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Web view32 La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un`anima sola e...

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“Erano assidui alle istruzioni degli apostoli, alla vita comune, allo spezzare del pane e alle preghiere” (At 2, 42). Ritiro per la Comunità Spirito e Vita – Sepino, 23- 26 agosto 2012 Giovedì pomeriggio 1. “Erano assidui…” Venerdì mattina 2. Le istruzioni degli apostoli Venerdì pomeriggio 3. La vita comune – un’esperienza: sor. Elisabetta Sabato 4. La frazione del pane 1
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“Erano assidui alle istruzioni degli apostoli, alla vita comune, allo spezzare del pane e alle preghiere” (At 2, 42).Ritiro per la Comunità Spirito e Vita – Sepino, 23-26 agosto 2012

Giovedì pomeriggio

1. “Erano assidui…”

Venerdì mattina 2. Le istruzioni degli apostoliVenerdì

pomeriggio3. La vita comune – un’esperienza: sor.

ElisabettaSabato mattina 4. La frazione del pane

Sabato pomeriggio

5. Le preghiere: sor. Lorella

Domenica mattina

6. Conclusione

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1 Erano assiduiAtti 2

42Erano assidui nell`ascoltare l`insegnamento degli apostoli e nell`unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46 Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. 48 Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

Atti 432 La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un`anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. 33 Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. 34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l`importo di ciò che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Atti 512 Per mano degli apostoli avvenivano molti miracoli e prodigi in mezzo al popolo. Tutti stavano insieme uniti e concordi nel portico di Salomone. 13 Nessuno degli altri osava unirsi ad essi,

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ma il popolo ne faceva grandi lodi. 14 Sempre più andava aumentando il numero dei credenti nel Signore, una moltitudine di uomini e di donne, 15 tanto che i malati venivano portati nelle piazze e posti su lettini e barelle perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra ricoprisse qualcuno di loro. 16 La folla confluiva anche dalle città attorno a Gerusalemme, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi, i quali tutti venivano guariti.

1.1 Che senso hanno questi sommari? Anzitutto essi aiutano a puntualizzare che la narrazione

degli Atti non è semplicemente una serie di abbozzi biografici dei personaggi famosi (Pietro, Stefano, Filippo, Paolo…), bensì la storia di una comunità, del Popolo di Dio.

Poi forniscono conferma al tema centrale degli Atti che è il trionfo della Parola di Dio, del suo progredire inarrestabile. Il vangelo viene accettato da un numero sempre più vasto di persone e la qualità della vita cristiana viene sostenuta e sviluppata in profondità e in intensità.

Bisogna sempre tener presente che esposizioni di questo tipo mirano non ad informare, bensì a edificare. Lc intende mostrare ai suoi lettori com’era la vita dei cristiani nel periodo apostolico, affinché essi la imitino.

Il punto centrale del nostro testo è che con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù. Per questo compito essi erano stati designati e incaricati: “Riceverete forza quando lo Spirito Santo verrà su di voi – aveva detto Gesù –, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra” (1,8; cfr. 1, 22). Qui Lc ci sta dicendo che la promessa del Signore si è avverata: in essi opera la forza

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dello Spirito che si manifesta in miracoli, ma anche nel parlare efficace e convincente.

Ci viene poi detto che tutti godevano di grande favore; favore di chi? Lasciato così si potrebbe pensare al favore della folla, ma sarebbe sbagliato. La parola usata da Luca è un termine tecnico: è ca,rij (ca,rij te mega,lh h=n evpi. pa,ntaj auvtou,j): alla lettera “una grande grazia infatti era su tutti loro”: sii tratta dunque del favore di Dio, della sua benevolenza attiva, che approva quanto gli apostoli stanno facendo e incoraggia e agevola la loro opera. D’altra parte il fatto che sia su tutti loro significa che questa grazia si estende a tutta la comunità radunata dagli apostoli.

Questa perla centrale è poi incastonata in una descrizione della vita comunitaria che si centra sull’unità. Il linguaggio con cui Luca si esprime è tipico del giudaismo: un cuore solo e un’anima sola. Ma è un tema che ritroviamo anche nell’ Etica nicomachea di Aristotele, (IX, 8) che menziona le caratteristiche proverbiali dell’amicizia: “un’anima sola”, “tutte le cose in comune”.

Qualche esegeta ha scritto che addirittura il testo di riferimento è lo Shema’, che ordina di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la forza. “Cuore” e “anima” figurano esplicitamente: la comunità è in tal modo unita nel suo amore per Dio; la “forza” era interpretata come le proprietà, le ricchezze. Il popolo di Dio è dunque rappresentato come unito nel cuore , nell’anima e nell’uso dei beni.

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1.2 La prima comunità cristiana È la prima comunità formata dai credenti che si sono

convertiti in seguito alla testimonianza degli Apostoli. La vita di questa comunità ha avuto inizio ed è centrata sull’avvenimento della Pentecoste. Il dono dello Spirito santo ha cambiato radicalmente la situazione dei discepoli. Da persone paurose e sgomente per i recenti avvenimenti del venerdì Santo a Gerusalemme, il dono dello Spirito ne ha fatto delle persone capaci di testimoniare in modo coraggioso. Da questa testimonianza nasce la prima comunità radicata nella fede che niente e nessuno può far desistere dal credere e testimoniare il risorto: Gesù Cristo.

Tutti i biblisti sono concordi nel sostenere che questa descrizione o questo reportage della prima comunità fatta da Luca è un po’ idealizzato anche se non mancavano delle comunità cristiane veramente eccezionali e quindi diventavano ideali cui tendere. È Luca stesso che invita a non eccedere nell’idealizzazione. Al capitolo cinque vi è riportato l’episodio della frode di Anania e Saffira.

Erano assidui (v. 42)

Secondo l’usanza ebraica, I credenti frequentavano il Tempio ogni giorno. Col passare degli anni poi si riunivano regolarmente il primo giorno della settimana, il giorno del Signore, la domenica, in ricordo della resurrezione di Gesù Cristo. Il primo giorno della settimana ha sostituito il Sabato ebraico come giorno sacro per i cristiani: la domenica, dal latino Dies dominica, giorno del Signore. È la Pasqua che si rinnova nel giorno della festa e della resurrezione. La spiritualità cristiana ha visto nella domenica il primo giorno

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della nuova creazione, e anche l’ottavo giorno che segue il riposo del Signore nel sepolcro: da qui l’usanza di erigere i battisteri in forma ottagonale.

L’assiduità dei primi credenti era accompagnata dalla perseveranza. Non basta, infatti, la prima la scelta iniziale di credere. Questa scelta va continuamente approfondita e confermata. La perseveranza indica una forte passione, un amore solido e fedele, senza il quale non può esserci una vera vita cristiana.

All’insegnamento degli Apostoli. (v. 42)

Sono le istruzioni, nelle quali le Scritture sono spiegate alla luce di Cristo.

Era l’insegnamento degli Apostoli che teneva unito la comunità, come il cemento tiene uniti i mattoni. I primi cristiani ascoltavano assiduamente i testimoni del Risorto; che hanno mangiato con lui, che hanno ascoltato le sue parole e che hanno ricevuto il compito di confermare nella fede i loro fratelli (Gv. 21,1ss; Lc. 22,31-32)

e all’unione fraterna. (v. 42 e 44-45)

Si può intendere anche comunione però dando a questo termine il significato di comunione fraterna o comunanza dei beni. Si diceva, infatti, che tra loro nessuno era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At. 4,34-35).

Questa unione fraterna o comunanza dei beni esprime e rafforza l’unione dei cuori. È l’effetto del condividere insieme,

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nella comunità apostolica, il vangelo e tutti i beni ricevuti da Dio mediante Gesù Cristo. Il senso non si limita ad un reciproco aiuto solo dal punto di vista sociale, né ad un’ideologia comunitaria o ad un sentimento di solidarietà. È una comunione di fede profonda che scaturisce dall’esperienza delle grandi opere di Dio rese visibili attraverso l’agire degli Apostoli.

La comunione dei beni vissuta nella comunità cristiana è dunque, secondo Luca, la conseguenza irrinunciabile della scelta di seguire Cristo. La comunione dei beni vissuta nella comunità cristiana è dunque, secondo Luca., la conseguenza irrinunciabile della scelta di seguire Gesù Cristo.

In una società come la nostra dove ciò che più conta è la proprietà privata e il guadagno, si rimane sconcertati dal radicale cambiamento che avviene nella prima comunità dopo la Pentecoste: “coloro che erano divenuti credenti avevano ogni cosa in comune”. (At. 2,44); “nessuno diceva sua proprietà ciò che gli apparteneva” (At. 4,32); “Tutto veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At. 2,45; 4,35).

Luca non dice che i primi cristiani erano più generosi degli altri, che facevano più elemosina, ma che avevano rinunciato a possedere i loro beni come “propri”, e li amministravano come “cosa comune”, che doveva servire al bisogno di ciascuno.

Questo tema è molto caro a san Luca e anche nel Vangelo egli sottolinea i richiami di Gesù al distacco totale : “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo (Lc. 14,33; 12,33; 18,22.). Non bisogna pensare che

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questo consiglio sia in di più rivolto solo a qualche eroe. La richiesta del distacco dal possesso è rivolta a tutti.

Questo vivere gioioso dei primi cristiani era motivo di stupore e di speranza per chiunque li incontrasse. Chi infatti si è convertito e segue la via di Gesù, il Cristo e il Figlio di Dio vive di speranza, sa che Dio è Padre, e non si sente più schiavo di nulla. La ricchezza, che in sé è un bene, toglie la libertà a chiunque non accetta la condivisione.

Nella frazione del pane (v. 42)

Nel linguaggio cristiano l’espressione “frazione del pane” sta ad indicare il rito eucaristico. Chiarificatrice in proposito un’espressione di san Paolo che troviamo nella 1Cor. 10,16 : “ il pane che noi spezziamo non è forse comunione al Corpo di Cristo?”.

Questa frazione del pane o pasto eucaristico costruisce la comunità cristiana. Questa, infatti, è il corpo mistico di Cristo, nato dal suo sacrificio sulla croce e costituito con potenza nella sua risurrezione. Nella frazione del pane si celebra sacramentalmente proprio questo: Cristo offre il suo corpo sotto i segni del pane, versa in sacrificio il suo sangue sotto i segni del vino, si dona corpo, sangue, anima e divinità al Padre per noi e a noi per renderci una sola cosa con Lui e tra noi. L’Eucaristia celebra la presenza del Signore Risorto che dopo la resurrezione ha mangiato di nuovo con i suoi discepoli (Gv. 21, 9-14, in amicizia, offrendo loro un perdono incondizionato, nonostante il loro tradimento.

E nelle preghiere (v. 42)

Le preghiere erano solitamente presiedute dagli Apostoli. Si trattava sia della preghiera tradizionale giudaica, fatta

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soprattutto di salmi, sia di preghiera spontanea, nella quale si presentano al Signore le necessità dell’ora presente. Troviamo un bellissimo esempio di preghiera in comune al capitolo 4, 24-31.

Prodigi e segni avvenivano per opera degli Apostoli...(V. 43)

L’accenno ai prodigi e segni si può interpretare così: partendo dal fatto che la conversione del cuore coinvolge positivamente la persona umana in tutte le sue componenti e porta con sé anche dei benefici di ordine fisico. Quando lo Spirito di Gesù prende possesso di una persona, tutte le forze della vita vengono poste nella condizione di esplodere e possono produrre effetti straordinari e inattesi. Ma quello che Luca vuole sottolineare è il fatto che questi segni avvengono sempre in un contesto di carità e di fede accompagnata dalla preghiera.

1.3 Il coraggio dei primi cristianiOsservando un po’ da vicino la prima comunità cristiana

non possiamo non restare stupiti per il coraggio con il quale i primi cristiani vivevano e testimoniavano la loro fede. Questo coraggio viene dal fatto che la Chiesa degli Apostoli ha avuto il coraggio di guardare a Gesù e di farsi immagine del suo volto. Non si è adagiata aspettando un imminente ritorno del Signore, ma si è rimboccata le maniche e ha vissuto un’esperienza concreta di fraternità.

Erano persone come noi, con i loro limiti ed i loro difetti, che hanno superato difficoltà certo non inferiori alle nostre, ma si sono lasciati condurre dal Signore, giorno per giorno, per le strade del mondo, facendo del bene, sanando quelli che

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erano dominati da poteri maligni e da malattie fisiche, insegnando a vivere con gioia il Vangelo.

Con questo modo di essere e di testimoniare, la prima comunità cristiana è stata annunciatrice di speranza. La Comunità di San Leonardo, quarant’anni fa’, ha vissuto la stessa esperienza. Un’esperienza che si è evoluta ed è arrivata fino al giorno d’oggi nella Comunità Spirito e Vita. I frutti ci sono stati. Ma se erano frutti buoni, ora devono produrre semi. Come può questa nostra esperienza diventare un seme per il futuro? Certamente dobbiamo rimettere in discussione tutto il nostro modo di vivere e di credere.

La Chiesa degli Apostoli ci spinge all’urgenza di riscoprire, rivivere e attualizzare il modo e agire dei primi discepoli; i loro atteggiamenti e le loro scelte, il loro amore per il Signore Gesù, la loro obbedienza al Padre, la loro docilità allo Spirito Santo, la loro costante attenzione alla Parola, la Carità creativa verso i fratelli, lo slancio missionario.

Guardando la realtà del quotidiano che siamo chiamati a fronteggiare ogni giorno, siamo tentati di affermare che l’esperienza dei primi cristiani appartiene unicamente al passato e che è praticamente impossibile pretendere di voler reinterpretare ed attualizzare tale esperienza di vita e di fede. L’accoglienza e la condivisione nei confronti di Dio e dei fratelli, non sono cose d’altri tempi, ma fanno parte del comandamento dell’amore che il Signore ci ha lasciato in eredità.

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2 Le istruzioni degli apostoli2.1 Fame e sete della Parola

Vorrei cominciare con un brano di Isaia (55, 1-3) che è tutto un invito:

O voi tutti assetati, venite all’acqua; voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate senza denaro e senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete.

Che cos’è questo cibo misterioso che Dio, per mezzo del suo profeta, ci invita a procurarci e a mangiare per estinguere la nostra fame e la nostra sete?

Dio dice che noi uomini non facciamo che spendere il nostro patrimonio per cose che non saziano la nostra fame, che non ci appagano.

Fin qui siamo pronti a riconoscere che è vero. Noi, infatti, spendiamo la vita, le risorse, il tempo, per inseguire dei traguardi che non sono in grado di saziarci, cioè di darci pace, serenità e gioia. Questi traguardi sono le ricchezze, il piacere, le realizzazioni che hanno di mira solo noi stessi. Chi guarda indietro alla propria esistenza dalla soglia della vecchiaia, quante volte deve accorgersi della profonda verità di ciò e dire amaramente dentro di sé: che cosa mi resta?

Passiamo la giovinezza a correre dietro al divertimento: feste, discoteche, sballo, sesso… e ne ricaviamo solo tristezza, solitudine e tare mentali. Passiamo l’età adulta a lavorare come somari, accumuliamo denaro su denaro, senza goderci

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niente… e ne ricaviamo solo esaurimento e malattia. E poi ci attende una vecchiaia in cui saremo abbandonati da tutti, in lite con tanti, e in odio a noi stessi! Ma vale la pena di campare così?

Dio ci dice di cercare qualcos’altro, di cercare da un’altra parte. Da che parte? Nel brano stesso di Isaia è contenuta una risposta: Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete

La prima cosa da cercare è dunque la Parola di Dio. Questo è il fondamento di ogni vita umana. Mettersi in atteggiamento di ascolto, aprire il cuore, e mettere in moto ogni cosa per cercare la parola del Signore.

Nel Vangelo vediamo spesso che le folle, appena vengono a sapere che Gesù è in un certo luogo, corrono a piedi uscendo dalle città e recandosi nei posti dove Gesù predica. Ecco come si comporta chi cerca la parola del Signore! E non crediate che fosse così solo in Palestina, duemila anni fa. Anche oggi, in Africa, in America Latina, famiglie intere, uomini, donne, vecchi e bambini, giacché nel loro villaggio non c’è il sacerdote, tutte le Domeniche si mettono in marcia, e fanno fino a trenta chilometri a piedi per partecipare alla Messa. Per loro è normale. Se gli si chiede qualcosa in proposito rispondono: Siamo cristiani! E noi?

Noi no. Noi abbiamo inventato la categoria dei “credenti-non-praticanti”, che sono quelli che affermano di credere che Gesù è il Signore, ma non vogliono ascoltare la sua Parola! E attenzione, perché vi è l’illusione dei “credenti-non-praticanti” – che ovviamente sono dei falsi credenti – ma vi è anche l’illusione dei “praticanti-non-credenti”, come potremmo essere noi, anche religiosi, anche sacerdoti, se la nostra vita è

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piena di pratiche religiose, ma il cuore non ascolta la Parola, non è disposto a cambiare, non abbandona le proprie comodità e i propri progetti, non segue realmente Cristo!

2.2 Il libro dolce e amaroPer portare la Parola dobbiamo incontrarla. Geremia

racconta così la sua esperienza: Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore (Ger 15, 16).

La Scrittura descrive questo momento, in cui Dio “dà” la sua parola all’uomo, con un’immagine che ricorre due o tre volte nella Bibbia: l’immagine del “piccolo libro” offerto da mangiare. In modo implicito, essa è già presente nel passo di Geremia appena riportato. In Ezechiele si legge:

Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. (Ez 2, 9 - 3, 1)L’Apocalisse riprende questa immagine, aggiungendovi

però un elemento importante: il “piccolo libro”, in bocca è, sì, “dolce come il miele”, ma “riempie di amarezza le viscere” del profeta (Ap 10, 8-10).

Dio dice al profeta: “Prendi e mangia questo rotolo, divoralo, inghiottiscilo”. C’è una differenza enorme tra il libro semplicemente letto e il libro mangiato. Nel primo caso il libro resta esterno, il rapporto con la Parola è mediato, distaccato; la Parola è passata solo attraverso gli occhi o il cervello

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dell’annunciatore. “Parla come un libro stampato”, si dice di questo annunciatore. Egli difficilmente smuove i cuori.

Nel secondo caso – il libro mangiato – la Parola si “incarna” nell’annunciatore, diventa “parola di carne”, parola viva ed efficacie. Il rapporto tra l’annunciatore e la Parola è immediato e personale. C’è una sorta di misteriosa immedesimazione che fa pensare, appunto, al fatto dell’incarnazione. L’annunciatore che “inghiottisce” la Parola e l’accoglie nelle proprie “viscere”, come fece Maria, permette alla Parola di Dio di “incarnarsi” nuovamente e di “abitare in mezzo agli uomini”. La Parola mangiata è una parola “assimilata” dall’uomo, sebbene si tratti di una assimilazione passiva (come nel caso dell’Eucaristia), cioè di un “essere assimilato” dalla Parola, soggiogato e vinto da essa, che è il principio vitale più forte.

Ma entriamo nel vivo dell’immagine. Il piccolo libro, dice l’Apocalisse, è dolce come il miele sulla bocca, ma amarissimo nelle viscere. Che significa ciò? Che la Parola è dolce per gli altri, per chi l’ascolterà dalle nostre labbra, ma è amara per noi, che sarà tanto più dolce e persuasiva per gli altri, quanto più è stata amara per noi. Il nostro ministero – diceva l’Apostolo ai suoi fedeli di Corinto – in noi opera la morte, ma in voi la vita (2 Cor 4, 12).

Comprendere i motivi di quest’amarezza è penetrare nell’intimità più profonda del mistero dell’annuncio. E questi motivi si riducono, in ultima analisi, al peccato. La Parola giudica il peccato, e tu sei peccatore! Ingoiare il rotolo pieno di guai, lamenti e pianti è ingoiare il terribile giudizio di Dio contro il peccato. Quando questo giudizio entra in contatto con il peccato, scoppia una tremenda “rissa”. E questo contatto avviene, per primo, proprio nel cuore

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dell’annunciatore; deve avvenire qui; qui deve scoppiare la tempesta, altrimenti non succederà nulla e la Parola arriverà sulle labbra spenta. Quando la Parola di Dio venne su Isaia, ci fu un momento in cui il profeta si sentì perso ed esclamò: Ohimé! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono (Is 6, 5). L’apostolo Paolo diceva che Cristo era venuto nel mondo per salvare il peccatori, dei quali il primo era lui (cfr. 1 Tm 1, 15). Sono forse io migliore dell’apostolo Paolo? No certamente! Perciò anch’io devo dire: “Il primo dei peccatori sono io!”.

San Giacomo parla della Parola di Dio come di uno specchio (cfr. Gc 1, 23): una prima prevaricazione a questo riguardo è quella di tenere lo specchio alto davanti ai fratelli, perché vi si specchino, standovi però noi dietro, al riparo. Ogni parola viene applicata agli altri, come dirottata sugli altri. La Bibbia dice che la Parola di Dio è “una spada a doppio taglio”, che giudica non solo chi l’ascolta, ma anche chi la proclama. Sant’Agostino (Sermo 179, 1.7) dice:

È vano predicatore, all’esterno, della Parola di Dio, colui che non è, lui stesso, un ascoltatore all’interno… Voi siete gli uditori della Parola, noi i predicatori. Ma dentro, dove nessuno può vedere, siamo tutti uditori.

Ogni volta che tu, annunciatore della Parola, gridi contro qualche peccato, quando spieghi la parabola del buon samaritano e parli di quel sacerdote e di quel levita che passano oltre, quando ti trovi a parlare di quel servo che ha ricevuto il condono della grande somma e non sa condonare al suo collega servo, ascolta bene e udrai dentro di te, nelle tue “viscere”, come un rimbombo della tua parola che dice (come diceva Natan a David): Tu sei quell’uomo! Tu sei quell’uomo!

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Noi annunciatori della Parola corriamo un rischio costante: spiegando la Parola di Dio ci accaloriamo per riuscire a far comprendere ai fedeli che è di loro, proprio di loro e non di altri, che si tratta, e non ci accorgiamo che stiamo saltando, in tal modo, il primo anello della catena e tutto è sospeso nel vuoto. Perché è di “noi” anzitutto, che si tratta!

San Paolo fa una lunga requisitoria contro coloro (in quel caso, i Giudei) che, essendo i depositari delle Scritture, le usano solo per giudicare gli altri e non se stessi. Tu – dice – ti glori di conoscere la volontà di Dio e di saper discernere ciò che è bene; sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi la legge. Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri non insegni a te stesso? (Rm 2, 17-24). L’Apostolo da subito alcuni esempi, ma noi ne possiamo fare altri: Tu che condanni l’odio e predichi l’amore, ami veramente il prossimo – non solo il lontano, ché è facile, ma il vicino? Ami i nemici? Tu che proclami “Beati i poveri”, sei veramente distaccato dalle cose, dalla ricompensa? Hai veramente lasciato tutto? Sei povero?

2.3 Il talento sotterraNoi oggi viviamo una vita particolarmente comoda. Il pane

materiale non ci manca, nemmeno il companatico, e le bevande… In questa situazione rischiamo di non aver più voglia di mangiare il pane della parola e di dissetarci alla sua fonte. Cadiamo nell’accidia, la malattia spirituale di chi non vuol progredire nella strada del Signore.

Gesù ci ha messo in guardia contro questo vizio nella parabola dei talenti (Mt 25, 14-30).

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C’è un padrone che si fida dei suoi servi e consegna loro i suoi beni in amministrazione. E da a ciascuno secondo le proprie capacità. Le cifre che distribuisce sono molto grandi (un talento è pari a una quarantina di chili di metallo prezioso):

Ma il denaro è fatto per essere esposto al rischio e speso; altrimenti resta improduttivo. Nessuno lo conserva per se stesso, eccetto l’avaro; lo si desidera per ciò che vale, non per ciò che è! Così vediamo che questi servi della parabola vanno subito ad impiegare i talenti ricevuti, e raddoppiano il capitale.

Poi viene il momento della resa dei conti. I servi buoni e fedeli hanno raddoppiato il capitale. Cristo non fa differenza tra chi ha guadagnato 10 e chi 4: premia l’impegno, lo sforzo: Prendi parte alla gioia del tuo padrone!

C’è però un servo malvagio e pigro. Questi non ha fatto fruttare il talento ricevuto: è un fannullone.

Ma c’è un aspetto ancor più inquietante nel servo fannullone: si mette a giudicare il suo Signore e lo accusa di essere un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso.

Questo servo, come tante volte anche noi, ha un senso troppo rigido e meschino della giustizia e dimostra di non aver capito il senso del dono. Il dono crea una responsabilità: quella di far valere il dono stesso!

Forse questo servo si era risentito per aver ricevuto meno degli altri. Così, chiuso in se stesso, ha conservato per sé il suo talento ed ha rifiutato di condividerlo.

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= Ha avuto paura del suo padrone, che ha ritenuto arbitrario e duro; ha avuto paura di agire, di dare fiducia alle ricchezze affidategli. E poiché ha scelto di ripiegarsi su se stesso, prigioniero di se stesso, viene legato e gettato fuori, solo, nella tenebra. Ha ottenuto ciò che desidera: il suo egoismo diviene definitivo.

Ora però veniamo a noi. Cristo è questo Padrone, noi siamo i servi ai quali Lui ha affidato i suoi talenti. Ha avuto fiducia in noi!

Quali talenti abbiamo ricevuto noi, come singoli e soprattutto come comunità? Tanti: un’esperienza ecclesiale praticamente unica nel panorama diocesano da quarant’anni a questa parte, nel servizio, nella liturgia, nella preghiera; e poi le virtù, i doni dello Spirito, le beatitudini… E tutto questo è nato da un’immersione nella Parola di Dio.

Cristo ti dona la fede: tu devi accrescere la tua fede nell’ascolto della Parola, partecipando alla catechesi, pregando. Cristo ti dona la speranza: tu devi raddoppiare la speranza meditando sulle promesse racchiuse nella Parola, annunciando agli altri la vita eterna. Cristo ti dona la carità: tu devi accrescere la carità mettendo in pratica la Parola e amando Dio e il prossimo in ogni circostanza…

Poi viene il momento della resa dei conti. Verrà per tutti noi. Incontreremo Cristo e ci chiederà: Cosa nei hai fatto della Parola che ho posto nelle tue mani? Hai raddoppiato il mio dono? E per noi il giudizio avrà anche un aspetto comunitario: ho ricolmato di doni questa comunità e te l’ho donata: che ne avete fatto dei miei doni?

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3 La vita comune [ sor. Elisabetta]

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4 La frazione del pane “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita

per gli amici” (Gv 15, 13), dice Gesù nel Vangelo di Giovanni. Mettiamo questo testo ad interagire con quanto chiede Paolo nella lettera ai Romani: “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1). Queste parole non ci ricordano quelle della consacrazione eucaristica? “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.

Quando perciò san Paolo ci esorta ad offrire i nostri corpi in sacrificio, è come se dicesse: Fate anche voi ciò che ha fatto Gesù: fatevi anche voi Eucaristia. Egli si è offerto per voi; offritevi anche voi in sacrificio vivente e gradito a Dio a vantaggio dei vostri fratelli, della Chiesa e dell’Universo intero”.

“Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19),

Fate esattamente i gesti che ho fatto io, ripetete il rito

Fate la sostanza di ciò che ho fatto io; offrite anche voi il vostro corpo in sacrificio, come vedete che ho fatto io! “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13, 15).

Noi siamo il “suo” corpo, le “sue” membra (cf 1 Cor 12, 12 ss); perciò è come se Gesù ci dicesse: Permettetemi di offrire al Padre e al mondo il mio stesso corpo che siete voi; non mi impedire di offrire me stesso. Io non posso offrimi totalmente finché c’è un solo membro del mio corpo che si rifiuta di

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offrirsi con me! Completate dunque ciò che manca alla mia offerta; fate piena la mia gioia!

Guardiamo dunque con occhi nuovi il momento della consacrazione eucaristica, poiché ora sappiamo – come diceva sant’Agostino – che “è anche il nostro mistero che si celebra sull’altare” (Sermo 272).

Per celebrare in verità l’Eucaristia bisogna “fare” quello che fece Gesù: un gesto e alcune parole.

4.1 Un gestoTutti i racconti dell’istituzione mettono in rilievo questo

gesto, tanto che l’Eucaristia prese, ben presto il nome di “frazione del pane”. Ma il significato di quel gesto, forse, non l’abbiamo ancora compreso appieno. Perché Gesù spezzò il pane? Solo per darne un pezzetto a ciascuno, cioè in vista dei suoi discepoli? No! Quel gesto aveva, prima di tutto, un significato scarificale che si consumava tra Gesù e il Padre; non indicava solo condivisione, ma anche immolazione. Il pane è lui stesso, spezzando il pane Gesù “spezzava” se stesso, nel senso in cui Isaia aveva detto del Servo di Jahvè: “attritus est propter scelera nostra” (Is 53, 5).

Una creatura – che però è lo stesso Figlio eterno di Dio – spezza se stessa davanti al Padre, cioè «obbedisce fino alla morte», per riaffermare l’amore di Dio e riconciliare il mondo con lui. «Spezzò il pane»: la sua volontà umana si consegna interamente al Padre, vincendo ogni resistenza. «Perciò, entrando nel mondo dice: “Non hai voluto sacrificio, né oblazione, ma tu mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. Allora io dissi: ecco vengo, nel rotolo del libro è stato scritto di me, o Dio, per fare la tua

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volontà”». (…) Nella quale volontà siamo stati santificati mediante l’offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre” (Eb 10, 5-7.10).

Per “fare” anch’io ciò che fece Gesù in quella notte, dunque, devo anzitutto “spezzare” me stesso, deporre ogni rigidezza, ribellione verso Dio o verso i fratelli, infrangere il mio orgoglio, piegarmi e dire “sì” fino in fondo a tutto ciò che Dio mi chiede; devo ripetere anch’io quelle parole: Ecco, io vengo per fare o Dio la tua volontà”. Tu non vuoi tante cose da me; vuoi me! Ed io ti dico “sì!”

Per divenire un solo corpo con Cristo, il cristiano deve morire e risuscitare insieme con lui. Nelle unioni terrene non si realizza mai il desiderio supremo dell’amore, quello di diventare un corpo solo con l’amato: bisognerebbe poter nascere con lui e morire della sua morte. L’Eucaristia è la comunione del “corpo dato” e del “sangue versato”. Essa incorpora la Chiesa a Cristo nella partecipazione alla sua morte e alla sua nascita eterna; fa di essa un solo corpo nell’evento della salvezza, la celebrazione della Pasqua di Cristo, come dice san Leone M.: «La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, di colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risuscitati».

4.2 Alcune paroleRacconta R. Cantalamessa:

«Fino a qualche anno fa, ecco come io vivevo il momento della consacrazione nella santa Messa: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi

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circondava per immedesimarmi in Gesù che nel cenacolo, prima di morire, pronunciò per la prima volta quelle parole: “Prendete e mangiate…”. (…) Poi un giorno ho capito che tale atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Quel Gesù del cenacolo non esiste più! Esiste ormai il Gesù risorto: il Gesù, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre. Ma questo Gesù è il Cristo totale, Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch’io le pronuncio con lui. Dentro l’”Io” grande del Capo c’è nascosto il piccolo “io” del corpo che è la Chiesa, ed anche il mio piccolissimo “io” che dice a chi sta davanti: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Che mistero! Gesù mi ha unito a sé nell’azione più sublime, più santa della storia (…). Dal giorno in cui capii questo, non chiudo più gli occhi al momento della consacrazione, ma guardo i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo incontrare nella giornata e ai quali devo dedicare il mio tempo, o penso addirittura a tutta la Chiesa e, rivolto a essi, dico come Gesù: prendete, mangiate: questo è il mio corpo».

Questa intuizione appartiene alla dottrina più sicura della tradizione cristiana. Così sant’Agostino:

«Tutta la città redenta, cioè l’assemblea comunitaria dei santi viene offerta a Dio conte sacrificio universale per la mediazione del sacerdote grande che nella passione offrì se stesso per noi nella forma di servo, perché fossimo il corpo di un Capo così grande. La Chiesa celebra questo mistero nel sacramento dell’altare ben noto ai fedeli; in esso viene mostrato che in ciò che offre è essa stessa che si offre (in ea re quam offert, ipsa offertur)».

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La Chiesa, nell’Eucaristia è, dunque, offerente e offerta nello stesso tempo e in ogni suo membro, perché Gesù, al quale ci uniamo, è lui stesso, contemporaneamente, «in modo inconfuso ma anche indiviso», sacerdote e vittima: «per noi è sacerdote e sacrificio davanti al Padre: sacerdote proprio perché vittima (ideo sacerdos quia sacrificium)».

Sul piano reale, l’unico che conta per la propria santificazione (non però sul piano ministeriale), tanto più un vescovo e un sacerdote partecipano al sacerdozio di Cristo, quanto più partecipano al suo sacrificio; più perfettamente uno si offre al Padre con Cristo, più realmente offre al Padre Cristo. Sull’altare il sacerdote agisce al posto di Cristo Sommo Sacerdote, ma anche al posto (“in persona”) di Cristo Somma Vittima.

«Sapendo - scrive san Gregorio Nazianzeno - che nessuno è degno della grandezza di Dio, della Vittima e del Sacerdote, se non si è prima offerto lui stesso come sacrificio vivente e santo, se non si è presentato come oblazione ragionevole e gradita (cf Rm 12, 1) e se non ha offerto a Dio un sacrificio di lode e uno spirito contrito - l’Unico sacrificio di cui l’autore di ogni dono domanda l’offerta -, come oserò offrirgli l’offerta esteriore sull’altare, quella che è la rappresentazione dei grandi misteri?».

Ci sono due corpi di Cristo sull’altare: c’è il suo corpo reale (il corpo «nato da Maria Vergine», risorto e asceso al cielo) e c’è il suo corpo mistico che è la Chiesa. Ebbene, sull’altare è presente realmente il suo corpo reale ed è presente misticamente il suo corpo mistico, dove “misticamente” significa: in forza della sua inscindibile unione con il Capo. Nessuna confusione tra le due presenze che sono ben diverse, ma anche nessuna divisione. La Chiesa può dire, con san

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Paolo: Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo (cf Col 1, 24).

Poiché ci sono due “offerte” e due “doni” sull’altare - quello che deve diventare il corpo e il sangue di Cristo (il pane e il vino) e quello che deve diventare il corpo mistico di Cristo -, ecco che ci sono anche due «epiclesi» nella Messa. Nella prima si dice: «Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo»; nella seconda, che si recita dopo la consacrazione, si dice: «Dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Egli (lo Spirito) faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».

Ora sappiamo come l’Eucaristia fa la Chiesa: l’Eucaristia fa la Chiesa, facendo della Chiesa un’Eucaristia! L’Eucaristia non è solo, genericamente, la sorgente o la causa della santità della Chiesa, ne è anche la forma-, cioè il modello. La santità del cristiano deve realizzarsi secondo la “forma” dell’Eucaristia; deve essere una santità eucaristica. II cristiano non può limitarsi a celebrare l’Eucaristia, deve essere Eucaristia con Gesù.

4.3 La Chiesa, corpo del Cristo pasquale

La Chiesa diventa così nel mondo e per il mondo ciò che l’Eucaristia è per la Chiesa: il sacramento del mistero della salvezza. Così la Chiesa è a un tempo salvata e salvatrice.

Essa non potrebbe essere salvata fuori di questa partecipazione alla morte glorificante. Cristo è realmente

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morto per noi perché si offre a noi nella partecipazione alla sua morte liberatrice.

Celebrando la santa Messa, la Chiesa diventa ciò che celebra: diventa la santa Messa celebrata da Cristo, il sacrificio che pervade la storia, come dice sant’Agostino: «fino a quando sarà completa la società dei santi: allora verrà offerto a Dio un sacrificio universale da quel Sommo Sacerdote che, nella passione, sotto la forma di servo, offrì se stesso per noi, affinché noi diventassimo membra di Lui, nostro Capo».

La Chiesa dei primi tempo ha veduto nell’Eucaristia il sacramento della testimonianza suprema. Ai suoi occhi, il martire è il cristiano nella sua esemplarità, l’immagine più luminosa di ogni vera vita cristiana, l’autentico celebrante dell’Eucaristia. Pensiamo al linguaggio con cui sant’Ignazio d’Antiochia fonde insieme Eucaristia e descrizione del martirio; pensiamo a san Policarpo che pronunzia una preghiera eucaristica prima di salire sul rogo e il cui viene paragonato ad un pane cotto nel forno. «Ti offriamo, Padre – recita una orazione sulle offerte – il sacrificio del tuo figlio che è principio e modello di ogni martirio».

Il martirio è la conseguenza naturale e la conclusione della celebrazione dell’Eucaristia. Dice san Cipriano: «I soldati di Cristo devono prepararsi con grande coraggio. Devono pensare che il calice del sangue di Cristo è loro offerto da bere ogni giorno affinché siano in grado di spargere essi stessi il loro sangue per lui». Mentre chiama al martirio, l’Eucaristia dà la forza di sopportarlo: «poiché l’Eucaristia è un presidio per chi la riceve, armiamo con l’aiuto del nutrimento spiritual coloro che vogliamo difesi contro l’avversario».

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Dopo aver reso la loro testimonianza – dice sant’Ambrogio – «queste vittime trionfali vengono a prendere il loro posto ove Cristo si offre vittima» sotto l’altare eucaristico; «questo luogo è ad essi dovuto», poiché i martiri sono la suprema celebrazione del mistero della Messa, il memoriale nel mondo del Cristo nella sua Pasqua.

L’Eucaristia è una chiamata alla santità, alla santità suprema; coinvolge nel mistero pasquale. Nessuno di quelli che ricevono la comunione ha il diritto di dire: “Spingerò la mia generosità fino a quel punto, non oltre”. Infatti, non ci sono limiti né alla santità della morte di Cristo né alla potenza santificante della sua risurrezione. Tuttavia non c’è bisogno di essere già perfetti per celebrare l’Eucaristia, poiché essa è istituita per uomini soggetti alla debolezza. È richiesto loro soltanto di avere buona volontà, di aprire la bocca e di consentire al dono infinito, in un desiderio che cerano di rendere totale, all’altezza del dono.

4.4 «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»

Ora possiamo tirare le conseguenze pratiche di questa dottrina per la nostra vita quotidiana. Nella consacrazione siamo anche noi che, rivolti ai fratelli, diciamo: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo; prendete, bevete: questo è il mio sangue».

Con la parola “corpo”, doniamo tutto ciò che costituisce concretamente la vita che conduciamo in questo corpo: tempo, salute, energie, capacità, affetto.

Con la parola «sangue», esprimiamo anche noi l’offerta della nostra morte; ma non necessariamente la morte

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definitiva, il martirio per Cristo o per i fratelli. È morte tutto ciò che in noi, fin d’ora, prepara e anticipa la morte: umiliazioni, insuccessi, limitazioni…, tutto ciò che ci “mortifica”.

Questo esige, però, che noi, appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto; che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire ai fratelli, il nostro “corpo”, cioè il tempo, le energie, l’attenzione; in una parola, la nostra vita. Gesù, dopo aver pronunciato quelle parole: «Prendete… questo è il mio corpo; prendete… questo è il mio sangue», non lasciò passare molto tempo che compì ciò che aveva promesso: dopo poche ore diede la sua vita e il suo sangue sulla croce. Diversamente, tutto resta parola vuota, anzi menzogna. Bisogna, dunque, che, dopo aver detto ai fratelli: «Prendete, mangiate», noi ci lasciamo realmente “mangiare” e ci lasciano mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza e il garbo che ci aspetteremmo.

Sant’Ignazio di Antiochia, andando a Roma per morirvi martire, scriveva: «lo sono frumento di Cristo: che io sia macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro per il Signore». Ognuno di noi, se si guarda bene intorno, ha di questi denti acuminati di fiere che lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste o palesi, divergenze di vedute con chi ci sta intorno, diversità di carattere. Dovremmo essere perfino grati a quei fratelli che ci aiutano in questo modo; essi ci sono infinitamente più utili che non coloro che ci approvano e lusingano in tutto.

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5 Le preghiere [sor. Lorella].

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