha una certa proprietà d'eguaglianza con tutti gli altri numeri e non solo perché è un numero come un altro, ma anche perché dà un prodotto eguale alle volte per cui è moltiplicato. D. - È chiarissimo. Versi con commi riducibili o no all'eguaglianza. 7. 14. M. - Ed ora volgi l'attenzione ai numeri dei semipiedi con cui sono

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formati nel verso cola ineguali e troverai, in base alla legge che abbiamo discusso, una mirabile eguaglianza. Infatti, secondo me, il verso più corto con numero ineguale di semipiedi è in due cola ed ha quattro e tre semipiedi, come in questo: Hospes ille// quem vides. Il suo primo colon, che è Hospes ille, può esser diviso con eguaglianza in due parti di due semipiedi ciascuno. Il secondo invece, che è quem vides, si divide in modo che la prima parte abbia due semipiedi e l'altra uno, ma è come se fossero due e due in base a quella proprietà di eguaglianza che l'uno ha con tutti gli altri numeri. Ne abbiamo già trattato sufficientemente. Ne deriva che con questa divisione il primo colon in certo senso è eguale al secondo. Perciò il verso, in cui sono quattro e cinque semipiedi, come in: Roma, Roma//, cerne quanta sit, non è così regolare. Sarà quindi un metro piuttosto che un verso, poiché i cola hanno una ineguaglianza tale che con nessuna divisione possono essere ricondotti ad un rapporto di eguaglianza. Vedi bene, come penso, che i quattro semipiedi del primo colon: Roma, Roma, si possono dividere in due e due, ma i cinque seguenti: cerne quanta sit, si dividono in due e tre semipiedi. Ed in essi l'eguaglianza non si manifesta assolutamente. Cinque semipiedi appunto, a causa del due e tre, non possono assolutamente equivalere a quattro. Invece abbiamo visto dianzi nel verso più corto che tre semipiedi, con l'uno e il due, equivalgono a quattro. Vi è qualche concetto che non hai compreso o non approvi? D. - Anzi tutti i concetti sono chiari e da me accettati. Applicazione facile alla tetrapodia giambica... 7. 15. M. - Ed ora consideriamo un verso di cinque e tre semipiedi, qual è questo abbreviato: Phaselus ille// quem vides ed esaminiamo in che senso questa ineguaglianza è retta da una certa proprietà d'eguaglianza. Infatti tutti son d'accordo nel riconoscere che questa forma è non solo un metro ma anche un verso. Si divide dunque il primo colon in due e tre semipiedi e il secondo in due e uno. Si riuniscono le suddivisioni che risultano eguali nell'uno e nell'altro, giacché nel primo colon si ha un due e un due nel secondo. Restano due suddivisioni, una di tre semipiedi nel primo e un'altra di uno nel secondo. Li congiungiamo in quanto facilmente unibili poiché l'uno ha rapporto con tutti i numeri. Nella somma uno più tre fanno quattro, che è tante volte quante il due più due. In base a questa divisione dunque cinque e tre semipiedi sono ricondotti alla proporzione. Ma dimmi se hai compreso. D. - Sì, e sono perfettamente d'accordo. ...difficile al senario giambico ed esametro... 8. 16. M. - Ed ora dobbiamo parlare dei versi di cinque e sette semipiedi, come sono i due molto noti, che sono l'epico e quello che chiamano comunemente giambico, anche esso senario. Infatti Arma virumque cano//, Troiae qui primus ab oris si divide in modo che il primo colon Arma virumque cano abbia cinque semipiedi, e il secondo Troiae qui primus ab oris sette. Anche Phaselus ille// quem videtis, hospites ha un primo colon Phaselus ille di cinque semipiedi ed un altro di sette: quem videtis, hospites. Ma tanta elevatezza si trova in imbarazzo nell'applicazione della legge dell'eguaglianza. Infatti quando saranno divisi i primi cinque semipiedi in due e tre e gli altri sette in tre e quattro, le due suddivisioni di tre semipiedi si corrisponderanno, ma a condizione che anche le altre due si corrispondano in modo tale che una sia di un semipiede e l'altra di cinque. E si potrebbe congiungere in base alla legge per cui l'uno può unirsi ad ogni altro numero e farebbero anche nella somma sei che equivale a

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tre più tre. Ma nel nostro caso si hanno due e quattro che, sebbene diano la somma di sei, tuttavia per nessuna proprietà di eguaglianza due e quattro si corrispondono così da congiungersi, per così dire, con un vincolo tanto stretto. Ma qualcuno potrebbe dire che è sufficiente per una certa regola di proporzione che, come tre più tre fanno sei, così anche due più quattro. Non credo di dover ribattere l'argomentazione perché una certa eguaglianza c'è. Ma non vorrei affermare che cinque e tre semipiedi siano in rapporto di maggiore corrispondenza che cinque e sette. La notorietà della tetrapodia giambica non è tanto grande come quella di questi due. Eppure tu puoi constatare che in essa, addizionando uno e tre non solo si è trovata la somma eguale a due più due, ma anche che addizionando uno a tre, a causa del raccordo dell'uno con tutti gli altri numeri, le parti si corrispondono di più che nell'unione di due più quattro, come in questi. Ti rimane oscuro qualche concetto? D. - No, certamente. Ma, non so come, mi dà fastidio che questi senari, pur essendo più usati delle altre forme e pur affermandosi che hanno una certa prevalenza sugli altri, abbiano nel raccordo dei cola una minore efficienza dei versi di più oscura fama. M. - Sta' di buon animo. Io ti svelerò in essi quel raccordo che soli fra tutti hanno meritato di possedere perché tu capisca che non ingiustamente sono stati preferiti. Ma la discussione, sebbene più gradita, è anche più lunga e si deve rimandare alla fine. Così, quando avremo discusso degli altri fino a che ci sembrerà sufficiente, ormai liberi da ogni preoccupazione, torneremo ad esaminare attentamente la loro struttura interna. D. - A me va bene, ma vorrei che fossero sviluppati i concetti che abbiamo intrapreso a trattare. Ascolterò l'altro argomento con maggiore distensione. M. - A paragone dei concetti già trattati, divengono più graditi quelli che attendi. ...difficile anche per il senario ipercatalettico... 9. 17. Ora esamina se in due cola, l'uno che presenta sei semi-piedi e l'altro sette, si trovi un'eguaglianza tale che si abbia regolarmente un verso. Tu capisci che di seguito al verso di cinque e sette semipiedi si deve esaminare questo. Eccone un esempio: Roma, cerne quanta // sit deum benignitas 5. D. - Osservo che il primo comma può essere diviso in parti che hanno tre semipiedi ciascuna e il secondo in tre e quattro. Congiungendo le suddivisioni eguali si hanno sei semipiedi, ma tre più quattro fanno sette e non si raccordano al numero sei. Ma si considerino due e due nella parte in cui se ne hanno quattro e due e uno dove se ne hanno tre. Addizionando le parti che ne hanno due ciascuna, si ha la somma di quattro. Addizionando però quelle di due semi-piedi in una e di uno nell'altra, se si considerano quattro in base al rapporto dell'uno con gli altri numeri, fanno otto e, sorpassano la somma di sei più che se fossero sette. ...facile per il tetrametro catalettico... 9. 18. M. - Sì, hai ragione. Escluso dunque questo tipo di congiungimento della legge dei versi, considera ora, come esige la successione dei numeri, quei cola, di cui il primo ha otto semipiedi e il secondo sette. Questo congiungimento presenta ciò che cerchiamo. Congiungendo la metà del primo comma con la parte più grande del secondo, che è vicina alla metà, poiché sono quattro semipiedi ciascuna, ho la somma di otto. Restano dunque quattro semipiedi del primo e tre del secondo colon. Unendone due da una parte e due dall'altra,

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fanno quattro. Restano due da una parte e uno dall'altra che, uniti, secondo la legge di quella corrispondenza per cui l'uno è eguale agli altri numeri, sono considerati in certo senso quattro. Si ha dunque un otto che equivale al primo otto. D. - Ma perché non ne posso ascoltare un esempio? M. - Ma perché l'abbiamo enunciato tante volte. Comunque perché tu non abbia a pensare che sia stato omesso proprio dove occorreva, è sempre quello: Roma, Roma, cerne quanta // sit deum benignitas, oppure: Optimus beatus ille // qui procul negotio. ...e per quello non catalettico. 9. 19. Osserva ora il congiungimento di nove e sette semipiedi. Ne è esempio: Vir Optimus beatus ille // qui procul negotio. D. - È elementare individuare in esso la corrispondenza. Il primo colon si divide in quattro e cinque semipiedi e il secondo in tre e quattro. La parte minore del primo unita alla maggiore del secondo fa otto e la maggiore del primo con la minore del secondo fa ugualmente otto. Il primo congiungimento è appunto di quattro e quattro semipiedi e il secondo di cinque e tre. Inoltre se si dividono ulteriormente i cinque semipiedi in due e tre e i tre in due e uno, appare un'altra corrispondenza di due con due e di uno con tre, poiché l'uno si rapporta con tutti i numeri secondo la legge già ricordata. E se il calcolo non mi sfugge, non resta da cercare altro nel congiungimento dei cola. Si è giunti appunto agli otto piedi e sappiamo bene che non è lecito far superare al verso questo numero. Ed ora svelami la vera struttura dei senari epico, giambico e trocaico. A questo obiettivo tu hai stimolato e trattenuto ad un tempo il mio interesse.

Perfezione del senario giambico ed epico (10, 20 - 13, 28) I piedi migliori per il verso... 10. 20. M. - Lo farò, o meglio lo farà lo stesso pensiero che è comune a me e a te. Ma ricordi, scusa, il giorno in cui abbiamo trattato dei metri? Abbiamo detto e con l'udito abbiamo verificato che i piedi, le cui parti sono in rapporto di sesquati, o di due a tre come il cretico e i peoni, o di tre a quattro, come gli epitriti, esclusi dai poeti per la loro inferiore ritmicità, abbelliscono più convenientemente, se usati nelle clausole, l'austerità della prosa. D. - Me ne ricordo. Ma a che cosa hanno attinenza le tue parole? M. - Perché dobbiamo comprendere per prima cosa che, esclusi tali piedi dalla trattazione poetica, non restano che i piedi, le cui parti si rapportano secondo parità, come lo spondeo, oppure del due a uno, come il giambo, oppure secondo l'uno e l'altro, come il coriambo. D. - Sì. M. - Ma se essi sono il dato sensibile della poesia e se la prosa esclude i versi, ogni verso deve essere composto di questi piedi. D. - Son d'accordo. Capisco che la composizione poetica diviene più alta con questi versi che con quelli usati dai poeti lirici; ma non so a che mira questo ragionamento. ...son quelli di genere eguale o doppio... 10. 21. M. - Non essere impaziente. Stiamo già parlando della superiorità degli esametri. Voglio prima di tutto mostrarti se ne sono capace, che gli esametri più qualificati possono essere soltanto delle due figure seguenti, che sono anche le più note. Una è il verso epico, come: Arma virumque cano, Troiae qui

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primus ab oris, che l'opinione corrente scandisce con spondei e dattili e una più sottile teoria con spondei e anapesti. L'altro è detto senario giambico, ma in base alla medesima teoria si scopre che è trocaico. Ora ti rimane evidente, come credo, che se non si alternano sillabe brevi alle lunghe, la successione dei tempi diviene in certo senso troppo lenta e se al contrario non si alternano sillabe lunghe alle brevi, la successione diviene troppo rapida e quasi vibrata. Nessuna delle due è dunque proporzionata, anche se entrambe soddisfano l'udito con l'eguaglianza dei tempi. Per questo i versi che hanno sei pirrichi o sei proceleusmatici non possono aspirare alla dignità dell'esametro epico né quelli che hanno sei tribraci alla dignità del senario trocaico. Inoltre se in questi versi che la ragione stessa reputa più perfetti si cambia la disposizione dei cola, tutto il verso sarà sconvolto al punto che si dovranno scandire piedi diversi. Sono dunque più invertibili, per così dire, di quelli che son formati o di tutte brevi o di tutte lunghe. Perciò non ha rilevanza se in questi schemi più omogenei si dispongono i cola con cinque e sette semipiedi oppure con sette e cinque. Con nessuna delle due il verso varia con un mutamento tale che sembri svolgersi con altri piedi. Negli altri invece se la composizione poetica cominciasse con versi, in cui il comma all'inizio ha cinque semipiedi, non bisognerebbe mischiarvi versi che hanno sette semipiedi all'inizio. Altrimenti sarebbe possibile invertire tutti i cola perché non si darebbe diversificazione di piedi che liberi dall'invertimento. Tuttavia è concesso agli epici, molto raramente, di allineare tutti spondei. Ma questa nostra ultima epoca non ha approvato il fatto. Sebbene nei senari giambici ossia trocaici sia consentito porre in qualsiasi sede il tribraco, tuttavia è stato considerato molto brutto che in queste composizioni poetiche il verso sia scomposto in tutte brevi. ...ed hanno parità di brevi e lunghe. 10. 22. Sono esclusi dunque dalla composizione in esametri gli epitriti, non solamente perché sono più adatti alla prosa, ma anche perché se sono sei, come pure i dispondei, superano i trentadue tempi. Sono esclusi anche i piedi di cinque tempi perché la prosa li impiega soprattutto come clausole. Sono esclusi inoltre dal computo di tempi, di cui stiamo parlando, i molossi e gli altri piedi di sei tempi, sebbene conferiscano alle composizioni poetiche grande bellezza. Restano i versi di tutte sillabe brevi, cioè quelli che hanno pirrichi, proceleusmatici e tribraci, o di tutte lunghe, cioè quelli che hanno spondei. E sebbene essi rientrino nella dimensione dell'esametro, devono cedere tuttavia alla dignità e proporzione di quelli che sono variati con brevi e lunghe e che perciò hanno minore possibilità di subire invertimento. L'uso ha consacrato questi schemi. 11. 23. Ma ci si può chiedere perché sono stati giudicati più perfetti i senari, in alcuni dei quali una sottile teoria scandisce anapesti, e in altri scandisce trochei, anziché nel primo caso dattili e nel secondo giambi. Non si può anticipare la soluzione del problema perché si tratta di numeri. Ma se il verso fosse: Troiae qui primus ab oris arma virumque cano, e per il giambico: Qui procul malo pius beatus ille, sarebbero ugualmente tutti e due senari, ugualmente equilibrati nella proporzione di sillabe brevi e lunghe, egualmente invertibili, e nell'uno e nell'altro i cola sono egualmente disposti in modo che l'emistichio si chiuda al quinto e settimo semipiede. Perché dunque son considerati migliori se sono così: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, e: Beatus ille qui procul pius malo? In proposito io sarei propenso a dire

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che per una eventualità essi sono stati ravvisati e usati per primi. Ma non è stata una eventualità, credo, che si sia preferito finire il verso epico con due lunghe piuttosto che con due brevi e una lunga poiché l'udito rimane più soddisfatto delle lunghe, e che il trocaico avesse nel semipiede, finale una sillaba lunga anziché una breve. Il fatto sta che gli schemi scelti per primi dovevano necessariamente escludere gli altri che potevano essere composti dei medesimi cola, ma scambiati di posto. Se si è dunque giudicato migliore l'esametro con questo schema: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, invertendolo si sarebbe avuto un altro schema a danno dell'estetica, come: Troiae qui primus ab oris, arma virumque cano. Altrettanto si deve intendere per lo schema trocaico. Infatti se è più bello: Beatus ille qui procul negotio 6, non è opportuno ottenere lo schema che si ha invertendolo così: Qui procul negotio beatus ille. Tuttavia se qualcuno ne avesse il coraggio e componesse versi simili, è ovvio che compone sempre esametri, ma con schemi diversi. Gli altri però sono più perfetti. Gli esametri e la licenza poetica. 11. 24. Dunque i due senari, i più belli di tutti, non hanno potuto conservare la loro purezza contro l'arbitrio degli uomini. Nello schema trocaico, e non solo senario, ma dalla quantità minore di piedi fino alla lunghezza maggiore che ha otto piedi, i poeti hanno ritenuto di poter mescolare tutti i piedi di quattro tempi che si usano nella poesia. I greci poi li pongono alternativamente al primo e terzo posto e così di seguito, se il verso comincia con un semipiede, se invece comincia con un trocheo completo, i piedi più lunghi sono posti al secondo e quarto posto e così di seguito rispettando la quantità dei piedi. Per rendere tollerabile la contaminazione, non hanno diviso con la percussione ciascun piede in due parti, di cui una in arsi e una in tesi, ma dando un piede intero all'arsi e un altro alla tesi e considerando quindi l'esametro come un trimetro, hanno ricondotto la percussione alla divisione degli epitriti. Ora quantunque gli epitriti siano propri più della prosa che della poesia e quantunque non si abbia più un esametro ma un trimetro, se almeno questo schema si osservasse regolarmente, non sarebbe completamente turbata la già trattata eguaglianza dei ritmi. Ma ora, purché i piedi di quattro tempi siano posti nelle sedi indicate, è ammesso porli in tutte quelle sedi ma anche dovunque e tutte le volte che si vuole. I nostri antichi poeti poi, nell'interporre piedi di tal genere, non hanno potuto conservare nemmeno la quantità richiesta. Perciò nello schema trocaico i poeti, con questa contaminazione arbitraria, hanno ottenuto ciò che si deve supporre volessero ottenere, e cioè che le composizioni drammatiche fossero il più possibile vicine alla prosa. Ma si è detto abbastanza sul motivo per cui i versi trocaici e dattilici sono stati preferiti fra i senari. Vediamo ora perché gli esametri sono stati ritenuti versi più perfetti di altri versi con un altro qualsiasi numero di piedi. A meno che tu non abbia qualche difficoltà in proposito. D. - No, sono d'accordo. Ma attendo con impazienza di conoscere, se adesso almeno è possibile, quella eguaglianza di commi, alla quale dianzi mi hai profondamente interessato. Arsi e tesi vere dimensioni del senario. 12. 25. M. - Sii attento dunque e dimmi se, secondo te, è possibile dividere la lunghezza in parti all'infinito. D. - I concetti mi sono evidenti. Ritengo sia impossibile dubitare che la

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lunghezza, cioè la linea, ha una sua metà e può dunque esser divisa con una trasversale in due linee. E poiché le due linee ottenute dalla divisione sono senza dubbio linee, è chiaro che anche di esse si può fare altrettanto. Perciò, per quanto piccola, ogni lunghezza può esser divisa in altre parti all'infinito. M. - Hai risposto prontamente e bene. Ed ora dimmi se è esatta l'affermazione che la linea da tracciarsi per ottenere la superficie, che da essa ha origine, genera una superficie corrispondente al proprio quadrato. Se infatti si traccia in superficie meno o più di quanto è lunga la linea con cui si traccia, non si ha il quadrato, se tanto quanto la linea, non si ha altro che il quadrato. D. - Capisco e ne ho certezza; che cosa infatti di più vero? M. - Capisci, penso, che cosa se ne conclude. Se invece di una linea si pongono delle pietruzze eguali disposte in lungo, questa lunghezza non giunge al quadrato se le pietruzze non sono moltiplicate per lo stesso numero. Se, ad esempio, si allineano due pietruzze, non si avrà il quadrato se non aggiungendone altre due in larghezza, se tre, bisogna aggiungerne sei, ma tre e tre distribuite nelle due dimensioni in senso di larghezza, giacché se sono disposte in lunghezza, non si ottiene alcuna figura. Infatti la lunghezza senza larghezza non è figura. E così proporzionalmente si possono considerare gli altri numeri. Infatti come due, per due e tre per tre sono quadrati nei numeri, così quattro per quattro, cinque per cinque, sei per sei e così all'infinito negli altri numeri. D. - Anche questi concetti sono veri ed evidenti. M. - Ed ora rifletti se esiste la lunghezza di tempo. D. - Non v'è dubbio; non si ha tempo senza lunghezza. M. - E il verso può non occupare una certa lunghezza di tempo? D. - Anzi è necessario che l'abbia. M. - E che cosa invece delle pietruzze poniamo più convenientemente in questa lunghezza? I piedi che sono divisi necessariamente in due parti, una in arsi e una in tesi, o piuttosto gli stessi semipiedi che sono uno in arsi e uno in tesi? D. - Penso che più convenientemente invece delle pietruzze si pongono i semipiedi. Perfetta eguaglianza fra i commi dei senari. 12. 26. M. - Ed ora ricorda quanti semipiedi ha il comma più breve del verso epico. D. - Cinque. M. - Fa' un esempio. D. - Arma virumque cano. M. - E desideri altro se non conoscere come gli altri sette semipiedi siano in rapporto di eguaglianza con questi cinque? D. - No, niente altro. M. - E i sette semipiedi possono formare da soli un verso completo? D. - Sì. Il primo e più breve verso ha proprio questo numero di semipiedi, con l'aggiunta al ritmo della pausa in fine. M. - Dici bene, ma perché possa essere verso, come si divide in due cola? D. - In quattro e tre semipiedi, naturalmente. M. - Moltiplica dunque ciascuna di queste due parti secondo il quadrato e dì quanto fa quattro per quattro. D. - Sedici. M. - E tre per tre?

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D. - Nove. M. - Ed insieme? D. - Venticinque. M. - Dunque sette semipiedi possono contenere due cola. Se ciascuno dei due cola si riporta alla legge del quadrato, danno assommati il numero venticinque. Ed è una parte del verso epico. D. - Sì. M. - Ora il primo emistichio che ha cinque semipiedi non può essere diviso in due cola e deve corrispondere con una determinata eguaglianza all'altro. Non deve dunque essere moltiplicato tutto intero secondo il quadrato? D. - Non la penso diversamente e scopro finalmente la singolare eguaglianza. Infatti cinque per cinque fanno ugualmente venticinque. E per questo non immeritatamente gli esametri sono divenuti più noti e perfetti. A mala pena può esprimersi la differenza che esiste fra la loro eguaglianza, sebbene con commi ineguali, e quella di tutti gli altri versi. Diverse eguaglianze nel verso. 13. 27. M. - La mia promessa non ti ha deluso, o meglio non ci ha deluso la teoria che entrambi seguiamo. Ed ora, tanto per chiudere una buona volta questo discorso, puoi notare che si danno metri, per così dire innumerevoli. Tuttavia non si dà verso senza due cola rapportati fra di loro o con un numero eguale di semipiedi compiuti ma non invertibili, come in: Maecenas atavis// edite regibus, oppure con un numero ineguale di semipiedi, ma congiunti con una determinata eguaglianza, come quattro e tre, cinque e tre, cinque e sette, sei e sette, otto e sette, sette e nove. Il verso trocaico può appunto cominciare con un piede compiuto, come in: Optimus beatus ille qui procul negotio, oppure con un piede incompiuto, come in: Vir optimus beatus ille qui procul negotio, ma non può terminare che con un piede incompiuto. Ma tutti i piedi incompiuti, sia che abbiano un semipiede intero, come nell'ultimo che ho citato, o meno di un semipiede, come le due brevi finali del verso coriambico: Maecenas atavis edite regibus, o più di un semipiede, come al principio del medesimo verso le due lunghe o il bacchio alla fine di un differente verso coriambico, come: Te domus Evandri, te sedes celsa Latini 7, tutti questi piedi incompiuti dunque si considerano semipiedi. Sistemi strofici o periodici. 13. 28. Inoltre non si fanno composizioni poetiche soltanto con versi, in cui si mantiene il medesimo schema, come quelle dei poeti epici e anche comici, ma i poeti lirici costruiscono anche sistemi strofici, che i greci chiamano , non soltanto con metri che sfuggono alle regole del verso, ma anche con versi. Ad esempio questo di Orazio: Nox erat, et caelo fulgebat luna sereno Inter minora sidera 8 è un sistema di due cola ed è formato di versi. Ma questi due versi non potrebbero essere uniti nel sistema, se l'uno e l'altro non si rapportassero a piedi di sei tempi. Infatti lo schema del verso epico non si rapporta con quello del giambico e del trocaico, poiché i piedi del primo si dividono in parti eguali e quelli degli altri nel rapporto di due a uno. I sistemi strofici si compongono dunque o unicamente di metri, senza versi, come quelli, di cui abbiamo parlato precedentemente quando abbiamo trattato dei metri o unicamente di versi, come quelli di cui si sta parlando o in modo da essere contemperati di versi e metri, come questo:

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Diffugere nives, redeunt iam gramina campis, Arboribusque comae 9. Ha poca importanza all'estetica uditiva l'ordine con cui sono disposti i versi con gli altri metri e i cola più lunghi con i più corti, purché il sistema strofico non abbia meno di due cola e non più di quattro. Ma se non hai obiezioni, si ponga fine a questa discussione. Come continuazione dell'argomento attinente a questa parte della musica che consiste nei ritmi dei tempi, da queste sue orme sensibili dobbiamo giungere, con la capacità di cui disponiamo, alla sua dimora segreta, in cui essa è spoglia del dato sensibile. 1 - VIRGILIO, Aen. 3, 549. 2 - VIRGILIO, Aen. 1, 1-7. 3 - CATULLO, Carm. 4, 1. 4 - ORAZIO, Odi 1, 1, 1. 5 - MARIO VITTORINO, Ars gramm., in G.L. 52, 34. 6 - ORAZIO, Epod. 2, 1. 7 - ENNIO, Ann. fr. inc. sedis. 8 - ORAZIO, Epod. 15, 1-2. 9 - ORAZIO, Odi 4, 7, 1-2.

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LIBRO SESTO RITMOLOGIA Premessa a quattro categorie di lettori. 1. 1. M. - Troppo a lungo e direi proprio in uno studio da fanciulli, per cinque libri, abbiamo fatto pausa sulle orme di ritmi appartenenti alle pause dei tempi. Ma forse l'utilità dell'opera renderà scusabile presso gli uomini cortesi la nostra frivolezza. Abbiamo appunto pensato di intraprenderla perché adolescenti o anche individui di ogni età, che Dio ha dotato di intelligenza, con la guida della ragione siano distolti, non tutto a un tratto ma a gradi, dalle opere letterarie consegnate al mezzo sensibile, per le quali è loro difficile non provare attaccamento. Così potranno nell'amore della verità che non diviene sentire attaccamento al solo Dio e Signore di tutte le cose che regge la mente umana senza la mediazione di alcun essere diveniente. Chi leggerà dunque i libri precedenti riscontrerà che ci siamo intrattenuti con lo spirito di grammatici e poeti, non con l'intenzione di rimanere assieme a loro, ma per necessità di rinnovarne la conoscenza. Ma il lettore giunto a questo libro, se come spero e prego umilmente, Dio Signore nostro guiderà il proposito della mia volontà e la farà giungere alla meta voluta, capirà che può essere di poco valore la via che conduce a una conquista di grande valore. Ed ora abbiamo preferito incamminarci su di essa con individui più deboli, noi non del tutto forti, anziché precipitare, forniti di ali troppo fragili, per cieli più liberi. Così penso che egli, se appartiene al numero degli uomini spirituali, giudicherà che abbiamo peccato poco o nulla. La schiera poi di coloro che fanno un gran chiasso sulle disquisizioni linguistiche e che si rallegrano per volgare leggerezza allo strepito di coloro che li applaudono, se per caso si imbatterà in questi scritti, o li disprezzerà tutti interi o riterrà che i primi cinque libri son sufficienti per loro e getterà via come inutile quest'ultimo che contiene il frutto degli altri, oppure come superfluo lo rimanderà a più tardi. Ci sono altri che non sono stati istruiti a comprendere questi concetti, ma essendo educati ai misteri della purificazione cristiana e tendendo verso Dio uno e vero col più grande amore, hanno oltrepassato a volo tutte le nozioni per fanciulli. E affinché non ridiscendano verso queste conoscenze e trovandovi difficoltà non si lamentino della propria incapacità, io fraternamente avviso costoro che, pur non conoscendo vie difficili e faticose ai loro piedi, possono oltrepassarle volando anche se le ignorano. Vi potrebbero essere anche dei lettori che, avendo il passo malfermo e privo di allenamento, non possono camminare per questa via e non hanno le ali della pietà per oltrepassare queste nozioni trascurandole. Costoro non s'impiccino in una faccenda che non è adatta per loro, ma con gli insegnamenti di una religione salutare e nel nido della fede cristiana rafforzino le ali, da cui sollevati possano evitare la fatica polverosa di questo cammino, ardendo di amore per la patria stessa che per queste vie tortuose. Questi libri infatti sono stati scritti per coloro che, dediti alle lettere profane, incorrono in gravi errori e consumano il loro buon ingegno con delle inezie, senza sapere che cosa li diletta in esse. Che se se ne accorgessero, vedrebbero per quale via fuggire le trappole e qual è il luogo della sicurezza che dà felicità.

I ritmi sensibili e il corpo (2, 2 - 4, 7) Il ritmo sensibile nel suono... 2. 2. Pertanto, amico mio, col quale ora sto ragionando per passare dalle cose materiali a quelle spirituali, rispondimi, se vuoi. Quando noi pronunciamo

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questo verso: Deus creator omnium 1, dove pensi che siano i quattro giambi, di cui è formato, e i dodici tempi, cioè soltanto nel suono che si ascolta, o anche nell'udito di chi lo ascolta e anche nell'azione di chi lo pronuncia? Oppure, essendo questo verso conosciuto, bisogna ammettere che questi ritmi sono anche nella nostra memoria? D. - In tutti questi luoghi, penso. M. - E anche in altri? D. - Altro non ne vedo, a meno che forse non vi sia una qualche facoltà interiore e superiore, da cui questi ritmi derivano. M. - Io non chiedo che cosa si possa supporre. Perciò se questi quattro modi ti sembrano tali che non ne vedi un altro ugualmente evidente, distinguiamoli, se ti va, gli uni dagli altri ed esaminiamo se se ne può avere uno senza gli altri. Non potrai negare infatti, credo, la possibilità che in qualche luogo si verifichi un suono, il quale percuota l'aria con frequenza uniforme e di brevi pause, ad esempio per stillicidio o qualche altro urto di corpi e che non vi sia alcuno che ascolti. Quando ciò avviene, si può avere, oltre il primo modo, cioè che il suono stesso ha i ritmi, un altro dei quattro modi? D. - Nessun altro, secondo me. ...nell'udito... 2. 3. M. - E il ritmo che è nell'udito di chi ascolta si potrebbe avere, se non vi fosse alcun suono? Non chiedo se l'udito ha la facoltà di percepire un suono reale, poiché non ne è privo anche se manca il suono ed anche quando vi è silenzio, esso differisce da quello dei sordi. Chiedo se esso percepisce dei ritmi anche se non vi è suono. Poiché una cosa è avere dei ritmi e un'altra poter percepire un suono ritmico. Se infatti si tocca con un dito un punto sensoriale del corpo, il ritmo è percepito con l'atto del toccare ogni volta che si tocca e quando è percepito, chi percepisce non ne è privo. Non si domanda quindi se rimane la sensazione, ma il ritmo anche se nessuno tocca. D. - Io non direi con tanta disinvoltura che, anche prima che si produca un suono, il senso sia privo di tali ritmi sussistenti in lui. Altrimenti non potrebbe godere della loro ritmicità o essere infastidito dalla loro dissonanza. Ed io chiamo ritmo dell'udito stesso questo qualche cosa, con cui per attività spontanea e non riflessa si gradisce o si rifiuta un suono reale. Infatti la facoltà di gradire o rifiutare non si produce nel mio udito nell'atto che odo il suono poiché l'udito è ugualmente disposto per i suoni gradevoli e per quelli sgradevoli. M. - Piuttosto cerca di capire che le due cose non si devono confondere. Se infatti si pronuncia un verso qualsiasi, ora più rapidamente, ora più lentamente, esso necessariamente non conserva la medesima durata di tempo, anche se si impiega il medesimo schema di piedi. È dunque la facoltà con cui si gradiscono i suoni ritmici e si rifiutano quelli aritmici a far sì che il verso diletti l'udito nella figura che gli è propria. Al contrario il fatto che il verso sia percepito in tempo più breve se è declamato più velocemente di quanto è declamato più lentamente ha rilevanza soltanto quando l'udito è stimolato dal suono. Dunque la modificazione dell'udito quando è stimolato dal suono non è certamente la medesima di quando non è stimolato da alcun suono. Come appunto l'udire differisce dal non udire, così differisce udire un suono o udirne un altro. Dunque la modificazione non si prolunga al di là e non si restringe al di qua, poiché è la durata del suono che la produce. Quindi altra è nel giambo,

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altra nel tribraco, più lunga nel giambo pronunciato più lentamente e più breve nel giambo pronunciato più celermente, e non si ha nella pausa. E se la modificazione è prodotta da una frase ritmica, anche essa necessariamente è ritmica. E non può aversi se non si ha il suono come sua causa. È simile in definitiva alla figura delineata nell'acqua; essa non si ha prima che il corpo vi venga immerso e non rimane quando il corpo viene allontanato. In realtà la spontanea facoltà, per così dire, capace di giudizio, che è presente nell'udito, non cessa di esistere nel silenzio e non ce l'apporta il suono che gradevole o sgradevole viene da essa ricevuto. Pertanto questi due primi modi, se non mi inganno, devono essere considerati come distinti. Si deve quindi riconoscere che i ritmi presenti nella modificazione stessa dell'udito, quando si ha lo stimolo uditivo, sono apportati dal suono e tolti dal silenzio. Ne segue che i ritmi presenti nel suono stesso possono aversi senza quelli che si hanno nell'atto dell'udire, mentre questi ultimi non si possono avere senza i primi. ...nella dizione e nella memoria... 3. 4. D. - Son d'accordo. M. - Considera dunque il terzo modo che è nella stessa tecnica e azione di chi pronuncia. Esamina se questi ritmi si possono dare senza quelli che sono nella memoria. Infatti, anche restando in silenzio, possiamo svolgere in noi stessi certi ritmi rappresentandoceli con la durata di tempo con cui sarebbero svolti mediante la dizione. Evidentemente questi ritmi si hanno in una determinata azione della coscienza che non proferisce alcun suono e non produce modificazione nell'udito. Quindi tale azione è prova che questo modo può aversi senza i primi due, di cui uno è nel suono, l'altro in chi ascolta. Ma noi cerchiamo se si avrebbe senza che intervenga la memoria. Ora se l'anima produce i ritmi che troviamo nel pulsare delle vene, il problema è risolto, poiché essi evidentemente si hanno mediante un'azione e per averli non siamo aiutati dalla memoria. E se per quanto li riguarda si rimane dubbiosi che derivino da un'attività dell'anima, riguardo a quelli invece che produciamo aspirando e respirando non v'è dubbio che siano ritmi per gli intervalli di tempo e che l'anima li produce in maniera tale che con l'intervento della volontà può variarli in molti modi e tuttavia perché siano prodotti non v'è alcun bisogno della memoria. D. - A me sembra che questo modo può aversi senza gli altri tre. E sebbene io non metta in dubbio che le pulsazioni delle vene e la frequenza della respirazione variano in rapporto alla condizione fisica dei corpi, non si può negare tuttavia che il fenomeno avviene per azione dell'anima. Ed anche se questo dinamismo, in rapporto alla diversità dei corpi, in alcuni è più veloce, in altri più lento, non si avrebbe tuttavia se non fosse l'anima che lo attiva. M. - Considera allora anche il quarto modo, cioè di quei ritmi che sono nella memoria. Infatti se li riscopriamo col ricordo, e quando ci portiamo ad altre rappresentazioni, li abbandoniamo di nuovo come riposti nei loro nascondigli, è evidente, come penso, che si possano avere senza gli altri. D. - Non dubito che si possono avere senza gli altri, tuttavia se essi non fossero stati uditi o rappresentati, non sarebbero affidati alla memoria. Perciò, anche se restano quando gli altri cessano, sono in noi impressi da essi che li precedono. ...e un quinto nel giudizio dell'udito... 4. 5. M. - Non mi oppongo e vorrei chiederti ormai quale di questi quattro modi

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giudichi il più eccellente. Senonché sto pensando che nell'esaminare quei modi ne é venuto fuori, non so da dove, un quinto che è nello stesso giudizio spontaneo dell'udito, quando si prova diletto nella eguaglianza dei ritmi, o se v'è qualche difetto si rimane infastiditi. Io non respingo la tua opinione che il nostro udito, senza certi ritmi, di cui ha l'abito, non potrebbe formulare tale giudizio. O pensi che una facoltà così alta appartenga a uno di questi quattro modi? D. - Penso che questo modo deve esser distinto da tutti gli altri. Una cosa infatti è produrre suoni, che si attribuisce ai corpi, altro è udire che è una modificazione subita dall'anima nel corpo mediante i suoni, altro è attivare dei ritmi più lentamente o più velocemente, altro è ricordarli, altro infine è pronunciare, come per un diritto nativo, una sentenza su tutti questi dati o gradendoli o rifiutandoli. ...che è superiore agli altri. 4. 6. M. - Ed ora dimmi quale di questi cinque modi è il più eccellente. D. - Il quinto, secondo me. M. - Hai ragione. Infatti non potrebbe giudicare gli altri, se non fosse superiore ad essi. Ma torno a chiedere quale degli altri quattro ritieni di maggior pregio. D. - Certamente quello che è nella memoria, poiché vedo che in essa i ritmi permangono più a lungo di quando son prodotti come suono, di quando sono uditi e di quando derivano dall'azione. M. - Tu dunque giudichi gli effetti superiori alle cause. Hai detto poco fa che questi ritmi sono impressi nella memoria dagli altri. D. - Non vorrei, ma d'altronde non vedo perché non dovrei giudicare cose che permangono più a lungo superiori a cose che permangono di meno. M. - Questa costatazione non influisca su di te. Le cose eterne si devono ritenere superiori a quelle temporali, ma non per questo le cose che deperiscono in un tempo più lungo si devono giudicare superiori a quelle che fluiscono più velocemente. La salute di un sol giorno vale certamente di più della infermità di molti giorni. E tanto per limitarci al confronto di oggetti egualmente desiderabili, vale di più il leggere di un giorno che lo scrivere di più giorni, se il testo scritto in più giorni può esser letto in un sol giorno. Così i ritmi che si hanno nella memoria permangono più a lungo di quelli, da cui sono impressi, tuttavia non bisogna considerarli più perfetti di quelli che si hanno nell'azione derivante dall'anima e non dal corpo. In realtà entrambi tendono al non essere, gli uni per inattività, gli altri per oblio. Sembra però che i ritmi derivanti dall'azione, anche prima che si cessi di agire, siano fatti scomparire da quelli che seguono, nell'atto che succedendosi i primi lasciano il posto ai secondi, i secondi ai terzi e così di seguito quelli che vengono prima a quelli che vengono dopo fino a che l'inattività pone fine agli ultimi. Con l'oblio invece vengono cancellati insieme, anche se a poco a poco, molti ritmi, poiché anche essi non rimangono a lungo nella loro compiutezza. Ad esempio, un ricordo che dopo un anno non esiste più nella memoria è già indebolito anche dopo un sol giorno. Questo indebolimento però non è avvertito. Tuttavia non erroneamente si può dedurlo dal fatto che il ricordo non svanisce tutto all'improvviso il giorno prima che si completi l'anno. Se ne può dedurre che comincia a sfuggire dal momento che è impresso nella memoria. Da ciò quel comune modo di dire: " Ricordo vagamente ", quando dopo un po' di tempo si richiama col ricordo qualche cosa, prima che svanisca completamente. Perciò l'uno e l'altro modo di

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essere del ritmo ha una fine. Tuttavia giustamente le cause si antepongono agli effetti. D. - Capisco e son d'accordo. Maggiore e minore corporeità dei ritmi. 4. 7. M. - Esamina ora gli altri tre modi di essere dei ritmi ed esponi anche di essi quale sia il più perfetto e da considerarsi superiore agli altri. D. - Non è facile. Da quella regola, per cui bisogna anteporre le cause agli effetti, sono costretto a dare la palma ai ritmi nella fonte sonora. Infatti noi li percepiamo con l'udito e percependoli ne siamo modificati. Essi dunque producono quelli che sono nella modificazione dell'udito nell'atto di udire. A loro volta questi ritmi che si hanno con la percezione ne producono altri nella memoria e sono ragionevolmente da considerarsi più perfetti di essi perché li producono. E fin qui, giacché percepire e ricordare sono propri dell'anima, non provo indecisione se devo reputare una facoltà dell'anima più perfetta di un'altra che è egualmente in essa. Mi rende indeciso il dover considerare i ritmi della fonte sonora, che certamente è del corpo o in qualche modo nel corpo, più elevati di quelli che si riscontrano nell'anima nell'atto del percepire. Ma qui di nuovo mi rende indeciso il non doverli considerare più elevati, dal momento che essi producono, gli altri sono da essi prodotti. M. - Meravigliati piuttosto del fatto che il corpo può agire sull'anima. Forse non lo potrebbe se il corpo, che l'anima informava e dirigeva ai fini senza alcuna pena e con somma facilità, volto al peggio dal primo peccato, non fosse sottoposto alla concupiscenza e alla morte. Ma esso conserva tuttavia una bellezza nell'ordine del sensibile e perciò stesso fa risaltare la dignità dell'anima, la cui ferita e malattia non meritarono di rimanere senza l'onore di una certa nobiltà. La somma Sapienza di Dio si è degnata, per un mirabile e ineffabile mistero, di prendere su di sé questa ferita, quando ha assunto l'uomo senza peccato ma non senza la condizione di peccatore. Infatti è voluto nascere, soffrire e morire come uomo, non per averlo meritato ma per infinita bontà, affinché evitassimo più la superbia, per cui meritatamente siamo caduti in questi mali, che gli oltraggi che egli ha ricevuto immeritatamente, affinché noi scontassimo con animo sereno la morte dovuta, se egli non dovuta ha potuto sostenerla per noi. Si aggiunga ogni altro concetto relativo, in tale mistero, all'interiore purificazione che dai santi e dai più buoni si possa pensare. E dunque non è cosa da meravigliarsi se l'anima, agendo nella carne mortale, subisca la soggezione del corpo. E non perché essa è più perfetta del corpo, bisogna pensare che tutto ciò che avviene in essa sia più perfetto di ciò che avviene nel corpo. Ritieni, penso, che il vero è da ritenersi più perfetto del falso. D. - Chi ne dubiterebbe? M. - È forse vero l'albero che si vede nel sogno? D. - Certo no. M. - Ma ora la sua immagine si ha nell'anima e invece l'immagine di quello che ora vediamo è riprodotta nel corpo. Ora sebbene il vero è più perfetto del falso e l'anima è più perfetta del corpo, il vero che è nel corpo è più perfetto del falso che è nell'anima. E come il vero è più perfetto perché è vero e non perché si ha nel corpo, così il falso è forse meno perfetto perché è falso e non perché si ha nell'anima. A meno che tu non abbia da obiettare. D. - Proprio niente.

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M. - Ascolta un altro esempio che avrebbe, come penso, maggiore somiglianza che perfezione. Non potrai negare infatti che ciò che conviene è più perfetto di ciò che non conviene. D. - Anzi lo affermo. M. - Chi potrebbe mettere in dubbio che una donna è convenientemente vestita con un abito, col quale un uomo è indecentemente vestito? D. - Anche questo è chiaro. M. - C'è dunque da meravigliarsi tanto se questo modo di ritmi è conveniente nei suoni che giungono all'udito ed è sconveniente nell'anima, quando li ha in sé percependoli e subendone la soggezione? D. - Non credo. M. - Perché dunque esiteremo a reputare i ritmi di una fonte sonora corporea più perfetti di quelli che ne sono l'effetto, anche se questi si hanno nell'anima che è più perfetta del corpo? In realtà noi reputiamo alcuni ritmi migliori di altri, quelli che li producono di quelli prodotti, e non il corpo dell'anima. Infatti i sensibili sono tanto più perfetti quanto più sono ritmici da tali ritmi. L'anima invece diviene più perfetta con la privazione dei ritmi che riceve dal corpo, quando si allontana dal sensibile e si trasforma con i ritmi divini della sapienza. Si dice infatti nella Sacra Scrittura: Sono andato in giro per conoscere, esaminare e cercare la sapienza e il ritmo 2. E non bisogna certamente supporre che il detto riguarda quei ritmi, di cui risuonano anche gli spettacoli scandalosi, ma, credo, di quelli che l'anima non riceve dal corpo ma che essa piuttosto imprime sul corpo dopo averli ricevuti dal sommo Dio. Ma qualunque sia l'argomento, non si deve esaminarlo qui.

I ritmi sensibili e l'anima (5, 8 - 8, 22) L'anima non ha dal corpo come la materia dall'agente. 5. 8. Ci si potrebbe obiettare che la vita dell'albero è più perfetta della nostra perché non riceve ritmi dal corpo con la sensazione, in quanto non ha alcun senso. Ma si deve considerare attentamente se veramente ciò che si chiama sentire è un qualche cosa che si produce dal corpo nell'anima. È però molto irragionevole assoggettare l'anima in certo senso materia al corpo come causa agente. L'anima infatti non è mai meno perfetta del corpo e la materia è meno perfetta della causa agente. Dunque l'anima non è in senso assoluto soggetta come una materia al corpo come causa agente. Lo sarebbe invece, se il corpo producesse in essa qualche ritmo. E dunque nell'anima non si producono, nell'atto dell'udire, ritmi per influsso di quelli che si percepiscono nei suoni. Hai qualche cosa in contrario? D. - Che cosa avviene dunque in chi ascolta? M. - Qualunque sia questo dato che forse si è incompetenti a scoprire e spiegare, sarà da tanto da farci dubitare che l'anima è più perfetta del corpo? Ovvero pur ammettendo questa incompetenza, si potrà assoggettarla al corpo che agirebbe su di lei e le imporrebbe dei ritmi, come se il corpo fosse causa agente e l'anima una materia, con cui e in cui si produrrebbe qualche cosa di ritmico? E se questo si ammette, si deve anche ammettere che essa è meno perfetta. E che cosa di più banale e abominevole si potrebbe ammettere? Stando così le cose, tenterò certamente, per quanto Dio si degnerà di aiutarmi, di spiegare con parole i punti oscuri dell'argomento. Ma se per la debolezza di entrambi o di uno di noi due si otterrà un risultato inferiore al desiderio, o noi stessi con maggiore serenità indagheremo in altra occasione, o affideremo

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l'indagine a persone più intelligenti, o accetteremo con animo sereno che l'argomento rimanga oscuro, ma non per questo dobbiamo lasciarci sfuggire dalle mani i concetti più chiari, di cui ho detto. D. - Nei limiti del possibile non defletterò dal tuo ammonimento, e tuttavia vorrei che questa oscurità non rimanesse impenetrabile. Sensazione come avvertenza nell'anima... 5. 9. M. - Dirò subito la mia opinione. E tu seguimi o anche precedimi, se ti riuscirà, quando vedrai che io indugio ed esito. Io ritengo dunque che il corpo sia animato dall'anima soltanto mediante mozione al fine di causa agente. E ritengo che essa non sia modificata affatto dal corpo, ma che agisce su di esso e in esso, in quanto provvidenzialmente soggetto al suo dominio e che talora influisce con facilità e talora con difficoltà; a seconda che, in vista della sua dignità, l'essere corporeo le è più o meno sottomesso. Dunque tutti i sensibili che o sono introdotti nel corpo o si presentano come oggetti esterni producono non sull'anima ma sul corpo una reazione che o ostacola o favorisce l'influsso dell'anima stessa. Perciò quando essa resiste all'oggetto che la ostacola e spinge a forza con difficoltà in direzione del proprio influsso la materia che le è soggetta, essa a causa della difficoltà si rende più cosciente nell'azione. E questa difficoltà, quando in virtù della coscienza è avvertita, si dice avere sensazione, e in questo caso si chiama dolore o fatica. Quando invece l'oggetto che si introduce o si presenta al di fuori è in corrispondenza, l'anima con facilità lo muove o tutto o la parte necessaria in direzione della sua mozione. E questa azione, con cui essa mette a contatto il proprio corpo con un corpo esterno confacente, è avvertita, perché è compiuta con maggiore coscienza a causa dello stimolo esterno; e data la convenienza dell'oggetto si ha una sensazione di piacere. E quando vengono meno i sensibili, con cui può riparare l'indebolimento del corpo, si ha il bisogno. E poiché è resa più cosciente dalla difficoltà di provvedere e avverte questa sua attività, si hanno la fame, la sete e simili. E quando i cibi ingeriti sono in più del bisogno e dalla loro pesantezza sorge la difficoltà di digestione, anche questo fenomeno non si verifica senza coscienza e poiché anche questa azione è avvertita, si ha la sensazione di indigestione. L'anima agisce con coscienza anche quando smaltisce il superfluo cibo, se con facilità provando sollievo, se con difficoltà provando fastidio. Influisce coscientemente anche sulla perturbazione proveniente dalla malattia del corpo, poiché tende a soccorrerlo nella sua prostrazione e spossatezza, e poiché è cosciente di questa sua azione, si dice che sente la malattia e gli acciacchi. ...della modificazione del corpo... 5. 10. E per non farla lunga, è mia opinione che quando l'anima sente mediante il corpo non ne subisce la modificazione, ma agisce con maggiore coscienza nelle modificazioni del corpo e che queste funzioni, facili quando si ha congruenza dell'oggetto, difficili quando si ha l'incongruenza, sono avvertite. E tutto questo è ciò che si chiama avere sensazione. Ma il senso, che sussiste anche quando non si ha sensazione, è un organo del corpo che l'anima muove mediante una complessione organica tale da essere più disposta mediante esso a influire coscientemente sulle modificazioni del corpo stesso, a congiungere l'omogeneo con l'omogeneo e a respingere l'oggetto nocivo. Dunque, secondo la mia opinione, muove l'elemento luminoso nella vista, l'elemento aereo molto secco e mobile nell'udito, l'elemento umido tenebroso

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nell'odorato, umido nel gusto, terreno e per così dire crasso nel tatto. Ma sia che i quattro elementi siano implicati con questa distribuzione o con un'altra, l'anima li muove in uno stato d'incoscienza, se quelli che concorrono al fine unitario del benessere fisico sono coordinati in un accordo per così dire amichevole. Ma quando sono implicati elementi che influiscono sul corpo con una certa forza, per così dire, di alterazione, l'anima adempie funzioni più coscienti, applicate ciascuna agli organi periferici. Si dice allora che essa ha percezione visiva, uditiva, olfattiva, gustativa e tattile. Con queste funzioni essa si assicura gli oggetti confacenti con piacere e con pena reagisce a quelli non confacenti. È mia opinione che l'anima con la sensazione offre alle modificazioni del corpo queste funzioni, ma che non le subisce. ...nello stimolo uditivo o suono... 5. 11. Ma poiché per il momento il problema riguarda i ritmi dei suoni ed è posto in discussione il senso dell'udito, non bisogna divagare più a lungo su altri concetti. Ritorniamo dunque al nostro argomento e vediamo se il suono produce qualche effetto sull'udito. Tu lo neghi? D. - No certo. M. - E non ammetti che l'udito è una parte animata del corpo? D. - Sì. M. - Dunque dal suono prodotto nell'aria è mosso ciò che in questo organo è omogeneo all'elemento aereo. Ma si deve ammettere per questo che l'anima, la quale prima di questo suono con movimento vitale informava nel silenzio l'organo dell'udito, o possa sospendere la propria funzione di muovere ciò che vivifica, o che continui a muovere l'elemento aereo del proprio udito, stimolato dal di fuori, come lo muoveva prima che si producesse quel suono? D. - Sembra che lo debba muovere diversamente. M. - E non si deve ammettere che questo muovere diversamente è influire sull'essere senza esserne modificati? D. - Sì. M. - Non irrazionalmente quindi si ritiene che l'anima nel sentire è cosciente dei suoi movimenti o azioni o funzioni o altro termine con cui si possono significare con maggiore proprietà. ...in quanto reazione dell'anima. 5. 12. E queste funzioni si applicano ai fenomeni sensibili che le precedono, come quando le immagini sensibili si interpongono alla luce della nostra vista o il suono si introduce nell'udito, o quando gli odori giungono dal di fuori all'odorato, i sapori al gusto, i vari oggetti solidi e afferrabili al resto del corpo, o quando un oggetto si sposta o passa da un punto all'altro del corpo, o quando tutto il corpo si muove in virtù del peso proprio o di un altro corpo. Queste sono le funzioni che l'anima esercita sulle modificazioni del corpo che precedono. Ed essi generano piacere in lei se li fa propri e disagio se deve loro resistere. E quando è modificata da queste sue funzioni si modifica da sé e non dal corpo, ma ovviamente nell'adattarsi al corpo, è a se stessa meno perfetta, poiché il corpo è sempre meno perfetto di essa. Non soggezione dell'anima alla passione... 5. 13. Dunque l'anima voltasi dal suo padrone al suo schiavo necessariamente diviene meno perfetta e allo stesso modo voltasi dal suo schiavo al suo padrone necessariamente si perfeziona ed offre al suo schiavo una vita molto facile e perciò non dedita al lavoro e alla fatica. A tal genere di vita appunto

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non si volgerà alcun atto di coscienza, data la profonda tranquillità, come è lo stato fisico che si chiama salute. Esso non ha bisogno di un nostro atto di coscienza, non perché in quello stato l'anima non influisce sul corpo, ma perché le è molto facile. Infatti in tutte le nostre attività si agisce con tanto maggiore coscienza quanto più è difficile agire. Ma questa salute sarà veramente sicura quando questo corpo in un determinato tempo provvidenzialmente stabilito sarà reso alla immutabilità di una volta. Ma prima di avere conoscenza di questa sua resurrezione si ammette per fede che salva. Bisogna infatti che l'anima sia dominata dall'essere superiore e domini l'essere inferiore. A lei superiore è solo Dio, inferiore è solo il corpo, se si comprende ogni e tutta l'anima. E come essa non può essere tutta senza il padrone, così non può eccellere senza il suo schiavo. E come il suo padrone è più perfetto di lei, così il suo schiavo è meno perfetto. Pertanto fissa al padrone ha conoscenza dei valori eterni di lui e diviene più perfetta e da lei diviene più perfetto nel proprio ordine anche il suo schiavo. Ma trascurando il padrone e attratta verso lo schiavo dalla concupiscenza carnale da cui è mossa, ha la sensazione delle proprie funzioni che offre a lui e diviene meno perfetta, ma non tanto quanto lo schiavo, anche quando questo è nel grado sommo del proprio essere. E per questa prevaricazione della padrona esso è molto meno perfetto di quel che era quando lei prima della prevaricazione era più perfetta. ...sua libera attività e memoria. 5. 14. Perciò essendo il corpo mortale e fragile, l'anima lo domina con un difficoltoso atto di coscienza. Ne deriva per lei l'errore di considerare di più il piacere del corpo perché diviene oggetto della sua coscienza che l'assenza della passione, per cui non si ha bisogno di coscienza. E non c'è da meravigliarsi se s'impiglia negli affanni giacché stima di più l'affanno che la serenità. E per lei nasce una più grande preoccupazione quando si volge al padrone, cioè di non volgersi in altra parte, fino a che si plachi l'impeto delle opere carnali, reso indomabile dalla lunga abitudine, che con ricordi sconvolgenti si inserisce nel suo esser volta a lui. E così placati i suoi movimenti, dai quali è portata all'esteriorità, esercita nella interiorità una libera attività spirituale, significata dal sabbato. Riconosce allora che Dio solo è il suo padrone perché soltanto di lui si è schiavi nella più vera libertà. Ed essa eccita i desideri carnali quando vuole, ma non li reprime quando vuole perché il peccato è in suo potere, ma non la pena del peccato. Ed anche se l'anima in sé è una grande cosa, non rimane disponibile a sé nel reprimere i propri movimenti passionali. In definitiva è più energica nel peccare, ma dopo il peccato divenuta più inerte per divina disposizione, si rende meno capace di strappar da sé ciò che ha fatto. Me infelice, chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio, per Gesù Cristo nostro Signore 3. Dunque il movimento dell'anima, che mantiene il proprio impulso e non è ancora cessato, si dice che è nella memoria, e quando lo spirito è volto ad altro, il movimento di prima è come se non fosse più in esso e in realtà è diminuito, a meno che prima di cessare non sia rinnovato da una certa somiglianza con altri movimenti. Vita sensitiva. 5. 15. Ma vorrei sapere se su questi concetti hai qualche difficoltà che ti turba. D. - Mi pare che esponi una teoria probabile e non oserei opporre nulla. M. - Dunque la sensazione consiste nel far reagire il corpo alla modificazione

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che in esso è stata prodotta. Non ritieni dunque che per questo motivo non si ha sensazione quando si tagliano ossa, unghie o capelli? E il motivo non è che queste parti non hanno vita in noi, giacché non altrimenti potrebbero entrare nella complessione fisica, nutrirsi, crescere e mostrare la propria vitalità nel riprodursi. Ma essi sono stimolati da un'aria, elemento mobile, meno attiva sicché la reazione non può essere tanto rapida quanto la modificazione con cui si reagisce quando si ha quella che si dice sensazione. Poiché si ha scienza che tale vita si ha anche negli alberi e nelle altre piante, non è lecito considerarla migliore non solo della nostra vita, superiore anche per il pensiero, ma nemmeno di quella delle bestie. Altro è infatti non avere sensazione a causa di una radicale insensibilità ed altrui non averne per una perfetta salute fisica. Infatti nel primo caso mancano gli organi che reagiscono alle modificazioni del corpo, nell'altro mancano le modificazioni stesse. D. - Capisco e ne sono certo. I cinque modi di ritmi nell'anima. 6. 16. M. - Ritorna dunque all'argomento e dimmi quale dei tre modi di ritmi, di cui uno è nella memoria, uno nella sensazione e un altro nel suono ti sembra più perfetto. D. - Pongo quello del suono dopo gli altri due che sussistono e in certo senso vivono nell'anima ma sono incerto quale di questi due giudicare più perfetto. Avevamo detto però che quelli che sono nell'azione si devono considerare più perfetti di quelli che sono nella memoria per il solo motivo che i primi sono causa, gli altri effetti. Dunque per lo stesso motivo bisogna considerare anche questi ritmi, che si hanno nell'anima nell'atto di udire, più perfetti di quelli che si formano nella memoria, come del resto ritenevo dianzi. M. - Penso che la tua risposta non sia irragionevole. Ma poiché si è discusso che anche i ritmi che sono nel dato sensibile sono operazioni dell'anima, come li distingui da quelli che sono nell'atto di sentire dell'anima, quando anche senza suono e senza intervento della memoria essa produce un movimento ritmico nella successione di tempo? Forse dal fatto che i primi sono dell'anima nel rapporto col corpo e gli altri dell'anima che reagisce, nell'atto di udire, alle modificazioni del corpo? D. - Accetto questa distinzione. M. - Ebbene, secondo te, si deve rimanere nell'opinione che i ritmi relativi al corpo sono più perfetti di quelli che si hanno nella reazione alle modificazioni del corpo? D. - Quelli che si producono nel silenzio mi sembrano più autonomi non solo di quelli che si hanno in relazione al corpo, ma anche di quelli che si hanno in relazione alle sue modificazioni. M. - Vedo che abbiamo distinto e ordinato secondo gradi di perfezione cinque modi di ritmi. Diamo loro, se vuoi dei nomi adatti affinché non sia necessario nella rimanente parte del discorso usare più nomi che concetti. D. - Sì. M. - Siano chiamati del giudizio estetico i primi, in formazione i secondi, espressi i terzi, del ricordo i quarti, dell'evento sonoro i quinti. D. - D'accordo, userò volentieri questi termini. Il valore extratemporale dei ritmi giudiziali... 7. 17. M. - Stai attento allora e dimmi quali di essi ti sembrano non divenienti, o pensi che tutti vengano a cessare fluendo nel succedersi dei propri tempi?

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D. - Penso che solo quelli di giudizio siano non divenienti, vedo che gli altri trascorrono nell'atto che si formano o si cancellano nella memoria con l'oblio. M. - Sei ugualmente certo del non divenire dei primi come lo sei del divenire degli altri, o piuttosto bisogna esaminare più attentamente se quelli di giudizio veramente non sono nel divenire? D. - Sì, esaminiamo. M. - Dimmi dunque, quando pronuncio un verso un po' più velocemente o più lentamente, purché rispetti la legge per cui i piedi si rapportano dell'uno a due, inganno forse il giudizio del tuo udito? D. - No, certamente. M. - E il suono che si diffonde con sillabe più rapide e quasi precipitose può riempire un tempo maggiore di quello in cui si effonde? D. - Come è possibile? M. - Se dunque i ritmi di giudizio fossero contenuti da limite di tempo in una durata eguale a quella in cui si propagano i sonori, potrebbero arrogarsi il giudizio di ritmi sonori che fossero proferiti un po' più lentamente con lo schema giambico? D. - No, assolutamente. M. - È dunque evidente che i ritmi precostituiti a giudicare non sono soggetti al limite dei tempi. D. - È proprio evidente. ...viene discusso... 7. 18. M. - Fai bene ad approvare. Ma se non fossero contenuti in alcun limite, per quanto lentamente pronunciassi dei giambi nella lunghezza di regola, i ritmi in parola sarebbero ugualmente impiegati per l'esame critico. Ora se pronunciassi una sillaba con la durata con cui si compiono tre passi, per non esagerare, di uno che cammina e un'altra con un tempo doppio e di seguito disponessi una serie di giambi di eguale lunghezza, sarebbe nondimeno rispettato lo schema dell'uno a due e tuttavia non potremmo impiegare questo giudizio spontaneo per ritener valide queste misure ritmiche. Non ti sembra?. D. - Sì, non lo posso negare. Per me il concetto è evidente. M. - Dunque anche i ritmi di giudizio sono soggetti ai limiti della misura dei tempi che nell'esaminare criticamente non possono superare e non hanno competenza a giudicare tutto ciò che non rispetta le misure stabilite. E se ne sono soggetti, non vedo in che modo siano indefettibili. D. - E io non vedo che cosa devo rispondere. E sebbene sia meno disposto ad ammettere la loro indefettibilità, non capisco tuttavia in che senso da ciò che hai detto si concluda che sono defettibili. Può accadere che per quanto lunghe siano le misure ritmiche che possono esaminare criticamente, lo possono sempre. Non posso dire infatti che, come gli altri, o possano essere cancellati dall'oblio, oppure che hanno durata e lunghezza eguali al tempo, in cui si effonde il suono, e alla lunghezza in cui si estendono i ritmi espressi o con cui sono formati e pronunziati quelli che abbiamo chiamato in formazione. Gli uni e gli altri appunto hanno fine col tempo dell'evento che li costituisce. Al contrario i ritmi di giudizio, quantunque variano da una determinata brevità a una determinata lunghezza, rimangono invariati, non so se nell'anima ma certamente nella stessa natura umana, allo scopo di esaminare criticamente i ritmi composti approvandone l'euritmia e condannando la disritmia. ...e ricondotto nei limiti dell'esperienza.

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7. 19. M. - Almeno mi concederai che alcuni individui sono infastiditi più prontamente dai ritmi manchevoli, altri più lentamente, e che i più non riconoscono quelli difettosi se non nel confronto con quelli perfetti, dopo aver ascoltato quelli regolari e quelli irregolari. D. - Sì, lo concedo. M. - E da che si ha, secondo te, questa differenza se non dalla natura o dall'esercizio o da tutte e due? D. - Da tutte e due, penso. M. - Ti chiedo dunque se un individuo può giudicare e approvare intervalli ritmici più lunghi, mentre un altro non lo può? D. - Credo di sì. M. - E quello che non può, se si esercita convenientemente e non sia tanto stupido, non ci riuscirà forse? D. - Sì, certo. M. - E potrebbero questi individui far progressi nel percepire intervalli più lunghi fino a potere, sebbene siano interrotti per lo meno dal sonno, rappresentarsi con la loro sensibilità critica intervalli, nel rapporto di uno a due, di ore, giorni e perfino mesi e anni e batterli come giambi con movimenti cadenzati? D. - No. M. - E non possono perché ad ogni vivente nella propria specie è stata data, in proporzione col tutto, soltanto l'intuizione sensibile di spazio-tempo. Quindi come il suo essere esteso in proporzione al tutto dello spazio è finito perché ne è una parte e come la sua esistenza in proporzione al tutto del tempo è finita perché ne è una parte, così la sua intuizione sensibile deve essere commisurata al movimento che compie in proporzione col movimento del tutto, di cui è questa parte. Allo stesso modo questo mondo, che spesso nella Sacra Scrittura è designato col termine di cielo e terra, contenendo l'intero dei fenomeni, ha una lunga durata. Ma se tutte le sue parti fossero di meno in proporzione al più, esso è finito e se fossero di più in proporzione al meno, esso è nondimeno finito. Nelle dimensioni spazio-temporali infatti un essere non ha una lunga durata di per sé ma in rapporto a un altro che ha durata più breve e a sua volta un essere non ha breve durata di per sé ma in proporzione a un altro che ha durata più lunga. Ora all'essere fisico dell'uomo è stata data una intuizione sensibile tale che con essa non può percepire lunghezze di tempo più grandi di quel che richiede la lunghezza competente all'esperienza di una tale vita. Dunque poiché l'essere fisico dell'uomo è defettibile, anche questa intuizione, secondo me, è defettibile. Infatti non senza ragione si dice che l'esperienza è quasi una seconda natura dell'uomo, per così dire aggiunta. Osserviamo appunto che con l'esperienza sono state formate come delle facoltà sensitive nuove per giudicare gli oggetti sensibili in parola e che esse vengono a cessare con una esperienza diversa. Essi giudicano l'eguaglianza dei ritmi in formazione... 8. 20. Ma comunque siano i ritmi di giudizio, hanno certamente una prevalenza per il fatto che vaghiamo nell'incertezza e indaghiamo con difficoltà se sono defettibili. Sugli altri quattro modi invece il problema se sono defettibili non si pone nemmeno. E sebbene i ritmi di giudizio non abbiano come oggetto alcuni di loro perché questi hanno una lunghezza superiore al loro potere di giudizio, tuttavia rivendicano i loro schemi al proprio esame. Anche i ritmi in formazione

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infatti, quando tendono a produrre un evento ritmico nel sensibile, hanno la loro misura da un comando inespresso dei ritmi di giudizio. Ciò che inibisce e trattiene da passi ineguali nel camminare, da intervalli ineguali di colpi nel battere, da movimenti ineguali delle mascelle nel mangiare o bere, da tratti ineguali delle unghie nel grattare, e per non elencare molte altre operazioni, ciò insomma che ci inibisce e trattiene da movimenti ineguali e ci impone tacitamente una determinata concordanza nell'attendere a compiere un'azione con le membra, è appunto una non so quale facoltà di giudizio. Ed essa ci inculca che Dio è creatore dell'essere vivente e che egli quindi si deve ritenere autore di ogni armonizzata concordanza. ...suggeriscono agli spazi esatti agli espressi... 8. 21. I ritmi espressi poi, che certo non si producono spontaneamente ma sono operati in relazione alle modificazioni del corpo, sono sottoposti alla valutazione dei ritmi di giudizio e valutati per il tempo in cui la memoria può conservare lo schema delle loro lunghezze ritmiche. Infatti un ritmo formato di lunghezze di tempo non può essere esaminato se non si è aiutati dalla memoria. Perfino di una sillaba breve, sebbene termina nell'atto che inizia, si ode in un tempo il suo inizio e in un altro la sua fine. Anche essa dunque si estende in una lunghezza di tempo, per quanto breve, e tende dal suo inizio per il suo mezzo alla fine. La ragione ha dimostrato che le lunghezze, tanto di luogo che di tempo, sono divisibili all'infinito e perciò di nessuna sillaba si ode la fine assieme all'inizio. Pertanto anche nell'ascoltare la sillaba più breve, se non ci soccorre la memoria in modo che nell'attimo, in cui se ne ode non più l'inizio ma la fine, rimanga nell'anima la modificazione prodotta quando si è udito il suo inizio, non si può dire di aver udito qualche cosa. Da ciò deriva che spesso, presi da un altro pensiero, ci sembra di non avere udito persone che parlano in nostra presenza. E il fenomeno si verifica non perché l'anima in quel momento non percepisce quei ritmi espressi perché indubbiamente il suono è giunto all'udito. E l'anima d'altronde non può rimanere in quiete durante una modificazione del suo corpo e non può essere mossa in modo diverso, come se quella modificazione non esistesse. Avviene dunque perché l'impulso del movimento cade a causa dell'attenzione ad altro, ma se rimanesse, rimarrebbe certamente nella memoria di modo che noi lo troveremmo e ci accorgeremmo di avere udito. Che se riguardo a una sillaba breve una intelligenza più tarda non può capire ciò che la ragione teoretizza, di due certamente nessuno dubita che l'anima non le può udire simultaneamente. La seconda non si ha come suono se la prima non è cessata. Ora ciò che non si ha come suono simultaneamente, come può essere udito simultaneamente? Come dunque ad intuire le dimensioni dello spazio ci aiuta l'effondersi dei raggi che dalle piccole pupille si riflettono nei luoghi illuminati e sono del nostro corpo al punto che sono vivificati dalla nostra anima anche se sono negli oggetti lontani da noi visti, come dunque, ripeto, siamo aiutati dal loro effondersi a intuire le dimensioni dello spazio, così la memoria, che è quasi luce dello spazio di tempo, quanto più tenendo conto della sua specifica funzione, viene in certo senso fatta spaziare fuori, tanto maggiori spazi intuisce. Talora invece colpisce troppo a lungo l'udito un suono non distinto da interruzioni e quando una buona volta si è avuta la fine, in serrata continuità si emette un altro suono di doppia o anche uguale lunghezza. In tal caso il movimento dell'anima, che si è verificato con l'attenzione al suono passato e svanito nell'atto che passava,

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viene impedito dall'attenzione al suono che si succede senza interruzione, quanto dire che non rimane così nella memoria. Pertanto i ritmi di giudizio possono fra i ritmi costituiti in lunghezze di tempo valutare soltanto quelli che loro presenterà, quasi addetta al servizio di mensa, la memoria. Si fa eccezione quindi per i ritmi in formazione, dei quali i ritmi di giudizio regolano perfino il formarsi. Non si deve ritenere dunque che i ritmi di giudizio si estendono in una determinata lunghezza di tempo? Ma quel che importa è la lunghezza di tempo, in cui l'oggetto che giudicano svanisca o si possa rievocare. Infatti non si possono discriminare e perfino percepire neanche le figure visibili, rotonde o quadre o di altro volume o figura, se non si osservano attentamente con la vista. Mentre infatti si guarda una parte, se sfugge ciò che è stato osservato in un'altra, viene reso vano il guardare di chi li esamina perché anche esso si verifica in un periodo di tempo. Quindi mentre il guardare varia, si ha bisogno di rendere attenta la memoria. ...la disposizione dei memoriali e sonori. 8. 22. È poi evidente che con i ritmi di giudizio sono valutati esteticamente quelli di memoria perché è la stessa memoria a presentarli. Infatti se i ritmi espressi sono valutati soltanto perché la memoria li presenta, a più forte ragione ci si convince che i ritmi ricordati vivono nella memoria perché ad essi, in quanto conservati, siamo richiamati dopo altre rappresentazioni dalla memoria. Infatti quando si richiama qualche cosa alla memoria non si fa altro che riscoprire ciò che vi era stato depositato. Inoltre una impressione dell'anima non ancora cancellata ritorna al pensiero nel presentarsi di impressioni simili. E questo è ciò che si dice ricordo. Si riproducono così o soltanto nel pensiero o anche nel gesto ritmi che sono stati prodotti precedentemente. Da ciò si conosce che essi non vengono per la prima volta ma tornano al pensiero perché, mentre venivano affidati alla memoria, erano richiamati con difficoltà e si aveva anche bisogno di qualche raffigurazione per fissarli. Eliminata questa difficoltà, quando essi stessi in forma adatta si presentano alla volontà di seguito nella loro successione temporale, noi avvertiamo con tale prontezza che non sono nuovi, sicché quelli fissati più fortemente, anche se noi pensiamo ad altro, si riproducono quasi da soli. Vi è anche qualche altra cosa da cui noi sentiamo, secondo me, che una impressione presente nell'anima già vi è stata, che è il riconoscere. Si ha quando con una specie di luce interiore si mettono in confronto impressioni nuove proprie dell'azione che si compie mentre si ricorda, e quindi più vivaci, con ricordi ormai impalliditi. Questa forma di conoscenza è il riconoscimento-ricordo. Anche i ritmi di memoria sono dunque valutati esteticamente da quelli di giudizio, mai soli ma sempre congiunti con quelli in formazione o espressi o con entrambi, che li mettono in luce quasi strappandoli al loro nascondiglio e li richiamano al ricordo dopo averli ravvivati mentre stavano scomparendo. Così mentre i ritmi espressi possono essere giudicati soltanto perché la memoria li presenta ai ritmi di giudizio, a loro volta i ritmi di memoria possono essere valutati se sono presentati dai ritmi espressi, ma con questa differenza. Perché siano valutati i ritmi espressi, la memoria mostra, per così dire, le orme fresche lasciate mentre essi fuggivano. Invece quando valutiamo, udendoli, i ritmi di memoria, per così dire, le medesime orme sono rinfrescate dal passaggio dei ritmi espressi. E infine che bisogno si ha di parlare dei ritmi sonori dal momento che se si odono, sono valutati nei ritmi espressi? Se poi

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l'evento sonoro si ha dove non si può udirlo, chi può dubitare che non possono essere giudicati da noi? Per quanto poi attiene al ritmi di tempo che si hanno nelle danze e nella mimica in genere, vale ciò che si è detto dei suoni che si odono dall'organo dell'udito. Li giudichiamo con i ritmi di giudizio sempre con l'aiuto della memoria.

I ritmi razionali (9, 23 - 11, 33) I ritmi sensibili e razionali. 9. 23. Stando così le cose, tentiamo, se ci è possibile, di trascendere questi ritmi di giudizio e indaghiamo se ce ne sono altri superiori. E sebbene in essi non si notano più lunghezze di tempo, si usano soltanto per valutare eventi che si hanno in lunghezze di tempo, e non tutti ma solo quelli che sono distribuiti nel ricordo. Hai qualche difficoltà da esporre in proposito? D. - Lo straordinario potere dei ritmi di giudizio mi impressiona assai, mi sembra infatti che sono essi ai quali sono ricondotte tutte le funzioni dei sensi. Non so dunque se fra i ritmi se ne può trovare qualcuno più eccellente di essi. M. - Non si perde nulla a indagare più diligentemente. Infatti o ne troveremo di più perfetti nell'anima umana, o confermeremo che quelli di giudizio sono in essa i più perfetti, se tuttavia si evidenzierà che in essa non se ne hanno di più elevati. Altro è infatti che non ci siano ed altro che non si possano scoprire da nessuno o da noi. Ma io penso che quando si canta il verso proposto come esempio: Deus creator omnium, lo ascoltiamo con i ritmi espressi, lo riconosciamo con quelli di memoria, lo formuliamo con quelli in formazione, ne siamo dilettati esteticamente in virtù dei ritmi di giudizio e lo valutiamo con non so quali altri ritmi. Ma sul fondamento del diletto estetico, che è quasi la sentenza dei ritmi di giudizio palesi, noi pronunciamo mediante ritmi più nascosti una sentenza più consaputa. Oppure, secondo te, è lo stesso esser dilettati dal senso e valutare con la ragione? D. - Ammetto che son due cose diverse. Ma prima di tutto mi sento turbato dal nome stesso per il fatto che non siano chiamati ritmi di giudizio quelli in cui è presente la ragione, anziché quelli in cui è presente il diletto estetico. Temo poi che la valutazione della ragione non sia altro che un giudizio approfondito dei ritmi su se stessi. Non vi sarebbero, cioè, ritmi nel fatto estetico e ritmi nella ragione, ma sarebbero gli stessi e medesimi ritmi che giudicano in maniera diversa i ritmi sensibili quando li presenta la memoria, come è stato dimostrato, e giudicano se stessi nella più pura sfera sovrasensibile. Sesto genere: ritmi estetici. 9. 24. M. - Non ti preoccupare dei nomi; è un affare che dipende da noi poiché i nomi sono imposti dall'arbitrio e non dalla natura. Se dunque ritieni che i due ritmi sono identici e non vuoi accettare due diversi modi di ritmo, ti confonde, salvo errore, il fatto che una medesima anima produce gli uni e gli altri. Ma devi riflettere che anche nei ritmi in formazione la medesima anima muove il corpo o è mossa verso il corpo, che negli espressi questa medesima anima reagisce alle modificazioni del corpo e che in quelli di memoria essa stessa si muove sulle onde dei ricordi fino a quando non si placano. Quindi noi nel fare i ritmi e distinguerne i diversi modi prendiamo in considerazione movimenti e stati diversi di un solo essere, cioè dell'anima. Or dunque altro è esser mossa verso gli oggetti che modificano il corpo, che si ha nella sensazione, altro è muoversi al corpo che si ha nel produrre ed altro conservare l'effetto prodotto nell'anima da questi movimenti, che è ricordare. Allo stesso modo altro è

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accettare o rifiutare movimenti ritmici nell'atto che son prodotti o quando sono rievocati dal ricordo, e questo si ha nel diletto della concordanza di tali movimenti o stati diversi e nel fastidio della loro discordanza; e altro è valutare se danno diletto estetico secondo una norma razionale o no, e questo si ha con un atto di ragione. Dobbiamo dunque ammettere che sono due modi distinti, come tre son quelli detti di sopra. Se dunque ammettiamo ragionevolmente che qualora il sentimento estetico non fosse compenetrato esso stesso di alcuni ritmi, non potrebbe certamente approvare le misure regolari e rigettare le discordanti, dobbiamo anche ammettere che la ragione, la quale trascende il sentimento estetico, non potrebbe assolutamente senza dei ritmi più duraturi giudicare dei ritmi che le sono inferiori. E se questo è vero, è evidente che sono stati trovati nell'anima cinque modi di ritmi, e se vi aggiungerai i ritmi corporei, che abbiamo chiamato sonori, riconoscerai che ne sono stati classificati e disposti in ordine sei modi. Ora, se vuoi, siano chiamati sensibili i ritmi che si sono introdotti quasi di nascosto per avere la precedenza nella trattazione ed abbiano il nome, perché più dignitoso, di ritmi di giudizio estetico questi ultimi che sono stati riconosciuti più eccellenti. Penserei di cambiare nome anche ai ritmi sonori perché, chiamandoli corporei, designeranno anche più apertamente i ritmi della danza e della mimica. Sempre che tu approvi i concetti esposti. D. - Certo che li approvo perché mi sembrano veri ed evidenti, accetto anche questa rettifica dei termini. La ragione nel costituire la musica... 10. 25. M. - Ed ora rifletti sul potere dialettico della ragione nei limiti in cui possiamo intuirlo dalle sue opere. Infatti per parlare soprattutto di ciò che concerne l'assunto di questa opera, prima di tutto ha considerato in che cosa consiste la misura ritmica secondo arte e ha stabilito che consiste in un certo movimento libero e volto al fine della propria bellezza. Quindi essa ha compreso che nei movimenti sensibili altro è l'essere variato mediante brevità e lunghezza di tempo, secondo che si ha maggiore o minore lunghezza, ed altro è esser variato mediante la percussione nello spazio secondo certi gradi di velocità o di lentezza. Fatta questa distinzione, essa ha compreso come la variazione, che è nella successione di tempo mediante lunghezze misurate e adattate all'udito, ha dato origine con diversi congiungimenti ai vari ritmi e ha descritto i loro schemi e distribuzione fino alle misure dei versi. Infine ha considerato quale funzione nel misurare i ritmi, formarli, ascoltarli e ricordarli esercita l'anima, di cui essa stessa è la parte superiore, ha distinti questi che son dell'anima da quelli del corpo ed ha conosciuto che neanche essa potrebbe percepire questi ritmi, distinguerli e conferire loro ritmicità secondo arte senza certi suoi ritmi e li ha considerati più perfetti di quelli di ordine inferiore con una sua valutazione estetica. ...nel valutare i piedi e... 10. 26. A questo punto, quando l'anima agisce così con un proprio diletto estetico, il quale pondera la successione dei tempi ed esprime il proprio giudizio per misurare i ritmi suddetti, che cosa è che apprezziamo nei ritmi sensibili? Soltanto una determinata consonanza e le lunghezze misurate con eguaglianza. Il pirrichio, lo spondeo, il dattilo, l'anapesto, il proceleusmatico, il dispondeo, non produrrebbero diletto se non rapportassero una delle loro parti all'altra con divisione quantitativamente equivalente. Il giambo, il trocheo e il

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tribraco hanno di bellezza che con la loro parte minore dividono con eguaglianza la parte maggiore in due parti di eguale quantità. Inoltre i piedi di sei tempi suonano con leggiadra finezza soltanto perché hanno divisione secondo l'uno e l'altro schema, cioè in due sedi eguali di tre tempi, oppure in una parte di un tempo e un tempo e in un'altra di due e due tempi. In questo modo la maggiore contiene due volte la minore e a sua volta è divisa con equivalenza dalla minore che con i due tempi scompartisce i quattro in misure di due tempi ciascuna. E i piedi di cinque e sette tempi sembrano più adatti alla prosa che al verso soltanto perché la loro parte minore non divide la maggiore in parti uguali. Ma sono ammessi secondo il loro schema a dare la ritmicità dei tempi perché nei piedi di cinque tempi la parte minore ha costantemente due tempi primi mentre la maggiore tre tempi primi, e nei piedi di sette tempi la parte minore ha costantemente tre tempi primi mentre la maggiore quattro. Così in tutti i piedi non v'è mai la parte più piccola caratterizzata con la divisione da una determinata misura, se ad essa le altre non concordano nella massima eguaglianza possibile. ...l'eguaglianza nei ritmi e nel verso. 10. 27. Nella combinazione dei piedi, sia che essa si svolga in una libera successione, come nei ritmi, sia che ritorni a capo da una fine ben determinata, come nei metri, sia anche che si distingua in due cola, i quali si corrispondano con un determinato schema, come nei versi, un piede si congiunge ad un altro soltanto in base al fattore della eguaglianza. E proprio per questo la sillaba di mezzo del molosso e degli ionici, che è lunga, può essere divisa in due tempi eguali non scindendola ma a facoltà di chi recita con la percussione, sicché il piede rientra nel rapporto di tre a tre, quando è combinato con quelli che hanno il medesimo rapporto fra le parti. E questo si ha soltanto per la validità del principio d'eguaglianza perché, cioè, la sillaba di mezzo è equivalente alle due laterali che sono di due tempi ed anche essa è di due tempi. Ma non si può ottenere nell'anfibraco, quando è unito ad altri piedi di quattro tempi, appunto perché in esso non si trova una simile eguaglianza, dato che la sillaba di mezzo è di due tempi e le laterali di un tempo. Per lo stesso motivo con le pause non si froda l'udito, perché il debito viene pagato al diritto d'eguaglianza non in suono ma in lunghezza di tempo. Così una sillaba breve seguita dalla pausa viene considerata lunga non per convenzione ma per un connaturato criterio che regola l'udito, soltanto perché è vietato dal medesimo principio d'eguaglianza restringere in limiti più stretti un suono posto in una quantità di tempo maggiore. Pertanto il significato stesso di udire e tacere consente di prolungare una sillaba oltre i due tempi in modo che sia occupata dal suono la quantità di tempo che si può occupare con la pausa. Al contrario se la medesima sillaba occupa meno di due tempi e rimane un po' di tempo per un movimento senza suono delle labbra, si ha una violazione della eguaglianza perché eguaglianza non si ha fra meno di due cose. Infine nella eguaglianza dei cola, con la quale si hanno i vari sistemi, che i greci chiamano

, e si pongono versi di schema diverso, si torna con un approfondimento al concetto di eguaglianza per il semplice fatto che il colon più breve si raccorda nella percussione col più lungo mediante l'equivalenza dei piedi. Nel verso poi in un approfondito esame dei ritmi, si scopre che i commi in esso congiunti, sebbene ineguali, conservano la dinamica dell'eguaglianza. Limiti del sentimento estetico.

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10. 28. La ragione continua l'indagine e sottopone a interrogatorio il sentimento estetico che si attribuisce le mansioni della critica. Gli si chiede se, mentre lo diletta l'eguaglianza nei ritmi delle lunghezze di tempo, due sillabe brevi, che abbia sentito, sono veramente eguali, oppure se è possibile che una delle due sia pronunciata più lentamente, non fino alla quantità di una lunga, ma un po' meno, tanto da superare comunque la sua compagna. Non si può negare che è possibile, sebbene il sentimento estetico non percepisce queste sfumature e riceve godimento da tempi ineguali come se fossero eguali. E niente v'è di più sgradevole di tale errore e ineguaglianza. Dal fatto si è ammoniti a volgere il godimento estetico in altro senso da questi ritmi che sono imitazioni della eguaglianza e non si può avere certezza se ci danno la pienezza. Anzi si è certi forse che non ne danno la pienezza, e tuttavia non si può negare, proprio perché ne sono imitazioni, che sono belli nel loro ordine e in virtù d'una loro finalità. Godimento superiore, eguaglianza e... 11. 29. Non abbiamo dunque un cattivo concetto delle cose che ci sono inferiori e con l'aiuto del Dio e Signore nostro ordiniamoci al fine fra le cose che sono sotto di noi e quelle che sono sopra di noi per non essere ostacolati dalle inferiori ed essere dilettati soltanto dalle superiori. Il godimento è appunto quasi la legge di gravitazione dell'anima. Il godimento dunque muove l'anima al fine. Dove infatti sarà il tuo tesoro, ivi sarà anche il tuo cuore 4; dove il godimento, ivi il tesoro; dove il cuore, ivi la felicità o l'infelicità. E cose superiori son quelle in cui è permanente la sovrana, stabile, non diveniente, eterna eguaglianza. In essa non v'è il tempo perché non v'è divenire e da essa i tempi hanno origine, sono diretti al fine e regolati come imitazioni dell'eternità attraverso i periodi in cui il moto circolare del cielo torna all'identico, riconduce all'identico i corpi celesti e obbedisce alle leggi d'eguaglianza, armonia e finalità con i giorni, i mesi, gli anni, i lustri e gli altri movimenti orbitali delle stelle. Così le cose terrene sottomesse a quelle celesti fondono in una ritmica successione i movimenti orbitali dei propri tempi in un quasi poema dell'universo. ...bellezza che si manifesta... 11. 30. Molte di queste cose ci sembrano senza e contro finalità, poiché siamo inseriti, secondo i nostri meriti, nel loro ordinamento al fine, senza conoscere quale opera di bellezza la divina Provvidenza sta compiendo nei nostri confronti. Se qualcuno, ad esempio, fosse collocato come una statua in un angolo di una sala molto spaziosa e bella, non potrebbe percepire la bellezza della costruzione perché ne fa parte. Così un soldato in una schiera non può cogliere la disposizione di tutto l'esercito. E se in qualche composizione poetica le sillabe si animassero a percepire solo per il tempo in cui si ode il loro suono, non potrebbero certamente godere della ritmicità e bellezza dell'opera nella sua interezza, perché non potrebbero valutarla in una visione unitaria, sebbene sia stata condotta a termine per mezzo di ognuna di esse nel loro susseguirsi. Così Dio ha ordinato l'uomo che pecca, e quindi fuori dell'ordine, ma non contro l'ordine. Infatti si è posto fuori dell'ordine per sua volontà col perdere la tendenza all'uno che possedeva finché ha obbedito ai precetti di Dio ed è stato ordinato al fine soltanto in parte, in modo che non avendo voluto condurre al fine la legge è condotto al fine dalla legge. Ora tutto ciò che si fa secondo legge, si fa con giustizia e tutto ciò che si fa con giustizia, non si fa contro

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l'ordine, poiché anche nelle nostre opere malvagie le opere di Dio sono giuste. Infatti l'uomo in quanto uomo è un bene, l'adulterio invece in quanto adulterio è necessariamente un male, ma spesso dall'adulterio nasce un uomo, cioè dall'opera cattiva, dell'uomo l'opera buona di Dio. ...nei ritmi sensibili... 11. 31. Ma torniamo all'argomento, giacché per chiarirlo abbiamo fatto queste considerazioni. I ritmi della ragione eccellono in bellezza. Se ci separassimo da essi, nel piegarci verso il corpo, i ritmi in formazione non darebbero la misura a quelli del senso. Questi a loro volta conducono la bellezza sensibile dei tempi ai corpi da muovere, e così si formano anche i ritmi espressi nel loro incontro con i sonori. L'anima, ricevendo tutte queste impressioni, le moltiplica, per così dire, in se stessa e produce i ritmi del ricordo. E questo dinamismo dell'anima è chiamato memoria, grande aiuto nelle attività molteplici della esperienza sensibile. ...nei fantasmi estetici... 11. 32. Dunque tutti gli oggetti conservati dalla memoria e derivanti dai movimenti dell'anima, che sono reazioni alle modificazioni del corpo, sono detti in greco . Non trovo come vorrei chiamarli in latino. Ritenere come conoscenze certe tali rappresentazioni è adesione allo scetticismo che è portinaio dell'errore. Ma quando questi movimenti si scontrano e divengono, per così dire, un mare agitato per i diversi e contrastanti venti dell'atto di coscienza, si ha un generarsi di movimenti da altri movimenti, ma non di quelli che si hanno dall'irrompere delle modificazioni del corpo impressionato nell'organo sensoriale, ma simili, quasi immagini di immagini. Hanno insegnato a chiamarli fantasmi. In un modo infatti mi rappresento mio padre che ho visto spesso e in un altro mio nonno che non ho mai visto. Il primo dato è rappresentazione, l'altro fantasma. Quello lo trovo nella memoria, l'altro in quel movimento dell'anima che è sorto dagli oggetti conservati nella memoria. È difficile scoprire e spiegare come abbiano origine i fantasmi. Penso comunque che se non avessi mai visto corpi umani, non potrei in alcun modo rappresentarmeli al di dentro con forma visibile. Ora ciò che mi figuro da un oggetto visto, me lo figuro con la memoria, e tuttavia altro è trovare nella memoria la rappresentazione del fantasma e altro trar fuori il fantasma dalla memoria. Ma lo può il dinamismo dell'anima. Però è assai grande errore considerare come oggetto di conoscenza i fantasmi anche se veri. Comunque nell'uno e nell'altro caso v'è ciò che non irragionevolmente possiamo considerare l'aver coscienza, cioè avere rappresentato o immaginato quegli oggetti. Infatti non sono uno sconsiderato se dico di avere avuto un padre e un nonno, ma sarei proprio pazzo se dicessi che sono quelli che la mia coscienza conserva nella immaginazione o nel fantasma. Ma alcuni accettano i propri fantasmi con tanta sconsideratezza che unico contenuto di tutte le false filosofie è quello di considerare come oggetti di conoscenza derivati dal senso le immaginazioni e i fantasmi. Opponiamoci dunque a questi oggetti e non commisuriamo ad essi la mente al punto di ritenere che mentre se ne ha una rappresentazione comprensiva, essi siano oggetto di puro pensiero. ...verso una bellezza superiore. 11. 33. Se dunque tali ritmi, che si hanno nell'anima nel suo applicarsi ad azioni poste nel tempo, hanno una loro bellezza, anche se essi la realizzano attimo per attimo nel loro divenire, perché la divina Provvidenza

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disapproverebbe tale bellezza? È vero che si configura dalla nostra soggezione al divenire, dovuta alla pena che abbiamo meritato per giusta legge di Dio. Tuttavia egli non ci ha abbandonato in essa al punto che non possiamo tornare sui nostri passi ed essere distolti dal piacere dei sensi della carne per la misericordia di lui che ci tende la mano. Infatti questo piacere infigge profondamente nella memoria ciò che essa deriva dai sensi che son causa di cadute. E l'esperienza dell'anima nella carne, a causa della soggezione alla carne, è chiamata nella Sacra Scrittura carne. Essa lotta contro la mente, quando si può applicare il detto dell'Apostolo: Con la mente son soggetto alla legge di Dio, con la carne alla legge del peccato 5. Ma se l'anima si solleva stabilmente alle cose spirituali e vi rimane, l'assalto dell'esperienza carnale si frange e respinto un po' alla volta cessa. Infatti era più forte quando non opponevamo resistenza, non cessa mai del tutto comunque, ma diminuisce quando resistiamo. Così tutta la nostra esistenza, mediante un consaputo regredire da ogni movimento che allenta ogni freno e nel quale consiste il deperire dell'essere dell'anima, riottenendo il godimento dei ritmi razionali, si volge a Dio, mentre dà al corpo i ritmi dell'assenza dalle passioni e non ne trae diletto. Ciò si compirà con la distruzione dell'uomo esteriore e la sua trasformazione in un essere più perfetto.

Ritmi ideali (12, 34 - 17, 59) La sede del ritmo ideale. 12. 34. La memoria non conserva soltanto i movimenti carnali dell'anima, e di questi ritmi abbiamo già parlato, ma anche i movimenti spirituali, di cui parlerò brevemente. Infatti quanto più sono semplici, tanto meno parole richiedono, ma il massimo di puro pensiero. Lo spirito non desidererebbe l'eguaglianza che non trovavamo pura e non diveniente nei ritmi sensibili, ma che tuttavia riconoscevamo, sebbene posta nella copia e nel divenire, se non fosse oggetto di conoscenza in qualche luogo. Ma questo luogo non si trova nelle lunghezze di spazio e di tempo, perché quelle sono solide e queste divenienti. Rispondimi dunque dove, se lo sai. Tu non pensi certo che esista nelle figure sensibili che ad un sereno esame non puoi considerare eguali, né nelle lunghezze di tempo, perché non sappiamo se in esse ve ne sia qualcuna più lunga o più breve di quanto sia richiesto che sfugge all'udito. Io domando dunque dove si trova, secondo te, l'eguaglianza ideale, giacché, avutane l'idea, desideriamo che certi dati e movimenti sensibili siano eguali, ma dopo un'approfondita teoresi su di lei, non osiamo più credere che esista in essi. D. - Io penso che si trovi in qualche luogo più nobile del mondo sensibile ma non so se nell'anima stessa o anche al di sopra dell'anima. Ritmi sensibili e apprendimento, intelligibili e interiorità. 12. 35. M. - Supponi che stiamo indagando sull'arte ritmica e metrica, usata da coloro che compongono versi. Pensi che essi abbiano in sé alcuni ritmi, sul cui modello compongono i versi? D. - Non posso ritenere diversamente. M. - Quali che siano questi ritmi, ritieni che siano nel divenire con i versi o che permangano? D. - Permangono, certamente. M. - Devi dunque ammettere che certi ritmi divenienti sono formati con altri non divenienti? D. - La ragione mi costringe ad ammetterlo.

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M. - E, secondo te, questa arte non è altro che un'attitudine della coscienza dell'artista? D. - Sì. M. - E credi che questa attitudine si trovi anche in chi è profano in questa arte? D. - No, certo. M. - E in chi l'ha dimenticata? D. - Neanche in lui, perché anche egli è profano, anche se una volta ne era intenditore. M. - E pensi che se qualcuno in un dialogo gli fa ricordare, i ritmi passeranno dalla coscienza del dialogante alla sua, oppure che egli interiormente nella propria coscienza si muova verso qualche cosa da cui gli viene restituito quel che aveva perduto? D. - Penso che egli ricordi in se stesso. M. - E pensi che col dialogo possa esser mosso a ricordare, se l'ha completamente dimenticato, quale sillaba è breve e quale è lunga, sebbene a causa di una umana antica precettistica e convenzione sia stata data ad alcune sillabe una lunghezza maggiore e ad altre minore? Infatti se ciò fosse stabilmente deciso dalla natura o dall'arte, alcuni grammatici più vicini a noi non avrebbero considerato lunghe alcune sillabe che gli antichi hanno considerato brevi o e considerato brevi altre che quelli han considerato lunghe. D. - Credo che è possibile perché qualsiasi cosa venga dimenticata può tornare alla memoria in un dialogo che induce a ricordare. M. - Mi stupisci se pensi che mediante dialogo con qualsiasi individuo tu puoi ricordare ciò che hai mangiato a pranzo un anno fa. D. - Confesso che non mi è possibile e non penso più che si possa mediante un dialogo far ricordare a quel tizio sillabe, di cui ha dimenticato completamente le lunghezze. M. - Ma è così, soltanto perché nella parola Italia la prima sillaba era considerata breve per decisione di alcuni individui e ora per decisione di altri è considerata lunga. Ma nessuno dei morti ha potuto, nessuno dei viventi può e nessuno dei posteri potrà fare che uno più due non facciano tre e che il rapporto fra due e uno non sia due. D. - Niente è più evidente. M. - Ma supponi che, come abbiamo fatto noi espressamente per l'uno e il due, quel tizio fosse interrogato su tutte le regole riguardanti i numeri dell'aritmetica, che non conosce non perché se n'è dimenticato ma perché non le ha mai apprese. Non ritieni che, salvo le sillabe, potrebbe apprendere nello stesso modo l'arte poetica? D. - Che dubbio? M. - Dunque a quale oggetto, secondo te, egli volgerà l'atto del pensiero affinché i numeri della ritmica siano partecipati alla sua mente e vi producano quell'attitudine che si chiama arte? Oppure ritieni che a lui almeno li comunicherà il dialogante? D. - Penso che anche egli come l'altro dialogante rifletterà su se stesso per conoscere intellettivamente, mentre. risponde, che son veri i concetti trattati nel dialogo. Dio sede fontale dei ritmi ideali. 12. 36. M. - Ed ora dimmi se, secondo te, i ritmi, sui quali si indaga in questi termini, sono nel divenire?

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D. - No, assolutamente. M. - Dunque non neghi che sono eterni. D. - Al contrario, lo affermo. M. - E potrebbe insinuarsi il timore che si dia una loro ineguaglianza e che essa ci sfugga? D. - Per me non v'è assolutamente nulla di più immune da timore della loro eguaglianza. M. - Da chi dunque si deve credere che venga partecipato all'anima l'essere eterno e non diveniente se non da Dio il solo eterno e non diveniente?. D. - Non vedo che si possa credere altro. M. - Infine non è forse evidente che chi nel dialogo con un altro muove nell'interiorità l'atto del pensiero a Dio per avere pura intellezione del vero non diveniente, se non conserva questo suo atto nella memoria, non può tornare ad avere pura conoscenza di quel vero, senza che qualcuno lo faccia ricordare? D. - Chiaro. Prudenza come scelta del bene superiore. 13. 37. M. - Chiedo ora a quale oggetto si volgerà costui nell'allontanarsi dalla pura intellezione del mondo ideale perché vi debba essere richiamato dalla memoria. O si deve forse pensare che la coscienza volta ad altro ha bisogno di un nuovo ritorno? D. - Penso che sia così. M. - Consideriamo, se vuoi, qual è l'oggetto, al quale egli si può volgere per distogliersi dalla pura intellezione della non diveniente e somma eguaglianza. Non ne vedo più di tre modi. La coscienza dunque, quando se ne distoglie, o si volge a un essere di egual valore ma altro o superiore o inferiore. D. - Non riconosco esseri superiori all'eterna eguaglianza, quindi si deve indagare sugli altri due casi. M. - Ma conosci, scusa, qual essere si possa dare di egual valore, ma altro da lei? D. - No, non lo conosco. M. - Resta dunque da cercare che cosa le è inferiore. Ma non ti si presenta prima di tutto l'anima stessa appunto perché ammette decisamente che l'ideale eguaglianza non diviene, mentre avverte che lei diviene per il fatto stesso che ha pura conoscenza in maniera diversa dei vari oggetti? Avendo dunque conoscenza di oggetti diversi l'uno dall'altro, attua la successione del tempo che non esiste negli oggetti eterni e non divenienti. D. - Son d'accordo. M. - E questa attitudine o movimento dell'anima, con cui essa conosce intellettivamente le cose eterne e che le temporali, anche se sono in essa stessa, sono loro inferiori, e sa che si deve tendere alle superiori anziché alle inferiori, secondo te, non è la prudenza?. D. - Non altro, secondo me. Bellezza nel mondo e amore disordinato... 13. 38. M. - E credi che si debba esaminare di meno il fatto che nell'anima l'aderire alle cose eterne non si verifica nell'atto stesso che in essa si ha la conoscenza che bisogna aderirvi? D. - Al contrario chiedo insistentemente che lo esaminiamo e desidero sapere da che cosa deriva. M. - Lo capirai facilmente se considererai a quali oggetti di solito si volge

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intensamente l'atto della coscienza e per i quali si mostra particolare interesse, perché, secondo me, son quelli che si amano assai. O tu pensi diversamente? D. - No, certo. M. - Dimmi, ti prego, che altro si può amare se non le cose belle? Infatti anche se alcuni, che i greci nella loro lingua chiamano sembrano amare le cose deformi, importa tuttavia vedere quanto siano meno belle di quelle che piacciono ai più. È chiaro appunto che non si amano le cose, della cui bruttezza il senso rimane offeso. D. - Hai ragione. M. - Dunque le cose belle, di cui stiamo parlando, dilettano col ritmo, nel quale, come abbiamo già mostrato, si ricerca l'eguaglianza. Essa infatti non si trova soltanto nella bellezza che riguarda l'udito e che si ha nei movimenti sensibili, ma anche nelle forme visibili. Anzi ad esse ormai si applica più comunemente il concetto di bellezza. Tu pensi che si abbia altro che ritmica eguaglianza, quando le parti si rapportano a coppia, proporzionalmente eguali, e che quelle che non hanno la corrispondente siano poste nel mezzo in maniera che ad esse da entrambi i lati siano riservate lunghezze eguali? D. - No, la penso così. M. - E nella luce visibile da cui traggono origine tutti i colori? È appunto il colore che ci diletta nelle forme sensibili. Che cosa dunque nella luce e nei colori si cerca se non ciò che è conveniente alla nostra vista? Infatti si distoglie lo sguardo dalla luce abbagliante e non si vuole guardare oggetti male illuminati. Così per quanto riguarda i suoni, si é frastornati da suoni assordanti e non si gradiscono quelli, per così dire, ridotti a un bisbiglio. Il fenomeno non consiste nelle lunghezze di tempo, ma nello stesso suono che è come la luce dei ritmi e al quale è opposto il silenzio come le tenebre ai colori. Dunque noi tendiamo a cose convenienti secondo il modo di essere della nostra natura e respingiamo le cose non convenienti che, come esperimentiamo, sono convenienti ad altri animali. Anche per questo aspetto quindi noi ricaviamo godimento grazie a un determinato diritto d'eguaglianza, quando notiamo che in modi misteriosi cose eguali son poste proporzionalmente a cose eguali. Il fenomeno si può constatare anche negli odori, nei sapori e nella sensazione tattile. Sarebbe lungo esporre questi fatti con precisione ma è assai facile sperimentarli. Infatti ogni dato di questi oggetti sensibili ci dà piacere soltanto in virtù della eguaglianza e somiglianza. E dove si hanno eguaglianza e somiglianza, si ha la categoria del numero. Niente infatti è tanto eguale e simile come il rapporto di uno a uno. Hai da fare qualche osservazione? D. - Sono perfettamente d'accordo. ...come culto della vuota forma... 13. 39. M. - La nostra precedente discussione non ha forse accertato che l'anima attua questi fenomeni nei sensibili e che non li subisce dai sensibili? D. - Sì. M. - Dunque l'amore di reagire al succedersi delle modificazioni del proprio corpo distoglie l'anima dalla pura intellezione delle cose eterne, giacché tale amore svia il suo interesse a causa della sollecitudine per il piacere sensibile. Compie questo atto con i ritmi espressi. Anche l'amore di dar forma mediante i sensibili la distoglie e la pone in movimento. Compie questo atto con i ritmi in formazione. La distolgono anche le rappresentazioni dei fantasmi e compie

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questo atto con i ritmi del ricordo. La distoglie anche l'amore della vuota conoscenza di simili nozioni e compie questo atto con i ritmi del senso, i quali si valgono di determinate norme, per così dire, che traggono diletto dalla imitazione dell'arte. Da esse nasce perciò la curiosità pedantesca, nemica della serenità, come appare perfino dalla etimologia, e per vuotezza incapace della pienezza del vero. ...come orgoglio e fuga da interiorità... 13. 40. L'amore in genere dell'attività che distoglie dall'intellegibile ha origine dalla superbia. Con questo vizio l'anima ha scelto di imitare Dio anziché essere soggetta a Dio. Giustamente perciò è stato scritto nei libri santi: Primo atto della superbia umana è distaccarsi da Dio 6, e ancora: Primo atto di qualsiasi peccato è superbia 7. E non si può meglio chiarire il concetto di superbia che in questo passo del medesimo testo: Perché insuperbisce la terra e la cenere per aver fatto getto durante l'esistenza della propria interiorità 8? Infatti l'anima per sé è un non essere, altrimenti non sarebbe nel divenire e non subirebbe l'andare verso il nulla dal proprio essere ideale. Poiché dunque per sé è un non essere e tutto ciò che in lei è essere le viene da Dio, quando si conserva nella sua dignità, dalla presenza di Dio stesso viene vivificata nella coscienza di essere pensante. Dunque ha la perfezione dell'essere nella interiorità. Perciò dilatarsi con la superbia è versarsi nella esteriorità e, per così dire, svuotarsi, cioè essere per nientificarsi. Versarsi nella esteriorità è appunto far getto della propria interiorità, cioè rendere Dio lontano da sé, non con lo spazio ma con la disposizione del pensiero. ...come dominio sugli altri e... 13. 41. E questa tendenza dell'anima è avere sotto di sé altre anime, non di bruti perché è permesso dall'ordinamento divino, ma anime ragionevoli, cioè dei propri simili, unite a un medesimo destino sotto una legge comune. L'anima superba tende ad agire su di esse e questa azione le sembra tanto più alta di quella sui corpi, quanto l'anima in generale è più perfetta del corpo. Ma solo Dio, non per mezzo del corpo ma da sé, può agire su anime ragionevoli. Tuttavia per la nostra condizione di peccatori avviene che sia consentito a certe anime influire su altre agendo mediante i corpi delle une o delle altre con segni, o naturali come l'espressione del viso o il cenno, o convenzionali come le parole. Infatti agiscono con segni coloro che usano il comando o la persuasione o altro mezzo, se v'è oltre il comando e la persuasione, con cui ottengono l'effetto mediante o assieme ad altre anime. Ne è conseguito giustamente che le anime, le quali han voluto eccellere per superbia sulle altre, non riescano, in parte perché insipienti in sé, in parte perché asservite all'essere fisico destinato a morire, a dominare senza difficoltà e dolori neanche le attività del proprio corpo. Essi dunque mediante questi ritmi e movimenti, con cui anime influiscono su altre, si distolgono col tendere a onori e lodi dalla visione della pura e ideale verità. Infatti Dio solo onora l'anima rendendola felice nel segreto, se vive alla sua presenza nella giustizia e nella pietà. ...ricerca di prestigio sociale. 13. 42. Dunque i movimenti che un'anima mostra esteriormente per mezzo di altre anime, di persone aderenti o soggette, sono simili ai ritmi in formazione perché essa li compie come se li compisse mediante il proprio corpo. I movimenti poi che mostra esteriormente, quando desidera rendere aderenti o soggette altre anime, sono annoverati fra gli espressi. Muovendo in questa

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maniera infatti essa agisce come mediante i sensi in modo da rendere uno con sé ciò che si accoglie come dal di fuori e da respingere ciò che non può. E la memoria riceve entrambi questi movimenti e li rende oggetto di ricordo, gonfiandosi, quale un mare in tempesta, come avviene nelle immaginazioni e fantasmi di tal genere di attività. Non mancano movimenti come i ritmi di giudizio per valutare ciò che in tale attività si ottiene con vantaggio o svantaggio. Non dispiaccia considerarli propri del senso, perché sono sensibili i segni con cui le anime in questo modo influiscono su altre. Non c'è da meravigliarsi dunque se l'anima, presa da tanti e così pressanti interessi, si distoglie dalla pura intellezione della verità. Certamente, per poco che ha tregua da essi, ha visione di lei, ma poiché non li ha ancora superati, non le è permesso di fissarsi nella verità. Da ciò deriva che l'anima non abbia insieme il conoscere dove si deve trovar quiete e il poter trovarla. Ma avresti forse qualche obiezione?. D. - Non v'è nulla che osi obiettare. Amore purificato a Dio e al prossimo... 14. 43. M. - Che resta dunque? Ma forse, dopo aver considerato, come ci è stato possibile, la contaminazione delle passioni e la caduta dell'anima, dobbiamo esaminare quale pratica le sia comandata per legge divina perché resa più leggera mediante la turificazione torni a salire dove non c'è movimento ed entri nel godimento del suo Signore?. D. - Va bene. M. - Non pensare che ne parli troppo a lungo, giacché le divine Scritture con tanti libri forniti di grande autorità e santità, non inculcano altro che di amare il Dio Signore nostro con tutto il cuore, tutta l'anima e tutta la nostra mente e di amare il prossimo nostro come noi stessi 9. Se dunque volgiamo a questo fine tutti i movimenti e ritmi dell'azione umana, senza dubbio saremo purificati. O pensi diversamente? D. - No, certo. Ma quanto questo precetto è breve a udirsi, tanto è veramente difficile a praticarsi. ...e retto amore del mondo... 14. 44. M. - Ma che cosa è facile? Forse amare i colori, i suoni, i piaceri del gusto, il profumo delle rose e i corpi piacevoli al tatto? Ed è forse facile per l'anima amare questi oggetti, giacché in essi ricerca soltanto la proporzione di eguaglianza, ma se li esamina un po' più attentamente, vi scorge solo una copia e impronta lontana?. E le sarebbe difficile amare Dio, giacché rappresentandoselo nel pensiero, per quanto le è possibile quando è ancora ferita e macchiata, non può concepire in lui alcunché di ineguale, di dissimile in sé, di diviso nello spazio, di mutato nel tempo? Ovvero le dà forse godimento costruire grandi monumenti e perpetuarsi nelle opere d'arte, poiché in esse le son graditi i ritmi? Altro io non vi scorgo. Eppure niente vi si può scorgere di proporzionalmente eguale che i principi dell'arte pura non possono sottoporre a critica. E se è così, perché dall'alto edificio della intelligibile eguaglianza crolla tanto in basso e innalza edifici terreni con i propri rottami? Questo non è stato promesso da colui che non sa ingannare. Il mio giogo, ha detto, è leggero 10. Dunque l'amore di questo mondo presenta maggiori difficoltà. Infatti l'anima non trova in esso quel che cerca, cioè l'essere fuori del movimento nell'eternità, poiché la bellezza infima ha la sua compiutezza nel movimento dei sensibili e ciò che in essa è imitazione dell'essere posto fuori del

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movimento le viene partecipato da Dio sommo mediante l'anima. E per questo la forma, mobile soltanto nel tempo, viene prima di quella che è mobile nel tempo e nello spazio. Come dunque dal Signore è stato comandato alle anime ciò che devono amare, così dall'apostolo Giovanni ciò che non devono amare: Non amate, ha detto, il mondo, poiché tutte le cose che sono nel mondo sono concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e desiderio smodato della vita che passa 11. ...come virtù civile... 14. 45. Ma come giudichi l'individuo che riferisce non al piacere sensibile ma soltanto alla salute fisica tutti i ritmi che si compiono mediante il corpo o come reazione alle modificazioni del corpo e che sono conservati nella memoria? O se riconduce non a personale prestigio sociale ma al bene delle anime stesse tutti i ritmi che si ottengono mediante le anime di persone a lui legate o che si compiono per legarle e che si conservano nella memoria?. O se usa i ritmi che nell'una e nell'altra categoria hanno nell'udito funzioni di critica e ricerca degli altri nel loro succedersi, non a scopo di una vuota e dannosa pedanteria ma di una indispensabile approvazione o disapprovazione? Costui non forma forse tutti questi ritmi senza incappare nelle loro reti? Infatti ha come fine la salute fisica, ché non sia compromessa, e riconduce tutte queste azioni al bene del prossimo che ha il dovere di amare come se stesso in virtù del vincolo naturale del rapporto civile. D. - Stai parlando di un uomo grande e veramente pieno di umanità. ...come rientro nella eticità e fini... 14. 46. M. - Dunque non i ritmi inferiori alla ragione, nel loro genere belli, ma l'amore della bellezza inferiore macchia l'anima. Se in essi infatti ama non solamente l'eguaglianza, di cui abbiamo già sufficientemente parlato nei limiti del nostro assunto, ma li ama anche come fine, l'anima ha perduto il proprio fine. Non è uscita tuttavia dalla finalità delle cose poiché si trova nel grado e dignità in cui, per universale ordinamento, esse si trovano. Altro è infatti disporsi al fine ed altro esser disposto al fine. Essa si dispone al fine amando con tutta se stessa ciò che è al di sopra di lei, cioè Dio, e come se stessa le anime dei propri simili. Con questa forza dell'amore essa dispone al fine le cose, senza esserne contaminata. E ciò che la contamina non è cattivo, poiché anche il corpo è una creatura di Dio ed è ornato di una sua bellezza anche se infima, ma che in confronto alla dignità dell'anima ha poco valore, come il pregio dell'oro è contaminato dall'unione con l'argento anche il più puro. Pertanto non escludiamo dall'azione della divina provvidenza i ritmi, quali che siano, anche se formati dalla nostra soggezione alla morte, pena del peccato, poiché essi nel loro genere sono belli. Ma non li amiamo come se, godendo di essi, trovassimo la felicità. Ce ne libereremo, giacché sono nel tempo, come di una tavola nel naufragio, cioè non buttandoli come zavorra e non aggrappandoci ad essi come se non andassero a fondo, ma usandone bene. E dall'amore del prossimo praticato nella sua pienezza parte per noi la scala sicura per unirci a Dio e per non essere conservati nel fine soltanto dal suo ordinamento, ma per conservare, stabile e definitivo, il nostro fine. ...anche mediante la cultura umana... 14. 47. Ma l'anima ama la disposizione al fine giacché lo provano gli stessi ritmi sensibili. E proprio da questa Disposizione il primo piede è il pirrichio, secondo il giambo, terzo il trocheo e così di seguito gli altri. Giustamente

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potresti osservare che qui l'anima ha seguito piuttosto la ragione che il senso. Ma bisogna accreditare ai ritmi sensibili il fatto che sebbene, ad esempio, otto sillabe lunghe hanno la medesima quantità di sedici brevi, tuttavia nella lunghezza di un piede le brevi richiedono di essere unite alle lunghe. E quando la ragione valuta il senso e i piedi proceleusmatici le vengono presentati come eguali agli spandei, essa trova che nel caso ha valore soltanto la funzione di una ordinata disposizione, poiché le sillabe lunghe sono lunghe soltanto nel confronto con le brevi e le brevi sono brevi soltanto nel confronto con le lunghe. E perciò un verso giambico, sebbene pronunciato più lentamente, purché si rispetti il rapporto dell'uno a due, non perde il suo nome. Al contrario un verso formato di piedi pirrichi, se gradualmente gli si aumenta la lunghezza nel pronunciarlo, diviene all'improvviso un verso spondaico, se ci si attiene ovviamente alla musica e non alla prosodia. Ma se il verso è formato di dattili e anapesti, poiché le lunghe sono percepite nel confronto con le brevi, quale che sia la lunghezza con cui si pronuncia, conserva il suo nome. Così le aggiunte di un semipiede non vanno applicate all'inizio col medesimo schema che alla fine e non tutte si devono usare, anche se si accordano nella percussione. Egualmente si ha la collocazione in fine di due brevi anziché di una lunga. E tutti questi fenomeni sono misurati dal senso. E in essi non è in discussione il ritmo dell'eguaglianza, che non ha nulla da perdere tanto se è quello o un altro, ma il legame della disposizione nell'unità. Sarebbe troppo lungo percorrere gli altri casi attinenti alla medesima funzione nei ritmi di tempo. Ma ovviamente il senso biasima anche le figure visibili quando sono chinate oltre il conveniente o rovesciate o simili. In esse non è in discussione l'eguaglianza poiché la proporzione delle parti rimane, ma la cattiva disposizione. Infine in tutte le nostre sensazioni e azioni, quando gradualmente adattiamo al nostro desiderio oggetti insoliti e perciò sgraditi, li accettiamo dapprima con sopportazione e poi con soddisfazione. Così ci costruiamo il piacere con una disposizione finalizzata e sentiamo avversione se gli oggetti precedenti non sono legati a quelli di mezzo e questi ai seguenti. ...in vista del bene superiore. 14. 48. Pertanto non riponiamo il nostro godimento nel piacere della carne, negli onori e lodi degli uomini e nella ricerca delle cose che stimolano il corpo dal di fuori, giacché possediamo nella nostra interiorità Dio, in cui tutto ciò che amiamo è stabile e immutabile. Accade così che, pur avendo questi beni temporali, non se ne rimane irretiti, che senza provar dolore possono mancar i beni esterni e che senza provar dolore alcuno o per lo meno non grave il corpo stesso sia tolto a noi e restituito dalla morte alla natura per essere trasformato. Infatti il riferirsi dell'anima alla sola porzione di tempo in cui vive la limita ad attività che turbano. Altrettanto fa, nella non considerazione della legge universale, l'amore di una determinata attività limitata all'individuale, che tuttavia non può rendersi altra dal tutto che Dio ordina al fine. Dunque è soggetto alle leggi chi non ama le leggi. Purificazione e virtù morali... 15. 49. Ma se meditiamo abitualmente le realtà spirituali, che sono sempre medesime a se stesse e se per caso nel medesimo tempo formiamo dei ritmi di tempo con un movimento qualsiasi del corpo, ma che sia molto facile a divenir abitudine, come camminare o cantare, essi si svolgono a nostra insaputa, benché non esisterebbero senza la nostra azione. Così se siamo intenti alle

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nostre vuote fantasticherie, questi ritmi scorrono con la nostra azione, ma senza che ce ne accorgiamo. Quanto più dunque e con quanto maggiore immobilità, quando questo essere corruttibile avrà indossato l'incorruzione e questo essere mortale avrà indossato l'immortalità 12, cioè, per parlate più chiaramente, quando Dio darà vita al nostro corpo di morte, come dice l'Apostolo, in considerazione dello spirito che rimane in noi 13, quanto più dunque allora, avendo visione, come è stato detto, faccia a faccia 14, del Dio Uno e della Verità nella sua trasparenza, intuiremo senza disporci nell'alterità i ritmi, secondo cui moviamo i corpi, e ne avremo godimento. A meno che non si debba credere che potendo l'anima godere delle cose che mediante lei sono buone, non possa godere delle cose da cui essa è buona. ...nella specifica competenza. 15. 50. Ma la pratica per cui l'anima, con l'aiuto di Dio suo Signore, si libera dall'amore della bellezza inferiore, combatte per debellare la propria abitudine in lotta contro di lei e con questa vittoria trionferà in se stessa sulle potenze di questa aria e poiché esse la contrastano e tendono ad impedirglielo, sale a Dio che la rende immobile e forte, non è, secondo te, la virtù che si chiama temperanza? D. - La ravviso e capisco. M. - Inoltre l'anima progredisce in questo cammino e non l'atterriscono la perdita dei beni temporali o la morte stessa mentre pregusta e quasi afferra i godimenti eterni e ha la forza di dire ai propri compagni a lei inferiori: Per me è bene scioglier la vela ed esser con Cristo, ma a voi è necessario che io rimanga nella carne 15. D. - È così, credo. M. - Ma questa disposizione dell'anima per cui essa non teme avversità o morte, non si deve forse chiamarla fortezza? D. - Anche questo conosco. M. - E la legge che l'anima si è data, per cui non si assoggetta ad alcuno se non a Dio solo, non desidera essere eguagliata ad alcuno se non agli spiriti più puri e non dominare su alcuno salvo i bruti e i corpi, quale virtù pensi che sia? D. - Chi non capisce che è la giustizia?. M. - Comprendi bene. Rimangono dopo la vita le virtù contemplative? 16. 51. Ti propongo un altro quesito. Dianzi è emerso dal nostro dialogo che la prudenza è una virtù con cui l'anima conosce il luogo in cui trovar quiete. Vi si eleva con la temperanza, cioè col volgersi dell'amore a Dio, che è detto carità, e col volgersi in altro senso dall'amore del mondo e a questo si accompagnano fortezza e giustizia. Chiedo dunque la tua opinione sul tempo, in cui l'anima giungerà alla maturazione del proprio amore ed elevazione dopo aver compiuto la propria santificazione e compiuto anche il ritorno a nuova vita del proprio corpo. Eliminate dalla memoria le perturbazioni dei fantasmi, comincerà a vivere in Dio stesso a Dio solo, quando avrà avuto compimento ciò che ci si promette in questi termini: Dilettissimi, ora siamo figli di Dio e non si è ancora manifestato che cosa saremo. Ma sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come è 16. Ti chiedo dunque se, secondo te, le virtù che abbiamo elencato esisteranno anche allora. D. - Io non vedo, quando saranno passate le contrarietà, contro cui si lotta,

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come potrebbe esservi la prudenza, la quale non sceglie che cosa seguire se non nelle contrarietà, o la temperanza, la quale non distoglie l'amore se non dalle cose che le sono contrarie, o la fortezza, la quale non sopporta che le contrarietà, o la giustizia la quale desidera di essere eguale alle anime più felici e dominare la natura inferiore soltanto nelle contrarietà, cioè quando non ha ancora raggiunto ciò che vuole. Rimangono prudenza... 16. 52. M. - La tua risposta non è del tutto irragionevole e a certi dotti è così sembrato, lo ammetto. Ma nel leggere i libri, che sono i più autorevoli di tutti, vi trovo scritto: Gustate e vedete che il Signore è soave 17. L'apostolo Pietro ha espresso così il medesimo concetto: Se tuttavia avete gustato che il Signore è buono 18. E ciò si avvera, secondo me, in queste virtù che purificano l'anima con la conversione stessa. Infatti l'amore delle cose temporali non sarebbe debellato se non con l'attrattiva delle cose eterne. Ma quando si è giunti al passo che dice: E i figli degli uomini si rifugeranno sotto la copertura delle tue ali, saranno inebriati dall'abbondanza della tua casa e tu li disseterai al torrente del godimento di te, perché la sorgente della vita è presso di te 19, il testo non dice più che il Signore sarà soave ad esser gustato. Puoi osservare però quale scaturire e scorrere della sorgente eterna viene indicato, giacché se ne ha come conseguenza una specie di ebbrezza. E con questo termine, mi pare, è mirabilmente significato l'oblio dei vuoti fantasmi posti nel divenire. Il testo soggiunge di seguito altri concetti e dice: Nella tua luce avremo visione della luce. Continua ad offrire la tua misericordia a coloro che hanno scienza di te 20. Nella luce si deve intendere in Cristo che è la Sapienza di Dio ed è tante volte chiamato luce. Non si può dunque negare che si avrà la prudenza nel luogo dove si dice Avremo visione, e: A coloro che hanno scienza di te. Non si potrebbe infatti avere visione e scienza del bene ideale dell'anima dove non si ha la prudenza. D. - Ora capisco. ...giustizia, temperanza e... 16. 53. M. - E i retti di cuore possono essere senza giustizia? D. - Ammetto che con questo termine assai spesso si designa la giustizia. M. - E di che altro vuole avvertirci il medesimo Profeta in seguito, quando canta: E la tua giustizia a coloro che sono di cuore retto 21? D. - È evidente. M. - E allora ricorda, per favore, che ne abbiamo abbastanza trattato poco fa, e cioè che per la superbia l'anima scende in basso verso certe attività in suo potere e che nella non considerazione della legge universale è caduta a compiere azioni limitate all'individuale, e questo è un distaccarsi da Dio. D. - Me ne ricordo bene. M. - Quando dunque essa fa in modo che ciò in seguito non le dia più piacere, secondo te, non fissa il suo amore in Dio e vive immune da macchia nella più grande temperanza, castità e libertà dal timore? D. - Sì, certamente. M. - Osserva anche che il Profeta aggiunge anche questo concetto col dire: Non mi venga il piede di superbia 22. Col termine di piede designa infatti l'andar lontano o lo scivolare. Ma usando contro di esso la temperanza, vive nell'eterno a Dio unita.

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D. - Capisco e son d'accordo. ...fortezza... 16. 54. M. - Resta dunque la fortezza. Ma come la temperanza è virtù contraria alla caduta che dipende dalla libera volontà, così la fortezza è virtù contraria alla violenza con cui si può essere illiberamente condizionati, se si è meno forti a fronteggiare gli eventi da cui si è abbattuti e lasciati a terra nella più grande infelicità. Questo tipo di violenza di solito nella sacra Scrittura è convenientemente designato col termine di mano. Soltanto i peccatori dunque tentano di imporla. Ma l'attitudine per cui allora l'anima attraverso questa stessa esperienza si premunisce ed è difesa dal sostegno di Dio, affinché l'assalto non le possa venire addosso da alcuna parte, comporta un potere stabile e, per così dire, impassibile. Ed esso, salvo un tuo disparere, ragionevolmente si può chiamare fortezza e, secondo me, è designata quando si aggiunge: E la mano dei peccatori non mi getti a terra 23. ...per lo meno sublimate. 16. 55. Ma sia che nelle parole citate si deve intendere questo o altro, potresti negare che l'anima, posta nella felicità della perfezione morale, ha visione diretta dell'intelligibile, rimane stabilmente senza macchia, non può subire alcuna contrarietà, si assoggetta a Dio solo e si eleva al di sopra di tutti gli esseri? D. - Anzi non vedo come altrimenti sarebbe nella piena perfezione e felicità. M. - Dunque la sua pura intellezione, santificazione, impassibilità e adeguazione alla legge o sono le quattro virtù nel loro grado più perfetto e alto, ovvero, per non affaticarci invano con i nomi se si è d'accordo sui concetti, in luogo di queste virtù, di cui l'anima si serve nella vita terrena, essa deve sperare facoltà corrispondenti nella vita eterna. Dio produce gli esseri e... 17. 56. Noi ricordiamoci soltanto un concetto che è il più attinente al nostro argomento. È stabilito dunque dalla provvidenza di Dio, con cui egli ha creato e dirige al fine tutte le cose, che anche un'anima peccatrice e piena di mali è mossa al fine da ritmi ideali e ne muove fino alla infima manifestazione della sensibilità. Ovviamente questi ritmi possono essere sempre meno belli ma non possono mancare del tutto di bellezza. E Dio sommamente buono e giusto non condanna la bellezza tanto se è prodotta dalla defezione dal fine dell'anima quanto dal suo ritorno e stabilità in esso. Il ritmo-numero inizia dall'uno ed è espressione di bellezza in virtù della proporzione d'eguaglianza e si congiunge l'uno all'altro in una serie unitaria. Si viene ad ammettere perciò che ogni essere, per essere ciò che è, si muove all'unità, tende, quanto gli è possibile, a rimanere simile a se stesso, mantiene, con un determinato equilibrio, come auto-conservazione il proprio ordinamento nello spazio, nel tempo, nella materia. Bisogna anche ammettere dunque che da un principio uno, per mezzo di una persona a lui eguale in essenza e perfezione, con la ricchezza della sua bontà, con cui in carità, per così dire, altamente unitiva, si uniscono fra di loro, che sono uno e uno da uno, sono state prodotte originariamente tutte le cose nell'ordine del loro essere. ...dal nulla ha fatto il mondo... 17. 57. Perciò questo verso che ci siamo proposto come esempio: Deus creator omnium, è molto gradito non solo all'udito per il suono ritmico ma anche all'anima per la razionalità e verità del pensiero. Potrebbe turbarti però

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la pigrizia mentale, per parlare con indulgenza, di coloro i quali affermano che non si può produrre l'essere dal nulla, sebbene è detto nella Scrittura che Dio onnipotente l'ha fatto 24. Ma l'artigiano con i ritmi razionali propri della sua arte può produrre i ritmi sensibili propri della sua tecnica, inoltre con i ritmi sensibili può produrre i ritmi in formazione con cui muove le membra nell'agire e ai quali competono già lunghezze di tempo, e infine può costruire dal legno forme visibili disposte razionalmente nello spazio. E la natura, che obbedisce agli ordini di Dio, non potrebbe produrre il legno stesso dalla terra e dagli altri elementi ed egli gli stessi elementi primi senza che preesistessero? È necessario anzi che un muoversi ordinato nel tempo preceda il disporsi ordinato dell'albero nello spazio. Infatti ogni genere di piante in determinate quantità di tempo, a seconda del seme, attecchisce, germoglia, spunta fuori, mette le foglie, si irrobustisce e produce o il frutto o di nuovo la vigoria del seme in un misterioso avvicendarsi di ritmi. A più forte ragione ciò avviene per i corpi degli animali, in cui la disposizione delle membra offre allo sguardo assai di più una ritmica proporzione. Ora sarebbe possibile che mediante gli elementi siano prodotti questi esseri e sarebbe stato impossibile che gli elementi fossero prodotti dal nulla? Come se fra di essi ve ne sia qualcuno più imperfetto e basso della terra. Ma essa ha inizialmente la forma elementare di corpo, giacché si è d'accordo che esistano in essa una determinata unità, valori numerici e l'ordinamento al fine. Infatti qualsiasi sua particella, per quanto piccola, da un punto indivisibile si estende necessariamente nella linea, riceve per terza la superficie e per quarto il volume con cui il corpo è completo. Da chi proviene dunque questa progressione aritmetica dalla prima alla quarta? Da chi anche l'eguaglianza delle parti, che si trova nella linea, superficie e volume?. Da chi questo rapporto razionale (ho voluto così tradurre analogia), per cui il rapporto che ha la linea indivisibile, lo ha anche la superficie alla linea e il volume alla superficie? Da chi dunque, scusa, tutto ciò se non dalla somma eterna principialità dei valori numerici, della proporzione, della eguaglianza e della finalità? Ma se si toglieranno queste dimensioni alla terra, diverrà un nulla. Perciò Dio onnipotente ha prodotto la terra, e la terra è stata prodotta dal nulla. ...e l'armonia sovrana del tutto. 17. 58. Ed inoltre la stessa struttura qualitativa, per cui la terra si distingue dagli altri elementi, non mostra forse l'uno nel limite con cui l'ha ricevuto? Infatti nessuna delle sue parti manca di proporzione col tutto e nel congiungimento organico di esse tiene nel suo genere la sfera più bassa ma la più adatta alla sua conservazione. Le si riversa sopra l'elemento acqua, che tende anche essa all'unità perché più ornata e più penetrata dalla luce a causa della maggiore proporzione delle parti e che occupa la sfera conveniente alla propria finalizzazione e conservazione. Che dire dell'elemento aria che tende all'unità mediante un'organicità molto più agevole, che è tanto più ornata dell'acqua quanto questa lo è della terra e tanto più sicura nell'autoconservazione? Che dire infine della sfera più alta del cielo, in cui ha limite il tutto dei corpi visibili, in cui si hanno l'ornamento più grande del mondo visibile e il grado più alto dell'autoconservazione? Certamente le sfere, di cui percepiamo il muoversi nel tempo con la funzione dei nostri sensi, e tutti gli esseri che in esse esistono possono ricevere e conservare la disposizione nello spazio che appare con l'essere in un luogo, soltanto se li precede, fuori

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dello spazio e del tempo, una successione di tempi che sono nel movimento. Allo stesso modo un movimento animatore precede e misura in una successione di tempi gli esseri posti nello spazio nel loro formarsi. E questo movimento esegue l'ordinamento del Signore creatore di tutte le cose e non ha in sé in atto le lunghezze dei tempi della propria successione secondo numero, ma in potenza che distribuisce i tempi. E sopra di questa potenza i ritmi razionali e intelligibili delle anime costituite stabilmente nella felicità trasmettono senza riceverlo da altri esseri, fino all'ordine costituito sulla terra e sotto di essa, lo stesso ordinamento di Dio al fine, senza di cui non cade una foglia dall'albero e per cui i capelli del nostro capo hanno il loro numero 25. L'opera di Agostino e la polemica antiereticale. 17. 59. Ho trattato con te dei concetti che ho potuto e come l'ho potuto, io tanto piccolo di cose tanto grandi. Ma se qualcuno legge questo nostro discorso una volta pubblicato, sappia che è stato scritto per individui molto più deboli di quelli che seguendo l'autorità dei due testamenti adorano la consustanziale e incommutabile Trinità dell'uno sommo. Dio, principio ordinatore e fondamento del tutto, e la onorano in fede speranza e carità. Infatti essi non sono purificati dal freddo bagliore delle filosofie umane ma dal grande e ardente fuoco dell'amore. Ma non riteniamo che si devono trascurare coloro che gli eretici ingannano con la promessa fallace del pensiero e della scienza, e per questo nell'esame delle vie procediamo più lentamente degli uomini santi che, volando al di sopra di esse, non si degnano di prenderle in considerazione. Ma non oseremmo farlo se non vedessimo che molti figli devoti della ottima madre la Chiesa cattolica i quali, avendo conseguito, quanto è richiesto, la capacità dialettica con gli studi del periodo scolastico, lo hanno già fatto per necessità di ribattere gli eretici. 1 - AMBROGIO, Hymn. 4, 1. 2 - Qo 7, 26. 3 - Rm 7, 24-25. 4 - Mt 6, 21. 5 - Rm 7, 25. 6 - Sir 10, 14. 7 - Sir 10, 15. 8 - Sir 10, 9-10. 9 - Dt 6, 5; Mt 22, 37-39; Mc 12, 30; Lc 10, 27. 10 - Mt 11, 30. 11 - 1 Gv 2, 15-16. 12 - 1 Cor 15, 53. 13 - Rm 8, 11. 14 - 1 Cor 13, 12. 15 - Fil 1, 23-24. 16 - 1 Gv 3, 2. 17 - Sal 33, 9. 18 - 1 Pt 2, 3. 19 - Sal 35, 8-10. 20 - Sal 35, 10-11. 21 - Sal 35, 11.

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22 - Sal 35, 12. 23 - Sal 35, 12. 24 - Gn 1, 1; Sap 2, 2; 2 Mac 7, 28. 25 - Mt 10, 30.


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