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AGOSTO 2005 NUMERO 16 Editoriale I Rappresentanti Territoriali · presentati con successo al...

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1 AGOSTO 2005 NUMERO 16 Editoriale L’estate, le vacanze, il caldo, il “meritato riposo” sono ormai finiti. Siamo tutti belli ed abbronzati, con qualche ruga in più, qualcuno meno bello, ma riposati e sereni. Purtroppo non sono mancate né le inumane azioni terroristiche né la scoperta di altrettanto inumane stragi etniche, (vedi Londra, vedi Serebrenic), azioni che ricevono la nostra decisa riprovazione ed il nostro massimo cordoglio. Come al solito i ritorni a casa hanno causato vittime, poche col- pevoli, la maggior parte innocenti; ma la vita continua, l’attività riprende e tutti ci accingiamo con nuova lena e impegno a ripren- dere il lavoro. È stata completata quella che mi piace chiamare “la triade della comunicazione”. Cominciammo tre anni fa (aprile 2002) con la pubblicazione di E’ Zoch, periodico cartaceo, poi con www.tribunato.it, sito internet e da qualche settimana è iniziata la visione di Tribunato in TV, programma televisivo: la triade è completa. Internet = rapidità e diffusione; dà notizie immediate, facilmente aggiornabili, e visibili in tutto il mondo. Tribunato in TV = impatto visivo, invito al dibattito; propone immagini in movimento, commentate ed offre un appuntamento regolare, portando la conoscenza di tanti luoghi di interesse per i Tribuni e per la Romagna. E’ Zoch = approfondimento e consultazione; il periodico carta- ceo approfondisce gli argomenti, può essere conservato e consul- tato nel tempo; a tanti fa piacere “toccare con mano” la notizia o l’articolo. Come vedete l’ultimo arrivato è Tribunato in TV. Grazie alla generosa disponibilità del Tribuno Tiziano Tampellini, titolare del gruppo di emittenti televisive che fa capo a Videoregio- ne ed alla gentile partecipazione professionale dei suoi collabora- tori, la giornalista Marzia Linguerri, il regista Massimo Zecchini ed gli altri ragazzi che lavorano in Videoregione, siamo già in onda con il nostro programma e vi ritorneremo ogni mercoledì alle ore 21,10 con replica ogni sabato alle 16,10 e per il tempo che Tampel- lini vorrà, ispirato dal Buon Dio. Il canale è quello di Videoregione, visibile in tutta la Romagna e nell’immediato limitrofo; le registrazioni avranno due caratte- ristiche particolari: alcune saranno riprese in studio, proponendo ricordi storici del Tribunato e della Romagna, illustrando la Roma- gna nelle sue espressioni culturali, agricole, industriali, turistiche, finanziarie, amministrative, altre saranno riprese all’esterno, in luoghi particolarmente interessanti o richiesti per promozione e quale cronaca visibile delle tornate del Tribunato, con commenti ed interviste. Speriamo in una risposta positiva del pubblico, attendiamo di es- ser contattati per ricevere critiche, proposte e commenti. Saremo, come sempre, aperti al dialogo. Un’altra iniziativa che crediamo importante ed interessante, è la nomina dei Rappresentanti Territoriali. I Rappresentanti Territoria- li sono 7, nominati dal Praesidium ed ognuno di loro rappresenta i Tribuni residenti nei territori del comprensorio: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Rimini, Ravenna. La prossima Tornata si svolgerà il 18 settembre a Villa Verrucchio, in Casa Zani, dove il Tribuno Renzo Piraccini tratterà il tema: Commercializzazione del vino romagnolo. Tribuni e Amici dei Tribuni, scrivete, collaborate, proponete, com- mentate; il vostro apporto dà lustro e vivacità alle nostre vie comu- nicative, che poi sono anche vostre, anzi, principalmente vostre. I Rappresentanti Territoriali Nel periodo in cui era Primo Tribuno Vittorio Stagni, da un membro del Praesidium fu proposta la attivazione dei Rappresentanti Territoria- li; furono anche nominati i primi rappresentanti, che, però, non hanno mai svolto reale attività perché mai furono dati loro compiti precisi. Il Praesidium in carica, dopo ponderata discussione, ha deciso di atti- vare con particolare impegno questo nuovo organo del Tribunato, la cui definizione e compiti saranno chiaramente stabiliti nello Statuto e nel Regolamento in fase di aggiornamento. In una riunione di lavoro che si è svolta lunedì sera, 4 luglio, a Forlì, il Praesidium si è incontrato con i sette Tribuni invitati a svolgere l’inca- rico di Rappresentante Territoriale. Abbiamo notato la feconda messe di idee per lo sviluppo delle attività tribunizie, apprezzata la simpatica ed amichevole disponibilità dei RT chiamati e la uniformità dei concetti basici, indispensabile cemento per la vita della nostra associazione. Chi sono e che compiti avranno questi Rappresentanti Territoriali che chiameremo RT per abbreviare? I Tribuni nominati dal Praesidium, rappresenteranno i Tribuni residenti nei territori del comprensorio di ognuna delle città romagnole deno- minate, per tradizione, “le sette sorelle” cioè, in ordine alfabetico: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Rimini, Ravenna ed i cui RT sono, rispettivamente: Giancarlo Farneti per Cesena, Veniero Casadio Stroz- zi per Faenza, Giancarlo Miccoli per Forlì, Domenico Montoschi per Imola, Giovanni Nucci per Rimini, Franco Albertini per Ravenna. I compiti dei RT saranno: 1- Ricevere dai Tribuni e discutere con essi, proposte di iniziative da sviluppare nel proprio territorio. 2- Proporre al Praesidium nuove candidature. Si raccomanda che il candidato sia, prima, proposto in sede di Rappresentanza, affinché la sua presentazione ed ammissione al Tribunato siano approvate e condivise dai Tribuni locali che certamente conosceranno personal- mente il candidato. 3- Definire quali Tribuni siano disponibili per la collaborazione effet- tiva e quali no. 4- Stimolare i Tribuni a partecipare alla collaborazione in manifesta- zioni del Tribunato. 5- Contribuire in qualsiasi modo statutariamente lecito allo sviluppo delle attività tribunizie. 6- Il RT è in riassunto, il portavoce dei Tribuni verso il Praesidium ed un amplificatore nel territorio, delle proposte e dei comunicati dello stesso. La segreteria del Tribunato sta approntando un indirizzario da inviare ai RT per la conoscenza dei Tribuni la cui residenza coincida con il territorio definito. Ed ora una raccomandazione, anzi un accorato appello ai Tribuni che stanno leggendo questo articolo: per un rapido ed ottimale avvio del lavoro dei RT, credo che sarebbe utile, molto utile, se ogni Tribuno di buona volontà si mettesse in contatto con il RT che consideri proprio rappresentante; in questo modo risparmieremmo tempo ed avremmo rapidamente una chiara visione della nostra mappa territoriale ed un felice incremento dei programmi del Tribunato. Buon lavoro ed arrivederci alla Tornata di Villa Verrucchio, il 18 set- tembre p.v. D.F. TRIBUNATO DI ROMAGNA CCV TORNATA 18 settembre 2005 Villa Verrucchio - Casa Zani Tema Commercializzazione dei prodotti dellʼagricoltura
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Page 1: AGOSTO 2005 NUMERO 16 Editoriale I Rappresentanti Territoriali · presentati con successo al “Salone Del Gusto” di Torino del 2004 e al Vinitaly di Verona del 2005. L’Oca Romagnola

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AGOSTO 2005 NUMERO 16

EditorialeL’estate, le vacanze, il caldo, il “meritato riposo” sono ormai finiti. Siamo tutti belli ed abbronzati, con qualche ruga in più, qualcuno meno bello, ma riposati e sereni.Purtroppo non sono mancate né le inumane azioni terroristiche né la scoperta di altrettanto inumane stragi etniche, (vedi Londra, vedi Serebrenic), azioni che ricevono la nostra decisa riprovazione ed il nostro massimo cordoglio. Come al solito i ritorni a casa hanno causato vittime, poche col-pevoli, la maggior parte innocenti; ma la vita continua, l’attività riprende e tutti ci accingiamo con nuova lena e impegno a ripren-dere il lavoro. È stata completata quella che mi piace chiamare “la triade della comunicazione”.Cominciammo tre anni fa (aprile 2002) con la pubblicazione di E’ Zoch, periodico cartaceo, poi con www.tribunato.it, sito internet e da qualche settimana è iniziata la visione di Tribunato in TV, programma televisivo: la triade è completa. Internet = rapidità e diffusione; dà notizie immediate, facilmente aggiornabili, e visibili in tutto il mondo.Tribunato in TV = impatto visivo, invito al dibattito; propone immagini in movimento, commentate ed offre un appuntamento regolare, portando la conoscenza di tanti luoghi di interesse per i Tribuni e per la Romagna.E’ Zoch = approfondimento e consultazione; il periodico carta-ceo approfondisce gli argomenti, può essere conservato e consul-tato nel tempo; a tanti fa piacere “toccare con mano” la notizia o l’articolo.Come vedete l’ultimo arrivato è Tribunato in TV.Grazie alla generosa disponibilità del Tribuno Tiziano Tampellini, titolare del gruppo di emittenti televisive che fa capo a Videoregio-ne ed alla gentile partecipazione professionale dei suoi collabora-tori, la giornalista Marzia Linguerri, il regista Massimo Zecchini ed gli altri ragazzi che lavorano in Videoregione, siamo già in onda con il nostro programma e vi ritorneremo ogni mercoledì alle ore 21,10 con replica ogni sabato alle 16,10 e per il tempo che Tampel-lini vorrà, ispirato dal Buon Dio.Il canale è quello di Videoregione, visibile in tutta la Romagna e nell’immediato limitrofo; le registrazioni avranno due caratte-ristiche particolari: alcune saranno riprese in studio, proponendo ricordi storici del Tribunato e della Romagna, illustrando la Roma-gna nelle sue espressioni culturali, agricole, industriali, turistiche, finanziarie, amministrative, altre saranno riprese all’esterno, in luoghi particolarmente interessanti o richiesti per promozione e quale cronaca visibile delle tornate del Tribunato, con commenti ed interviste. Speriamo in una risposta positiva del pubblico, attendiamo di es-ser contattati per ricevere critiche, proposte e commenti. Saremo, come sempre, aperti al dialogo.Un’altra iniziativa che crediamo importante ed interessante, è la nomina dei Rappresentanti Territoriali. I Rappresentanti Territoria-li sono 7, nominati dal Praesidium ed ognuno di loro rappresenta i Tribuni residenti nei territori del comprensorio: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Rimini, Ravenna.La prossima Tornata si svolgerà il 18 settembre a Villa Verrucchio, in Casa Zani, dove il Tribuno Renzo Piraccini tratterà il tema: Commercializzazione del vino romagnolo.Tribuni e Amici dei Tribuni, scrivete, collaborate, proponete, com-mentate; il vostro apporto dà lustro e vivacità alle nostre vie comu-nicative, che poi sono anche vostre, anzi, principalmente vostre.

I Rappresentanti TerritorialiNel periodo in cui era Primo Tribuno Vittorio Stagni, da un membro del Praesidium fu proposta la attivazione dei Rappresentanti Territoria-li; furono anche nominati i primi rappresentanti, che, però, non hanno mai svolto reale attività perché mai furono dati loro compiti precisi. Il Praesidium in carica, dopo ponderata discussione, ha deciso di atti-vare con particolare impegno questo nuovo organo del Tribunato, la cui definizione e compiti saranno chiaramente stabiliti nello Statuto e nel Regolamento in fase di aggiornamento.In una riunione di lavoro che si è svolta lunedì sera, 4 luglio, a Forlì, il Praesidium si è incontrato con i sette Tribuni invitati a svolgere l’inca-rico di Rappresentante Territoriale. Abbiamo notato la feconda messe di idee per lo sviluppo delle attività tribunizie, apprezzata la simpatica ed amichevole disponibilità dei RT chiamati e la uniformità dei concetti basici, indispensabile cemento per la vita della nostra associazione.Chi sono e che compiti avranno questi Rappresentanti Territoriali che chiameremo RT per abbreviare?I Tribuni nominati dal Praesidium, rappresenteranno i Tribuni residenti nei territori del comprensorio di ognuna delle città romagnole deno-minate, per tradizione, “le sette sorelle” cioè, in ordine alfabetico: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Rimini, Ravenna ed i cui RT sono, rispettivamente: Giancarlo Farneti per Cesena, Veniero Casadio Stroz-zi per Faenza, Giancarlo Miccoli per Forlì, Domenico Montoschi per Imola, Giovanni Nucci per Rimini, Franco Albertini per Ravenna.

I compiti dei RT saranno:1- Ricevere dai Tribuni e discutere con essi, proposte di iniziative da

sviluppare nel proprio territorio.2- Proporre al Praesidium nuove candidature. Si raccomanda che il

candidato sia, prima, proposto in sede di Rappresentanza, affinché la sua presentazione ed ammissione al Tribunato siano approvate e condivise dai Tribuni locali che certamente conosceranno personal-mente il candidato.

3- Definire quali Tribuni siano disponibili per la collaborazione effet-tiva e quali no.

4- Stimolare i Tribuni a partecipare alla collaborazione in manifesta-zioni del Tribunato.

5- Contribuire in qualsiasi modo statutariamente lecito allo sviluppo delle attività tribunizie.

6- Il RT è in riassunto, il portavoce dei Tribuni verso il Praesidium ed un amplificatore nel territorio, delle proposte e dei comunicati dello stesso.

La segreteria del Tribunato sta approntando un indirizzario da inviare ai RT per la conoscenza dei Tribuni la cui residenza coincida con il territorio definito. Ed ora una raccomandazione, anzi un accorato appello ai Tribuni che stanno leggendo questo articolo: per un rapido ed ottimale avvio del lavoro dei RT, credo che sarebbe utile, molto utile, se ogni Tribuno di buona volontà si mettesse in contatto con il RT che consideri proprio rappresentante; in questo modo risparmieremmo tempo ed avremmo rapidamente una chiara visione della nostra mappa territoriale ed un felice incremento dei programmi del Tribunato.Buon lavoro ed arrivederci alla Tornata di Villa Verrucchio, il 18 set-tembre p.v.

D.F.

TRIBUNATO DI ROMAGNACCV TORNATA

18 settembre 2005Villa Verrucchio - Casa Zani

TemaCommercializzazione dei prodotti dellʼagricoltura

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La Romagna, come la leggendaria grotta di Ali Babà, è, cono-scendone le parole chiave, una miniera di tesori legati ad antichi prodotti agricoli autoctoni che, se ancora non totalmente smarriti, rischiano di perdersi per sempre, soppiantati da nuove razze ani-mali o varietà vegetali, provenienti spesso da lontane contrade, avvantaggiate soprattutto da una maggior produttività.Qual’è dunque l’apritisesamo? Più di uno, e tutti di relativamente recente acquisizione: territorio, tipicità, qualità, genuinità, marke-ting. Sorpresi da un mercato sempre più globalizzato i nostri agricol-tori, in difficoltà a contrastare l’arrembante concorrenza di paesi emergenti favoriti da costi di produzione decisamente più conte-nuti, stanno infatti cercando una via di uscita, o meglio una delle possibili vie di uscita, nella riscoperta e valorizzazione degli antichi sapori di prodotti nati o cresciuti nella nostra terra. Non si tratta certo di un percorso in grado di risolvere i problemi delle grandi produzioni di massa, ma ci si augura e si ipotizza che questi prodotti di nicchia siano in grado di dare un nuovo impulso a particolari realtà agricole locali, a rischio, in mancanza di valide alternative, di un progressivo inesorabile degrado.Nell’ambito di questa ricerca, accanto alle lodevoli iniziative in-dividuali alle quali si deve la salvezza di alcuni storici biotipi che vengono oggi riproposti all’attenzione dei consumatori, autorità regionale, enti ed amministrazioni locali stanno affrontando in que-sti ultimi anni, con una serie articolata di progetti, il problema del recupero e della salvaguardia delle biodiversità genetiche.Finalità ultima la reintroduzione sul mercato di prodotti caratteristi-ci, originari del nostro territorio, o comunque ad esso strettamente legati, diffusi un tempo presso le aziende agricole delle nostre pro-vince Romagnole. Un progetto di questa natura promosso, dall’Osservatorio Agroam-bientale, dalla provincia e dai comuni di Forlì e di Cesena, avviato nel 2001 e tuttora in corso, si propone, ad esempio, oltre che di recuperare il materiale genetico attraverso pazienti ricerche biblio-grafiche e sul campo, di costituire una rete di “Agricoltori Custodi” locali, ai quali affidare la conservazione di alcuni biotipi autoctoni nello stesso ambiente nel quale essi hanno sviluppato le loro ca-ratteristiche. Le finalità sono culturali e didattiche, ma anche e soprattutto, eco-nomiche. E’ intendimento infatti dei promotori offrire alle imprese agricole una opportunità di reddito, avviando un percorso che riproponga al mercato, in particolare alla distribuzione più qualifi-cata, il meglio dei nostri antichi prodotti tipici.Vari di questi prodotti appartengono ad un passato relativamente recente ed il loro ricordo è ancora ben vivo in coloro che hanno familiarità con il mondo dell’agricoltura, o quanto meno nei meno giovani di costoro. Per citarne alcuni fra i più noti, la pecora appen-ninica, le pesche Bella di Cesena, Buco Incavato, S.Anna Balducci, le susine Regina Claudia e Vacaza Zebeo, le mele Rosa Mantovana e Rosa Comune (Piatlaza), la pera Scipiona, le ciliegie Corniola, Durona e Duroncina di Cesena. La conoscenza di altri, spostati più indietro nel tempo, si sta già perdendo, o si perderebbe, se alcuni agricoltori non ne avessero custodito la memoria e se appassionati ricercatori non ne avessero recuperato quanto la letteratura tecnica ci ha di essi conservato.Eccone alcuni che, dopo periodi più o meno lunghi di oblio, stanno ritornando alla ribalta. Fra le razze animali. La Mora Romagnola. Razza suina, originaria della provincia di Ravenna e diffusa fino alla fine degli anni ‘40 del secolo ventesimo in tutto l’Appennino Ravennate e Forlivese. Già data per estinta nel 1982, la sua sopravvivenza si deve all’al-levatore Faentino Mario Lazzari che dopo lunge ricerche, ne ha recuperato alcuni soggetti e ricostituito un primo nucleo in purez-za. Caratterizzata dal pelo marrone scuro tendente al nero, da cui il nome, è razza vigorosa e rustica, buona pascolatrice, ideale per l’allevamento all’aperto. Riproposti oggi da alcune aziende agrarie della Romagna, i suoi prodotti stanno destando l’interesse di ga-stronomi ed associazioni gastronomiche che, fra l’altro, li hanno presentati con successo al “Salone Del Gusto” di Torino del 2004 e al Vinitaly di Verona del 2005. L’Oca Romagnola (con le varianti oca bianca di Cotignola e di Bagnacavallo). Caratterizzata da un piumaggio bianco candido, da portamento orizzontale, pesante e goffa a terra, elegante in acqua.

Probabilmente originaria del Ravennate ed in passato allevata an-che in provincia di Forlì, presentata ufficialmente dall’Italia come razza pura alla II Esposizione Mondiale di Avicoltura di Barcellona nel 1924, e’ ancora presente nello Standard dell’Inghilterra dove fu a suo tempo esportata. In Italia la selezione di questa pregiata razza è stata gradualmente abbandonata, tanto che attualmente è molto raro poterne reperire soggetti in purezza. Il Pollo romagnolo. Considerato estinto fino a qualche anno fa, questo pollo di taglia media, dalla livrea variegata (dall’argentato “a fiocchi neri”, al rosso dorato “a fiocchi neri”, al bianco perni-ciato) un tempo allevato soprattutto per le uova, è stato recuperato nel Ravennate dal dott. Zanon della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. Autonomo e autosufficiente, viveva rin-chiuso solo in inverno e nel periodo della mietitura del grano, per il resto dell’anno si muoveva libero nei campi, nutrendosi di ciò che trovava e dormendo appollaiato sugli alberi. Alcuni suoi nuclei sono presenti oggi in Romagna. Il Tacchino Romagnolo. Non aveva caratteri ben definiti per quan-to riguarda la colorazione. Antichi autori affermano che derivasse da più razze, un tempo incrociate fra loro. Di taglia per lo più ridot-ta (4-7 kg in media con punte massime di 8-9 kg ad un anno di età.) e generalmente di pelle giallo paglierino, il tacchino Romagnolo al tempo in cui veniva esportato, godeva di un’ ottima reputazione sui mercati di Parigi e Londra.Altre razze animali autoctone interessate al recupero sono l’anatra e la faraona Romagnole.Mentre fra le specie frutticole, fino a qualche anno fa considerate estinte, sono oggi presenti presso alcune aziende Romagnole le an-tiche varietà, da pochi anni riscoperte: Pesca Carota, Mela Tellina, pera Volpina.La Pesca Carota, a maturazione fra la fine di agosto ed i primi di settembre, costituiva un tempo la varietà più diffusa nelle campagne Cesenati fino a quando non fu soppiantata della più precoce ( a ma-turazione fra la prima e la seconda decade di luglio) Bella di Cese-na, selezionata nel 1927 dal frutticoltore cesenate Pieri. Così viene descritta da Giorgio Gallesio, su “Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi” (Pisa 1817-1839): “grossa, tondeggiante, ben tornita, e leggermente marcata da una parte dal solito solco...La sua buccia, trasparente come in tutte le pesche, e perciò senza colore proprio, è vellutata da una peluria densa e bianchiccia, la quale smorza il rosso sanguigno che riceve dal sugo . . . . .La polpa, naturalmente pastosa, non è senza delicatezza, ma ha un poco di acidulo, e non ne è compensata abbastanza dal sapore grato sì, ma piuttosto debole. Il nocciolo, che è grosso, e di color rosso scuro, si stacca interamente dalla polpagrossa, tondeggiante, ben tornita, e leggermente marcata da una parte dal solito solco...La sua buccia, trasparente come in tutte le pesche, e perciò senza colore proprio, è vellutata da una peluria densa e bianchiccia, la quale smorza il rosso sanguigno che riceve dal sugo . . . . .La polpa, naturalmente pastosa, non è senza delicatezza, ma ha un poco di acidulo, e non ne è compensata abbastanza dal sapore grato sì, ma piuttosto debole. Il nocciolo, che è grosso, e di color rosso scuro, si stacca interamente dalla polpa. La Mela Tellina, era coltivata negli anni ’40 in provincia di Forlì. Matura in novembre e veniva impiegata soprattutto per la produzione del “Savôr”, marmellata realizzata con mosto d’uva e varie specie di frutta (pere, mele, cotogne, noci) tagliata in pezzi. Di pezzatura medio-piccola, elissoidale o sferoidale, con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso intenso, polpa bianca, mediamente succosa, ha un sapore discreto.La Pera Volpina, tipica della collina romagnola, piccola e tonda, è caratterizzata dalla polpa dura, acidula e granulosa. Si raccoglie in autunno e si può conservare per molte settimane. Alcuni decenni fa veniva consumata nelle aziende agricole delle nostre vallate dopo essere stata bollita in acqua e vino o cotta al forno. Riscoperta di recente è oggi protagonista di una “sagra” che ha luogo annual-mente a Brisighella nel mese di novembre. Alcune di queste antiche razze e varietà sono state salvate in extre-mis; di altre si sono smarrite per il momento le tracce, ma non si dispera, con l’impegno dei valenti studiosi e agricoltori romagnoli, di recuperarle per poterle riproporre, con adeguate iniziative pro-mozionali, su alcuni particolari mercati. La caccia è aperta.

Franco Tabanelli

ALLA RISCOPERTA DEI SAPORI PERDUTI

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Scopo di questo saggio è trattare delle immagini sacre poste al di fuori dei luoghi di culto che testimoniano, lungo le strade, la presenza delle persone divine e di quanti -i santi- sono ad esse legate, presenza che proprio per questo tramite si fa letteralmente compagna di strada al cammino umano. La maggioranza di que-ste immagini porta al suo culmine la croce e comunemente sono indicati come “pilastrini” ma dalla modalità di rappresentazione pittorica o plastica viene il nome che noi preferiamo per indicare questi oggetti: li chiamiamo infatti “maestà” (Majestas è parola che deriva dal latino majus, più grande degli altri) perché le imma-gini sacre vi sono rappresentate frontalmente secondo un modello iconografi co che la primitiva arte cristiana ha derivato dalla rap-presentazione dellʼimperatore assiso sul trono.La nostra indagine è limitata al versante romagnolo della “Roma-gna toscana”. Esemplare lʼindagine condotta da un gruppo di studiosi che hanno catalogato lʼabbondante e varia produzione delle maestà. Sono sistemate nei paesi della valle del Savio (Bagno di Romagna, San Pie-ro) e quelle nel territorio di Balze e Verghereto, estrema propaggine sud-orientale della “Romagna toscana”. Da questa indagine emerge che la maggioranza delle maestà collocate in sentieri di campagna, vennero in-nalzate da singole famiglie durante il secolo scorso. Per lo più è diffusa la tipologia a pilastrino. come attestano le maestà di Pietrapazza, Poggio alla Lastra, Casanova dellʼAlpe, San Sil-vestro, mentre più rara è quella a ce-netta tipo la maestà di Selvapiana, ed a forma di torre come le maestà dei Roncacci e della Garfagnana (Ridra-coli) Tali maestà, di qualità modesta, furono eseguite da scalpellini locali facendo uso della pietra arenaria e dellʼalberese, materiali entrambi ancora estratti in alcune cave della zona (Montegranelli, Savini, Motte, Lastreto): ed a questi scalpellini era affi data, nei secoli passati, la costru-zione di ponti e strade.Due tabernacoli viari che un tempo contenevano sculture, si distinguo-no, per qualità, dalla produzione fi nora discussa. In particolare un bassorilievo in stucco raffi gurante la Madonna col Bambino eseguito nella bottega di Donatello verso la fi ne del primo decennio del Quat-trocento, era un tempo sistemato in un tabernacolo al centro delʼArco Biozzi, che faceva parte della cinta muraria di Bagno. E sempre a Bagno, seppure molto più modesto, segnalo un altro rilievo mariano in gesso della fi ne del Settecento. desunto da una celebre composizione in marmo di Benedetto da Maiano, una tipologia questʼultima diffusa in numerosi esemplari tramite repliche in di-versi materiali (gesso, cartapesta, ceramica), come attestata anche una bella immagine mariana in ceramica venerata nella Chiesa della Compagnia a Tredozio.Nellʼalto Savio è poi suggestivo il gruppo di maestà che accom-pagnano il pellegrino in cammino sulla mulattiera che da Balze di Verghereto porta allʼeremo di SantʼAlberico. Anche la maestà del-la Biancarda (Verghereto) invita alla sosta. E a Balze di Verghere-to, la terracotta invetriata raffi gurante la Madonna col Bambino e Santi eseguita da Benedetto Buglioni sulla fi ne del primo decennio del Cinquecento per commemorare un miracolo del 1494, è docu-mentato che si trovava allʼinterno di una cappella costruita sopra il luogo dellʼapparizione della Vergine a due fanciulle. La maestà di Monte Guidi, nei pressi di Santa Sofi a, è sistemata lungo il traccia-to della Traversa di Romagna, una strada completata nel 1 84O che

congiunge Rocca San Cassiano a Bagno. Invece, lungo un sentiero di crinale, si trova la maestà del Monte Aiola, a Spinello di Santa Sofi a. Posta sul più alto monte della Romagna pontifi cia, è datata 21 maggio 1869 con scritta che invita alla sosta ed alla preghiera. Ma centro della devozione mariana nellʼAlto Bidente è la maestà di Pondo, una edicola che custodisce una immagine di Maria col Bambino. L̓ edicola, intitolata alla Vergine. venne costruita nel 1873 nel luogo dove, secondo la tradizione, apparve la Madonna ad una pastorella sordomuta nella Pasqua del 157O.Proseguendo la ricognizione lungo le valli nelle quali scorrono i fi umi che costeggiano i paesi del versante romagnolo della “Ro-magna toscana”, a Portico di Romagna, nella valle del Montone. è collegato allʼantica mulattiera il “Ponte della maestà”, che prende il nome da una colletta sull ̓opposta sponda dove un tempo era

custodita una immagine della Ma-donna. A Rocca San Cassiano era sistemato in un oratorio dedicato alla Vergine, un rilievo in stucco dipinto raffi gurante la Madonna col Bambino. Tale immagine è ancora oggi intensamente venerata dalla popolazione col titolo di “Madonna delle Lacrime”, in seguito alle lacri-me versate dalla Vergine (17 gennaio 1523; devozione che aumentò dopo che lʼimmagine rimase illesa sul muro nonostante un terribile terre-moto che colpì il paese (163O). Il pregevole rilievo venne eseguito nel secondo decennio del Cinquecento dal “Maestro delle Madonne di Mar-mo”, uno scultore di formazione fi o-rentina attivo a Urbino e nella vicina Forlì. Procedendo verso Dovadola, era forse sistemato in un tabernaco-lo viario Uri altro rilievo mariano in stucco dipinto eseguito sulla fi ne dellʼottavo decennio del Quattrocen-to nella bottega dello scultore fi oren-tino Antonio Rossellino.Giunti a Castrocaro, solo nel centro del paese si contano più di venti-quattro tra nicchie, cenette e maestà. Singolare il nome della nicchia dove è custodita una immagine in cerami-ca detta “Madonna de ̓fre ̓Bicocc”, perché collocata da un frate del Con-vento di Castrocaro chiamato dal po-polo con questo strano nome, il quale aveva sistemato lʼimmagine dove si trovava il patibolo con lʼintento di proteggere i condannati a morte.Un episodio sereno portò invece alla costruzione della piccola maestà con

SantʼAntonio e il Bambino Gesù nei pressi di Monte Paolo (Ca-strocaro). Essa venne eretta sul sasso dove, secondo la tradizione, «si assidesse S. Antonio quando da Forlì si recò a Castrocaro per salire allʼeremo di Montepaolo». Poco oltre, percorrendo una strada di campagna attorno a Castrocaro? venne costruita in loca-lità Bagnolo una cappellina intitolata alla “Mater Consolationis”. Invece, allʼinizio del paese, un antico tabernacolo viario è stato trasformato nellʼoratorio della “Madonna del Buon Consiglio”.Un particolare culto alla Beata Vergine Maria veniva poi tribu-tato a Pieve Salutare, una località verso Firenze poco distante da Castrocaro e già censita dal cardinale Anglico nellʼanno 1371. In questo luogo, in una zona denominata anche oggi “Madonna della Tosse”, sorgeva una celletta chiamata la Maestà della Tosse. Nel 1683, lʼarciprete Alessandro Marvelli acquistò il terreno per ren-dere pubblico lʼaccesso al luogo sacro.Nel 1720 Don Pietro Andrea Conti, dopo avere constatato che il sito per tradizione popolare era sempre più frequentato dai fedeli, fece erigere una chiesa a sue spese sul posto dove sorgeva la cel-letta della Maestà della Tosse e dipingere un quadro. L̓ immagine

TABERNACOLI O MAESTÀ

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più venerata dai castrocaresi, rimane comunque uno stucco dipinto di squisita fattura, la “Madonna dei Fiori”. Il rilievo è una delle più raffi nate repliche in stucco del quarto decennio del Quattrocento, desunte dalla celebre Madonna Pazzi di Donatello, immagini che sappiamo sistemate anche in tabernacoli viari ».A Tredozio, il paese sul Tramazzo, segnalo la già rammentata ceramica nella chiesa della Compagnia. Tale immagine ed altre venerate con diverse titoli nelle chiese della Romagna, discendono come tipologia dalla Beata Vergine del Monticino (Brisighella), una immagine questʼultima che come modello deriva da un mar-mo di Benedetto da Maiano conservato a Washington. Sulla cima della Busca incontriamo poi un tempietto che esisteva già nel 1175 aI confi ne del comune di Portico e S. Benedetto. Inoltre nel tratto di strada fra S. Martino in Collina e S. Cesario in Cesata, la piccola chiesetta di Piaiano conserva al suo interno la Maestà di Piaiano, un affresco di scuola toscana di primo Cinquecento molto ridipinto.Il costante interesse delle letteratura artistica locale (Del Monte, Poggiolini, Becattini ), permette dʼavere un quadro esauriente sui tabernacoli di Modigliana, tutti molto venerati. Nella chiesa di S. Domenico, lʼabside centrale custodisce un affresco raffi gurante la Madonna col Bambino dal Servolini riferito ad un pittore tardo-gotico romagnolo. L̓ immagine proviene però dalla cappella detta della Madonna delle Grazie. Fu in seguito alla devozione popolare verso lʼimmagine, che nel 146O a spese della Comunità, venne innalzata la spaziosa chiesa dove ancora oggi è custodita. Un altro centro di devozione mariana è la cosiddetta “Madonna del Cantone”, una piccola cappella costruita proprio dietro il Duomo di Modigliana, nella quale erano custodite le quattro lunette (La peste, Il terremoto, La carestia e La guerra) di Silvestro Lega». Anche in questo caso si tratta di un affresco con la Madonna ed il Bambino ma della fi ne del Cinquecento, attorno al quale Antonio Corbara aveva proposto di riunire un gruppo di opere faentine. Perlomeno dal 1358 la “Madonna del Cantone” è venerata dai modiglianesi. Infatti il 16 ottobre di quellʼanno, le schiere del

conte Alemanno passando di fronte alla Vergine «rimanevano allʼimprovviso trambusto come assonnati e ciechi in buia notte». La “Madonna del Cantone” è lʼimmagine più venerata nella zona; lo si desume dalla sua presenza in altre opere: ad esempio in un dipinto su tela di modesta fattura nella chiesa di Santa Reparata in Valle, poco distante da Modigliana, al centro è riprodotta lʼeffi gie della “Madonna del Cantone”. Inoltre, tale immagine, compare tra Santo Stefano e Santa Pudenziana in una maiolica settecentesca murata in un palazzo di Modigliana.A Modigliana non hanno avuto apprezzamento altri due taberna-coli viari. Il primo, custodito in una piccola cappellina, è un rilievo mariano in stucco dipinto della fi ne del Cinquecento desunto da una celebre composizione di Benedetto da Maiano. E ancora più interessante, nonostante una verniciatura ne svilisca la qualità, è una bella statua in legno raffi gurante la Madonna col Bambino in una nicchia sulla facciata di casa Ravaglioli eseguita sulla fi ne del Duecento. Se si accetta questo riferimento, la Madonna Ravaglioli costituirebbe la più antica testimonianza di scultura in legno dipinto nella zona di Modigliana, tra lʼaltro integra nonostante la fragilità del materiale, precedente il notevole gruppo in legno dipinto della Lamentazione nella Cappella del Gesù Morto (Duomo). Nel paese ed in molti poderi della zona, erano poi diffusi numerosi taberna-coli viari con allʼinterno immagini mariane in ceramica realizzate, nel Millenovecento, dal faentino Alfonso Gatti, oltre la loro bella qualità, è signifi cativo che tali immagini riprendano lʼiconografi a di una famosa composizione di Andrea della Robbia.Senzʼaltro infl uì nella costruzione dei tabernacoli maestà nella zona appenninica, un senso di protezione verso chi si muoveva considerata la solitudine e la pericolosità dei viaggi nei secoli passati. E chiunque abbia percorso un sentiero sʼaccorge che ve-ramente queste opere accompagnano il viaggiatore e gli indicano la strada.Un cenno merita infi ne il rapporto tra religiosità popolare e re-ligiosa uffi ciale. In questo senso, prendendo spunto da alcune immagini discusse (Madonna di Pondo. Cesata, della Tosse, della Neve), si può notare che il culto popolare verso queste immagini, fi nisce per imporsi ed essere accettato dalla religiosità uffi ciale È un aspetto di notevole interesse qualora non si dimentichi che le edicole, i tabernacoli viari, le maestà, le collette, i piccoli oratori e le preghiere suggerite dalla devozione verso le- immagini custodi-te in questi luoghi non sono una emanazione della cultura uffi ciale colta della chiesa, ma il retaggio dellʼuomo che lavora nei campi. Forse per questo le immagini verso cui si rivolgeva la devozione popolare in massima parte furono ignorate dalle autorità ecclesia-stiche e raramente indicate nelle visite pastorali . Almeno fi no al momento in cui un miracolo non le abbia tolte dallʼanonimato tra-mite il popolo, come attestano alcune maestà trasformate in cap-pelle e poi in Santuari: Pondo (Santa Sofi a), Cesata (Modigliana), Madonna della Tosse (Pieve Salutare, Castrocaro), S. Maria della Neve (Quataldo, Palazzuolo sul Senio).Oggi che un barbaro “collezionismo” non di rado sʼimpadronisce di questi lavori, riaffermare le motivazioni che furono allʼorigine della realizzazione di queste opere, forse può contribuire ad un comportamento migliore.

La neve giallaIl 4 gennaio 1864 con vento proveniente da Nord Est caddero da Bologna a Cesena su kmq. 3840, kg. 7680 (stime) di neve giallo ocra su un precedente manto nevoso di circa 20 cm.La notizia è tratta da una lettera del 10 gennaio 1864 indirizzata al naturalista e geologo di Castel Bolognese Giacomo Tassinari, amico e collaboratore dellʼimolese Scarabelli., che provvide im-mediatamente a farla analizzare dal dr. Zuffi.Ecco la relazione: «..trattata con acido cloridrico puro o diluito, si scioglie quasi completamente producendo effervescenza. Filtrata, furono trovati ferro, allumina, acido silicico… Rimane un residuo di sabbia selcica, colorata bruno-giallastra. Riscaldata non emette alcun odore e può assumere una tinta cupa “assai più del normale” fino a diventare completamente nera. Insistendo nel riscaldamento allʼaria diventa di un rosso ocraceo..»Noi reputiamo il fenomeno dovuto a sabbia del Sahara, ma i nostri lettori hanno qualche altra ipotesi?

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Nel periodo Rinascimentale con il primato culturale di Ferrara che allora faceva parte delle Romagne, non mancano nella nostra regione artisti di tutto rispetto: (Melozzo da Forlì, Luca Lnghi, il “Bagnacavallo”solo per fare alcuni nomi).La frattura tra civiltà gotica e rinascimentale, in Romagna, può situarsi nella metà circa del Quattrocento. A questa altezza del secolo; subentra una generazione di artisti diversamente educa-ta, capace di far fronte alle esigenze della nuova classe dirigente signorile, la quale chiedeva allʼarte, come dice il Grandi, «la rap-presentazione simbolica delle proprie istanze di dominio o una funzione edonistica o celebrativa. I secoli fra il Quattrocento e il Seicento, appaiono in Romagna, come in tutto il mondo, una deci-siva età di transizione.»Nella grande apertura verso il futuro operata dallʼinvenzione della prospettiva, domina il tema sacro: di conseguenza, i soggetti che ci interessano sono limitati ai temi iconografici di cui abbiamo già riferito. Si assiste, fra lʼaltro, a una “umanizzazione del divino” come osserveremo a proposito del Longhi. Il nostro vino, pur essendo abbondantemente esportato, “scarseggia” tuttavia, per motivi che non possiamo indagare in questa sede, nelle rappre-sentazioni artistiche: fra gli esempi esteticamente più qualificanti, annoveriamo le Nozze di Cana, un grande quadro del refettorio del “monastero di Classe” (presso la biblioteca Classense), dipinto nel tardo Cinquecento dal ravennate Luca Longhi.In questo periodo, inoltre, si fabbricano bellissimi servizi e gran-diosi trionfi da tavola, nei quali Faenza sale al primato e diffonde la sua fama europea.Il Seicento, con lʼavvento del Barocco e nellʼevoluzione delle istanze rinascimentali, porta a una radicale trasformazione del vivere, del gusto, insomma della”Welthanschaung”, ovvero della visione del mondo dellʼepoca.Si verifica, nel Barocco, una nuova inquietudine spirituale e il sen-so della fragilità delle cose, che si accompagna al relativismo e al metamorfismo di tutti gli aspetti del mondo fisico e morale.In un tale contesto, il profano, lo straordinario, il ludico nei suoi molteplici aspetti, e, per conseguenza, la gioia del bere, rifluiscono dalla vita nelle opere dʼarte.La società del Seicento, indipendentemente dal suo censo, si ab-

bandona così ai piaceri della vita e, di conseguenza, i banchetti, si fanno sempre più numerosi e le osterie fanno la loro comparsa “ufficiale”. La fantasia dellʼartista, dunque, prende il volo, allaricerca del nuovo, del metamorfico, del meraviglioso. Francesco Redi nel suo Bacco in Toscana, si incarica di comunicarci i gu-sti enologici dei suoi contemporanei. Pare che i vini sciropposi fossero quelli prediletti dai bevitori del Seicento, preferibilmen-te raffreddati col ghiaccio o colla neve. Osserva, in merito, il Marangoni «Questo sottozero enologico, documentato nei musei dagli splendidi vasi che servivano a raffreddare il vino nei ban-chetti, si attenuava alquanto nelle osterie in cui... .anche le più umili classi della popolazione trassero sempre più numerose, liete che i tempi loro concedessero il piacere di quelle gioconde bevan-de in allegra comitiva, rimaste per lʼinnanzi un privilegio quasi esclusivo dei banchetti signorili, nei grandi palazzi di città e nei castelli di campagna.Non più le corti, quindi, sono il centro della vita autentica e del-lʼedonismo più sfrenato: «Le feste traboccano nelle piazze e nelle strade e ad esse diventano partecipi anche le folle. Le classi medie si affacciano alla storia e chiedono la loro parte di gioia.».Nelle osterie, infatti, restringevasi ogni piacere: i cenacoli rumo-rosi soggiornavano ridendo e bevendo anche.. .di notte. E le classi sociali vi fraternizzavano nel culto del divino Bacco.»Per quel concerne la Romagna artistica, il secolo barocco non ha generato una trama di opere coerente; il volto della Regione, da tale punto di vista, risente molto dellʼeredità delle opere rinasci-mentali e manieristiche. Non è facile trovare un elemento coesivo tra le varie città, le quali hanno tradizioni diverse e pochi fatti ar-tistici degni di menzione, per quanto ci riguarda; fatta eccezione, ovviamente, della produzione ceramica.Oltre a questo, bisogna dire che le iniziative di carattere edilizio tendono a scarseggiare perché, come afferma un anonimo del pe-riodo «li baroni sono poveri almeno rispetto alle loro condizioni e nei vassallaggi hanno pochissime rendite».In Romagna, in questo periodo, domina lʼinflusso dei Carracci, che assumono una posizione polemica e di distacco nei confronti dello stile troppo edulcorato del Manierismo.Il tema”ufficiale” è quello sacro, non particolarmente gradito a

ARTE E VINO DAL RINASCIMENTO AL XIX SECOLO

Le nozze di Cana, di Luca Longhi, Biblioteca Classense Ravenna.

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Guido Cagnacci, di cui afferma Anna Ottani Cavina: «Agli anti-podi di una figurazione così trascendente e glaciale stanno forse i quadroni forlivesi del Cagnacci (1601-168 1), capolavori di azzardo e spericolata invenzione, di esuberanza e verve popolare Anche se, peccato, i suoi “beffardi” malinconici, provocanti ragazzi, non riescono a dirottare la storia e attestano, così decentrati, solo uno scoppio di genialità romagnola.»Il Cagnacci, comunque, si dimostrò allʼaltezza del suo secolo, e fu un interprete autentico dello spirito barocco, in quel suo abdi-care alla solennità e alla bellezza classiche, per un più “disinvolto” realismo, e un più intimo contatto con la vita. Anche se non si può mettere in dubbio il fatto che «la grande battaglia per la modernità in pittura, è stata combattuta, in Italia, sostanzialmente sul quadro sacro» (Francesco Arcangeli), non si può non dare il necessario rilievo ai generi “natura morta”, “paesaggio”, “ritratto”, nelle cui manifestazioni sono contenuti in fieri gli sviluppi stilistici di molta arte posteriore. È questo il risultato della concezione illuministica e scientifica del mondo: «Non più sottoposti ad una gerarchia fondata sugli schemi accademici di una presunta nobiltà letteraria, in grado di elevare o di degradare il dipinto, i “contenuti” conobbero unʼau-tonomia fino ad allora negata» Arcangeli. Così i soggetti eroici hanno potuto liberarsi dalle pastoie del con-formismo accademico, ed essere più ampiamente e dignitosamente rappresentati.Se una sfrenata licenza caratterizzò il Seicento, il Settecento, per motivi su cui non possiamo soffermarci, è contrassegnato da un “grandioso lusso”; di conseguenza, le rappresentazioni artistiche subiscono unʼevoluzione conforme allo “spirito del tempo”. Il realismo crudo, i violenti chiaroscu-ri del Barocco vengono ripudiati: vi è troppa car-nalità e troppo poca aristocrazia in siffatto modo di dipingere. Così, mentre gli appartamenti del Seicento erano successioni di saloni comunicanti, con la esclusiva funzione di servire alle feste e ai ricevimenti, nel Settecento predomina una incli-nazione verso le comodità familiari: così quegli androni diventano salotti intimi e profumati, adatti non a folle e al “rumoroso folleggiare” bensì a brillanti conversazioni e intrattenimenti vari (ce-nacoli, concerti, ecc.). Nasce in tal modo il gusto neoclassico che, verso il suo finire, darà luogo a un impreziosimento formale.Si trovano ancora, in questo secolo, artisti capaci di robusti “accenti dionisiaci” in una società che, come dice il Marangoni, «ha dimenticata la gioia del nappo per deliziarsi con lʼeffluvio del the, fra lʼuna e lʼaltra presa di tabacco nel fondo delle sca-tole ageminate e miniate che le dame e i cavalieri si passano di mano in mano nei ritrovi da gioco e nei pubblici passeggi.In Romagna, dopo la depressione del secolo ba-rocco, si assiste a un notevole risveglio artistico. Basti citare, a mo ̓di esempio, gli affreschi alle-gorici che Felice Giani, ha eseguito nel Palazzo Milzetti di Faenza: una delle sale è decorata con festoni vitinei oltre a numerosi motivi bacchici in cui, traspare lʼamore e la struggente nostalgia dellʼartista verso il perduto splendore dellʼetà classica. Felice Giani diventerà il protagonista, con accenti quasi protoro-mantici, del neoclassicismo romagnolo.Ma è la ceramica che nel Settecento si affermerà a rinvigorire una fama plurisecolare, grazie soprattutto alle manifatture, “Ferniani” di Faenza. La foglia di vite, inoltre, in questo periodo, è un motivo tanto ampiamente diffuso da potersi considerare un “cliché.L̓ Ottocento, con le tendenze classicheggianti, erediterà dal secolo precedente, almeno sul piano esistenziale, certe tendenze dionisia-che, in ossequio al cosi detto “spirito bacchico”.È questo il secolo dei grandi sistemi filosofici, delle grandi sinfonie, nonché della nascita dellʼarte e della letteratura moderne. È il secolo in cui si manifestano, quasi programmaticamente, certi accenti irrazionalistici, scaturiti da una visione del mondo dove “il genio è sregolatezza”.In nessun altro periodo artistico, forse, il culto del vino assume un carattere così entusiastico e generalizzato. Come asserisce il

Marangoni «Diventa un obbligo di moda fra i romantici di cammi-nare verso il sublime con barcollanti gambe di ebbri! Gli artisti non si accontentano delle bevute generose: hanno bisogno di ubriacarsi per apparire autentici geni e raggiungere quel grado di scapigliatura che li consacri di fronte al cenacolo ed al pubblico. Il quale ultimo si convince a poco a poco che la vera ispirazione artistica possa nascere soltanto fra i vapori della sbornia».Il soggetto storico, tuttavia, caratteristico di questo momento estetico, ha impedito che si manifesti nellʼarte, allʼaltezza per cosi dire dei suoi meriti “filosofici”, il motivo del vino. Dice sempre il Marangoni, un po ̓troppo restrittivamente: «Alla produzione artisti-ca di unʼepoca la quale circoscrisse la propria attività estetica ad un gelido esercizio di servile imitazione, non si possono chiedere sin-ceri ed interessanti accenti bacchici, i quali sbocciano soltanto dalla aderenza completa delle forme rappresentative, alla vita vissuta e da una sincera interpretazione artistica delle passioni, dei gusti e delle abitudini umane di unʼepoca». Esistono, tuttavia, opere di stampo classico intorno al nostro tema, le quali cioè concepiscono il dioni-siaco sulla base di modelli ellenici. Così il Canova, collocabile fra il neoclassicismo e il romanticismo, nelle sue ripetute figurazione di Ebe, la coppiera degli dei, di cui, una è alla Pinacoteca Comunale di Forlì, fa chiaro riferimento ai modelli della Grecia classica. L̓ opera del Canova fu ordinata nel 1816 dalla contessa Veronica Guarini di Forlì: essa è lʼunica di questa serie di composizioni rimasta in Italia. Come afferma lʼautore succitato, in essa «si esprime la profondità libera e schietta del maestro, il quale non ha sottolineato certo il carattere verista e bacchico della statua, ma lʼha soffusa invece di

quella sua delicata malinconia in cui vagano i geni della futura plastica romantica»Uno degli ultimi, fra i non molti romantici che hanno “coraggiosamente” affrontato il tema che ci riguarda è significativamente un romagnolo: Francesco Vinea, nato a Forli nel 1845 (oriundo del vercellese). Per poter soddisfare, nella sua arte, le proprie ten-denze “bacchiche”, in un ambiente incline ad ap-prezzare soltanto dei quadri con precisi riferimenti storici,Vinea trasferisce i suo soggetti in ambito seicentesco, vestendo i suoi personaggi, tipicamen-te romantici, con le fogge dei cavalieri toscani di Ferdinando II de ̓Medici. Riuscì così a conciliare le proprie scelte personali con quelle dellʼepoca. In effetti, questi soldati di ventura, non erano noti solo per le loro scorrerie, ma anche e proprio per una sete proverbiale Il Vinea venne così a trovarsi di fronte a una notevole dovizia di materiale per la sua ispirazione, che si espresse quasi costantemen-te in quadri dedicati al vino e ai piaceri della vita bacchica (paragonabile in questo al quasi nostro contemporaneo Anacleto Margotti).Giovanni Rosadi, commentando la pittura in que-stione, ebbe a dire: «nei soggetti e nella maniera dei moschettieri di Vinea non è la poesia ma la crona-ca, una cronaca viva e vivace, quasi sempre fedele

al periodo storico che si propone di ritrarre, una cronaca piena di movimento, di brio, di clamore, di vino, giusta la varietà del tema e dellʼambiente frivolo ed epicureo».Verso la seconda metà del secolo, la sempre più rapida evoluzione delle forme artistiche, sgombra il campo dagli stereotipati soggetti storici o mitologici.Il Verismo, inaugurato intorno al 1860 dal Courbet, prende pian piano piede anche in Italia. Come dice il Marangoni, «nel trionfo universale del vero tutte le contingenze della vita ritornano a galla nella pittura, non ultima quella assai dilettosa del bere... I nuovi pittori, ispirandosi allʼallegria e intonando il canto di Uèo non ri-schiano dʼessere ritenuti dei confessi ubriaconi come nellʼepoca, romantica»Il vino, così, può essere celebrato nellʼiconografia artistica, senza timore di offendere gli epigoni di idee francescane e falsamente moralizzatrici. «Sulla Terra, e specialmente nellʼEnotria pampinea, lo spirito giocondo ed immortale del figlio dì Semele, ritorna a sor-ridere, la canzone bacchica torna a riecheggiare».

Riccardo Belloni

L̓ Ebe di Antonio Canova, Forlì

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Molinella, socialista di Massarenti, era in mezzo che sbarrava il passo verso il cuore della Romagna, resistendo agli assalti della squadra fascista di Augusto Ragazzi.Frattanto la nostra collina e montagna furono organizzate da Vittorio Francesco Mancini, mandato espressamente da Arpinati, col potente aiuto di Giuseppe Anconetani, comandante delle squa-dre vo lanti fasciste provinciali, una specie di «pronto soccorso» repressivo che in un primo tempo operò nelle vallate del Senio e del Santerno per puntare in seguito verso il ferrarese.Ferrovieri, insegnanti, medici, af fittuari, contadini possidenti, gente a reddito fisso e non, entrarono così nel partito fascista non trovando più nella passata classe dirigente liberale un robusto anti-doto sia alla spirale inflazionistica sia al massimalismo socialista. Con loro fecero ingresso anche le grandi famiglie monarchiche nobili e borghesi non solo come fian cheggiatrici, ma come pro-tagoniste in prima persona. Per esempio a Imola: i Mambrini, i Ginnasi, i Tozzoni, i Pasolini, i Dal Pero e gran parte dell’Associa-zione Agraria e del circolo «Sersanti», che vedevano nel fascismo uno strumento efficace per ristabilire l’ordine nella produzione e nel lavoro.

In tal modo il fascismo nella Romagna orientale assunse connotati e caratteristiche romagnole e non certo arpina-tiane e bolognesi, basterebbe ricordare i legami stretti col fascismo faentino: con Alfredo Zama, fratello di Piero. In seguito, e più ampiamente, venne mutata la stessa fisiono-mia originaria del movimento fascista, che perse i suoi tratti pecu liari in qualche modo ri-voluzionari.Il programma del partito fu snaturato da infiniti ripen-samenti come la non scelta di una forma di governo re-pubblicana, l’espropriazione parziale della borghesia, il di ritto alla proprietà della terra per i contadini ex combattenti. Questi punti da programmatici si trasformarono in sempli ci dichiarazioni astratte, da di-menticare. L’importanza dei “fiancheggia-tori” sarà sempre più visibile, cadevano tutti i programmi originari come la costruzione di una nuova società ma ne

restava solo uno: la distruzione del socialismo.I fiancheggiatori finanziavano, fornivano automezzi alle squadre d’azione che si spostavano rapidamente sui vari fronti ed attacca-vano gli avversari con la tattica degli assalti. La diffusione organizzativa del fascismo si spinse fino ai ceti «ex-apolitici» e si ingrossò con elementi perfino operai. I Fasci si diffusero e moltiplicarono per tutta la penisola, con una rapidità im pressionante. Il fascismo, movimento milanese, solo allora di-ventò na zionale e si cominciò a caratterizzare meglio. Il successo fascista fu reso possibile, nei tempi e nelle modalità, anche dalle intrinseche debolezze e divisio ni degli avversari. Prima della guerra 1915-18, - osservava lo storico comunista Graziadei - «in cui per tanto tempo era fiorita la pace, in cui la felice abbondanza pareva essere discesa sulla terra ad alleviare i mortali, anche nel partito socia lista e fra la classe operaia avevano

Le Romagne, erano immerse nella disoccupazione e nella follia bolscevica cioè in un terreno fertile, quando a Imola nacque e pro-sperò poi il Fascio di Combattimento, che, all’inizio fu una pic-cola formazione, un nucleo iniziale di 35 aderenti, che sembrava annaspare nel vuoto. Alle politiche del 1919 esso raggiunse i 127 voti, ma in quelle del 15 maggio 1921, il risultato fu notevolmente superiore: 1432 voti. Il fascismo originario conservava una certa carica ideale, rivendicando una propria funzione e mobilitò quella parte di società, che era rimasta sino allora in disparte. Guidava «i trinceristi», l’ufficiale dei bersaglieri, Luigi Sassi-Morara già impiegato alle Aziende Municipalizzate, candidato alle prime elezioni con sistema proporzionale, un amico sincero del sindacal-fascista Arpinati di Bologna. Sassi-Morara fu oggetto di mille aggressioni, braccato come un delinquente comune, ma si difese strenuamente, polemizzando con la sezione della Lega Nazionale Proletaria fra mutilati ed in-validi, creata dai socialisti, che aveva rifiutato la bandiera tricolore col motto orsiniano «per sempre rifiorire». Nella primavera del 1921, emigrò a Trieste per dedicarsi ad un piccolo commercio, ma fu scelto ben presto come fiduciario della Federazione provinciale fasci-sta divenendone il segretario. Durante gli scioperi del 21 ottobre, affrontò il fuoco incro-ciato di comunisti e repubbli-cani. Ma nell’agosto dell’anno successivo, cinque colpi di ri-voltella lo uccisero in piazza.Intanto confluivano nel movi-mento fascista gli aderenti al movimento nazionalista che, dopo la marcia su Roma, si fonderanno col mo vimento fascista oltre a tanti ex-com-battenti. Uno di questi, a giu-stificazione del suo passato, in seguito scriveva: «Rimane però fermo e chiaro nella mia coscienza che la mia iscrizione ai fasci fu dovuta alla reazio-ne, alla ribellione dell’animo mio, verso tutto quanto i venti partiti politici di allora non riuscivano a fare per il Paese, disco noscendo fra l’altro i più elementari diritti di vita a noi reduci di guer ra ». Arpinati intanto riordinava il fascio bolognese mentre l’imolese Gino Baroncini la Provincia.Quest’ultimo incaricò Giacobbe Manzoni che si faceva chiamare il primo fascista d’Imola, di aprire, partendo dal vecchio nucleo di ex-combattenti, punti di riferimento e sezioni sia nel Capoluogo che nella Valle del Santerno.Ma l’ordine pubblico rimaneva sempre in grave pericolo e il 17 ottobre 1920: cinque colpi di revolver furono esplosi contro l’avv. Dino Grandi, che transitava in bicicletta, nella via Emilia a Imola, all’altezza della chiesa di Sant Agostino. Due giorni dopo ebbe lo studio devastato ed incendiato da una turba inferocita.Gli incidenti non eb bero conseguenze, ma Grandi maturò una scelta che aveva già meditato fin dal tempo in cui faceva pratica, nell’ufficio dell’ avvocato socialista Roberto Vighi. L’11 aprile rimane una data storica, perché le squadre fasciste ave-vano rag giunto, metodicamente, ma inesorabilmente, il controllo del territorio.

NASCITA DEL FASCISMO Con questo articolo timidamente ci addentriamo ad indagare un periodo della Storia Contemporanea

che ha ormai cento anni ma che, a nostro modesto parere, merita di essere trattato in particolare per cercare di rispondere ai quesiti delle giovani generazioni. Iniziamo dallʼimolese.

Il “Calmiere della prepotenza”. Imola, aprile 1921.

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allignate concezioni che noi rispet tiamo, ma che abbiamo sempre combattute». Era la speranza che le guerre fossero diventate im-possibili; la fiducia che le conquiste della classe operaia potessero svolgersi lungo un sentiero senza interruzioni; la convinzione che la democrazia borghese potesse aprire le porte a contenere ogni e qualsiasi conquista economica e politica del proleta riato. Ma col fascismo la resistenza padronale si era inasprita e faceva qua drato attorno alla rendita, insidiata da mille nemici. «Per quello che ri guarda il partito comunista, noi non crediamo alla conquista integrale e di classe del potere politico senza il concorso anche di una disciplina di carattere armato e militare. Il Fronte Unico Proletario» - continuava Graziadei «non fu possibile realizzarlo». Tuttavia lo storico sorvolava sul fatto che i co munisti erano intenti ad assorbire le forze affini ed erano infatuati dall’ipotesi dello sciopero generale o da un rivoluzionarismo inconcludente, tanto più che erano divisi e sconfessati dalla federazione bolognese che li te neva sotto tutela. Massimalisti e riformisti si paralizzavano a vicenda. Gli opposti estremismi stringevano le città in un cerchio di ferro e di fuoco: la violenza «nera» era speculare a quella «ros-sa». In mezzo la “maggioranza silenziosa” era incapace di mettersi sul piano del la violenza. Il ciclone fascista si mise in movimento e si abbattè sulle redazio-ni e tipografie dei giornali, sulle biblioteche dei circoli socialisti, sulla lega Birocciai, sugli uffici delle Cooperative: siamo nel clima di reazione per il massacro di Sarzana, perpetrato contro i fascisti. Un mese terribile il luglio, non solo per il caldo, ma per la guerra civile che fece quattro vittime di destra e due di sinistra. «Nella Provincia di Bologna e Ferrara, giornalmente, fascisti, socialisti, comu nisti cadono nella mischia che è furibonda e sembra inter-minabile. Bologna Crespellano, Anzola, Lavino, Castelfranco, Molinella. Imola, Ozzano ecc... seppelliscono i loro morti, nell’at-tesa della pacificazione che non viene»Nell’autunno del 1922 Benito Mussolini sfruttò in ma niera spre-giudicata l’instabilità governativa, che in quei mesi raggiunse il colmo. I ceti medi che si erano collocati al centro durante i go-verni Giolitti, si spostarono verso de stra, verso il fascismo che dava garanzie di ritorno all’ordine. Il movi mento operaio rimase paralizzato, la CGIL fu neutrale, il Re non firmò lo stato d’assedio. Il paese accolse con un sospiro di sollievo il ministero Mussolini: finalmente la guerra civile era finita.Se la classe liberale da una parte, ed i partiti di massa dall’altra avessero compreso la necessità di passare da maggioranze raccolte attorno a singoli notabili, a coalizio ni di partito in grado di gestire la cosa pubblica magari mediando sui pro grammi e sorvolando sulle incompatibilità personali, probabilmente la marcia su Roma sarebbe stata evitata perché inutile. Invece queste posizioni porta-rono in regalo a Mussolini il “governo” ed il rapporto «di dualità complementare», messo in luce dal filosofo Giovanni Gentile, funzionò anche questa volta.Sono queste le giornate della completa conquista della Romagna (fino allora il fascismo era stato debole tranne che a Lugo dove si era diffuso un fascismo degli agrari ispirato da Dino Grandi) e delle Marche. Sono queste le giornate in cui al congresso di Roma avviene il chiarimento di fondo tra socialismo riformista e massi-malista, tra so cialismo democratico e quello bolscevizzante, con i momenti drammatici di una nuova scissione, di una nuova lace-razione, proprio alla vigilia della minacciata “marcia su Roma”. La Confederazione del lavoro aveva già manife stato i suoi atteg-giamenti possibilisti, ed il socialismo unitario si omologava, ripu-diando apertamente la violenza e si avvicinava alla concezione di una democrazia con forte tinte sociali. Ma era troppo tardi. Dopo aver trasformato il movimento fascista in un partito, frenando il rivoluzionarismo degli squadristi e dopo aver giocato abilmente l’un contro l’altro i notabili delle forze tradizionali, l’obiettivo di Mussolini cominciava a focalizzarsi sulla conquista del potere.Contemporaneamente in tutta Italia, tra il 27 ed il 28 ottobre, si inizia rono le operazioni di mobilitazione del Partito fascista. Ad Imola, la 11 coorte, al coman do del conte Flaminio Ginnasi, alle ore 18 occupò tutti gli uffici pub blici ed i punti strategici della città chiamata «custode vigile e fedele della strade dei Cesari»! In se-guito si unì alla 12, comandata dal cap. Augusto Alvisi, per partire alla volta di Roma (v. giornale La fiamma, 7 novembre 1922).

Sciolta la «manifestazione romana», la vita dei così detti “sovver-sivi” si fa dura: si procede immediatamente ad un’opera di pulizia ed a mas sicci arresti di socialisti e comunisti. Iniziarono perqui-sizioni a catena, i fascisti accesero per le strade falò di gior nali dell’opposizione. Ma secondo il Governo e una grossa parte della stampa l’ordine regnava, tutto era tranquillo. La forza del movi-mento fascista appariva incontrastata, attorno ad esso il deserto, se si esclude l’influenza esercitata dal Partito popolare, ma limitata ai capoluoghi Tacciono i conflitti sociali, tutto sembra già norma-lizzato. Scriveva in forma un po’ sconclusionata il sottoprefetto di Imola, Palumbo: « 21 giugno 1923-In conclu sione, l’esigenza che, per il progressivo miglioramento delle attuali condizioni di svolgimento della attività politica e sociale in questo Circondario, si manifesta imprescindibile e che deve richiamare tutta l’atten-zione del governo è quella della vigilanza ai sovversivi, i quali non cessano, come io non mi sono stancato mai di rilevate, di tessere le loro trame, di cui sono prova le tre successive denunce, dal feb-braio in poi, presentate da questo ufficio, in seguito alle indagini da (me) personal mente dirette, a carico dei sovversivi di questo Circondano, onde sopra è cenno, e tutte e tre riconosciute fondate dall’autorità Giudiziaria».La segreteria ed il direttivo del Fascio emiliano-romagnolo, dopo la fase «eroica» e guerriera, dopo il periodo di riorganizzazione, del garibaldi nismo ed anarchia iniziale, furono rinnovate soltanto nel settembre 1924 Effettivamente, nell’ ambito lo cale, le sezioni godevano di una certa autonomia.Nella vallata del Santerno, i direttivi erano ad immagine e so-miglianza del capoluogo Imola: in parte amici di Dino Grandi. Mentre una forte mi noranza guardava ad un altro imolese, Gino Baroncini ed alle sue in tenzioni che si ispiravano al ferrarese Italo Balbo che auspicava un «repulisti» generale. In un articolo del giornale La Fiamma ( 15 settembre 1922 ) vi sono alcuni esempi del loro linguaggio dirompente e fortemente allusivo: «Non basta relegare Ercolani e Graziadei a Roma e lo spazzone Marabini a Genova; non basta compromettere la onnipo-tenza di Romeo Galli o mettere in fuga i vari Gualandi e Gianduia che dominano la vita politica imolese. Bisogna anche colpire certe cricche personali ed affaristiche che costi tuiscono una delle spe-cialità e delle vergogne di Jmola nostra. Bisogna sfasciare le com-briccole composte di moderati e di socialisti che vo gliono mangia-re o che lasciano mangiare; bisogna sfasciare le cricche dei biblio-tecani socialisti coi professori maritati ed arricchiti, degli as sessori provinciali rossi cogli avvocati commendatori, dei presidenti di congregazione di carità con gli ingegneri che s’ingegnano». La «santa reazione» avrebbe dovuto continuare: «Reazione contro i social-comu nisti che non sanno ancora rassegnarsi alla disfatta e che - mettendosi al servizio della Russia - cercano di ridare presti-gio e fortuna alla loro organizzazione sconquassata dalle Camicie Nere. Reazione contro tutte le carogne - di destra e di sinistra - che antepongono i loro particolari interessi - gli interessi delle loro bottega - a quelli superiori della col lettività nazionale»Intanto si avvicinava la data delle elezioni amministrative co-munali e provinciali del 17 dicembre 1922. La classe dirigente fascista aveva avuto tutto il tempo per selezionare gli uomini più adatti ai suoi fini; essi dovevano rappresentare, ovviamente oltre ai fascisti, i popolari, i nazionalisti e gli ex combattenti. Mediatore di questa operazione politica fu l’avvocato Dino Grandi.Ai vertici delle Istituzioni locali giunsero così gli “uomini d’or-dine” della vecchia borghesia clerico-agraria già emarginata da Giolitti e che il fascismo, alle origini, aveva dichiarato di volere eliminare.Ancora una volta Benito Mussolini, desideroso di potere, rinnega-va la sua “romagnolità” infrangendo i principi politici che aveva-no ispirato le sue primitive azioni.

Gian Franco Fontana

1 Marabini, non ha niente a che vedere con il dirigente comunista Anselmo, fondatore a Livorno del futuro P.C.I. e in quel momento eletto al Parlamento. Probabilmente era un comunista o socialista assunto nella Nettezza Urbana del Comune di Imola.

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In Romagna le società di mutuo soccorso ebbero le loro radici nellʼidea e nella lotta per la libertà e per la democrazia, e incarna-rono le ragioni più profonde che avevano ispirato il Risorgimento. A processo concluso, gli uomini che vollero dare agli ideali per i quali avevano combattuto, un contenuto e una realizzazione concreta, affermarono la libertà di associazio ne e la possibilità e capacità, con essa e per mezzo di essa, di provvedere da se stessi ai propri bisogni, in particolare a quelli delle malattie e della vec-chiaia, senza essere debitori né al Governo né ai privati, e senza aspettare lʼaiuto concesso come una elemosina e, in quanto tale, fonte di umiliazione. Nel Programma della costituenda Società di sussidio di Bagnacavallo, la prima della zona (dicembre 1860), si legge: «L̓ appello è diretto a tutte le opinioni, a tutte le condizioni, e siamo convinti che ognuno “anderà” superbo di approfittare delle libere istituzioni per associarsi nellʼesercizio di cittadina virtù». I sodalizi di mutuo soccorso furono, dunque, lʼaffermazione di libera associazione di libere volontà e quindi, sul piano storico, nella loro autonoma specificità, importante fattore nel processo di conquiste civili e umane e di sviluppo in senso liberale e democratico.Mi sembra, infine, riduttivo, porre lʼispirazione e lʼobiettivo della mutuali tà in misura prioritaria e quasi esclusiva nel migliora-mento delle condizioni economiche e materiali. È vero che sul tronco delle società di mutuo soccorso sono nate organizzazioni che hanno segnato profondamente le tappe della emancipazione economico-politica dei lavoratori, dalla coopera zione alle leghe di resistenza, per fare solo due esempi, ma nessuna di esse ha svuo-tato il patrimonio ideale e reso anacronistica la ragion dʼessere delle prime istituzioni solidaristiche che oggi ancora, in un conte-sto profondamen te mutato rispetto a quello di oltre un secolo fa, continuano a vivere, anzi, se non vedo male, si preparano ad una nuova vita anche là dove sembrava no cadute in un letargo mortale, e riaffermano lʼispirazione che presiedette ai loro primi statuti, e che ne costituisce tuttora lʼanima, e aggregano e raccolgono nuovi consensi. Lo stesso non avviene per altre forme associati ve, le cooperative ad esempio, per le quali diventa sempre più difficile e quasi impossibile trovare nel loro essere attuale anche solo tracce di quellʼafflato solidaristico che fece loro muovere i primi passi in quelle che Luigi Luzzatti chiamava «giornate creatrici nellʼamore della patria». A ragione Maurizio Ridolfi osserva che «non pare più proponi bile una chiave di lettura che faccia delle società di mutuo soccorso lʼaspetto primordiale o “preistorico” di un lento e lineare processo di emancipazione sociale e politica dei ceti popolari» destinato a raggiungere piena maturità e modernità con lʼassunzione di altre e diverse ideologie. Comprendiamo, tuttavia,

anche Raffaele Cortesi quando ammonisce che la solidarietà non è «un concetto acquisito una volta per tutte»: è certo che essa va continua mente alimentata e vissuta con la tensione di tradurre in atto tutta la ricchezza del suo contenuto.Il mondo romagnolo dei sodalizi di mutuo soccorso meritava davvero, anche per la sua vivacità e vitalità, merita di ricostruire pagine della sua storia, una realtà che è alle sue origini lontana da noi nel tempo, ma nutrita di valori nei quali ci sentiamo tuttora coinvolti. Chi va per archivi» e si avvicina alle fonti documentarie delle associazioni di mutuo soccorso, si trova ad avere a portata di mano un tipo di testimonianza che è «quanto meno una testimo-nianza diretta capace di suscitare, in quanto tale, intense suggestio-ni»; è davvero notevolissimo, si può dire straordinario, il numero delle società di mutuo soccorso soprattutto nella bassa Romagna. Le ragioni di questo fiorire sono tante e vengono accertate dagli studiosi, sito per sito, indagando sulle dinamiche dello sviluppo socio-economico-culturale. Ma una ragione in più per comprende-re questa grande diffusione è tener presente il rapporto fra società di mutuo soccorso e preesistenti «culture organizzative» come le ultime corporazioni, le società di mestiere, le confraternite laica-li in primo luogo, e a cercare di cogliere quanto del «nuovo» si determinò nello sviluppo associativo e quanto del «vecchio» fu adottato dalle più moderne forme organizzative solidaristiche e mutualistiche.Come sappiamo, verso la fine degli anni 1880 la forza espansiva delle società incominciò a mostrare segni evidenti di flessione con lʼavanzare di una nuova realtà sociale segnata dai contrasti di clas-se: si fecero strada la cooperazione bracciantile e di ispirazione socialista, le banche mutue, il credito popolare, e la scelta della re-sistenza nella questione sociale, che si posero come necessità di un allargamento degli originari obiettivi delle società operaie stesse. Prendendo ad oggetto il comprensorio lughese, essa segue passo dietro passo, con riferimenti al più ampio e avanzato processo eu-ropeo, lʼallargamento verso la cooperazione, le banche popolari e istituti a carattere nazionale quali la cassa di assicurazione contro gli infortuni e la Cassa delle pensioni per gli operai. Si ha così il senso vivo e concreto di una crescita culturale e organizzativa che trovò esperienze pratiche da sfruttare e terreno fertile su cui ger-mogliare» nellʼassociazionismo mutualistico, il quale vede in tal modo riconosciuto, anche in questo processo che sembra segnarne «i limiti», il grande ruolo svolto con la sua opera di educazione ai principi di autonoma presenza associativa dei ceti popolari e di autogestione democratica della previdenza. gff

IL MUTUO SOCCORSO IN ROMAGNA

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Dopo che il conte Ugolino è tornato a infiggere carinamente i denti su quel teschio che lʼInferno ha offerto alla sua vendetta, Dante e Virgilio entrano nella terza zona del Cocito, la Tolomea, ove i traditori dei commensali stanno con il collo riverso sul ghiaccio.“Passammo oltre e giungemmo dove la gelata crudelmente fascia altri dannati, i quali, giacendo supini, non sono proni come quelli della Caina e dellʼAntenora. Lo stesso pianto, gelando le orbite, impedisce ad altro pianto di sgorgare; così le lacrime, trovando ostacolo ad uscire, sʼingorgano dentro e accrescono lʼambascia del peccatore. Infatti il pianto si condensa riempiendo tutta lʼocchiaia sotto il ciglio come una benda di cristallo. (Id. parafrasi 91-99).Altrettanto gelido è lʼincontro con frate Alberigo, uno fra i tanti tristi che si distingue implorando pietà umana; costui, assoluta-mente privo di cortesia e di tatto, apostrofa i poeti come uomini crudeli, addirittura peggiori di lui, destinati alla Giudecca, la zona del Cocito ancor più in basso, a contatto con Lucifero stesso; e proprio mentre invoca un gesto pietoso che gli liberi gli occhi dal-le dure lacrime gelate, in modo cinico risponde alla domanda di Dante, anzi osa fare dello spirito sulla sua colpa e pena e, per diabolico egoismo, svela con compiaciuta ironica mali-gnità il terribile segreto della Tolomea, ove si assiderano eternamente anime, il cui cor-po è ancora ben vivente sulla terra, abitato e mosso da un demonio subentratovi al mo-mento del loro imperdonabile peccato.«Io sono frate Alberico, quello delle famose frutta maturate nellʼorto del male; qui io, al prezzo di un dattero per un fico, sconto un grave delitto con una pena ancor più grave del delitto stesso».Questo dannato, nel quale Dante indica “il peggiore spirto di Romagna”, è quel frate Alberigo de ̓Manfredi di Faenza, che ebbe una questione con Manfredo de Manfredi, sue congiunto.Per Benvenuto da Imola, è poco chiaro il movente della contesa: forse per invidia di governo da parte di Manfredo, o, forse me-glio, perché Manfredo, per torbidi interessi, raggirava un certo Franceschino, del quale Alberigo, suo zio e tutore, difendeva le proprietà.Durante una discussione Manfredò mollò ad Alberigo un sonoro ceffone (“slapam magna” per Benvenuto).Il frate, dissimulando il desiderio di vendetta, finse di volersi ri-conciliare con il Parente, invitandolo il 2 maggio 1285 a cena con il figlio Alberghetto, nel castello di Sarazate nei pressi di Faenza.Quando il convito giungeva alla conclusione, Alberigo, ordinando “Venga le frutta”, diede il convenuto segnale: nella sala irruppe-ro Francesco, figlio del fu Alberghetto de ̓Manfredi, e Ugolino, figlio di Alberigo stesso e, sotto gli occhi dei frate trucidarono Manfredo ed Alberghetto.Per questo delitto la Romagna ai riempì dʼorrore; Alberigo, Francesco e Ugolino furono condannati a pagare seimila lire bo-lognesi (Muratori Rer. It., XVIII, pag. 131). La giustizia divina provvide a saldare il conto, ma non su questa terra.Il detto “ dattero per figo” divenne un detto popolare per indica: una punizione maggiore della colpa, essendo il dattero più costoso del fico.Dopo la Toscana, la Romagna è la regione che Dante, avendola percorsa in tutti i sensi, conobbe più delle altre terre.Poiché Dante sapeva bene che nel 1300, lʼanno giubilare del suo viaggio nellʼaldilà, Alberigo era manifestamente vivo e vegeto,

con sgomento e meraviglia gli chiede: “Come? Se ̓tu ancora ( ad hanc horam = già) morto?”E il dannato: “Sappi che quando unʼanima si macchia di un infame tradimento come il mio, il demonio prende il governo del corpo, subentrando allʼanima, scagliata immediatamente nel Cocito ge-lato e installandosi in esso per tutto il tempo che quel delinquente avrebbe dovuto vivere. Certamente Alberige venne a conoscenza dellʼeterna condanna che Dante aggiudicava al suo tradimento.Possiamo immaginare quale effetto abbia esercitato nel suo perfi-do cuore?Alberigo de ̓Manfredi appartenne allʼordine religioso/cavalleresco della Vergine Maria Gloriosa, preposto a comporre discordie civili e militari; fu costituito a Bologna da Urbano IV, mentre in Francia era già attivo contro gli Albigesi fin dal secolo precedente. I confratelli potevano prendere moglie, portare abiti eleganti con lʼimpegno di “servire Domine in laetitia”, operando in difesa dei derelitti.

Più propensi per eccessiva “laetitia” a godersi la vita che a riparare ingiustizie, il popolo sarcasticamente li chiamava “ frati godenti” o “capponi di Dio”.Nel Cocito, tra i traditori del-la patria, un altro dannato ci riporta alla storia della turbo-lenta Romagna del sec. XIII: Tebaldello Zambiasi.In breve: i Geremei (guel-fi) espulsero da Bologna i Lambertazzi (ghibellini), che vennero accolti in Faenza, dopo la cacciata dei Manfredi (guelfi).La vicenda personale di Tebaldello dimostra con quanta orgogliosa violenza i

Lanbertazzi presero a governare: costui, benché ghibellino, fu oggetto di una triviale burla da parte dei nuovi padroni i quali gli rubarono uno o due maiali per farne un banchetto a suo scherno e dispregio. Non reggendo allʼoltraggio, Tebaldello, accordatosi con i guelfi Geremei, la notte tra il 12 e il 13 novembre 1280, col fa-vore delle tenebre fece accostare i Bolognesi alle mura di Faenza; verso lʼalba (“quando si dormia), Tebaldello, cui era affidata la custodia della porta imolese, infranta la serratura, li introdusse nella sua città.Faenza fu messa a sacco senza rispetto alcuno, neppure per i sacri arredi delle chiese. Morto Tebaldello, la città tornò ai Manfredi. Una figlia di Tebaldello, Zambresina, andò in moglie a Giangiotto Malatesta, dopo la tragica fine di Francesca.Non abbiamo dimenticato Alberigo: costui esige un compenso per la sua ignobile chiacchierata ingiungendo a Dante di “aprirgli gli ochi”. E Dante, senza consultarsi con Virgilio, si guarda bene dallʼasse-condarlo. Nel lasciarlo deluso sofferente, Dante se ne compiace perché “ cortesia fu lui esser villano”. Dionisio DallʼOsso

FRATE ALBERIGO“il peggiore spirto di Romagna” ( Dante, Inf. XXXIII, 154)

Avvistamento di un disco volante nel 1448«Il 2 aprile dellʼanno del Signore 1448. Nellʼaria due cerchi conglobati insieme, la grandezza dei quali era come le ruote di un carro...» Da Annales forlivienses, ed. Città di Castello,1903, pag. 94.

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L̓ impegno di Ernesta Stoppa, che operò prevalentemente a Lugo e nel territorio ravennate, è, con ogni evidenza, riconducibile al clima sociale ed educativo che caratterizzò la complessa vicenda storica della seconda metà dell ̓ Ottocento ed acquisisce rilievo prima rio, esemplificando il legame fra realtà localmente delineata e quadro di riferimento nazio nale.Sentì con acutezza i problemi che agitavano i vari Stati Italiani e che a Lugo si riflet tevano in modo molto concreto: nel 1859 la cit-tà, infatti, venne annessa alla monarchia piemontese (dopo avere fatto parte, ininterrottamente dal 1598, dello Stato pontificio). Si affrontavano anche a Lugo i temi del mazzinianesimo e dellʼade-sione alle idee monarchiche, unitamente a quelle della ribellione allo Stato pontificio o dellʼunità dʼItalia, mentre in Eu ropa stavano facendosi strada le teorie di Bakunin e di Marx.Il nuovo Regno dʼItalia di Vittorio Emanuele II appariva come una delle nazioni più arretrate e più povere, ben lontana dal livello medio degli altri paesi europei. Zone paludose e malariche, co-municazioni stradali e ferroviarie pessime, elevatissima mortalità infantile, analfabetismo diffuso, arretratezza generalizzata della vita economica e sociale.Per migliorare le condizioni di vita dei ceti popolari sorsero in nu-merose città italiane le Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai. Si proponevano, con il versamento obbligato rio da parte dei soci di una quota mensile, di sovvenzionare coloro che avessero perso il salario e anche di elevare lʼistruzione dei soci e la loro moralità (combattere contro lʼalcolismo e il gioco).Il principio di tale solidarietà laica e moderata fu accolto favo-revolmente da Ernesta Stoppa che, dieci anni dopo la nascita a Lugo della Società di Mutuo Soccorso, fondò e diresse una sezione femminile rivolgendo alle donne lʼinvito a costituirsi in Associazione.I temi della solidarietà sociale e dellʼemancipazione femminile connotano, in modo ben preciso, la sensibilità civile e lʼapertura culturale della futura educatrice: “Non era pos sibile che solamente lʼuomo dovesse godere del beneficio della mutualità e alla donna (dopo tanto rinnovamento di istituzioni, dileggi e di industrie nuo-

ve, dove la sua mano dʼopera era tanto ricercata da fare concor-renza allʼuomo, e poco remunerata specialmente nei grandi centri manifatturieri) non si pensasse per associarla e renderla partecipe al beneficio del Mutuo Soccorso.”Le finalità dellʼAssociazione femminile non si discostavano molto da quelle della Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai: sussidio di malattia e di vecchiaia, sussidio alle famiglie bisognose delle socie defunte. Dagli scopi statutari erano inizialmente escluse la gravidanza e il puerperio, ma nel 1876, con una modifica al Regolamento, fu istituita una cassa autonoma, per la maternità allo scopo di accordare alle socie un sussidio di puerperio. Negli anni successivi venne fondato anche il Fondo di Istruzione per provve-dere alle socie analfabete, con la convinzione che lʼistruzione e il lavoro potessero ben elevare la dignità femminile.Fu proprio in quegli anni che Ernesta Stoppa, “per poter parteci-pare alla benefica opera, insieme alle maestre che erano iscritte alla Società, si propose di abilitarsi regolar mente allʼinsegnamento elementare” e di darsi allʼeducazione e allʼistruzione (1877).Muovendo dal concetto che, oltre al lavoro, sia necessaria una cultura di base, da donna, intellettualmente preparata, ma pratica e concreta, si mosse su due fronti: quello dellʼeducazione delle donne e quello dellʼeducazione di base.Alle problematiche dellʼeducazione popolare (Istituti infantili e scuole elementari), della pedagogia e del metodo froebeliano la Stoppa pervenne partendo dallʼesperienza del Mutuo Soccorso femminile e dalla conoscenza dei problemi dellʼeducazione della donna. Questʼultimo aspetto era stato molto trascurato dal giovane Regno dʼItalia che alle ragazze forniva scarse occasioni di educazione e di istruzione: dopo le scuole elementari avevano ben poche possibilità di studio, se non le Scuole Normali (per diplomarsi maestre) o rarissi me scuole di perfezionamento. Vi erano, naturalmente. convitti religiosi o privati che però, secondo la Stoppa, costituivano “una istituzione tuttʼaltro che invidiabile per un paese civi le.Anche a Lugo si sentiva la mancanza di un Istituto educativo femminile che “rispon desse alle richieste della moderna civiltà” e che “fosse regolato dal metodo razionale della sana pedagogia e si rinsanguasse ai principi veramente liberali”. A conoscenza delle corren ti pedagogiche europee e soprattutto del metodo di Froebel. la Stoppa rivolse il suo primo interesse di organizzatrice educativa, negli anni che vanno dalla fondazione della Società Femminile di Mutuo Soccorso fino al 1878, allʼistruzione femminile.Già nel 1878, infatti, venne emessa, a sua firma, una circolare con la quale si comuni cava lʼapertura in Lugo (agli inizi di ottobre) di un Istituto Privato di Educazione Femminile comprendente tutte le classi elementari, “dalla Prima Inferiore alla Quarta, ed anche una classe Quarta complementare”. Nella circolare si precisava, inoltre, che “le maestre saranno debitamente patentate” (cioè diplomate) e che la Direttrice sarebbe stata Ernesta Stoppa stessa.Il progetto di creare lʼistituto Femminile fu però ostacolato dalla parte più conservatri ce dellʼambiente cattolico lughese (che già aveva intralciato il sorgere della Società di Mu tuo Soccorso fem-minile) tanto che lʼapertura della scuola dovette essere rinviata. Nel frat tempo il suo disegno educativo divenne però più completo e ardito: quello, cioè, di creare un Istituto di educazione con annesso Giardino dʼinfanzia; “non trattavasi solamente di una scuola ele-mentare, ma di un sistema di scuole, a cominciare dalla infantile, ove entra il bambino a due anni e mezzo, fino alla superiore”.Ernesta Stoppa aveva già in mente, prima ancora che esistessero le strutture, un siste ma scolastico nuovo, per i tempi, nell ̓ imposta-zione generale, nellʼorganizzazione degli spazi, nel collegamento fra gradi educativi successivi, nella pedagogia e nella metodologia; vole va che la scuola cominciasse dal “Giardino dʼInfanzia froebe-liano”; voleva che a questo seguisse un corso elementare (una scuo-la di base, veramente popolare ed ispirata anchʼessa al metodo di Froebel, tanto nelle lezioni intuitive quanto nel lavoro manuale); che maschi e femmine potessero studiare insieme fino alla Prima classe elementare superiore, dopo la quale i maschi potessero continuare i

ERNESTA STOPPA(1850-1939) una grande educatrice romagnola

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loro studi nelle scuole maschili e le femmine frequen tare lʼIstituto Femminile frobeliano fino ad un Corso di perfezionamento.(1)Al progetto culturale e formativo della Stoppa venne offerta unʼoccasione concreta dal programma urbanistico del Comune di Lugo che si accingeva a trasformare in zona abitativa lʼarea a sud di Piazza Garibaldi, verso Fusignano. Nel maggio del 1879, dunque, scrisse al Municipio una lettera di richiesta con la quale sollecitava lʼaiuto dei Consiglieri comunali per istituire, fra via Foro Boario Vecchio e via Quarantola, la sua scuola.Mentre le scuole infantili (le scolette) di Lugo, come la stragrande maggioranza di quelle esistenti nel territorio nazionale, si trova-vano in condizioni svantaggiose per la salute e lʼeducazione dei bambini (umidissime, con poca luce, site in ambienti angusti, prive di materiale didattico, con banchi inadatti, con personale im-provvisato), lʼistituto Femminile con annesso Giardino infantile sarebbe sorto in antitesi agli asili-ricovero per bambini (pub blici o privati) e alle istituzioni di beneficenza, e dotato di maestre diplo-mate o di professori.Il Municipio concesse gratuitamente il terreno necessario per edificare lʼIstituto che fu aperto nel 1881. Era vicino alla città, ma lontano da rumori e da disturbi di ogni genere, in un luogo ben arieggiato e sano. Allʼedificio (costruito a spese della Stoppa) si accedeva dalla Piazza Garibaldi; il giardino, anteriore e poste-riore, era costellato di aiuole con fiori e piante di ogni genere; il fabbricato, maestoso ed elegante, era attraversato da un portico, a destra e a sinistra del quale si aprivano le aule, “tutte ben illumi-nate ed arredate, con piani di legno e caloriferi; una gran sala per la ginnastica e pei saggi, la stanza della direttrice, il guardaroba, il lavatoio, il refettorio, le latrine, tutto ben disposto ed arredato”.Anche sul piano della metodologia e della didattica lʼistituto Stoppa di Lugo fu inno vativo rispetto al panorama nazionale. Pur riconoscendo in Ferrante Aporti (1791-1858) uno dei maestri della riforma delle istituzioni infantili, la Stoppa ne evidenziò al-cuni limiti in particolare trovava riprovevole lʼeccessiva freddezza didattica con cui il personale degli asili aportiani (in prevalenza monache, anzichè maestre specializzate) insegnava ai bambini le nozioni della lettura, della scrittura e dellʼaritmetica.In effetti uno dei temi ricorrenti della polemica dei Gesuiti verso i seguaci di Froebel consisteva proprio nella mancanza di specifica istruzione nel metodo froebeliano. Questʼul timo, infatti, si basa-va, sullʼapprendimento delle nozioni attraverso lʼosservazione e la ma nipolazione dei “doni”, senza cioè fatica, senza fastidio e, ovviamente senza coercizioni né eccessiva severità.In ciò è evidente la lezione di Rousseau (giudicato dalla Stoppa il precursore della pedagogia moderna) laddove afferma che gli oggetti esterni debbano venire presentati ai sensi dei piccoli senza

lunghe e noiose spiegazioni, ma con lʼintenzione che ne abbiano una immediata conoscenza intuitiva, collegando i sensi fra di loro. L̓ applicazione delle teorie psicologiche, la socializzazione, il metodo sperimentale intuitivo, concetti ripresi anche da Froebel, sono ad avviso della Stoppa, i temi basilari cui ella, attingendo da Enrico Pestalozzi (1746- 1827), si ispirò nel fondare lʼattività pedagogica del suo Istituto.Ma fu, soprattutto, a Frederic Froebel (1782- 1852) che Ernesta Stoppa rivolse massi mamente la sua attenzione come educatrice: la sua dottrina “fu lʼaura benefica per la quale si purificarono le istituzioni infantili” e da essa la Stoppa prese, in maniera origi-nale, lo spunto per estenderne i principi alla Scuola Elementare. Per questʼultima, proponendo un nuovo ordinamento, lʼeducatri-ce lughese suggerì nuove funzioni didattiche, in modo che fra il Giardino dʼinfanzia e la Scuola Elementare vi fosse “una stretta coordinazione, essen do la seconda la continuazione del primo” e applicando ad entrambe “il principio intuitivo di Pestalozzi ed il principio operativo di Froebel”.A questʼultimo fu particolarmente debitrice per quanto riguardava il rapporto fra la famiglia e la scuola; per la “scienza dellʼedu-cazione” di cui le maestre debbono essere a conoscenza; per il concetto di giardino ed il metodo di giardinaggio (“nel giardino vi sono aiuole e ciascuna porta il nome del proprietario - una sola grande per i più piccini - che ha lʼobbligo di coltivarla perché essa produca”); per lʼintroduzione del lavoro manuale (dalla scuola co-mune deve “uscire educato ed istruito ad un tempo con retto fine il fanciullo, che divenir debba operaio del pensiero o della mano”); per lʼimportanza pedagogica del gioco (“ciò che costituisce lʼani-ma infantile è la tendenza quasi esclusiva a giocare sempre e con tutto”); per lʼesigenza del moto e della natura nellʼeducazione (“Se la scuola lo immobilizza costringendolo con la bacchetta - a stare ore e ore sulla scranna a bracciuoli, il bambino piange e si dispe-ra”); ed infine per la concezione di una scuola di base che educhi e formi più che limitarsi ad istruire nozionisticamente: “è necessario che consideri il fanciullo sin dai primi anni qual forza attiva e pro-duttrice, valendosi della sua naturale attività, affinché per mezzo dellʼopera acquisti le cognizioni dei fatti che un giorno dovranno essergli utili per la scienza o per lʼarte”.L̓ Istituto privato di Ernesta Stoppa conobbe molti detrattori: i cattolici zelanti, gli amministratori conservatori, coloro che lʼaccusavano di allontanare, col suo metodo educativo, i bambini dallʼistruzione religiosa e, da ultimo, coloro che ambiguamente le rimproveravano, da un lato, che il sistema Froebel poteva adattarsi meglio ai figli della Germania che a quelli dellʼItalia e, dallʼaltro, che la metodologia dellʼistituto froebeliano era troppo permissiva, dal momento che si dava più importanza al gioco spontaneo che alla lettura, alla scrittura e alla matematica.Ma la signora Ernesta, per quanto avversata nella propria città, seppe affermarsi. co gliendo i nuovi orientamenti pedagogici e me-todologici europei, presso il Ministero della Pubblica Istruzione che a partire dal 1884 le riconobbe un ruolo guida a livello nazio-nale, per la diffusione delle idee di Froebel, incaricandola di tenere conferenze in varie città italiane e di compiere ispezioni presso altre scuole infantili del Regno.Il duplice interesse di Ernesta Stoppa per lʼemancipazione fem-minile e per lʼeducazio ne dei bambini, perseguite fino alla morte - avvenuta nel 1939- non si esplicò, tuttavia, in una doppia attività, ma si poté ben consolidare in un unico orientamento di fondo che avvol ge tuttʼintero il suo pensiero: «impegnarsi per i più deboli non solo per proteggerli, ma per dar loro gli strumenti necessari al miglioramento della loro condizione perché il gran problema della miseria sarà in via di soluzione, allora soltanto, che avremo un popolo di intelli genti lavoratori».

Walter Ricci Bitti

(1) Nei primi decenni del 1800 e fino al 1859 le Romagne vennero sottoposte allʼautorità di diversi governi, il papale e quello austro-ungarico. I sistemi educativi rimasero tuttavia, fino oltre la metà del 1800 quelli precedenti della educazione catechistica e dei seminari in seguito contestati dagli studi pedago-gici sotto la direzione dei tedeschi Froebel, Herbart e dellʼitaliano Pestalozzi.

La scuola di Lugo realizzata secondo il progetto dellʼeducatrice.

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Era alto, robusto, dinoccolato. Aveva un consistente paio di baffi che gli forniva lʼimmagine di un “granatiere di Pomerania” fuori epoca.Di baffi allʼinsù come i suoi a Forlì, a quei tempi, cʼerano soltan-to quelli del conte Pio Teodorani Fabbri, federale fascista, che i suoi conterranei cesenati avevano da sempre denominato “bafi ad spranga”.E non fu priva di significato la circostanza che al loro primo in-contro Bertazena, anziché salutarlo romanamente come di regola, si portasse le mani ai. “barbigi” per tirarne ancora più in su i punti terminali. Una sorta di. “presen tatarm” elitario.Adolfo Bertaccini, tali erano le sue generalità, era nato e risiedeva a Forlì nella Palazzola, la parte della città che si snoda attorno al-lʼomonima strada la quale, a quei tempi, era dotatissima di stalle e stallatici, i “garages” per coloro che venivano in centro con cavalli e calessi.Subito dopo il servizio militare di leva, svolto in artiglieria attorno al 1910., Bertazena si dotò di. un cavallo e di un “fiacre” e svolse per diverso tempo attività di “pubblico vetturino” con posto fisso in Piazza Saffi. Di qui il soprannome di “Cuciraz” (cocchieraccio), probabilmente per la forma solenne con la quale guidava la sua “carrozzella” ed. accoglieva i clienti.In questo ruolo gli capitò unʼavventura della quale, pur non essen-do fascista, ebbe a vantarsi per lʼintero ventennio. Una domenica pomeriggio accompagnò Benito Mussolini (allora dirigente socia-lista forlivese) ed Angelica Balabanoff, che pochi anni prima in Russia era stata vicina collaboratrice di Lenin, a fare un comizio a Villafranca.Erano anni di fortissime tensioni, in Romagna, fra socialisti e repubblicani e, ad un certo punto della manifestazione, un repub-blicano, rivolgendosi alla Balabanoff, affermò a voce alta: “Sta zeta, tsi brota!”. Ne nacque un parapiglia e parti una coltellata nel fondoschiena di un repubblicano.Al ritorno, nella via Lunga (lʼattuale via Isonzo), Bertazena scorse una sorta di “posto di blocco” con numerose presenze umane al-lʼaltezza del Circolo repubblicano. Capì subito che quei militanti dellʼedera volevano vendicarsi della coltellata precedente. Intimò al futuro Duce ed allʼaccompagnatrice di tirare le tendine e di non farsi vedere, e quando fu in prossimità dellʼassembramento, inco-minciò a gridare in dialetto: “Ragazzi, lasciateci passare! Ho molta fretta in quanto sto portando allʼospedale una partoriente messa molto male!”Gli andò bene, ed andò bene soprattutto ai due dirigenti socialisti per i quali, diversamente, le cose non sarebbero passate liscie. Con tale ricordo ben presente, Bertazena, dopo la guerra dʼEtiopia del 1935-36, in certe solenni occasioni, soleva ripetere:”Se lʼItalia la ià un impero e merit lʼè neca e mi!”Col passare degli anni e “Cuciraz” si rese conto che il futuro era dei mezzi motorizzati. E si aggiornò. Malgrado avesse già una certa età, prese, - a fatica - la patente di guida per i mezzi pubblici e si dotò, per le note ristrettezze economiche, di due “catorci”: una Lancia Dilambda ed un autobus parimenti Lancia e parimenti at-tempato. Era così in grado di far fronte sia alle richieste singole che a quelle per gite collettive.Cambiò anche “look personale”. Si prese un berretto paramilitare con visiera lucida e rigida, un vecchio giaccone di pelle, un robusto paio di gambali. A metà strada, dunque, fra un corridore motocicli-sta dellʼepoca, ed un commissario politico bolscevico.Fra i suoi servizi fissi cʼera anche quello, al cambio di ogni quindi-cina in una “casa di piacere” di via Felice Orsini, di portare in giro, bene in vista in città, i nuovi arrivi, facendo, poi, una puntata nel Laboratorio di Igiene di viale Salinatore per la “prova dei vetrini” alle signorine la quale, sola, consentiva lʼinizio e lo svolgimento della relativa attività.Ad un certo punto della “routine” gli capitò di dimenticare di ritirare dal Laboratorio il risultato degli esami e di consegnarli. alla “maitresse” per lʼinizio del lavoro. E, così, verso mezzanotte, quando era già a letto, sentì la citata signora picchiare come una forsennata alla sua porta, urlando che aveva le sale dʼaspetto stra-ripante di clienti non più disposti ad attendere. E, naturalmente, le urla aumentarono quando il povero “Cuciraz”, dandosi delle

manate formidabili sulla fronte, dovette ammettere la gravissima dimenticanza.Ne uscì una citazione per danni, la quale comportò un esborso di diverse centinaia di lire (che allora costituivano un capitale). Oltre, naturalmente, la perdita della prestigiosa cliente, ciò che dispiacque maggiormente al nostro eroe.Nellʼanno scolastico l934-35 lʼIstituto Magistrale di Forlì venne soppresso ed inglobato in quello di Forlimpopoli dove, allʼinizio del secolo, si era diplomato Benito Mussolini. Nacque, così, il pro-blema del trasporto quotidiano degli studenti forlivesi, e Bertazena concorse per valorizzare adeguatamente il vecchio autobus. Vinse la gara, ed ebbe inizio la stagione più allegra della vita di quei giovani, i quali trovarono il modo di “marinare” legalmente le lezioni.In inverno il motore non si avviava, per cui gli studenti, a turno, erano tenuti a girare la faticosa “manovella” per la messa in moto a mano. Dʼestate il breve tragitto Forlì - Forlimpopoli doveva in-terrompersi almeno due volte per mettere lʼacqua nel radiatore) per cui gli orari divenivano una sorta di “optional”.Naturalmente, ai naturali difetti del vecchio autobus si aggiunsero, nel tempo, quelli provocati dagli studenti: le gomme che si sgonfia-vano, la batteria che si scaricava, ecc. Finì che la Motorizzazione civile, su proposta del Preside, revocò lʼautorizzazione ed al povero “Cuciraz” non servì più neppure rivendicare la sua parte di merito in ordine ai destini imperiali dellʼItalia.Ma la sorte dellʼautobus fu definitamente segnata, e con lei quel-la delle magre finanze di Bertaccini, in una algida alba in quel di Comacchio, con una comitiva di cacciatori forlivesi, accompagnati dai relativi cani.Accadde che e “Cuciraz”, che non era un guidatore provetto, entrò troppo violentemente su di un traghetto utile per attraversare uno dei tanti corsi dʼacqua della zona.Il traghetto si sfilò da sotto lʼautomezzo che finì per adagiarsi nel-lʼacqua, il cui livello giungeva quasi fino al tetto. Il parapiglia fu indescrivibile: i cacciatori dovettero raggiungere a nuoto la riva, i cani abbaiavano allʼimpazzata, e “Cuciraz” si era impantanato nel fango perdendo una scarpa e mandando accorate invocazioni di aiuto.Ed i cacciatori, che non avevano perduto il buon umore, commen-tavano a voce alta: «U iè un cà cus lameta; sa fasegna, al lasegna un do clè?» E Bertaccini, sempre più preoccupato che rispondeva: «Burdel, unʼè un cà, a so me, e vostar Bertazena!». La tragedia non finì lì.Si racimolarono alcune paia di buoi per tirare fuori lʼautomezzo. Venne, però, agganciata la sola carrozzeria e non il telaio, per cui allo “strappo” venne via la prima. Poi fu la volta dello chassie e Bertazena, dopo lunghi armeggiamenti riuscì a mettere in moto il motore. Innestò, però, male la marcia e non regolò lʼaccelerata (del resto era sempre sprovvisto di una scarpa), per cui ciò che restava dellʼautobus balzò su due pagliai, rovesciandoli ed andò ad ada-giarsi sul letamaio della vicina casa colonica, col contadino infuria-to che minacciava il povero “Cuciraz” col forcone.Il rientro a Forlì si verificò, con mezzi di fortuna, a notte fonda, ed il commento dei cacciatori, che non avevano sparato neppure una cartuccia, fu stecchettiano: «s ̓avesum dʼanghè, ma as divar-tesum».Non fu, invece, così per il povero Bertaccini, il quale perse defini-tivamente lʼautobus ed il credito professionale.Si ritirò a vita privata poco tempo dopo. Di tanto in tanto aiutava una impresa di pompe funebri nei trasporti che si facevano ancora coi cavalli, per cui lo si rivide sullʼimperiale col suo contegno au-stero e coi suoi baffi “guglielmini”più che mai adatti al ruolo.Poi una breve malattia lo portò ad essere diretto utente del carro funebre. Era, comunque, già entrato a pieno titolo, nella storia citta-dina e migliaia di forlivesi continuarono a ricordarlo con simpatia, come accade a chi scrive queste note che, malgrado la notevole dif-ferenza dʼetà, gli fu amico e ne ricevette molte confidenze, che lo connotavano “un cuore puro”, un nodo di quercia che dissimulava dietro i baffi guerreschi una visione della vita, degna del “fanciulli-no” di pascoliana memoria.

Stefano Servadei

BERTAZENA E CUCIRAZ

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“...bisogna vincere!” Era il mio ritornello intimo, il ritornello della mia volontà. Occor-reva dunque qualcosa di concreto. Avevo pubblicato da poco il volume di poesie “ Da lʼAlba a1 Tramonto”.Non un canto che non sapesse della mia terra. Tutto era nato lì, in quel mio paese che amavo tanto, malgrado lo scetticismo del quale mi circondavano largamente certe persone dette di buon senso.Quel libro mʼera nato in vari anni. Era la poesia dellʼadolescenza. Se anche oggi me lo rileggo, risento lʼodore delle mie erbe, rivedo i colori del mio cielo.Le prime visioni dei nostri campi vi tralucevano nello svariare del-le vicende agresti, e i primi palpiti dʼamore assumevano candori e rossori primaverili.Esso, dunque, nonostante fosse stampato in provincia e non ve-nisse, come si dice oggi, lanciato convenientemente, mi procurò incoraggiamenti generosi che mi indussero a continuare per quella via.Ma non bastava. Era necessario fare qualcosa di più, che avesse una risonanza maggiore e potesse,, così, prepararmi un avvenire meno incerto.Adoravo la mia Romagna. Volevo renderle testimonianza di que-sto amore con qualche cosa che già mi squillava fortemente nel cuore. Volevo che la mia terra possedesse il suo canto: e fosse, questo, un canto di esaltazione, a gloria de ̓ suoi Martiri e de ̓suoi Eroi. Riviveva in me lo spirito del Martire della mia gente. Mi pareva di esserne pervaso. Rinfrescai le mie nozioni di storia del Risorgimento. Disegnai lʼopera. Ne vissi, ardendo, tutto un inverno. Non ne parlai ad alcuno. Avrei fatto sorridere, allora. Sʼera agli inizi del secolo ventesimo. Scetticismo, materialismo. Cose di patria? Pazzie! Eppure quellʼidea non mi lasciava, anzi mʼossessionava.Alla fi ne, mi confi dai con un amico: Amleto Marini, faentino, do-miciliato a Imola. Mi comprese. Era un umile ma nobile spirito. E un bellʼingegno. Sotto le vesti dellʼimpiegato di ferrovia nascon-deva unʼanima di poeta.Poeta senza rime, ma di gran cuore.- Vieni a lavorare alla stazione, quando sono di servizio.Non mi feci pregare. Era vice-capo e faceva la notte, e io andavo. Mi scaldavo alla grande stufa di quello stanzone.Il ticchettio del telegrafo accompagnava il volo dei miei sogni. Fiorivano i canti sotto la mia penna.Quando mi leggi qualcosa? – andava chiedendomi con ansia fra-terna.“Porta pazienza. Fra un paio di giorni...”Quando gli lessi lʼInvocazione se ne commosse. Gli vennero le lacrime agli occhi. E io continuai a lavorare, fi no al compimento.Fu un inverno tiepido e dolce, per me. Ricordo un particolare. Certe notti giungevano per ferrovia, gran-

di gabbie di piccioni viaggiatori, spedite da Società colombofi le perché venissero aperte a unʼora convenuta, di prima mattina. Si trattava di esperimenti.Quale gioia, per me, porre quel fruscio dʼali fra un canto e lʼaltro!Al chiarore delle prime luci collocavamo la gabbia in mezzo ai binari. Aprivamo gli sportelli; e su, una romba dʼali scattava, le-vandosi compatta come una nuvola a tingersi dʼiridi meravigliose nel rosseggiare dellʼaria.Poi la nuvola alata rimaneva brevemente incerta in un inquieto palpitare di piume: ed eccola dilatarsi, fendersi, sparpagliarsi in varie direzioni, e i colombi saettare via come frecce.In tre mesi circa il «Carmine alla Romagna» fu compiuto.Nessuno ne sapeva nulla, fuor che Marini. Andai a Bologna, a leggerlo al caro Cisterni, che ne fu preso. Non osavo sperare che egli me lo facesse leggere in pubblico durante quel mirabile ciclo di trattenimenti culturali che, sotto gli auspici della “Dante” si svolgeva nellʼinverno del 1902, grazie ai più bei nomi dellʼarte. Ma tantʼè. Pur sapendo che avrebbe dovuto sostenere in sede di Consiglio unʼaspra battaglia per far accettare il mio nome scono-sciuto, o quasi, egli volle tentare la prova. E vinse. Non subito; occorse lʼintcrvento di quel gran signore di buongusto che era Enrico Panzacchi. Ma vinse.Ed eccomi alla grande serata che fu decisiva per il mio avvenire. I trattenimenti della «Dante» avevano luogo nella vasta sala del Liceo Musicale, oggi “Sala Bossi”.Quella sera il pubblico era anche più affollato del solito. Si sapeva delle diffi coltà che il mio nome aveva incontrato, e cʼera nellʼaria, se non odor di battaglia, certo una curiosità diffi dente.Oltre al mio onore era impegnato anche quello di Cisterni. E forse il prestigio dellʼintero Consiglio.Quando mi presentai, un silenzio glaciale mi accolse. Compresi che lì si trattava, per lʼarte mia, o di vita o di morte. Bisognava dominarsi per dominare. Il lavoro era quel che era, con tutte le sue esuberanze e tutti i suoi difetti: solo, bisognava leggerlo bene, per imporlo.È diffi cile esaminare se stessi in certe situazioni. Ma io credo di essere stato perfettamente calmo. So che vinsi la mia battaglia.L̓ Invocazione fu salutata da un applauso imponente; altri applausi accompagnarono per una ventina di volte la mia lettura, e, cosa davvero insolita in una manifestazione letteraria, dovetti ripetere lʼAppello alle città romagnole per la rivoluzione del 1831, richie-sto a gran voce. Ciò per la cronaca. Serbai, da allora verso Bolo-gna, una gratitudine che non venne mai meno.Se penso però che Paolo Cisterni, generoso patrono di quella mia prima vittoria, già da parecchi anni non è più, mi sento stringere il cuore, e la gioia di quel ricordo si vela di malinconia.

Luigi Orsini

LA PRIMA VITTORIAMilano, 1954

A differenza di quanto accadeva sino a pochi anni fa, in cui lʼuni-co obiettivo della frutticoltura era quello di produrre la maggior quantità di prodotto, gli attuali orientamenti della frutticoltura da reddito sono volti ad ottenere una produzione costan te nel tempo e caratterizzata da elevati standard qualitativi.Il passaggio da quella che poteva essere ritenuta una frutticoltura di massa verso una frutticoltura di avanguardia, non può prescin-dere dallʼapplicazione di tutte quelle tecniche agronomiche e produttive che mirano al conseguimento della qualità mediante lʼottimizzazione del ciclo biologico proprio di ogni pianta.Proprio per queste ragioni si sta assistendo ad un lento ma pro-gressivo abban dono delle tecniche agronomìche “ad impatto” (come il massiccio ed indiscriminato impiego di fertilizzanti chimici o di fitofarmaci) per lasciare il posto a tecniche “più soffici” basate sul massimo rispetto della pianta e della propria fisiologia.

Una delle condizioni essenziali per ottenere i massimi livelli pro-duttivi sia sotto lʼaspetto qualitativo che sotto lʼaspetto quantita-tivo è legato alla perfetta cono scenza dei soggetti con cui si opera (piante) e dei fenomeni che ne regolano lʼesistenza (fisiologia).Esaminando il ciclo produttivo di una qualsiasi pianta da frutto è facile intuire la basilare importanza che riveste il processo di impollinazione e di fecondazione al fine del conseguimento della produzione.Il servizio di impollinazione mediante api è in atto da tempo in Italia setten trionale mentre altrove tale tecnica è poco conosciuta o del tutto ignorata. Lʼimpollinazione controllataL̓ impollinazione controllata con api è un sistema di impollinazio-ne basato sullʼausilio dellʼattività delle api e che ha come scopo quello di ottenere un servizio migliore da parte delle api; viene at-tuata attraverso lʼimpiego di arnie alle quali sono applicati parti-Ë

IMPORTANZA DELLʼIMPOLLINAZIONENELLA FRUTTICOLTURA DA REDDITO

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Á colari distributori denominati “dispensatori di polline”. Si tratta di apparecchi che, dal punto di vista costruttivo, risultano essere molto semplici; essenzialmente sono formati da un conteni-tore in cui viene introdotto il polline e da una struttura in cui le api, passando, si imbrattano di polline che verrà tra sportato sui fiori da impollinare. Questi apparecchi hanno forma adatta per essere appli cati di fronte allʼapertura di volo dellʼalveare e sono fatti in modo che le api. per uscire, siano costrette a passare attraverso un percorso obbligato durante il quale vengono a contatto con il polline.A livello operativo, per produrre un buon servizio di impollina-zione, si deve agire in questo modo: una volta collocate le arnie nellʼappezzamento da impollinare, si dispongono i dispensatori di polline di fronte allʼapertura di volo. Questi dispositivi devono essere riforniti di polline 3 volte al giorno, ad intervalli di 2-3 ore, partendo da una prima somministrazione alle ore 9-9,30 del matti-

no, quando le api bottinatrici hanno già unʼintensa attività.La quantità di polline da collocare in ogni rifornimento è di circa 3-4 grammi (pari ad un cucchiaino da caffè ben colmo), tenen-do anche conto che, in base a recenti esperienze americane, per lʼimpollinazione di un ettaro di frutteto sono necessari circa 100 grammi di polline.Questa tecnica offre indubbi vantaggi in quelle annate in cui si ve-rifica uno sfasamento tra la fioritura delle due varietà consociate e pertanto lʼimpiego del dispen satore del polline permette di ovviare a questo inconveniente.L̓ unico grosso inconveniente è legato al fatto che questa tecni-ca non può essere impiegata per piccoli appezzamenti in quanto lʼape, prima di posarsi sui fiori, pratica un volo “di decollo” che può essere anche di 100 metri e rischia di portare il polline su colture adiacenti.

Tiziano Rondinini e Mauro Pinzauti

I marroni fanno forte la razza. E questo un vecchio proverbio delle campagne che, pur con un chiaro doppio senso, sta a signifi care la grande importanza che le castagne hanno avuto nei secoli quale fon-te alimentare, principalmente per le genti di collina e montagna.Il massimo sviluppo del castagno nella Pianura Padana si ebbe verso il XII secolo, allorquando venne piantato un po ̓ ovunque, sostituendo gli antichi querceti.Dalle castagne si otteneva una farina che poteva integrare o sosti-tuire degnamente quella dei cereali. Se pensiamo alle scarse e non sempre costanti rese che nei tempi passati il grano era in grado di fornire, alle continue carestie e pestilenze cui erano soggette le po-polazioni di allora, si comprende come le castagne fossero conside-rate un bene molto prezioso.Questi frutti contengono dal 66 al 77% di glucidi, il 10-18% di protidi, sostanze grasse e vitamine; sono inoltre ricchi di fosforo e quindi hanno un effetto tonifi cante del sistema nervoso. La farina è molto digeribile, ideale per bambini, convalescenti e malati di sto-maco; con essa un tempo si curava la tosse e la pertosse.Non deve pertanto stupire se al casta-gno si attribuì lʼappellativo di “albero del pane”.Oggi però le castagne sono ormai scomparse dalla dieta alimentare e, come molti altri alimenti simbolo di pasti frugali del passato, tornano sulla tavola come beni di lusso, con prezzi assai elevati o come prodotti dolciari.Il castagneto era apprezzato anche per altri motivi; era infatti in grado di fornire legname pregiatissimo per mobili, per botti e paleria; le foglie secche costituivano unʼottima lettiera per gli animali dʼallevamento; i resi-dui della potatura e le bucce delle ca-stagne essicate venivano usati come combustibile per lʼinverno. Dai suoi fi ori si otteneva un miele dal colore e dal sapore inconfondibile.L̓ abbandono dei terreni agricoli marginali, le mutate condizioni economiche ed abitudini alimentari, congiuntamente ad alcune gravi malattie, hanno ridotto notevol-mente il patrimonio castagnicolo nazionale e quindi anche quello romagnolo. Tuttavia, sebbene la superfi cie coltivata a castagno si sia ridotta in pochi annidi oltre un terzo, lʼItalia resta ancora il primo paese esportatore di marroni e castagne.Circa il 30% della superfi cie castagnicola regionale è concentrata nelle province di Forli e Ravenna, principalmente nelle valli del Senio, Lamone e Savio. Le castagne di Romagna sono molto pre-giate - sono i veri e propri “marroni” - idonee ad essere consumate fresche, soprattutto arrostite.La distinzione tra marroni e castagne è essenzialmente dʼordine varietale e qualitativo. Le varietà da marroni sono quelle in grado

di fornire gruppi merceologici aventi pezzatura superiore a quella media delle castagne, con ricci aventi solo uno o due soggetti, e con caratteri di qualità migliori, come buccia sottile, pasta farinosa, zuccherina, consistente, saporita e resistente alla cottura.Buone varietà del nostro Appennino sono il Marrone Fiorentino o Casentinese (il tipico “marrone”), il Marrone di Castel del Rio (ot-timo per i marron-glacés) ed il Marrone di Marradi.Il rinnovato interesse per questi prodotti, come per molti altri della montagna, unitamente allʼelevato valore paesaggistico ed ambienta-le, hanno indotto a tentare già da qualche anno un recupero dei vec-chi castagneti, molti dei quali abbandonati o trasformati in cedui. Sono stati selezionati ceppi resistenti alle più temibili malattie, ed alcune disposizioni regionali tendono ad incentivare tale recupero.Non è ancora stata accertata la terra dʼorigine del castagno, ma è certo però che nel Terziario era spontaneo nelle nostre terre; poi spa-ri, per ritornarvi introdotto dallʼuomo come cultura probabilmente dal Medio Oriente, ad opera dei Fenici prima e dei Greci poi. Fatto

è che in epoca romana si diffuse rapi-damente, favorito dalle sue notevoli ca-pacità produttive, in grado di sopperire ai fabbisogni alimentari, energetici e di materia prima legnosa della passata civiltà contadina.È citato nel Vecchio Testamento, nel-lʼOdissea ed in altre opere di antichi autori, tra cui Galeno, che stranamente lo detestava.Veniva chiamato “noce pontica”, “noce greca” o “noce di Heraklion”. Il primo a chiamarlo con lʼattuale nome fu Nicandro, nel II sec. a. C., abbinandolo al nome di una città della Tessaglia, Kastanèia. Altri autori anti-chi lo fanno invece risalire a Kastanis, città del Ponto dove, a detta di Plinio, esistevano molti castagneti; certo è che non è dato sapere se siano state vera-mente tali città a dare il proprio nome allʼalbero, oppure, più probabilmente, non sia stato lʼesatto contrario.

Allʼepoca di Plinio si contavano già una decina di varietà, e dal Trecento si comincia a parlare per la prima volta di marroni per indicare i frutti più grossi, segno che le varietà erano molte.Molto esigente in fatto di luce e calore, nei nostri luoghi il castagno trova le migliori condizioni tra i 500 e gli 800 metri di altitudine, dalla zona della vite a quella del faggio.E anche assai delicato in fatto di terreno, preferendo quelli sciolti, leggeri, freschi e con poco calcareMolto longevo- può vivere oltre mille anni - possiede un elevatis-simo valore ornamentale e pertanto può a pieno titolo ritornare ad assumere un ruolo di primo piano non solo nellʼeconomia agricola montana, ma anche nel recupero paesaggistico dei nostri boschi, in verità un po ̓troppo trascurati sotto tale aspetto.

IL CASTAGNO ALBERO DEL PANE

Page 16: AGOSTO 2005 NUMERO 16 Editoriale I Rappresentanti Territoriali · presentati con successo al “Salone Del Gusto” di Torino del 2004 e al Vinitaly di Verona del 2005. L’Oca Romagnola

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Quali furono in concreto le forme della pressione musulmana in epoca moderna sulle coste romagnole? Dal Millequattrocento fino allʼOttocento i pirati musulmani provenivano in genere dalla non lontana Albania e in particolare da Valona da dove era partita anche la spedizione che prese e saccheggiò Otranto nel 1480.Ma Valona e qualche altro porto secondario della costa che oggi chiamiamo albanese, nella maggior parte dei casi era lʼultima tappa o scalo per i vascelli musulmani insediati in regioni notevolmente più lontane.Indubbiamente i più pericolosi furono quelli algerini, ma lo furono anche i tunisini e i tripolitani.Teoricamente lʼAdriatico non sarebbe stato proprio sulla loro rotta,

ma le basi turche dello Jonio e dellʼAlbania le invitavano a fare delle scorrerie individuali o a piccoli gruppi in quel mare chiuso attra-versato da traffici intensi e attaccare le coste sul versante italiano densamente popolate.Era una ghiotta riserva di caccia, molto più ricca di quella che offri-vano le coste Joniche della penisola italiana e i pirati difficilmente sapevano resistere alla tentazione di approfittarne.Il mare Adriatico era solcato dalle navi veneziane che prevalen-temente erano costituite da pesanti galere mentre i legni dei pirati erano barche a vela e a remi con fiancate molto basse che rappresen-tavano per le artiglierie un bersaglio difficili da colpire.Dotate di poco pescaggio, con il mare calmo potevano avvicinarsi alla costa e sorprendere agevolmente gli abitati isolati e le borgate indifese oltre ad attaccare le flottiglie dei pescatori e i piccoli mer-cantili disarmati.L̓ insieme delle prede era oltremodo cospicuo e molto redditizio:

tutto diventava negoziabile, le merci cedute e barattate a manuten-goli locali o vendute nei mercati ottomani, le persone fatte schiave scambiate contro un riscatto molto consistente legato al loro censo di appartenenza.La pirateria sul mare rappresentava una vera e propria industria dai sicuri profitti tanto più che i musulmani la consideravano benedetta dal Cielo essendo esercitata contro i cristiani, per loro infedeli. I rischi erano ridotti perché era snervante e oneroso attivare un co-stante blocco del mare e delle coste e i sistemi difensivi fissi, rappre-sentati dalle torri fortificate, avevano delle larghe maglie attraverso le quali i pirati passavano indenni. E se questo era vero per le coste venete tanto più lo era per quelle pontificie.

Giovanni Moncenigo, ambasciatore veneto a Roma dal 1609 al 1612 così sintetizzava la situazione sotto papa Paolo V: «Nella milizia marittima non hanno li Papi posta molta cura e pensiero avendo solo sei corpi di galere li quali per lo più si trattengono nel porto di Ci-vitavecchia, di queste tre e a volte quattro si tengono armate, né in altro luogo dello stato vi è comodità di tenerle non vi essendo arsenale né provvisione veruna».Con patente in data 1 marzo 1673 il governo pontificio nominò un soprintendente generale di tutte le spiaggie dellʼAdriatico con lʼincarico di dirigere “la strutura e fabbrica delle torri” che il Pontefice aveva deciso di fare costruire “nei luoghi più esposti e soggetti alle invasioni dei pirati”, sia lʼorganizzazione delle milizie a piedi e a cavallo “che saranno destinate...alla guardia e alla custodia della spiaggia..” Nonostante queste difese le scorrerie dei pirati barbareschi continueranno per oltre metà del-lʼOttocento avendo come scopo principale la

cattura di uomini e donne da restituire con il riscatto o trattenere e vendere come schiavi.

PIRATERIA MUSULMANA SUL MARE E SULLE COSTE ROMAGNOLE

È zoch –periodico di attività culturaliAgosto 2005, numero 16Autorizzazione del Tribunale di Bologna n.° 6718

Direttore : Daniele FranchiniDirettore responsabile : Gian Franco FontanaRedazione: Santerno Edizioni sas di Gian Franco Fontana e C.Via IV novembre, 7 40026 Imola BOStampa Litografia Ragazzini, FaenzaE mail : [email protected] questo numro scritti di :Riccardo Belloni; Dionisio DallʼOsso; Gian Franco Fontana; Daniele Franchini; Luigi Orsini; Riccardo Ricci Bitti;Rondinini-Pinzauti; Stefano Servadei; Franco Tabanelli. Le fotografie sono dellʼarchivio Gian Franco Fontana ©2005

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