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anche se sei strana e mi fai né a pianificare gli altri...

Date post: 17-Feb-2019
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1211 Titolo originale: Dominic Copyright © 2014, L.A. Casey All rights reserved Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione Prima edizione ebook: aprile 2016 © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-9255-3 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Librofficina Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli Foto: © Ilina Simeonova / Trevillion Images L.A. Casey Love Un nuovo destino Questo libro è dedicato alla mia sorellina anche se sei strana e mi fai impazzire il 99,9% delle volte, non sarei riuscita a scrivere Love. Un nuovo destino né a pianificare gli altri libri della serie senza le nostre sessioni di brainstorming di mezzanotte. Ti voglio bene, sorellina. Capitolo uno Ero arrivata tardi a scuola; non era colpa mia, ma di Branna. Branna era mia sorella maggiore, diventata mio tutore legale nove anni prima, dopo che i nostri genitori erano morti in un incidente d’auto. Lei aveva ventotto anni e io andavo per i diciotto. Il suo ruolo poteva anche essere quello, ma la ragazza era sorella fino al midollo quando si trattava di farmi girare le scatole. Quella mattina aveva occupato il bagno per venticinque minuti. Cazzo, venticinque minuti! Era solo colpa sua se ero arrivata con un quarto d’ora di ritardo e avevo un aspetto pessimo. Stavo entrando a scuola quando la necessità impellente di “sistemarmi” prese il sopravvento. Mi fermai lì su due piedi e deviai verso il bagno delle ragazze. Non che fossi una fissata con il proprio aspetto, ma prima di entrare in classe volevo presentarmi il più possibile in ordine, questo sì.
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1211

Titolo originale: Dominic

Copyright © 2014, L.A. Casey

All rights reserved

Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione

Prima edizione ebook: aprile 2016

© 2016 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-9255-3

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Librofficina

Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

Foto: © Ilina Simeonova / Trevillion Images

L.A. Casey

Love

Un nuovo destino

Questo libro è dedicato alla mia sorellina – anche se sei strana e mi fai

impazzire il 99,9% delle volte, non sarei riuscita a scrivere Love. Un nuovo

destino né a pianificare gli altri libri della serie senza le nostre sessioni di

brainstorming di mezzanotte. Ti voglio bene, sorellina.

Capitolo uno

Ero arrivata tardi a scuola; non era colpa mia, ma di Branna.

Branna era mia sorella maggiore, diventata mio tutore legale nove anni prima,

dopo che i nostri genitori erano morti in un incidente d’auto. Lei aveva ventotto

anni e io andavo per i diciotto. Il suo ruolo poteva anche essere quello, ma la

ragazza era sorella fino al midollo quando si trattava di farmi girare le scatole.

Quella mattina aveva occupato il bagno per venticinque minuti.

Cazzo, venticinque minuti!

Era solo colpa sua se ero arrivata con un quarto d’ora di ritardo e avevo un

aspetto pessimo. Stavo entrando a scuola quando la necessità impellente di

“sistemarmi” prese il sopravvento. Mi fermai lì su due piedi e deviai verso il bagno

delle ragazze. Non che fossi una fissata con il proprio aspetto, ma prima di entrare

in classe volevo presentarmi il più possibile in ordine, questo sì.

Una volta nel bagno delle ragazze, feci quello che dovevo nella toilette e poi mi

avvicinai al lavandino per sciacquarmi le mani. Alzai gli occhi sul piccolo specchio

e mi accigliai vedendo com’ero conciata. I miei luminosi occhi verdi avevano

un’aria stanca, confermata dalle borse al di sotto. Ero un vero disastro quel giorno.

Non avevo avuto tempo di fare granché, a parte legare i capelli castani e lunghi

fino ai fianchi in una treccia stretta per tenerli sotto controllo, poi applicare qualche

tocco di mascara alle ciglia lunghe e lavarmi i denti. Le mie guance paffute erano

arrossate dal vento e le labbra, di solito rosa pallido, erano screpolate e gonfie. Ero

piuttosto sicura che, se la morte fosse stata una persona vera, avrebbe avuto il mio

aspetto.

Mi raddrizzai e mi posizionai davanti allo specchio intero per fissarmi. Sospirai:

ero così bianca che Casper mi avrebbe fatto un baffo. Essendo irlandese, la mia

pelle era refrattaria all’abbronzatura. A quella naturale, almeno. Probabilmente ero

l’unica in tutta la scuola a non mettersi l’autoabbronzante e a truccarsi con tinte

che si armonizzavano con la mia carnagione invece di scurirla. Perché provare a

essere qualcosa di diverso? Ero bianca come porcellana, con una spruzzata di

efelidi leggere all’attaccatura del naso e sotto gli occhi; Branna diceva che mi

davano un aspetto adorabile e che avrei dovuto accettarle. Quindi, accettare la mia

bianchezza e le mie lentiggini era proprio quello che facevo.

Mi sistemai la gonna della divisa scolastica, tirai su i calzettoni e mi lisciai il

golfino. Feci scorrere le mani sull’uniforme per togliere le grinze. Inclinai la testa

da una parte, e mi osservai. Mi piaceva il mio aspetto. Avevo i fianchi larghi e la

vita sottile; non molto petto, ma qualcos’altro di enorme. Mi girai da un lato e alzai

gli occhi al cielo; se avessi potuto cambiare una parte del mio corpo, sarebbe stato

il culo. Era grosso e più di una volta si era guadagnato commenti volgari. Mi

faceva arrabbiare perché interferiva con il mio bisogno di essere ignorata.

Mi piaceva essere praticamente invisibile.

Grugnii, uscii dal bagno e mi avviai lungo il corridoio verso l’aula dell’appello.

Era una classe stupida che dovevamo frequentare ogni mattina; la nostra tutor – la

persona da cui andare se eri nei guai o se ti serviva il pass per il bagno – prendeva

le presenze e poi ci lasciava fare quello che volevamo per i successivi quaranta

minuti, fino al termine della lezione.

Di solito tutti chiacchieravano del più e del meno, ma io non avevo amici quindi

me ne stavo per conto mio. C’era un che di patetico in questo, ma sul serio non

avevo amici. Non che i miei compagni di classe non ci provassero; davvero,

dipendeva tutto da me. Dalla morte dei miei genitori ero riservata e diffidente. Non

mi piaceva l’idea di affezionarmi a persone nuove sapendo che potevano

portarmele via. Ecco perché avevo deciso di non fare amicizia con nessuno a

scuola o da qualsiasi altra parte, era troppo rischioso. Branna diceva che era

stupido e che non potevo estraniarmi da tutti per sempre, perché non era salutare.

Capivo che era strano volersene stare sempre per i fatti propri – io ero strana, però

a me andava bene così, quindi non permettevo alle sue parole di scalfirmi.

Raggiunta l’aula, aprii la porta e guardai dritto verso la tutor. «Scusi il ritardo,

prof». Speravo di avere la faccia di una a cui dispiaceva non essere stata puntuale.

La tutor mi fece un cenno con la testa, come mi aspettavo. Non arrivavo mai

tardi alle lezioni e dubitavo che anche se l’avessi fatta diventare un’abitudine mi

avrebbe messo delle note sul registro per questo, perché le piacevo. Ero la sua

studentessa più silenziosa e non le davo mai fastidio.

Attraversai la stanza e come sempre nessuno dei miei compagni fece caso a me;

ma per qualche ragione erano tutti molto loquaci ed eccitati. Capii il perché quando

raggiunsi il mio banco.

Guardai i ragazzi che vi si erano seduti: gemelli identici, fin lì era chiaro. Uno

aveva i capelli chiari come la neve, mentre l’altro li aveva molto simili ai miei,

castano scuro. Non mi soffermai a osservarli, perché sembravano compiaciuti degli

sguardi insistenti delle mie compagne; tenni gli occhi bassi mentre mi avvicinavo.

«Questo è il mio posto», dissi una volta lì, con il tono piatto.

Il gemello con i capelli biondo lino fece per alzarsi, ma quello castano, seduto

sulla mia sedia, gli mise una mano sulla spalla e lo fermò.

«Il tuo posto? C’è il tuo nome sopra, per caso?», domandò, con un sopracciglio

alzato.

Il suo accento spiccava come un cartellone al neon. Non era irlandese.

Americano, secondo me, ma non feci domande. Alzai lo sguardo e lo fissai truce.

Aveva occhi grigi che sembravano lievemente argentati sotto la luce. Mi presi

mentalmente a calci per averlo notato, e ritrovai la concentrazione. Mi chinai sul

banco e indicai un angolo.

«Sì, c’è», replicai, il dito puntato sul mio nome.

L’avevo inciso lì il primo anno, in un momento di noia.

«Bro-cosa?», lesse il gemello bruno in un tono confuso che mi fece alzare gli

occhi al cielo.

«Bronagh», pronunciai con chiarezza.

Odiavo quando gli stranieri pronunciavano il mio nome: lo facevano a spezzatino

e non riuscivano mai a dirlo come si deve.

«Bro-nah?», sillabò correttamente, poi borbottò qualcosa sulla stupidità della G

muta.

Inarcai un sopracciglio. «Già, è così che si pronuncia il mio nome e come puoi

ben vedere è sul mio banco».

Il gemello biondo sbuffò divertito. «Ti ha preso per le palle, fratello. Togliamoci

dalle scatole di questa adorabile donna e sediamoci in fondo vicino alle signore

carine».

Il fatto che le ragazze della mia classe ridessero e i gemelli sogghignassero mi

fece rivoltare lo stomaco per il disgusto. Non mi piacevano i tipi belli e pieni di sé;

ne avevamo già uno in quella scuola ed era una totale testa di cazzo. Non ce ne

serviva un altro, figuriamoci altri due.

Il biondo mi fece l’occhiolino alzandosi, ma io non sorrisi. Il bruno si alzò

lentamente dal mio posto. Non mi rivolse un sorriso, ma un sogghigno. La mia

occhiataccia ottenne solo di trasformarlo in un ghigno trionfante.

«Te l’ho scaldata», disse in tono di scherno, indicando la sedia.

«Ringrazia le tue chiappe da parte mia, eh». Lo superai e mi sedetti, infilandomi

bene sotto il banco. Appoggiai lo zaino sulla sedia accanto e la avvicinai a me. Era

ovvio il messaggio che nessuno doveva sedersi accanto a me.

Sentii il gemello bruno ridacchiare mentre andava in fondo alla classe.

«Che problema ha?», domandò ad alta voce.

«Chi? Bronagh? Niente», rispose Alannah Ryan. «Solo che non le piace granché

la gente o essere al centro dell’attenzione, preferisce starsene per i fatti suoi».

Alannah era una ragazza gentile; mi sorrideva sempre quando ci incontravamo e,

a differenza degli altri studenti del nostro anno, mi lasciava in pace. Sembrava

capire che a me bastava starmene da sola, e mi piaceva davvero questo aspetto di

lei. Pensavo fosse piuttosto figa.

«Non le piace la gente?». Il gemello bruno grugnì. «Ha qualcosa che non va?».

Potevo anche essere una persona tranquilla a cui piaceva essere ignorata, ma non

ero un tappetino; se qualcuno mi infastidiva, potevi scommetterci il culo che gli

avrei detto quello che pensavo. E la mia mente era senza filtri. Avevo la tendenza a

dire quello che pensavo senza pensare.

«Sono sicura di avere un sacco di cose che non vanno secondo te, carino, ma ti

assicuro che ci sento benissimo», dissi ad alta voce, senza voltarmi.

Sentii qualche risatina e quando alzai per un momento gli occhi notai la

McKesson che sorrideva sotto i baffi, china sul suo libro.

«Tieni il becco chiuso, fratello», ridacchiò il gemello biondo.

«Carino?», ringhiò il bruno, poi borbottò, immagino a se stesso o al fratello:

«Con chi crede di parlare quella stronza?».

“Pensa che sia una stronza?”. Sghignazzai dentro di me. “Come se me ne fottesse

qualcosa”.

«Ok, moderiamoci», disse la McKesson, alzandosi al suono della parola

“stronza”. «Bronagh, questi ragazzi sono due nuovi studenti, vengono addirittura

dagli Stati Uniti d’America».

Quando mi accorsi che i compagni mi guardavano in attesa di una qualche

reazione, ruotai l’indice in aria in un tentativo di dimostrarmi entusiasta, anche se

non me ne importava proprio niente.

«Forza USA».

La professoressa si morse il labbro inferiore e scosse la testa.

«Gli Slater sono gemelli, come è ovvio. È facile distinguerli visto che hanno i

capelli di colore diverso. Nico è castano e Damien è biondo, be’, più bianco che

biondo».

Quel coso si chiamava Nico?

«Me lo ricorderò, prof, grazie», dissi sarcastica, con un sorriso radioso.

Qualche risata soffocata dopo, la McKesson mi presentò: «E questa signorina

adorabile, ragazzi, è Bronagh Murphy».

«È un piacere, signorina Murphy», disse Nico con voce morbida.

Scossi la testa. «Ho forti dubbi al riguardo, signor Slater». La classe rise.

Non mi importava il fatto che probabilmente ridevano di me perché era chiaro

che non fosse un piacere conoscermi, ma al diavolo, non mi interessava.

«Ok, tornate a qualsiasi cosa stavate facendo prima che Bronagh entrasse in

classe». Agitò una mano.

Nemmeno un secondo e le ragazze iniziarono un fuoco di fila di domande;

sospirai. Speravo che non sarebbe stato così tutti i giorni, perché quelle stronzate

mi sarebbero sembrate presto di una noia scontata.

«Prof?», mugugnai verso la tutor.

Quando la McKesson alzò gli occhi, agitai l’iPod Touch nella sua direzione e lei

annuì, dandomi in silenzio il permesso di ascoltarlo.

«Merda, potete ascoltare l’iPod qui?»

«Eh? Oh, no, solo Bronagh. Fa i compiti tutti i giorni, quindi ha il permesso di

ascoltare la musica purché a volume basso». La voce di Alannah rispose a Nico.

Sapevo che mi faceva sembrare una secchiona, ma in un certo senso lo ero: non

una del tipo intelligentissima ma solo consegna-i-compiti-puntuale. In realtà non

avevo molto da fare a scuola a parte studiare, quindi consegnare tutto in tempo non

era mai un problema.

Non sentii la risposta di Nico, perché accesi la musica. Accolsi con piacere il

ritmo sincopato, felice che quel suono meraviglioso sovrastasse tutto il resto.

Tirai fuori il quaderno di inglese e controllai il saggio che avevo scritto la sera

prima per la lezione che avrei avuto più tardi. Corressi alcuni errori e poi lo lessi di

nuovo. Una volta soddisfatta, lo rimisi nello zaino e lo chiusi. Guardai l’ora e vidi

che mancavano meno di due minuti. Raddrizzai la schiena, tolsi gli auricolari, poi

spensi l’iPod e lo misi in tasca.

Mi alzai nello stesso istante in cui suonò la campanella. Spinsi le sedie sotto il

banco, uscii dall’aula e mi diressi al laboratorio di falegnameria. Adoravo quel

corso, mi piaceva davvero tanto costruire cose nuove. Realizzavo sempre

portagioie, portatrucchi per Branna o belle mensole e librerie. Diventavo sempre

più creativa e Branna amava le mie creazioni, quindi anch’io ero felice.

Una volta in classe salutai il professor Kelly con un gesto della mano. Era

l’insegnante di falegnameria, un tipo gentile. Mi lasciava sempre in pace,

avvicinandosi solo quando mi serviva aiuto. Era forte; sembrava sapere come

lavoravo, e questa cosa mi piaceva.

«’Giorno, Bronagh». Sorrise raggiante.

«’Giorno, prof, posso ascoltare la musica? Devo solo sabbiare quei pezzi che ho

tagliato venerdì e poi li metto assieme. Non starò vicino a nessuna macchina

pericolosa, la musica non mi distrarrà. Promesso».

Lui annuì. «Nessun problema. Però se devi tagliare o segare qualcosa, bada a

toglierti le cuffie, ok?». Feci il saluto militare, lui ridacchiò e mi spedì via con un

gesto.

Misi lo zaino sotto il mio bancone e mi avvicinai all’area della pressa di

stoccaggio in fondo; afferrai un grembiule e lo indossai, poi rimisi gli auricolari

nelle orecchie e accesi la musica. Tornai nell’aula e notai con la coda dell’occhio

che il resto dei miei compagni stava entrando. Ero l’unica femmina; le altre

preferivano frequentare lavorazione dei metalli, il che a me stava bene. Non

dovevo ascoltarle spettegolare su chi uscisse con chi quando non avevo le cuffie.

Mentre i ragazzi sistemavano la loro roba sotto i banconi, mi spostai sulla destra

dell’aula, nel magazzino adiacente alla falegnameria. Presi la carta vetrata nuova, e

poi una smerigliatrice manuale dalla rastrelliera appesa al muro. Mi facevo i fatti

miei e tornavo verso il mio bancone, quando all’improvviso mi fermai di colpo.

«Levati dal mio posto», ringhiai strappandomi gli auricolari dalle orecchie.

Nico alzò gli occhi e sorrise, domandando, sarcastico: «C’è il tuo nome anche

qui?».

Pensava chiaramente di essere spiritoso, ma non lo era. Io non lo trovavo affatto

divertente, ma irritante a livelli estremi. Il nostro primo incontro non era stato dei

migliori, ma a quel punto sapevo che stava cercando di farmi arrabbiare apposta e

perciò lo presi subito in antipatia.

«Vattene», replicai, ignorando la domanda.

Scosse la testa, allora impugnai la smerigliatrice come una mazza e avanzai verso

di lui, solo per trovarmi bloccata dal corpo dell’insegnante.

«Bronagh, mettila giù», disse il professor Kelly, calmo, con le mani alzate in un

gesto alla sono-disarmato-non-farmi-male.

Sbattei le palpebre con aria confusa.

«Non volevo picchiarlo», mentii.

Eccome se volevo. Probabilmente non fortissimo, ma stavo comunque per

colpirlo con la smerigliatrice.

«Allora perché la tieni alzata come un’arma?», mi chiese l’insegnante con un

sopracciglio alzato.

Brontolai: «Si è messo al mio posto! Gli dica di andarsene».

Il professore sospirò e si girò. «Quella è la postazione di Bronagh. Aspetta, sei

nuovo qui, figliolo?»

«Figliolo?», sputacchiai. «Non lo chiami così, è uno sparacazzate…».

«Bronagh!», mi interruppe il professore in un tono basso di avvertimento.

Alcuni ragazzi risero a quel che avevo detto, mentre io fumavo di rabbia in

silenzio.

«Sì, signore, sono nuovo. Ho cominciato proprio oggi», rispose Nico.

Il professore si girò a guardarmi con le sopracciglia inarcate. «Volevi aggredire

un nuovo arrivato?», domandò.

“Sarebbe stato meno grave aggredirne uno vecchio?”, pensai.

«Non mi piace», esclamai.

Il professore sospirò e scosse la testa, pizzicandosi l’attaccatura del naso tra due

dita.

«Non significa che puoi aggredirlo, Bronagh».

Mi incupii. «Lo so, le regole della scuola sono stupide».

Il professore sembrò lottare per reprimere un sorriso, poi mi voltò di nuovo le

spalle.

«Come ti chiami, figliolo?», chiese al nuovo arrivato.

Sbuffai.

«Nico», replicò Facciadiculo.

Sorrisi dentro di me; mi piaceva chiamarlo Facciadiculo invece che Nico.

«È il diminutivo di che cosa?», domandò il professore curioso.

«Dominic, ma tutti mi chiamano solo Nico. Preferisco così», rispose Dominic.

Magari tutti lo chiamavano Nico, e magari lui preferiva così, ma io non ero tutti,

quindi se mai avessi dovuto rivolgermi a lui l’avrei fatto come Dominic o

Facciadiculo. Più probabilmente il secondo.

«Be’, è un grande piacere conoscerti, Nico, ma di solito questa è la postazione di

Bronagh e basta. Però puoi usare l’altro capo del tavolo visto che tiene questo tutto

per sé».

«No!», urlai nello stesso istante in cui Dominic diceva: «Grazie, signore».

Non stava succedendo davvero!

«Prof, non è giusto», protestai. «Non ho mai dovuto condividere la mia

postazione con nessuno. Mi piace averla tutta per me, lo sa».

Lui sospirò voltandosi verso di me. «Lo so, ragazza mia, ma le altre postazioni

sono piene, visto che sto riparando le due vicino alla porta».

«Che stronzata pazzesca», borbottai.

Il professore fece un sorrisetto – era in gamba, non gli importava che gli studenti

imprecassero – e mi diede una pacca sulla schiena. «Mettiti gli auricolari e andrai

alla grande, ragazza mia».

Sbuffai quando si allontanò.

«Hai finito di fare i capricci, dolcezza?», mi domandò Facciadiculo sfarfallando

le ciglia.

Lo guardai truce, appoggiando la smerigliatrice sulla postazione, poi schiacciai le

mani sul tavolo e mi protesi in avanti. «Sta’ a sentire, piccolo rompicoglioni. Non

mi piaci e voglio che stai alla larga da me, altrimenti ti pianterò questa

smerigliatrice in quel cranio dalla faccia stupida che ti ritrovi. Ci siamo capiti,

Dominic?», ringhiai, la voce glaciale.

Contrasse le labbra. Mi osservò da capo a piedi come se mi stesse soppesando.

«Cristallino, tesoro», replicò quando i suoi occhi grigi si fermarono nei miei.

«Bene», sibilai. «Adesso fuori dai coglioni».

Ero un po’ sconvolta dalla mia rabbia; l’unico che riuscisse a mandarmi fuori dai

gangheri così facilmente senza bisogno di fare granché era Jason Bane. Era il bel

ragazzo capo della scuola, e con me si era sempre comportato da stronzo. In quei

giorni era in vacanza da qualche parte in Australia, fin dall’inizio dell’estate. Non

sarebbe tornato prima della fine del mese di settembre. Era stata l’estate migliore

di sempre e lo stesso valeva per l’inizio dell’anno scolastico, senza lui nei paraggi

a fare il prepotente. Era un bastardo malvagio con una bella faccia, e l’idea che

quel Dominic potesse essere una versione americana di Jason mi faceva cagare

sotto dalla paura.

Ci rimuginavo sopra mentre aspettavo che Dominic si spostasse all’altro capo

della postazione che dovevamo dividere. Quando si fu allontanato, rimisi le cuffie

e riaccesi la musica. Sentivo i suoi occhi su di me, probabilmente cercava di

infastidirmi, ma non sapeva che ero molto brava a ignorare le persone.

Dopo i primi cinque minuti senza alcuna reazione da parte mia dovette annoiarsi,

perché si alzò e si avvicinò al professore. Sollevai lo sguardo mentre Kelly gli

indicava diversi tipi di legno e capii che stava per cominciare il suo primo progetto.

Mi fece piacere, speravo che lo tenesse impegnato e lontano da me.

Era la fine della seconda ora quando terminai di sabbiare tutti i pezzi per la

nuova scatola per i trucchi di Branna. Sarebbe stata grande, con diversi

scompartimenti spaziosi. Mia sorella aveva un sacco di trucchi quindi ne sarebbe

stata contentissima.

Presi i pezzi di base e mi spostai alla postazione della colla a caldo. Presi una

pistola, afferrai un nuovo cilindretto di colla, lo infilai nel retro e l’accesi. Aspettai

due minuti che lo strumento si scaldasse e sciogliesse la bacchetta. Allineai i pezzi

così come li volevo, poi applicai una dose generosa di colla sul legno e assemblai

le varie parti.

Dopodiché posai la pistola e osservai il mio lavoro. Mi piegai e schiacciai forte

sul legno, per far uscire le bolle d’aria che si potevano essere formate tra le fessure,

e usai la mano libera per recuperare un pezzo di cartone e raccogliere ogni eccesso

di colla ormai tiepida. Continuai per una ventina di secondi, poi presi un po’ di

carta vetrata usata per strofinarla su alcune aree. Mentre lo facevo mi sentivo

osservata, quindi lanciai uno sguardo indietro da sopra una spalla e sobbalzai

nell’accorgermi che alcuni ragazzi della classe mi stavano guardando. Sembravano

divertiti, mentre altri sogghignavano verso Dominic, che sogghignava verso di me.

«Che avete da ridere?», domandai, togliendo le cuffie.

«Niente», dissero all’unisono quelli che mi stavano guardando, poi si rimisero al

lavoro.

Significava palesemente qualcosa, quindi guardai Dominic.

«Che hai fatto, Facciadiculo?».

Spalancò un po’ la bocca al mio insulto, poi si ricompose. «Facciadiculo? È un

po’ cattiva, Bronagh».

Ridussi gli occhi a due fessure. «Che hai fatto, Dominic?», ripetei tra i denti.

Sogghignò. «Ho solo scattato una fotografia».

Contai mentalmente fino a dieci.

«Una foto a cosa?», domandai alla fine.

«Non te lo dico. Ti prenderei per il culo», rispose, ridacchiando.

Chiusi le mani a pugno e presi in considerazione l’idea di colpirlo; invece, mi

rimisi le cuffie e lo ignorai. Sapevo che mi aveva fotografato le chiappe; era ovvio,

per quello che aveva detto e per il modo in cui i ragazzi ridacchiavano e lo

guardavano sogghignando. Tuttavia, mi costrinsi a non prestargli attenzione.

’Fanculo a lui e ’fanculo a quella giornata di scuola. Stava diventando davvero di

merda!

Capitolo due

«Che cazzo hai su per il culo da una settimana a questa parte, Bronagh?», strillò

la voce di Branna nello stesso istante in cui mi venivano strappate con violenza le

coperte.

Mi svegliai di soprassalto e gemetti per la stanchezza e l’irritazione.

Volevo solo che mi lasciasse in pace, così potevo dormire!

«Branna, levati dalle palle, sto dormendo!», sbottai con la faccia premuta contro

il cuscino, tenendo gli occhi ben chiusi.

Sentii una botta sonora sul sedere, cosa che mi fece strillare e saltare in piedi sul

materasso. «Questa è violenza su minore!», urlai a Branna, in piedi in fondo al mio

letto con le braccia conserte e lo sguardo torvo.

Non sembrava affatto divertita.

“Ho sbagliato qualcosa”, sussurrò la mia mente.

«Che ho fatto? Perché sei qua e mi svegli e mi picchi? Sono la tua sorellina non

dovresti…».

«Risparmia il fiato, ti ho sentito stamattina che spegnevi la sveglia e tornavi a

letto. Hai bucato le lezioni e non va bene, non va bene per niente. Da quando sei

tornata a scuola lunedì scorso sei un ormone che cammina. Che ti prende?».

Gemetti, non volevo spiegare perché fossi stata scostante per tutta la settimana.

«Niente, solo che oggi non mi sento bene».

Non le stavo dicendo tutta la verità. Sul serio non mi sentivo molto bene, ma

tutta la verità era che non volevo andare a scuola e affrontare una giornata intera di

Dominic quando stavo male. Se Branna avesse saputo che mi tormentava avrebbe

chiamato la scuola e chiesto un incontro, il che mi avrebbe messo in imbarazzo. O

avrebbe scoperto dove viveva Dominic e l’avrebbe ucciso. E questo mi avrebbe

lasciata in mezzo a una strada, visto che tecnicamente casa nostra era sua e pagava

lei per tutto. In più se ammazzava Dominic il suo culo sarebbe stato spedito nella

prigione di Mountjoy e io sarei rimasta da sola.

«Per stavolta passi, visto che vai sempre a scuola, ma in futuro devi dirmelo se

stai male, ok? Ti prendo un appuntamento dal dottore».

Scossi la testa. «Devono arrivarmi le mie cose, penso sia per questo che mi fa

male tutto e sono di cattivo umore».

Ero prossima al ciclo, ma quel che mi mandava in bestia era un testa di cazzo

americana di nome Dominic. Dopo quel primo incontro lunedì mattina, aveva

abbracciato la missione personale di avvicinarsi il più possibile a me per l’intera

settimana, perché sapeva quanto lo odiassi. Mercoledì gli avevo persino dato un

ceffone quando mi aveva toccato il culo. Aveva detto che c’era un ragno e che lo

stava solo spazzando via per me.

Era una cazzata immane e lo sapeva. Cazzo, mi aveva strizzato la natica fino a

farmi male e per questo aveva dipinto in faccia un sorrisetto, mentre fingeva di

essere stato pieno di buone intenzioni. Già, gli ero davvero riconoscente, al punto

da lasciargli una discreta impronta della mano visibile per il resto della giornata,

cosa che fece borbottare lui e sogghignare il fratello.

Parlando del fratello, era venuto fuori che Damien era tutto l’opposto di

Dominic; era gentile e non mi infastidiva. Mi avevano messo in coppia con lui per

un esperimento di scienze e nel corso di quella lezione si era scusato per il

comportamento di Dominic e mi aveva chiesto se per cortesia potevo abbandonare

qualsiasi piano avessi escogitato per assassinarlo, perché lo preferiva vivo e

vegeto, ma solo un pochino.

Mi aveva fatto un filo pazzesco, ma io lo avevo ignorato, concentrandomi sul

progetto che dovevamo svolgere insieme. Sembrò capire che non mi interessava

affatto flirtare o parlare con lui. Dopo i primi minuti in cui non aveva ottenuto

alcuna mia reazione, smise anche di provarci, cosa che festeggiai in silenzio.

Ora, se solo il fratello si fosse arreso con altrettanta facilità, sarei stata al settimo

cielo.

Il sonoro verso di esasperazione di Branna mi distolse dai miei pensieri e

richiamò gli occhi su di lei.

«Che c’è?»

«Niente», ridacchiò. «Ti stavo solo immaginando in travaglio. Non riusciresti a

sopportare nessuna fase del parto se non tolleri i dolori del ciclo».

Alzai gli occhi al cielo. «Oh, e tu sei espertissima di parti vero?».

“Ah, domanda stupida”, mi rimproverò la mia testa.

«No, ma in confronto a te sono un’esperta in materia. Dopo tutto studio medicina

per diventare ostetrica. Sono al quarto anno, il che significa che adesso posso

essere presente all’evento in sala parto, in modo da rendermi conto davvero di cosa

farò una volta laureata».

Rabbrividii, disgustata. «Sei oscena, vuoi sul serio guardare un prosciutto di

quattro chili che esce da una vagina?».

Branna scoppiò a ridere. «Non chiamare prosciutto un neonato, stronza!».

Rabbrividii di nuovo e gemetti, poi mi sfregai la faccia con le mani un paio di

volte. «Adesso ho in mente l’immagine di qualcuno che partorisce, ti odio!».

Branna rise di nuovo, poi si avvicinò alla mia finestra e aprì le tende, facendomi

sibilare per la luce del sole che entrava a fiotti nella stanza.

«Alzati e vestiti, vampira. Visto che non sei a scuola puoi fare la spesa mentre io

lavoro in ospedale».

Era giusto.

Mi sfregai il collo. «Resti in ospedale tutto il giorno?».

Quando non era al college a svolgere milioni di compiti, scrivere saggi o studiare

per test difficilissimi, Branna faceva la volontaria alla clinica di maternità. Tutti gli

studenti di medicina nel campo che si era scelta dovevano svolgere un certo

numero di ore di volontariato per fare un po’ di pratica con i parti. La paga era

opzionale, visto che era un tirocinio, ma l’ospedale di Brenna gliela garantiva. Non

era molto, ma abbastanza per permetterci di sopravvivere.

In realtà non ci serviva lo stipendio di Branna per cavarcela. Avevamo ancora un

mucchio di soldi lasciati dai nostri genitori, ci sarebbero bastati finché Branna non

fosse diventata ostetrica, ottenendo un’entrata regolare. Una volta finito l’ultimo

anno delle superiori e diplomata, mi sarei trovata un lavoro estivo che con un po’

di fortuna avrei continuato anche durante il college, così non avrei dovuto salassare

Branna per qualsiasi cosa.

«Già, oggi vedrò dei bambini venire al mondo, non è fantastico?». Branna sorrise

raggiante e batté le mani, richiamando la mia attenzione.

La guardai inespressiva, strappandole un verso d’esasperazione. «Be’, ok, lo so

che non ti piace perché vai fuori di testa di fronte a questo genere di cose, ma

pensa, un giorno tu darai alla luce un bambino, e io potrò aiutarti durante il parto!».

Quel pensiero sembrava eccitarla davvero troppo.

«Io non avrò mai figli! Perché fare dei bambini solo per passare il resto della tua

vita a preoccuparti della loro salute e sicurezza? È davvero troppo stressante per

me, grazie tante».

Branna alzò gli occhi al cielo. «Un giorno qualcuno ti farà cambiare mentalità,

sorellina. Non sarò io l’unica che amerai e di cui ti prenderai cura. A lungo andare

qualcuno si farà strada in quel tuo cuore chiuso e inscatolato e ci pianterà le tende,

e tu non potrai farci proprio niente».

«Non minacciarmi!», sbottai.

Branna rise e domandò: «Augurarti di trovare l’amore è una minaccia?».

Annuii. «Sì!».

Mia sorella scosse la testa. «Bronagh, hai davvero bisogno di uscire più spesso».

Alzi gli occhi al cielo, ma decisi di farla contenta. «Ok, sorellona, farò il primo

passo nella ricerca dell’amore andando al supermercato a fare la spesa. Chissà,

potrei sempre trovarlo nel reparto pollame».

«Wow, che bell’inizio», disse, sarcastica, poi mi fece l’occhiolino e uscì dalla

mia stanza.

Alzai gli occhi al cielo e ricaddi lunga distesa sul letto. Gemendo, chiusi gli

occhi. Rimasi in quella posizione così a lungo che alla fine mi assopii di nuovo e

quando mi svegliai non c’era più così tanta luce fuori. Controllai l’orologio nella

mia stanza e vidi che erano le 16:32. Sbadigliai, mi alzai dal letto e mi stiracchiai.

Mi portai le mani alla pancia per un leggero attacco di crampi. Andai in bagno e

gemetti: come volevasi dimostrare, il ciclo era arrivato secondo le previsioni. Mi

lavai e mi vestii, poi scesi al piano di sotto per prendere un antidolorifico.

Branna era andata a lavoro ore prima e aveva lasciato sul bancone la lista della

spesa insieme ai soldi per pagare. Me li infilai nei jeans, poi mi feci una treccia per

allontanare i capelli dalla faccia.

Non persi tempo a truccarmi, perché mi sentivo una merda e sarei tornata

comunque a letto una volta a casa, quindi uscii in versione acqua e sapone. Lungo

la strada mi misi le cuffie e premetti la riproduzione casuale sull’iPod.

Superai due persone sul marciapiede, ma se ce ne furono altre non le notai,

perché ero troppo occupata ad assorbire il panorama straordinario alla mia sinistra.

Sospirai piano: vivere ai piedi delle montagne dublinesi aveva i suoi aspetti

gratificanti. Non mi sarei mai stancata della vista che offriva: i dirupi, i sentieri, le

molteplici sfumature di verde, gli alberi enormi e naturalmente qualche pecora in

lontananza. Soddisfatta e felice distolsi lo sguardo e lo spostai a destra, e la mia

sensazione di contentezza aumentò: se a sinistra la visuale si apriva sulle

montagne, dall’altro lato affacciava sulla città.

Il complesso residenziale in cui vivevo era più in alto rispetto agli altri

circostanti, perché eravamo proprio sul fianco della montagna. Ciò significava che

potevo abbassare lo sguardo sulla città intera: grandioso. Di solito non pensavo di

vivere in un posto bellissimo, ma, se ci si prestava sufficiente attenzione, era così.

La passeggiata fino al centro commerciale Citywest fu rapida e prima di

rendermene conto mi ritrovai al Dunnes Store a spingere un carrello. Tirai fuori la

lista di Branna e cominciai a prendere gli articoli segnati. Aggiunsi dei biscotti e

qualche altra golosità, di cui avevo bisogno in quel periodo del mese.

Mi chinai per afferrare un pacco di biscotti al triplo cioccolato – i migliori del

mondo – sullo scaffale in basso. Fui costretta a mettermi in ginocchio, perché ne

erano rimaste solo due confezioni ed erano proprio in fondo. Riuscii a prenderli e,

quando mi alzai e mi voltai per infilarli nel carrello, mi pietrificai.

«Che cazzo ci fai tu qui?», ringhiai.

L’espressione sorniona di Dominic Slater si trasformò in un sorriso. «Cosa pensi

che faccia in un alimentari? La doccia?».

Feci una smorfia. «Si chiama supermercato, razza di cretino», dissi fredda, poi

mi avvicinai al mio carrello.

Dominic fece un passo avanti e mi bloccò la strada.

Espirai a fondo. «Levati. Subito!».

«Perché non sei venuta a scuola oggi?», chiese, ignorando il mio ordine.

“Si è accorto che non c’ero?”, pensai. “Probabilmente perché in mia assenza non

aveva nessun altro da tormentare”.

«Sto male», risposi e cercai di nuovo di superarlo.

Lui si spostò dallo stesso lato nello stesso momento e mi bloccò di nuovo.

«Non sembri malata», commentò.

Lo guardai truce.

«Ciò dimostra la tua ignoranza, non ti pare?», ringhiai.

La pressione che erompeva nel mio basso ventre causandomi un dolore immenso

mi fece piegare un po’ in avanti.

«Dominic, levati di torno!».

«Stai per vomitare?». Ancora non si toglieva.

«Sì, sto per vomitare e miro a te quindi spostati!», lo avvertii.

Sbuffò divertito. «No, non sembri una che sta per rimettere. Però è ovvio che ti

fa male lo stomaco».

«Grazie per l’osservazione, dottor Facciadiculo. Adesso levati!».

Dominic rise di me, poi lanciò un’occhiata alle mie mani. «Sarò ben felice di

spostarmi… quando mi avrai dato quei biscotti».

Li strinsi al petto come avrei fatto con un bambino appena nato.

«Vaffanculo, li ho presi prima io!».

Dominic alzò gli occhi al cielo. «È molto probabile che siano gli ultimi biscotti al

triplo cioccolato in tutto il negozio, visto che sei dovuta andare a pescarli in fondo

allo scaffale. È la prima pausa dagli allenamenti che ho da una settimana a questa

parte e ho una voglia matta di biscotti. Se vuoi che mi sposti, devi darmeli».

“Allenamenti?”, domandai tra me e me. “Di che cazzo parla?”.

«Certo che erano gli ultimi due, ma non te ne darò nemmeno uno e se non te ne

vai strillerò che mi stai aggredendo e ti farò arrestare!», lo avvisai.

Inclinò la testa all’indietro e rise, al che colsi l’opportunità per girargli attorno.

Usai una mano per tenere stretti al petto i biscotti e l’altra per afferrare il carrello.

«Oh, no, non pensarci nemmeno!», brontolò.

Quando mi sentii afferrare da dietro, quasi morii di schianto. Mi stava toccando!

Dominic Slater teneva le grandi mani sulla mia pancia e si schiacciava contro la

mia schiena.

“Questo coglione ha un ultimo desiderio?”, pensai con rabbia.

«Ti do tre secondi per togliermi di dosso le mani e il corpo, o ti spedisco al

tappeto, stronzo!».

La risatina di Dominic vicino all’orecchio mi fece irrigidire ancora di più. Quel

contatto ravvicinato mi rizzava i peli sulla nuca e mi spedì dei brividi lungo la

colonna vertebrale.

«Pensi di potermi battere, bellezza?». Sentivo il suo fiato caldo sul collo.

Resistetti all’impulso di alzare gli occhi al cielo, la pelle fremente di piacere.

Riportai in fretta l’attenzione sulle sue parole e mi irrigidii.

“Bellezza? Sta cercando di fare lo spiritoso o cosa?”.

«Sì!», sbottai, e aggiunsi: «Non chiamarmi mai più a quel modo!».

«Posso chiamarti come mi pare e dirti quello che mi pare», disse allegro.

«Libertà di parola e tutto il resto».

Cercai di divincolarmi.

«Togliti di dosso!», esclamai, poi trattenni il respiro quando sollevò un braccio

cercando di afferrare i miei biscotti.

Te. Lo. Scordi. Cazzo!

Alzai una gamba e calciai all’indietro verso il suo stinco; Dominic grugnì

balzando via. Girai su me stessa e gli lanciai un’occhiataccia mentre lui scuoteva la

gamba, probabilmente cercando di liberarsi del dolore.

«Stronza!», sbottò. «Mi hai dato un calcio!».

Sorrisi malefica. «Se mi sfiori di nuovo toccherà alle tue palle. Non hai ancora

imparato la lezione? Se mi tocchi, io ti picchio».

Si strofinò una guancia, come se sentisse ancora il dolore dello schiaffo che gli

avevo appioppato mercoledì perché mi aveva toccato il sedere. Abbassò la mano e

mi fece un sorrisetto.

«Hai un sedere poderoso». Si strinse nelle spalle. «Non potevo non dare una

palpatina».

Mi aveva appena dato della grassa. Mi aveva davvero dato della grassa.

Non importava se sembravo una balena; non dici a una ragazza che è grassa,

soprattutto non in faccia, cazzo.

L’insulto mi ferì e lo detestai. Odiavo avere permesso a Dominic di avvicinarsi

tanto da farmi provare qualcosa di diverso dal puro fastidio. Dovevo indurirmi in

sua presenza, altrimenti avrebbe potuto rovinare tutti gli anni passati a costruire la

mia corazza protettiva.

«Grasso sarai tu!», ribattei, infantile, poi mi girai e afferrai il carrello con una

mano per spingerlo via.

Però Facciadiculo mi fermò.

Si infilò tra me e il carrello. Non mi piaceva affatto sentire il mio corpo tradirmi

e diventare un fremito ogni volta che me lo ritrovavo addosso.

«Non ti ho detto che sei grassa». Dominic mi guardava dall’alto in basso.

Maledetto bugiardo!

Lo fissai malissimo. «Sì che l’hai fatto, sacco di merda bugiardo!».

«Ho detto che hai un sedere poderoso, c’è differenza».

“Cosa?”, sbraitò la mia testa.

«No, non c’è, hai detto che ho il culone…».

«Poderoso nel senso di sexy», mormorò.

Lo fissai, reprimendo l’impulso di picchiarlo a morte con i biscotti.

«Grasso non è sexy», dichiarai.

«Il sedere sì», disse Dominic, sempre di fronte a me. «Hai un fondoschiena

grosso ed è sexy».

Perché cazzo stavamo avendo quella conversazione sul mio culo che era grasso

ma non grasso?

«Non me ne frega niente. Io e il mio culone vogliamo andarcene con il nostro

carrello quindi levati di mezzo».

Dominic sogghignò, tese una mano e disse: «Prima i biscotti».

Li strinsi più forte. «Dovrai strapparli alle dita gelide del mio cadavere,

spilungone bastardo».

Fece un passo avanti con aria minacciosa; io andai nel panico, caricai il braccio e

lo colpii dritto in faccia con la confezione di biscotti. Barcollò di lato, le mani al

viso. Scattai, afferrai il carrello e mi misi praticamente a correre nella corsia del

supermercato.

«Bronagh!», urlò.

Svoltai e andai dritta verso una cassa, prontissima a pagare la spesa e tornarmene

a casa. Ovviamente alcune persone sentirono Dominic e fissarono il corridoio da

cui ero appena uscita di corsa. Finsi di essere confusa anch’io; non volevo che

qualcuno pensasse che fossi la Bronagh dietro cui stava urlando.

Feci la fila e poi iniziai a svuotare il carrello sul nastro trasportatore, gridando

mentalmente alla donna davanti a me di spicciarsi a infilare la sua roba nelle buste.

«Potrei farti arrestare per aggressione, lo sai vero?». La sua voce era un ringhio.

«Mi hai colpito due volte là dietro».

Sospirai, avrei voluto solo che se ne andasse.

«È stata legittima difesa, sei stato tu il primo a mettermi le mani addosso senza

permesso». Spinsi avanti il carrello senza girarmi.

«Cazzate», esclamò.

Deglutii; cercavo di non cedere, anche se era ovvio quanto fosse arrabbiato con

me. «Lascia perdere», mugugnai.

Non appena la signora davanti a me ebbe finito, mi feci avanti e grazie al cielo la

cassiera passò le mie cose e mi aiutò a imbustarle a tempo di record.

«Quei biscotti sono i migliori di tutto il negozio, finiscono sempre». La donna

sorrise mettendoli nel sacchetto.

Alzai gli occhi su Dominic, che mi guardava storto. Mi fece sorridere, poi mi

rivolsi alla donna. «Concordo, sono davvero deliziosi». Sorrisi raggiante.

«Stronza crudele», mugugnò Dominic; la donna si girò di scatto verso di lui,

costringendomi a reprimere una risatina.

Pagai, afferrai le tre buste di spesa e le tirai giù dalla cassa. Erano pesanti e

odiavo che Branna non fosse lì in macchina per aiutarmi a portarle a casa.

Feci un profondo respiro e mi diressi all’uscita, solo per fermarmi davanti alle

porte e quasi mettermi a frignare lì dove mi trovavo. Fuori pioveva a catinelle. Non

sapevo perché mi meravigliassi tanto, succedeva sempre così. A Dublino poteva

esserci un clima mite e fresco e un attimo dopo scatenarsi un acquazzone.

Sospirai, e, dopo avere guardato la pioggia per un intero minuto, alzai gli occhi al

cielo. «Proprio non puoi darmi un attimo di tregua, eh, Gesù?»

«Non credo che risponda a chi aggredisce un innocente».

La sua voce mi fece sobbalzare, al che lui rise.

Scossi la testa senza guardare Dominic che mi affiancava. «Come cazzo hai fatto

a imbustare le tue cose e pagare così in fretta?», domandai.

«Magia», ribatté.

Grugnii. «Be’, usa un po’ di magia e sparisci dalla mia vista».

Fece un verso di disprezzo. «Ti piacerebbe da matti, vero?».

Lo guardai, affilando lo sguardo. «Nulla mi farebbe più piacere che vederti

scomparire dalla faccia della Terra, Facciadiculo».

Storse le labbra in un mezzo sorriso. «Non mi meraviglia che hai comprato gli

assorbenti, devono essere quei giorni».

“Ha visto i miei assorbenti?”, urlai nella mia testa.

Sentii le guance in fiamme. «Chiudi il becco».

C’era uno scintillio di malignità nei suoi occhi mentre diceva: «Sei proprio una

strega quando hai il ciclo».

Oh, mio Dio!

«Questa era orribile», affermai. «Spero di non incontrarti mai più, qui o da

qualsiasi altra parte. Una cattiva giornata a lei, signore». Feci un cenno con la testa

e uscii sotto la pioggia.

Sentii un brivido corrermi su per la spina dorsale, quindi mi raddrizzai, ignorai il

dolore dei manici delle buste di plastica che mi si conficcavano nella pelle e

continuai a camminare.

«Vuoi fare un giro?», sentii Dominic che gridava in lontananza sulla sinistra.

Sussultai e mi voltai di scatto, notandolo che si dirigeva verso una grande jeep

nera.

«Sporco bastardo! Come osi chiedermelo?».

Dominic si fermò e mi guardò con le sopracciglia inarcate, poi scoppiò a ridere.

«Diamine, intendo se vuoi un passaggio, nel senso un passaggio a casa nella mia

macchina. Non farsi un giro come intendete qui… non ti sto proponendo di fare un

giro con me, Bronagh».

Ero mortificata.

«Fa lo stesso, non mi serve un passaggio!». Mi girai e proseguii a passi svelti

fuori dal parcheggio e lungo il marciapiede.

La pioggia cadeva così forte che mi gocciolava negli occhi, ostacolandomi la

vista. Me li sfregai con la spalla e proseguii.

Non mi era mai importato della pioggia – ci ero abituata e in realtà mi piaceva

passeggiare sotto il temporale. Ma non se trasportavo roba pesante.

Lanciai un’occhiataccia alla jeep di Dominic che mi superava, poi strillai quando

si avvicinò al marciapiede e mi schizzò d’acqua sporca.

«Coglione!», urlai più forte che potevo.

Avevo lasciato cadere le buste della spesa durante l’inzuppamento, quindi mi

chinai in fretta a raccoglierle. Dominic era fortunato che tutta la roba comprata

fosse in contenitori sigillati che l’acqua non poteva rovinare.

«So che non mi crederai, ma in realtà stavo accostando per offrirti di nuovo un

passaggio. Non volevo affatto bagnarti», gridò la voce di Dominic dalla macchina

– il finestrino del passeggero era abbassato –, seguita da una risata.

Stava ridendo di me!

Emisi un brontolio rabbioso, guardando torva nella sua direzioni. Cercai di

nuovo con la spalla di togliermi l’acqua dagli occhi e ne sputai altra dalla bocca.

«Vaffanculo!», strillai. «Cazzo, lasciami in pace e basta!».

Inarcò un po’ le sopracciglia alle mie urla, ma non mi importava. All’inferno. Mi

girai e in pratica corsi per tutta la via del ritorno. Non mi fermai finché non fui al

sicuro dentro casa. Caddi a sedere per terra con la schiena premuta contro la porta

d’ingresso.

«Bronagh? Sei tu? Ho staccato presto e ho cercato di chiamarti per vedere se ti

serviva…». La voce di Branna si interruppe a metà frase, poi una risata soffocata

riempì il silenzio. «Sembri un ratto fradicio!».

Ringhiai, appoggiai la testa all’indietro contro la porta e chiusi gli occhi.

Sussultai un po’ sentendo di nuovo i crampi alla pancia che aggiungevano

qualcos’altro di orribile a una giornata già di merda.

«Non pensavo che piovesse così forte. Sei davvero zuppa, Bee. Che è

successo?».

Grugnii e rimasi seduta sul pavimento in mezzo alle buste della spesa. Avrei

potuto dirle con tutta facilità che un coglione americano mi aveva fatto il bagno

con la sua macchina dopo avermi aggredita nel supermercato, ma onestamente non

volevo parlare di Dominic o anche solo pensare a quello stronzo.

«Non voglio parlarne», mugugnai.

Irritata per essere bagnata fino alle ossa e infastidita dal possedere un apparato

riproduttivo femminile, rimasi con la testa appoggiata alla porta e chiusi di nuovo

gli occhi, poi espirai forte.

Odiavo Dominic Slater.

Capitolo tre

«Non voglio andare a scuola, mi sento ancora uno schifo. Per favore, Branna,

non costringermi. Se mi vuoi un po’ di bene, non puoi costringermi a questo»,

piagnucolai dimenandomi a tutto spiano.

Branna grugnì senza smettere di strattonarmi per la vita, cercando di

costringermi a mollare la maniglia della portiera dal lato del passeggero della sua

macchina.

«Farò tardi a lezione e anche tu, quindi mollala e datti una mossa!».

Strinsi più forte la maniglia. «Mai!».

Branna sospirò, forte. «Non volevo farlo ma non mi lasci altra scelta».

Aggrottai la fronte e mi chiesi di cosa stesse parlando… «Ah!», strillai,

interrompendo di botto i miei pensieri. «No, Branna, non farmi il solletico! Pietà,

pietà!».

Non mostrò alcuna pietà, mi solleticò sotto le ascelle e sulle costole finché non

fui ridotta a un ammasso di convulsioni e balzai lontano dalla macchina e da lei.

Non appena fui a un metro o due di distanza, fece scattare le sicure premendo un

pulsante sulle chiavi.

Mi stavo sistemando i vestiti e tremavo per i postumi del solletico; Branna

incrociò le braccia sul petto e inarcò un sopracciglio, sfidandomi ad avvicinarmi di

nuovo a lei o alla macchina.

Gemetti. «Sei la sorella peggiore di sempre, io sto morendo!».

Alzò gli occhi al cielo. «Hai preso gli antidolorifici e hai mangiato qualcosa, non

puoi perdere le lezioni per rimanertene a letto a non fare niente, quindi march!».

La guardai torva. «Quando ti ritroverai in travaglio riderò di te e ti ricorderò di

questo giorno!». Detto ciò, mi girai e attraversai il parcheggio verso l’entrata della

scuola sbattendo i piedi.

«Buona giornata, bambinona!», mi gridò dietro Branna, ridendo.

“Stronza!”.

Entrai proprio mentre suonava la campanella, quindi affrettai il passo, quasi

correndo. Non volevo prendere una nota per il ritardo e farmi rimproverare dai

professori, mi avrebbe solo fatto sentire ancora peggio. Raggiunsi l’aula

dell’appello circa tre minuti dopo lo scoccare dell’ora, quindi erano già tutti seduti

e si girarono quando aprii la porta. Io non guardai nessuno, solo la tutor che mi

sorrise mentre entravo.

Sembrava un po’ troppo felice di vedermi.

«Bentornata, Bronagh, ci sei mancata venerdì scorso».

Certo.

«Ehm, scusi il ritardo, mi sono svegliata tardi», mugugnai.

La professoressa fece un gesto con la mano. «Nessun problema, in effetti sei

proprio la ragazza che mi serve, visto che sei già in piedi».

“Oh, cazzo”, pensai.

«Uhm, ok», borbottai, sfregandomi il collo, a disagio.

Si girò verso il resto della classe. «Mi serve un’altra volontaria per questo

compito speciale».

Nessuna ragazza alzò la mano, e non le biasimavo: svolgere “compiti” per gli

insegnanti era sempre una merda.

La professoressa sospirò. «Ok, allora scelgo io… Destiny».

Destiny gemette forte, facendo ridacchiare tutti, tranne me.

«Ok, che dobbiamo fare?», sospirò, sconfitta.

«Bene, come tutti sapete, oggi c’è il nostro evento di raccolta fondi annuale e

quest’anno le seconde e i loro tutor devono occuparsi di decorare il salone e

organizzare i giochi. Ma come sempre c’è un compito che solo due ragazze

dell’ultimo anno possono svolgere. Mi è stato chiesto di scegliere due belle

studentesse della mia classe per questo ruolo».

Un sorriso si dipinse sul volto di Destiny, mentre sul mio appariva uno sguardo

di puro orrore. Mi ero del tutto dimenticata dell’evento di raccolta fondi; se me ne

fossi ricordata mi sarei chiusa a chiave in camera mia!

«Il chioschetto dei baci!», dicemmo all’unisono, solo che il mio tono era

disgustato, mentre quello di Destiny entusiasta.

«Proprio quello». La professoressa sorrise raggiante.

Alcuni ragazzi della classe esultarono e Destiny rise allegra.

Mi avvicinai all’insegnante. «Prof, per favore scelga qualcun altro. Questa

giornata serve a raccogliere soldi per le squadre; li perderete se io aiuto al

chioschetto dei baci, glielo posso garantire».

Alcuni risero, ma non mi importava: sapevamo tutti che era vero. Non

assomigliavo per niente a Destiny; lei era snella con fianchi rotondi, tette grosse,

capelli rosso fuoco e un viso bellissimo che non aveva quasi mai bisogno di trucco.

Era uno schianto di natura mentre io… no.

Sapevo di non essere grassa, ma non ero nemmeno magra come Destiny. Come

dicevo, avevo una forma a pera, cioè seno piccolo e vita sottile con il culo grosso e

le cosce che mi facevano sembrare enorme se non indossavo i vestiti giusti.

«Oh, sciocchezze, non cominciare. Tu e Destiny siete entrambe graziosissime

quindi nessuno può rifiutarsi», affermò la professoressa, riscuotendomi dai miei

pensieri e facendomi sospirare.

«Come vuole», mugugnai e strascicai i piedi fino al banco, senza osare guardare

l’ultima fila.

In fondo si sedeva quello.

Sfortunatamente, la prima ora terminò in uno schiocco di dita; dentro di me

gemetti e desiderai che quella lezione durasse per sempre.

«Ora potete andare tutti nel salone principale; divertitevi e non fate niente perché

io debba mettervi in punizione. Capito?».

Tutti mugugnarono un “sì” che fece contenta la professoressa, poi uscimmo dalla

classe e ci dirigemmo nella sala. Una volta dentro, sentii un colpetto sulla spalla e

sobbalzai.

«Scusa», ridacchiò Destiny girandomi attorno. «Non volevo spaventarti».

Sì, come no.

«Non l’hai fatto», mentii.

Destiny fece un sorrisetto compiaciuto, poi un sorriso vero. «Andiamo al nostro

chioschetto e mettiamoci al lavoro».

Si avviò saltellando verso il fondo della sala, dove lo mettevano sempre. La

seguii riluttante, con la testa bassa e le spalle cascanti.

Arrivata al baracchino, Destiny si era già sistemata al suo posto. Quindi scivolai

nel mio, appoggiai lo zaino a terra vicino a me, chiusi gli occhi e procedetti a

desiderare di essere morta.

«Due euro a bacio, signorine. Fatevi dare prima i soldi».

Aprii gli occhi e annuii verso il professore che parlava con noi.

«Il chioschetto dei baci è aperto, ragazzi», gridò poi.

Gemetti e abbandonai la testa sulle mani; cazzo, era troppo imbarazzante.

Passarono circa due minuti prima che un gruppo di ragazzini del primo anno

avesse il coraggio di avvicinarsi piano piano verso di noi.

«Abbiamo i soldi», disse uno.

Non potei trattenermi dall’indietreggiare un po’. Quei ragazzini dovevano avere

appena tredici anni, era possibile che io o Destiny stessimo per diventare il loro

primo bacio. Quel pensiero non mi andava giù.

«Ok, ragazzi. Niente bionde quest’anno quindi quelli a cui piacciono le rosse in

fila davanti a me e chi preferisce le brune davanti a Bronagh». Destiny prese il

comando della situazione con la frase che le ragazze del chioschetto dovevano

usare ogni anno.

Era un modo rapido per formare le file e rendeva le cose un po’ meno

imbarazzanti per chi non sapeva chi scegliere.

C’erano otto ragazzini e cinque si misero davanti a me, cosa che mi tolse il fiato

per lo shock. Immaginavo che avrebbero scelto Destiny anche se preferivano le

brune, perché era tanto più bella di me persino in una giornata no.

Sbattei le palpebre quando il primo si fece avanti, tese la sua moneta da due euro

e la lasciò cadere nel mio cestino.

«Sono Toby». Sorrise e rivelò un divario graziosissimo tra i due denti davanti.

«Ciao Toby, sono Bronagh». Sorrisi e mi costrinsi a non vomitare.

Era così carino e io mi sentivo come se stessi per violentarlo.

Cambiò posizione e rimase lì a guardarmi come in attesa del semaforo verde per

baciarmi, quindi espirai, protesi le labbra e mi chinai verso di lui. Sobbalzò,

sorrise, poi mimò le mie azioni e incontrò le mie labbra, schiacciandoci contro le

sue.

Era un bacio che durava cinque secondi a labbra strette. Il tipo di bacio che si dà

sulla guancia, rapidamente, invece era sulle mie labbra e Toby sembrò

emozionatissimo.

«Grazie», esalò.

Quando mi scostai, lui rimase lì a fissarmi con un sorriso radioso e gli occhi

spalancati.

«Toby, tocca a me baciarla adesso», esclamò un ragazzino dietro di lui.

Toby si accigliò, ma tornò rapidamente a sorridermi prima di spostarsi. I quattro

successivi ottennero tutti lo stesso bacio di cinque secondi a bocca chiusa e dopo si

comportarono come se gli avessi fatto vedere le tette, gli occhi fuori dalle orbite.

«È divertente», cinguettò Destiny alla mia sinistra.

La osservai, una smorfia di orrore in faccia. «Erano praticamente bambini!».

Sembrava esasperata. «Ma per favore, abbiamo solo quattro o cinque anni più di

loro. E poi è durato appena due secondi».

“Cinque secondi”.

Scossi la testa. «A me comunque non è sembrato divertente».

«Cambierai idea quando arriveranno a frotte i ragazzi più grandi». Sorrise

radiosa.

Sbuffai e dissi: «Ti lascerò a vedertela con loro più che volentieri, visto che

sembra piacerti tanto».

«Davvero?». Era eccitata. «Che figata, grazie!».

“Non c’è di che”, pensai.

Mi girai a osservare le altre attività organizzate per raccogliere fondi. C’erano

giochi, prodotti da forno, balli e altra roba che non riuscivo a vedere da dov’ero

seduta.

«Lo sai che Jason è tornato prima dalle vacanze, vero? E che lui preferisce le

brune alle rosse?».

“Perché continua a parlarmi?”, brontolai tra me e me. “Aspetta, ha detto che

Jason è tornato dalle vacanze… in anticipo?”.

Gemetti forte. «Questa notizia mi ha appena fatto morire dentro».

Destiny rise, quindi la guardai e dissi: «Sceglierà te; sa che non mi piace».

Era un eufemismo: Jason sapeva che lo odiavo.

Jason era capitano della squadra di calcio e una rottura di coglioni fin dalla

seconda elementare, quando aveva deciso di tormentarmi per suo divertimento

personale.

I capitani di tutte le squadre sportive dovevano sempre presentarsi al chioschetto

dei baci e portarsi dietro i loro giocatori. Per qualche ragione, gli altri maschi della

scuola imitavano qualsiasi cazzata facessero e i professori lo sapevano, quindi si

accordavano con le varie squadre per promuovere il chioschetto così da

guadagnare più soldi per le uniformi e tutto il resto.

Cioè, il denaro che mettevamo insieme finiva dritto alle loro squadre, quindi ogni

anno ci mettevano sopra le mani – e le labbra – impegnandosi al massimo e si

assicuravano che il baracchino guadagnasse più di tutti. Perché secondo loro era la

parte più divertente dell’evento.

La risata di Destiny attirò la mia attenzione. «Esatto, ed è per questo che

sceglierà te, perché sa che ti farà arrabbiare e lui vive per questo».

«Nemmeno io gli piaccio», protestai. «Perché mai baciarmi solo per rompermi le

scatole?»

«Non lo so». Un sorrisetto. «Ma puoi chiederlo a lui, eccolo che arriva con la

squadra di calcio».

«Signore». La voce odiosa di Jason mi risuonò nelle orecchie nel momento

stesso in cui mi giravo e incontravo il suo sguardo. Sembrava uguale all’ultima

volta che l’avevo visto, solo più abbronzato. Sogghignò e si fregò le mani,

fermandosi davanti al banchetto. «Be’, signora e Bronagh».

Lo guardai male, poi riservai la stessa occhiata alla squadra e presi il comando al

posto di Destiny.

«Conoscete la prassi», annunciai. «Se vi piacciono le rosse in fila davanti a

Destiny e se volete un pugno in faccia, in fila davanti a me e vi servo subito».

Odiai vedere che la squadra si divideva a metà; mi sorprese che un numero

considerevole scegliesse me.

«Avete sentito quello che ho appena detto? Vi tiro un pugno in faccia».

Mi risposero sorrisetti, ghigni e persino un audace: «Correrò il rischio».

«Ho l’herpes», esclamai, sperando che sarebbero fuggiti terrorizzati.

Non lo fecero, si limitarono a ridere.

«Siamo clienti paganti, devi baciarci. Sono le regole». Gavin Collins sorrise

facendosi strada in prima fila.

Frequentavo molti corsi insieme a Gavin e sembrava un ragazzo gentilissimo.

Era anche molto carino, quindi quando arrossii non fu per la rabbia. Era un ragazzo

davvero affascinante, alto e muscoloso e tuttavia educato e per nulla arrogante.

L’uomo dei sogni perfetto di molte ragazze.

«Va be’», mugugnai, cercando di minimizzare il rossore.

Gavin si fece avanti, mise quattro euro nel cestino e sogghignò di fronte alle mie

sopracciglia inarcate. «Voglio un bacio extra lungo».

Mi sentii inorridita e lusingata allo stesso tempo.

«Cosa?», bisbigliai. «Perché?».

Gavin mi guardò come se fosse ovvio, ma io non capii cosa avrei dovuto intuire,

quindi rimasi lì a fissarlo finché non si mise a ridere e si allungò fino a me, mi

appoggiò una mano dietro il collo e avvicinò la mia testa alla sua.

Poi mi baciò, ed ero così sconvolta da aprire la bocca, che lui riempì con la sua

lingua rovente. Non potevo ritrarmi e, visto come mi teneva il viso, non potevo

fare altro che imitare i suoi gesti e ricambiare il bacio.

Era il mio primo bacio vero.

Non riuscii a pensare ad altro per tutto il tempo; non lasciava molto spazio per

goderselo sul serio. Quando Gavin si scostò con un sorrisetto, sbattei le palpebre e

lo guardai.

«Valeva più di quattro euro quindi eccone altri due». Ridacchiò e gettò altri due

euro nel mio cestino.

Sbattei di nuovo le palpebre, poi mi schiarii la voce. «Uhm, grazie?».

Gavin rise, poi mi fece l’occhiolino e si spostò fuori della fila. I due ragazzi

successivi mi baciarono esattamente nello stesso modo. Mi sentivo strana. Non mi

avevano mai prestato attenzione in questi anni di scuola, non che io ne prestassi a

loro, eppure mi avevano baciato come se fossi la donna della loro vita. Ricambiai i

baci alla stessa loro maniera, ma dietro i miei non c’era intensità. Stavo solo

muovendo la bocca e la lingua.

Fine dell'estratto Kindle.

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