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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno - Rivista Meridiana · La Fiat — come è noto — era stata...

Date post: 30-Sep-2020
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INTERVISTE Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno La presenza della grande impresa esterna nella realtà meridionale ha costitui to e costituisce ancor oggi uno dei temi più dibattuti e complessi nella riflessione sullo sviluppo e sulla modernizzazione del Sud d'Italia. Emblema e fulcro di si mile presenza è stata e continua ad essere la Fiat, la più grande industria privata italiana, che ha scelto ormai da un quarto di secolo di insediare stabilmente alcu ne sue attività in questo contesto territoriale. Malvista e temuta per un verso, considerata necessaria ed anzi auspicata per l'altro, la presenza della Fiat si è im posta, in effetti, nell'ambito meridionale, con passo non celerissimo ma fermo, e costituisce oggi una realtà incontestabilmente forte e articolata dell'ancora ina deguato sistema industriale meridionale. Ma quali problemi ha comportato l'in sediamento della Fiat nel Mezzogiorno? La sua presenza ha davvero cambiato la realtà industriale, produttiva, occupazionale di quell'area? Ha essa indotto «cir cuiti virtuosi» di imprenditorialità? Ha introdotto elementi di trasformazione sul terreno delle mentalità, delle culture, delle abitudini di vita? E quali sono le possibile tappe ulteriori di questa presenza? Di questi temi «Meridiana» ha discusso con il dott. Cesare Anni baldi, respon sabile delle relazioni esterne del gruppo Fiat. li testo dell intervista, raccolta da riero bevilacqua, Sergio Drum, uomenico Cersosimo e Carmine Donzelli, è stato trascritto da Marina Montacutelli. Dottor Annibaldi: per cominciare, è opportuno porre una prima questione. Quando e come la Fiat è arrivata nel Mezzogiorno? Quali sono le tappe storiche fondamentali di questo vostro impegno? La Fiat come è noto era stata una fra le aziende del Nord ad affrontare con maggiore cautela la scelta delle localizzazioni nel Mezzogiorno. C'era stato, in particolare, un fatto abbastanza simbo lico, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta; la costruzione di una nuova fabbrica a Rivalta, vicino Torino. Tale scelta già a quell'epoca aveva dato luogo a critiche, perché era una scelta chiaramente alternativa rispetto alla localizzazione di nuovi im pianti nel Mezzogiorno. Qualche anno prima, invece era stato del tutto fisiologico l'ampliamento di Mirafiori: in quel momento stori co, i problemi sociali che poi si sarebbero manifestati nell'area tori nese (e che erano problemi di reperimento di manodopera, di acces siva concentrazione dei lavoratori, con tutte le conseguenti tensioni, 199
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INTERVISTE

Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

La presenza della grande impresa esterna nella realtà meridionale ha costitui

to e costituisce ancor oggi uno dei temi più dibattuti e complessi nella riflessione

sullo sviluppo e sulla modernizzazione del Sud d'Italia. Emblema e fulcro di si

mile presenza è stata e continua ad essere la Fiat, la più grande industria privata italiana, che ha scelto ormai da un quarto di secolo di insediare stabilmente alcu

ne sue attività in questo contesto territoriale. Malvista e temuta per un verso, considerata necessaria ed anzi auspicata per l'altro, la presenza della Fiat si è im

posta, in effetti, nell'ambito meridionale, con passo non celerissimo ma fermo, e costituisce oggi una realtà incontestabilmente forte e articolata dell'ancora ina

deguato sistema industriale meridionale. Ma quali problemi ha comportato l'in

sediamento della Fiat nel Mezzogiorno? La sua presenza ha davvero cambiato

la realtà industriale, produttiva, occupazionale di quell'area? Ha essa indotto «cir

cuiti virtuosi» di imprenditorialità? Ha introdotto elementi di trasformazione

sul terreno delle mentalità, delle culture, delle abitudini di vita? E quali sono le

possibile tappe ulteriori di questa presenza? Di questi temi «Meridiana» ha discusso con il dott. Cesare Anni baldi, respon

sabile delle relazioni esterne del gruppo Fiat. li testo dell intervista, raccolta da riero bevilacqua, Sergio Drum, uomenico

Cersosimo e Carmine Donzelli, è stato trascritto da Marina Montacutelli.

Dottor Annibaldi: per cominciare, è opportuno porre una prima questione.

Quando e come la Fiat è arrivata nel Mezzogiorno? Quali sono le tappe storiche

fondamentali di questo vostro impegno?

La Fiat — come è noto — era stata una fra le aziende del Nord ad affrontare con maggiore cautela la scelta delle localizzazioni nel

Mezzogiorno. C'era stato, in particolare, un fatto abbastanza simbo

lico, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta; la costruzione di una nuova fabbrica a Rivalta, vicino Torino. Tale scelta già a quell'epoca aveva dato luogo a critiche, perché era una scelta chiaramente alternativa rispetto alla localizzazione di nuovi im

pianti nel Mezzogiorno. Qualche anno prima, invece era stato del tutto fisiologico l'ampliamento di Mirafiori: in quel momento stori

co, i problemi sociali che poi si sarebbero manifestati nell'area tori nese (e che erano problemi di reperimento di manodopera, di acces siva concentrazione dei lavoratori, con tutte le conseguenti tensioni,

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Interviste

ecc.) non erano ancora emersi. All'inizio degli anni Sessanta, tutto

questo ormai era già venuto alla luce del sole. Ma il cambiamento di indirizzi non avvenne subito; ci vollero ancora quattro o cinque anni perché la Fiat decidesse di venire nel Sud: nel '69-'70 la scelta a favore del Mezzogiorno divenne netta. Si vede bene, quindi, come nel giro di pochi anni ci sia stata una conversione totale; e come sem

pre succede nelle grandi aziende, si è passati da una linea per cui tutti

gli ampliamenti dovevano essere fatti al Nord ad una linea per cui tutti gli ampliamenti furono fatti al Sud.

Conviene richiamare qualche dato di contesto per storicizzare un po' l'anali si: nel 1957 ci fu una svolta decisiva nella politica dell'intervento straordinario. Fino al 1957, grosso modo, c'era stata una fase di «preindustrializzazione», come

la definiscono generalmente gli storici, in cui cioè le condizioni dell'intervento

dello Stato erano generiche e uguali per tutto il Sud. Nel 1957, visti i risultati

largamente insoddisfacenti o comunque non esaltanti di questa prima fase, si de cide di passare ad una fase di industrializzazione più diretta, favorendo in modo

specifico le rilocalizzazioni. Quanto ha pesato questa scelta delle politiche statali

nelle decisioni Fiat?

Quella del 1957 non ha pesato per niente; prova ne sia che nel '62 '63 fu compiuta la scelta di Rivalta, che nel '65 si diede inizio alle sue attività. Sicuramente, dopo il '57 e ancora per tutti gli inizi degli anni Sessanta, malgrado questa nuova legislazione di incentivazione, era stato valutato da parte della Fiat che tutti i problemi dell'insedia mento nel Sud, che andavano dal problema dei trasporti al problema dei tecnici, al problema delle economie di scala ecc., erano tali da ren dere antieconomica la presenza nel Mezzogiorno. Nel giro di due tre anni, in presenza di un quadro legislativo che se ben ricordo non era cambiato di molto, fu deciso invece di mutare strategia.

Lei dunque esclude che le scelte della Fiat si siano modificate con l'avvio delle

politiche statali legate ai cosiddetti «nuclei di industrializzazione».

Non furono quelle politiche il fattore rilevante. Il problema e che

prima gli incentivi erano stati valutati come insufficienti in relazione alle esigenze di produttività ed efficienza; in quegli anni portare in vestimenti nel Mezzogiorno, anche a causa dello stato delle infrastrut ture meridionali, avrebbe certamente avuto effetti negativi sulla com

petitività proprio quando il mercato europeo si stava aprendo. Dopo alcuni anni, gli stessi incentivi sono stati valutati sufficienti,

anche perché da una parte lo stato delle infrastrutture era decisamen te migliorato, dall'altra si era modificato il quadro sociale e dell'oc

cupazione.

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

E quali furono i motivi essenziali di questo cambiamento di mutamento sociale?

Cominciò ad essere evidente quella fenomenologia di tensione so

ciale, già avvertita agli inizi degli anni Sessanta a Torino, ma non rite nuta tale da richiedere una modifica di strategia. Ad un certo punto risultò evidente che Torino non riusciva più ad assorbire la manodo

pera, nel frattempo aumentavano i fenomeni di contestazione...

...di conflittualità sindacale...

...Sì, si manifestavano grossi problemi di gestione; ciò fece segnare un altro punto a favore del Mezzogiorno. Il sistema degli incentivi diventò allora un fattore importante di decisione. Quindi i due ele menti hanno agito insieme. Se non ci fosse stata la legislazione straor dinaria per il Sud, non so quale sarebbe stata la decisione della Fiat. Probabilmente il piano d'investimenti sarebbe stato diverso, più li mitato e graduale. Sicuramente avrebbero avuto un peso le motiva zioni sociali che prima ricordavo; però il fatto che ci fosse da una

parte un vantaggio reale e dall'altro uno svantaggio evidente ha reso la decisione molto naturale. Da quel momento in avanti la scelta di investire al Sud si è sempre più rafforzata e radicata.

Quella fu una fase di investimenti espansivi; la capacità produttiva complessi va della Fiat aveva bisogno di essere accresciuta...

Direi di sì; quella in effetti fu la prima fase della presenza Fiat nel

Mezzogiorno fino a tutto il '73; fu la fase in cui c'è stato un ciclo economico ancora espansivo. L'inversione di tendenza è stata, come è noto, nel '74, quando la crisi petrolifera modificò il segno della con

giuntura. Prova ne sia che gli accordi sindacali dell'inizio del '74 se

gnalano già una condizione di crisi; in effetti non si era più in grado di prevedere nuovi insediamenti produttivi; le capacità produttive era no già sature. L'accordo di allora, infatti, fu chiuso con un espedien te di contrattazione sindacale. Si disse: se aumenta il mercato, se ci sarà un aumento di capacità produttiva, verranno fatti nuovi stabili menti nel Mezzogiorno. Ma si sapeva già che le previsioni andavano nel senso della recessione.

Quindi, per riassumere, la fase del primo e più massiccio insediamento Fiat

nel Mezzogiorno, quello dei terminali di montaggio del settore auto, è tra il '69 e il '72.

Il primo stabilimento Fiat nel Mezzogiorno, quello di Napoli, per la costruzione di veicoli commerciali, risale al 1956. Successivamen

te, alla metà degli anni '60 fu avviato lo Stabilimento di Termini Ime

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Interviste

rese per la produzione di autovetture. Il primo programma organico per il triennio 1970-1972 fu varato nel 1969 e riguardava il compren sorio di Bari (lavorazioni meccaniche e carrelli elevatori) il grande stabilimento di Cassino (carrozzeria), Termoli (meccanica), Lecce (mac chine movimento terra), Sulmona (meccanica), l'ampliamento di Ter mini Imerese, San Salvo (componentistica).

Un secondo programma triennale relativo agli anni lV/j-lV/b con

templava fondamentalmente una serie di forti ampliamenti. C'è da dire che entrambi i programmi furono completamente realizzati en tro le date previste.

Dopo la crisi del 1974, naturalmente gli investimenti Fiat nel Mez

zogiorno furono destinati principalmente a rafforzare le strutture esi

stenti, anche se non mancavano i nuovi insediamenti: quello di Grot taminarda per la costruzione di autobus, quello di Val di Sangro per la produzione di veicoli commerciali in collaborazione con la Peugeot.

Lo stabilimento di Grottaminarda, previsto dall accordo sindaca le del '74, venne deciso su presupposti politici sbagliati; infatti ha con tinuato a crearci problemi per parecchi anni; alla fine anche quello ha trovato una sistemazione. Ma l'ha trovata dieci, dodici anni do

po... In effetti quell'impianto era stato fatto sulla base degli impegni del governo per un grande «piano-autobus», era stato fatto, cioè, su

un presupposto di domanda pubblica, che poi non si è mai verifica ta. Noi avevamo il forte timore che così sarebbe stato, che le pro messe non sarebbero state mantenute; ma c'era il preciso impegno del governo, e non si poteva non tenerne conto. E infatti è quello lo stabilimento che ha avuto la vita più tormentata. Dopo Grottami

narda, non ci sono state delle ulteriori fasi di espansione significativa del nostro intervento al Sud. C'è stato, alla fine degli anni '70, lo sta bilimento della Sevel, in Val di Sangro, vicino Lanciano, che infatti è stato l'ultimo degli stabilimenti realizzati nel Mezzogiorno: ma quello entrava invece in una logica diversa, nel quadro di un accordo inter nazionale con la Peugeot per la costruzione in comune di veicoli com

merciali, la stessa logica di collaborazione che portò anche a proget tare un nuovo motore insieme alla stessa Peugeot.

In tutta la fase che ha appena descritto, di insediamento massiccio ed estensi

vo, quali sono stati i rapporti con la sfera pubblica in termini di contrattazione

dell'impegno Fiat con il governo, con le forze politiche, con la controparte sin

dacale interna e nazionale? Voi avevate le vostre convenienze, e sareste arrivati

comunque, o ha pesato molto la pressione di un apparato pubblico e di un insie

me di forze sociali?

Questi fattori hanno indubbiamente pesato nella scelta iniziale. E

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

sono stati anzi molto forti in quel giro di anni, tanto da far cambiare orientamento ad un'azienda che, come si è visto, aveva manifestato

parecchie resistenze a spostarsi nel Sud. Poi, una volta avviate le cose in quel senso, avendo noi un piano così forte, era facile fare degli ac cordi sindacali; si trattava solo di definire al meglio i piani d'investi mento decisi, i quali andavano proprio nel senso che un'organizza zione sindacale si poteva attendere. Certo, si è trattato di inserire i nostri progetti entro il quadro dei vari piani dell'intervento straordi

nario, entro i diversi programmi della Cassa per il Mezzogiorno; pe rò non era difficile, dal momento che i nostri programmi avevano di loro natura tutti i requisiti richiesti: avevano tutti altissima inci denza di manodopera, e quindi non avevano bisogno di essere soste nuti da alcuna pressione nei confronti del governo. Le pressioni ven

gono esercitate quando si vuol fare poco, o quando si cerca di fare iniziative speculative. Ma in questo caso si trattava di iniziative di tale respiro che era abbastanza ovvio che tutti fossero contenti delle nostre decisioni.

Questo sembra, in effetti, uno degli elementi costanti che hanno caratterizza

to la presenza della Fiat nel Mezzogiorno: rispetto all'intervento pubblico e allo

stesso ruolo di incentivazione dello Stato, voi vi siete sempre presentati come

un interlocutore particolarmente forte. Dunque, non aveve avuto bisogno di con

trattare troppo; vi siete sempre seduti al tavolo nella posizione di chi risponde a una richiesta, non di chi ne avanza; avete sempre potuto trattare da una posi zione di vantaggio.

Sì, questa in sostanza è stata la nostra situazione, anche se le diffi coltà da superare non sono state poche. Per superarle, e per abbre viare i tempi degli investimenti, venne studiato il meccanismo della «contrattazione programmata».

E le scelte ubicazionali? Come sono state effettuate?

Cercando di tenere conto da una parte di alcune indicazioni che

emergevano a livello politico (soprattutto nazionale), e dall'altra di una certa nostra logica, che era quella di svilupparsi lungo le due di rettrici naturali, quelle che corrispondono agli assi viarii adriatico e tirrenico. In effetti, se ci si fa caso, da un lato ci sono lo stabilimento di Chieti e di Lanciano, poi quello di Termoli, poi c'è quello di Fog gia, poi gli stabilimenti di Bari (a Bari anzi c'è un sistema di unità

produttive), poi ci sono gli stabilimenti di Lecce e infine c'è lo stabi limento di Brindisi: tutti lungo una direttrice. Lungo l'altra direttri ce c'è Cassino, c'è Avellino e c'è Napoli. Naturalmente, non sempre questa logica ha potuto realizzarsi completamente; è stato, certe voi

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Interviste

te, necessario far quadrare quelle che erano le nostre indicazioni con i problemi più specifici e con le richieste particolari: un po' più sù un po' più giù; un po' più in qua, un po' più in là. Naturalmente

per i singoli stabilimenti vennero condotti approfonditi studi di lo calizzazione valutando diversi fattori quali: disponibilità e qualità della

manodopera, caratteristiche dei terreni, disponibilità di acqua, stato delle infrastrutture (trasporti, energia, ecc.), grado di sismicità e così via. Tutte le volte abbiamo trovato abbastanza facilmente la soluzio

ne, perché in fondo avevamo anche noi l'esigenza di non avvicinare

troppo uno stabilimento all'altro. C'era una certa coincidenza di in tenti tra noi e il governo, perché come la linea del ministero era quella di far beneficiare più zone possibile di questi insediamenti, così la nostra era quella che gli insediamenti non fossero troppo ravvicinati

(altrimenti avrebbero finito col gravitare sugli stessi bacini di mano

dopera) ma nello stesso tempo non talmente lontani l'uno dall'altro da creare delle diseconomie. Quindi, come sempre del resto, in casi del genere, si è trattato di un'opera abbastanza flessibile di spinte e

controspinte.

E che parte hanno avuto i poteri locali decentrati nelle scelte di localizzazione?

Da un certo punto di vista, un parte importante, nel senso che ai fini della scelta contava moltissimo la capacità delle forze locali sia nel costruire le opere di infrastrutturazione, per i nuclei industriali, sia nel saper farle funzionare in modo efficace. Però, anche in questo caso, per noi era relativamente facile ottenere buone condizioni, per ché tutti, ovviamente, cercavano di impegnarsi in questa direzione. Alcuni sono riusciti a farlo meglio, altri peggio. Però, quando una

grande impresa va in un posto e dice: «ti collochiamo qui uno stabili mento... bene; allora, c'è il problema del raccordo ferroviario, del rac cordo autostradale; al lavoro; vediamo di risolvere questi problemi», è difficile che i poteri locali possano rispondere con indifferenza... E vero, d'altra parte, che in alcuni casi non siamo riusciti a ottenere le cose che chiedevamo.

E la zona di provenienza di ministri e sottosegretari, quanto ha inciso sulla

scelta di ubicazione?

Direi che non ha inciso particolarmente. Hanno giocato altre co se: fattori determinanti di localizzazione sono stati la disponibilità di manodopera, lo stato delle infrastrutture e la disponibilità di aree nelle estensioni richieste dalla notevole dimensione degli stabilimen

ti; in alcuni casi hanno contato anche altre considerazioni come, ad

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

esempio, per Cassino una favorevole esperienza ratta dalla RIV. Questo

non significa che non ci sia stata una serie sottostante di pressioni, sollecitazioni o richieste. Però rispetto alle nostre scelte, quelli sono stati problemi relativamente minori: da questo punto di vista ognu no accontenta sempre qualcuno, e ne scontenta altri.

Già, ma i tutori possono essere più o meno forti...

Dipende dai momenti storici: però a quell'epoca non mi pare che ci fosse nessuno che fosse così decisivo.

La Fiat è da oltre vent'anni nel Mezzogiorno. Ma pare che la strategia ubica

zionale della Fiat in quest'area abbia seguito una sorta di progressivo rallenta

mento; dall'investimento massiccio al puro mantenimento.

Non direi. Persino nei momenti di maggior crisi, durante la ristrut turazione degli anni '80, anche in relazione al minor costo del lavo

ro, oltre che a motivi di tipo sociale, la scelta è stata sempre di non fare nessuna chiusura al Mezzogiorno, mentre abbiamo chiuso per esempio Lingotto; e se si fa un paragone relativo, anche i provvedi menti di cassaintegrazione sono stati più brevi al Sud; i rientri sono stati anticipati rispetto a quelli del Nord. Poi è venuta la «terza fase» del nostro investimento al Sud; quando, dopo l'85-'86, c'è stata una

importante stagione di grandi investimenti in tecnologia, questi so no stati realizzati in maniera più massiccia al Mezzogiorno che non al Nord. Ancor oggi, i due stabilimenti della Fiat di gran lunga più moderni sono Cassino e Termoli: tecnologie analoghe sono presenti al Nord solo per alcune fasi del processo produttivo, mentre al Sud è stato modernizzato invece l'intero ciclo.

Se non ci fosse stata la legge 64, la Fiat avrebbe fatto le attività previste nel

l'accordo di programma?

Le avrebbe fatte parzialmente, perché naturalmente entravano nella

logica degli sviluppo dei nostri precedenti investimenti; in parte, pe rò, esse erano legate agli incentivi che ci venivano offerti.

Quindi, la legislazione, in qualche modo, favorisce davvero l'intervento

l'impresa esterna...

Certo, se una azienda che deve rare un investimento, ra ι conti e

scopre che in un certo posto esso viene a costare di meno che altro

ve, è innegabile che questo sia un argomento vincente.

E se i costi si presentassero alla pari con altre opportunità di localizzazione?

Se fossero alla pari probabilmente le decisioni sarebbero molto va

riegate. Voglio dire che mentre una volta la decisione sarebbe stata

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Interviste

matematicamente per il no, oggi non sarebbe più necessariamente per il no. Naturalmente, è difficile, e soprattutto sterile, fare un discorso

ipotetico; certo, sarebbe forte la tendenza a privilegiare uno stabili mento che già esiste.

Se lei dovesse esprimere la critica più radicale all'intervento straordinario, e

d'altra parte l'apprezzamento più positivo, quale sarebbe l'uno e quale sarebbe

l'altro?

Per essere efficace, l'intervento straordinario presuppone che ci sia un'attività effettivamente conveniente da praticare. In fondo, l'inter vento straordinario può avere due diversi obiettivi: può proporsi di far nascere nuove attività per le quali senza un incentivo statale non ci sarebbero le condizioni; oppure può cercare di dislocare al Sud at tività per le quali ci sono, almeno in linea di massima, le condizioni. Se lo Stato spera che, per il fatto di risparmiare il 15% o il 20% sugli investimenti (dico una cifra a caso), oppure i 20% sulla manodopera, un'impresa si convinca a fare un'attività che altrimenti non sarebbe

economica, si illude. Se invece si tratta di avviare un'attività che è valida ed efficace, un'attività che comunque sarebbe impostata, e per la quale si tratta solo di decidere dove deve essere localizzata, allora il fatto di poter fare gli investimenti a costi più bassi evidentemente

può spingere l'impresa a scegliere la localizzazione nell'area «incen tivata». I fatti mostrano bene (come si vede nel caso nostro, ma non solo nostro) che mentre gli effetti dell'intervento straordinario sono stati consistenti nell'incentivare la delocalizzazione dell'impresa ester

na, sono stati meno efficaci nel creare nuova imprenditoria locale. In effetti, una nuova imprenditoria non nasce attraverso una legge, non nasce solo mettendo a disposizione delle risorse: il rischio im

prenditoriale è talmente forte che non può essere compensato dal fatto che alcuni fattori e alcune condizioni vengono resi più facili. Se l'ini ziativa non è valida; tutto questo potrà servire a dare un po' più di

respiro, uno fallirà un po più tardi, ma il risultato sarà comunque negativo. In ogni caso, l'intervento straordinario dovrebbe sempre limitarsi ad essere di tipo parziale; perlomeno si può pensare che, aven do dovuto mettere molti soldi suoi, l'impresa in questione farà tutto il possibile perché l'iniziativa riesca. Più l'incentivo è alto, più cre scono i rischi di iniziative fasulle. E un fatto naturale. Quando il le

gislatore, per imprimere una forte accelerazione alla industrializza zione in alcune aree, come quelle del terremoto, stabilisce un alto livello di agevolazione, sa benissimo che non tutte le iniziative po tranno essere vitali.

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

La Fiat è andata nel «cratere»?

No, non e andata...

E tuttavia la gran parte dei finanziamenti, adesso, si rivolgono verso questo tipo di intervento: visto che le delocalizzazioni delle imprese si stanno riducen

do sempre più per motivi strutturali. D'altro canto, la natalità imprenditoriale al Sud non sembra svilupparsi, e soprattutto non costruisce sistemi che poi reg gano. Dunque, sembra di capire, secondo lei potrebbe essere ridotto pesantemente l'intero intervento straordinario.

Non mi pare che sia così. I cosiddetti super incentivi hanno riguar dato soltanto l'area del terremoto per un periodo di tempo limitato e con tetto agevolabile abbastanza basso.

Ne credo si possa tagliare il vigente sistema agevolativo generale, in quanto da una parte verrebbero del tutto bloccate le iniziative im

prenditoriali locali che pure si manifestano; dall'altra si indebolireb be il sistema industriale esistente, che invece richiede proprio ora un forte processo di irrobustimento e consolidamento. Occorre, inve

ce, rendere più efficiente il sistema, far fruttare meglio il denaro pub blico attraverso una più rapida erogazione degli incentivi. Sono con vinto che uno degli ostacoli principali agli investimenti nel Sud sia no proprio i ritardi (e le incertezze sull'ammontare effettivo) con cui le agevolazioni arrivano alle imprese.

Come esempio positivo dell industrializzazione meridionale, ricor do le iniziative dei nostri fornitori. Certo non è molto rispetto allo sforzo generale di finanziamento; però quando capita di imbattersi in nuove iniziative serie, queste devono essere sostenute. E invece la strada avventurosa dell'investimento forzato che andrebbe del tut to chiusa.

Da quanto lei ci ha detto fino ad ora si deduce che la Fiat non ha intenzione di ampliare ulteriormente la sua presenza al Sud.

Bisogna tener conto del fatto che la Fiat al Sud ha già localizzato una quota molto significativa delle sue attività. In termini di occupa zione totale nel gruppo, per esempio, su un complesso di circa 300 mila persone ce ne sono 110 mila a Torino e in Piemonte, 50 mila nel Mezzogiorno, 65 mila nel resto dell'Italia e 65 mila all'estero.

In ogni caso, non è in previsione un'espansione significativa in termini struzione di nuovi impianti.

Ci sarà una tendenza ad ampliare. È più facile che ci siano amplia menti, che non nuovi insediamenti.

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Interviste

E per quanto riguarda il settore del cosiddetto «indotto», prevedete una qual che espansione significativa delle presenze a voi collegate? Qual è il vostro atteg

giamento sulla questione delle subforniture? Vi siete orientati verso una forma

di agevolazione e di radicamento locale di attività di subfornitura autonoma?

Sì però, anche in questo caso, nel Sud si assiste a un fenomeno par ticolare. Da una parte ci sono le piccole imprese che forniscono in zona tutto il materiale di consumo; componentistica spicciola, mate riale stampato, ecc. Dall'altra parte, si viene a confermare sempre più un fenomeno che vale ormai per gran parte della componentistica: il forte salto tecnologico impedisce alle piccole e medie imprese di

operare in modo competitivo. Si è così costituito, per ogni prodotto, un numero abbastanza limitato di grandi imprese che operano a li vello europeo, e in certi casi addirittura a livelli mondiali. Per esem

pio, la bulloneria è ormai un settore tecnologicamente avanzatissi mo. Infatti, noi stessi l'abbiamo ceduto a Fontana, che è uno dei pri mi d'Europa: non reggevamo. Quando questo è avvenuto, le impre se meridionali erano ancora talmente deboli e piccole che non sono riuscite a fare il salto che sarebbe stato necessario, salvo qualche ecce zione. Perciò l'indotto si è notevolmente modificato. Nella produ zione dei componenti l'Italia è dentro un po' sì è un po' no. Se un'a

zienda di questo tipo supera una certa soglia, anche nel Mezzogior no, essa può assumere un'importanza che prima non avrebbe avuto;

ma se non la supera, nel migliore dei casi rimane un'impresa satellite di qualcuna di queste grandi società.

Ma la Fiat ha mai provato a fare politiche dirette di incentivazione e di molti

plicazione delle attività produttive locali nel Mezzogiorno?

In molti casi abbiamo convinto le imprese che ci fornivano al Nord a spostarsi al Sud. Normalmente, quando abbiamo bisogno di forni

ture, ci rivolgiamo in primo luogo a tutte le imprese della zona, an che quelle più piccole per farle crescere. Molte volte però non si rie scono a trovare potenzialità accettabili; allora si prende il fornitore del Nord e gli si dice: «tu la fornitura per Cassino la deve fare dalla zona intorno a Cassino, e non più da Torino». In questo caso, il for nitore viene al Sud e insedia una sua propria attività. Questo è stato fatto con una certa frequenza.

E non c'è mai stato da parte vostra un atteggiamento del tipo: proviamo ad

aiutare questo tessuto incapace di know-how, incentivando risorse imprendito riali locali piuttosto che portare dall'esterno?

Sì, anche questo è stato fatto: quando si vede che in zona non

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

c'è nessuna azienda che ha le caratteristiche richieste, ma ce n'è qual cuna, magari più piccola, che però ne ha le potenzialità; allora la si aiuta a crescere. Però molte volte neanche queste aziende si riescono a trovare. Naturalmente, intorno a ogni stabilimento Fiat è cresciuta una certa vivacità occupazionale; praticamente la manodopera si è

raddoppiata tranquillamente, tra quella diretta nostra e quella dell'in dotto. Il problema però mi pare non sia questo: il fatto è che queste attività si creano solo se la grande impresa esterna s'impegna a pro muoverle. E non è facile far nascere imprese del genere, capaci col

tempo di diventare talmente forti da servire non solo la Fiat e di radicarsi tutto attorno. E un processo molto difficile; ci vogliono anni...

Visto che si parla, come anche lei ha fatto prima, di una inadeguatezza dell'in

tervento straordinario così com'è, lei non pensa che dovrebbe essere promosso un intervento maggiormente mirato, un riorientamento delle imprese esistenti su certi segmenti di attività?

Questo la Fiat ha cercato di dirlo e anche di farlo: abbiamo avan zato una proposta: visto che tutte le leggi per l'incentivazione indu

striale, soprattutto quelle per gli incentivi alla ricerca, prevedono sem

pre una quota a favore della piccola impresa, che le piccole imprese non riescono a spendere, perché non affidare un ruolo e una respon sabilità di coordinamento all'azienda terminale? Si poteva dire all'a zienda terminale: tu mettiti d'accordo con tre o quattro dei tuoi prin cipali fornitori del luogo, che fanno — poniamo — lo stesso tipo di

guarnizione, e impegnati a convalidarne i risultati; poi ci sarà anche il controllo pubblico. Ma intanto tu li segui. Visto che tu, azienda

terminale, sai bene di che tipo di guarnizione hai bisogno, è meglio che sia tu a dire loro cosa ti serve, che oggi non ti viene fornito, piut tosto che siano loro a fare per proprio conto una ricerca per miglio rare la tua guarnizione. Le aziende subfornitrici dicano come devo no essere aiutate a fare gli investimenti per raggiungere il migliora mento del prodotto prospettato; quando tu, azienda che compri la

merce, darai un giudizio di qualità soddisfacente, a questo punto io, Stato, pagherò gli incentivi previsti. Questa era stata la nostra pro posta. Non è stata presa in considerazione. Era un modo, credo alla luce del sole, per legare gli incentivi alla qualità del prodotto, conva lidata da chi il prodotto lo deve utilizzare. Altrimenti, per chi fa com

ponentistica, fare della ricerca, se non è strettamente integrata con le esigenze e con la ricerca che fa il destinatario, comporta un rischio di dispersione; e non potendo correre simile rischio, l'azienda nem

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Interviste

meno si mette su questa strada, oppure, se ci si mette, non riesce a fare dei piani credibili per ottenere il finanziamento. La nostra pro posta era proprio una risposta a questa esigenza.

Sì, questa relativa alla certificazione e al controllo della qualità è una risposta parziale al problema. Sarebbe interessante sapere se è stato fatto un passo ulterio

re; se cioè la Fiat, grande impresa italiana, oltre a certificare la guarnizione buo

na, si è detta disponibile a mettere il proprio know-how, la propria esperienza, la propria capacità per partecipare a un consorzio locale per la produzione di determinate componenti utili al suo ciclo produttivo, casomai utilizzando a tal fine dei finanziamenti pubblici.

Infatti, anche questo abbiamo proposto: fare un consorzio, mette re insieme le tre aziende che fanno quella stessa cosa, e che hanno

quindi un problema comune; le metti insieme, ti aggreghi a loro, le aiuti a realizzare questo progetto; e tutto questo lo fai perché serve a te.

L'ostacolo in questo caso dov'è stato?

L'ostacolo è nel fatto che questo modello non è stato accettato, non è stato preso in considerazione, almeno come modello generale. Ora noi lo attuiamo azienda per azienda: si mandano due persone nostre, si cerca di seguire...; però i risultati in questo caso riguardano più la qualità del prodotto che non la strategia di crescita. Anche se, quando ci accorgiamo che in queste piccole imprese ci sono poten zialità di crescita, siamo pronti a garantire loro condizioni particola ri: se davvero vogliono crescere, vogliono fare investimenti, noi gli garantiamo una stabilità di fornitura per un certo periodo di tempo.

Cioè, in questo caso, voi svolgete una specie di ruolo, diciamo così, paraban cario...

Sì, nel senso che diciamo a queste aziende: sempre che tu migliori la qualità, ti garantiamo la stabilità della commessa per tre, quattro, cinque anni, in modo che tu possa fare l'investimento. Ci sono state delle aziende, più di una, le quali hanno accettato accordi di questo genere. Ma mi pare che il problema sia ancora un altro, e rinvìi a

quel dilemma più generale che veniva posto prima, circa la possibili tà di incentivare la crescita del sistema industriale nel Mezzogiorno.

Da una parte, non c'è dubbio che i processi di industrializzazione siano fondamentali nel Mezzogiorno; questo è il mio pensiero. Se an che solo si guarda agli effetti delle nostre presenze, se si vede come sono andate le cose anche nei periodi di maggiore difficoltà, non è difficile constatare che le aree nelle quali c'era la nostra presenza so no le aree che hanno tenuto meglio; il processo di industrializzazio

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

ne dà quella base di garanzia e sicurezza sociali che altrove sono me no presenti.

Ma questa maggior tenuta in certe aree è stata determinata dal fatto che lì la Fiat o dal fatto che la Fiat aveva scelto le aree a maggior tenuta?

Io credo che la tenuta sia stata determinata dalla presenza dell'in sediamento industriale. Il fatto di dare in una zona otto-diecimila sti

pendi (ventimila stipendi, se li si raddoppia con l'indotto) conferisce di per sé a quell'area caratteri di forte tenuta. Anche se l'occupazio ne industriale rappresenta solo una limitata percentuale rispetto alla

popolazione, comunque è un punto fermo. Ma dall altra parte, perche questo sistema di sicurezza e di garan

zia determinato dalle presenze industriali funzioni davvero, è neces sario che la rete tenda ad espandersi, che si allarghi il più possibile. Mi pare la questione fondamentale stia proprio nell'ampliamento del tessuto industriale. Il risultato si può ottenere o per crescita sponta nea o per crescita stimolata. Finora gli effetti maggiori sono stati ot tenuti attraverso iniziative dall'esterno che poi hanno provocato pro cessi naturali di crescita. Una fioritura industriale spontanea in un

campo di competizione sempre più dura e veloce, è molto difficile. Allora non c'è niente da fare: bisogna cercare di mettere qualche al tro punto fermo, accrescendo la presenza di insediamento di impre se esterne.

C'è chi sostiene che la migliore incentivazione per le imprese esterne conti nui ad essere rappresentata da un netto risparmio in termini di salari. In questi ultimi tempi si comincia per esempio ad avanzare, sia pure in forma ancora mol to sofisticata ed accademica, l'ipotesi di una riproposizione, se pure in termini

larvati, delle famose «gabbie salariali» che una volta differenziavano, a parità di

mansioni, le retribuzioni del lavoro operaio nel Sud rispetto al resto del Paese. La Banca d'Italia, per esempio, ha prodotto ultimamente una serie di tudi in que sto senso. Vorremmo sapere da lei che cosa ne pensa la Fiat. E davvero questa la strada da praticare, se si vuole favorire la nascita di iniziative ad alta intensità di lavoro?

No, questa è una strada alternativa alla defiscalizzazione. Oggi si ottiene lo stesso risultato per altre vie: è la collettività che si prende a carico un venti per cento del costo del lavoro. Certo, qualcuno può dire: «non se lo prenda più a carico la collettività; se lo prendano a carico i lavoratori meridionali». Ma...

Lei vuole dire che, dal punto di vista dell'impresa esterna, la «gabbia» c'è già di fatto: c'è già la convenienza sul costo del lavoro...

C'è, e oggi credo sia anche in una misura corretta; nessuno pensa, io credo, di accentuare questo aspetto. E chiaro che lo Stato vede

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Interviste

la possibilità di scaricare sul lavoro una parte del deficit statale. Ma

questo non cambierebbe la sostanza delle cose, dal punto di vista del le imprese. Le condizioni più favorevoli, sia dal punto di vista del costo del lavoro, sia dal punto di vista degli investimenti, che attual mente vengono garantite a chi investe al Sud mi pare siano oggi pre senti in una misura accettabile.

Forse tutto ciò dipende dal fatto che, tra l'altro, il costo del lavoro oggi, non

è più la variabile strategica...

No, no... Continua ad esserlo.

Quanto pesa, in termini percentuali, per esempio, nel vostro caso?

Dipende. Dal punto di vista del lavoro diretto, pesa molto di me no di una volta; peserà dal 10 al 20% sul costo del prodotto. Però c'è un 15, 20% che è di spese generali, di cui una parte rilevante è di nuovo costo del lavoro, perché sono gli stipendi degli impiegati. Poi nel 50% del prodotto, che sono componenti, di nuovo c'è den tro un altro 15% che è costo del lavoro. Quindi questa continua ad

essere, anche se in misura inferiore al passato, una variabile decisiva: continua ad essere il 40% forse anche il 50% del costo del prodotto. Per tornare al discorso delle «gabbie salariali», non mi pare che sia

un'ipotesi interessante, se viene presentata come una alternativa alla

defiscalizzazione e agli incentivi. Certo, se fosse una proposta aggiun tiva, potrebbe avere la natura di uno sforzo eccezionale, ma che non

potrebbe che essere straordinario e a tempo.

Ciò che si ricava da questa conversazione, fino a questo punto, è che la Fiat

è soddisfatta di sé stessa nel Mezzogiorno. Complessivamente, oltre venti anni

di presenza hanno dato un risultato positivo...

Sì, sì, è un risultato più che positivo...

...mentre invece pare che la Fiat sia complessivamente meno soddisfatta, e an

zi molto preoccupata, delle dinamiche che sta prendendo il processo di sviluppo nel Mezzogiorno, nel senso che — tolta la sua parte

— non si vedono grandi pro

spettive di innesco di «cicli virtuosi» dello sviluppo. In particolare sembra con

fermata, dal vostro punto di vista, la necessità della presenza della grande impre sa esterna, come fattore decisivo della produzione e dello sviluppo. Però, dall'al

tra parte, sembra anche che ulteriori grandi progetti strategici di investimento

in questa direzione da parte vostra non ce ne siano. E cosi?

Infatti, è così.

Ma allora, da che parte può venire una soluzione?

Può sembrare una risposta di maniera, ma io penso che sia verosi

mile aspettarsi nei prossimi anni un cambiamento notevole, o in me

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

glio, o in peggio; e questo cambiamento può avvenire fra quattro, cinque o sei anni, in relazione ai processi di unificazione dei mercati in Europa. Da un lato, bisognerà vedere come fare tornare i conti tra le politiche di incentivazione straordinaria e le altre politiche re

gionali comunitarie; dall'altro, bisognerà prendere atto di un nuovo

regime europeo di concorrenza. Ma, anche mettendo per un attimo tra parentesi questi aspetti, che saranno però molto impegnativi per i riflessi che avranno al momento di valutare l'attrattività delle sin

gole aree europee, il Mezzogiorno si troverà di fronte a un bivio: o esso saprà diventare una regione ad alta attrattività, e allora si potrà realizzare quell'espansione produttiva che ormai l'industria italiana

può realizzare in misura solo limitata, e che può essere fatta in ma niera massiccia solo da imprese straniere; oppure il Mezzogiorno sa rà considerato poco interessante per nuovi investimenti, e allora si

potrà verificare addirittura un peggioramento, o comunque una sta

gnazione della attuale situazione. Dunque, per dare una risposta alla

domanda, dall'unificazione dei mercati europei potrebbero venire sia

opportunità tali da modificare positivamente il quadro, sia nuovi e

più gravi pericoli. Si tratta di agire in due direzioni. Una è sicura mente quella di aiutare, nei limiti di una impostazione corretta ed

equilibrata, e senza sprechi, la nascita di iniziative economiche, nel l'industria ed in altri campi. L'altra è quella di far crescere le infra

strutture, di procedere al risanamento di intere aree, di curare la pre disposizione all'investimeñto industriale, che rimane ancora, nel Mez

zogiorno, un discorso fondamentale; nel Mezzogiorno alcune aree hanno ancora bisogno di acqua, di luce, di servizi essenziali, e soprat tutto di servizi che sono ritenuti irrinunciabili dagli investitori stra nieri. Un imprenditore italiano può ritenere sufficiente che ci sia l'au tostrada: è chiaro che chi deve valutare da lontano, invece, parago nando quest'area con altre che si trovano in Spagna, in Scozia non

può accontentarsi del fatto che vi sia un'autostrada. I parametri con cui valuterà l'ambiente sono diversi da quelli con cui l'ha valutati la Fiat: anche perché sulla Fiat, tutto sommato, pesavano pressioni cul

turali, che non ho elencato all'inizio perché erano del tutto evidenti.

Dopo il '68, quando ormai la condanna degli errori della concentra zione al Nord era generalizzata, era inevitabile che chi ha dovuto sce

gliere di andare al Sud pesasse il pro e il contro in modo diverso. Per

un'impresa tedesca, ovviamente, non vi possono essere pressioni cul turali di questo tipo. Perciò, sia che si voglia sviluppare la famosa vocazione turistica, sia che si vogliano creare delle condizioni di vita

più accettabili per la gente, sia che si voglia trovare un ambiente

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Interviste

favorevole agli investimenti in generale, e a quelli stranieri in parti colare, il discorso delle infrastrutture diviene decisivo. I giapponesi, dovendo venire in Europa, dove andranno? I tedeschi dovendo de

centrare, andranno in Jugoslavia, in Spagna, in Portogallo, o nel nostro Mezzogiorno? Ed ora si aggiungono le nuove possibilità of ferte dai paesi dell'Est a cominciare dal DDR, dalla Cecoslovacchia. E quindi chiaro a che tipo di problemi dovremo rispondere. Si do vranno predisporre infrastrutture e servizi che rendano appetibile l'in sediamento.

Lei insiste molto sulla necessità di avere dei piani di intervento organici nel settore delle infrastrutture. Ma questi piani infrastrutturali integrati a che scala devono essere concepiti? Questo è un altro dei gravi problemi su cui spesso si è arenato l'intervento nel Mezzogiorno. In effetti, c'è il Mezzogiorno e ci sono i Mezzogiorni; ci sono le Regioni, che hanno la loro corposa presenza istituzio

nale, ormai; ci sono le province, i consorzi, i comuni; poi ci sono anche entità

embrionali, aggregati subregionali, che sembrano cominciare a disegnarsi. A che scala si può concepire, sarebbe auspicabile concepire, un intervento per la predi sposizione, in qualche modo, di un territorio?

È difficile dare una risposta netta. Anche in questo caso, però, mi

pare ci siano due modi diversi di fare queste cose. Uno è quello di dire: partiamo dalle aree più forti e cerchiamo di rafforzare, allarga re, legare insieme i punti di sviluppo; partiamo, per esempio, dalla

Puglia, dove c'è sicuramente la zona di Bari e dintorni che è ormai un zona di livello industriale (o in genere economico) avanzato; e anche la zona di Foggia, che si sta sviluppando bene. Facciamo un

progetto che leghi queste due aree in modo da farne un distretto molto

più grande. L'altra strada è invece quella di dire: facciamo l'opposto, andiamo in Calabria, nel punto dove ci sono condizioni peggiori, e creiamo lì i presupposti più allettanti in modo da attrarre iniziative

imprenditoriali.

Proviamo ad approfondire quest'ultimo aspetto. Per esempio, a che condi

zioni la Fiat andrebbe in Calabria? Che cosa si aspetterebbe da un interlocutore

pubblico, per esempio, come condizione di offerta preliminare per prendere in

considerazione la possibilità di un simile investimento?

La prima condizione sarebbe quella che ci fosse necessità di fare uno stabilimento. E questa ipotesi mi pare sia in questo momento irrealistica.

Questo per ciò che riguarda l'insediamento di stabilimenti produttivi. E per ciò che concerne le progettazioni infrastrutturali?

Questo e un altro discorso, molto rannoso. Infatti, che cosa può fare la Fiat di diverso, in questo campo, rispetto ad un'azienda dell'I

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

ri, o ad un'azienda di un altro gruppo? Il fatto di insediare sul terri torio di Cassino uno stabilimento è un fatto disinteressato, perché la Fiat va lì per fare delle automobili: che poi questo fatto abbia degli effetti benefici sul territorio è una conseguenza aggiuntiva. Ma nel caso di cui stiamo discutendo, le cose starebbero diversamente; poi ché la Fiat verrebbe aiutata proprio per andare a modificare le condi zioni degli insediamenti territoriali, capisco che si possano creare si tuazioni di qualche disagio. Indubbiamente, non dico la Fiat in par ticolare, ma la grande impresa di sistemi sembra particolarmente adatta

per essere utilizzata come fattore agente di realizzazione di processi molto complessi di cambiamento per due motivi: in primo luogo, perché dovendo garantire l'affidabilità tecnica, deve dare una mag giore garanzia sul piano della correttezza dei rapporti. Una impresa del genere ha responsabilità più forti di quelle che non siano le pure e semplici responsabilità contrattuali; deve fare le cose bene, perché se non le fa bene evidentemente ha un danno generale d'immagine assai grave.

In secondo luogo, perche si può pretendere che lo faccia in manie ra non interessata dal momento che ha potenzialità più alte. Qual è il punto vero della questione? E che sono lavori talmente gigante schi, che le decisioni di investimento non possono essere prese se condo una logica «disinteressata». Se la Fiat desse tre miliardi, come ha fatto per Palazzo Grassi a Venezia, non avrebbe con questo aiuta to la Calabria. Con tre miliardi si può fare una mostra; ma per la

Calabria, rispetto alle migliaia di miliardi di cui quella regione ha bi

sogno, tre miliardi sarebbero un niente. Per quanto un'azienda pos sa essere grande, e possa avere atteggiamenti disinteressati, è difficile che riesca a modificare un quadro che richiede impegni di diverso

genere.

Eppure, in questi ultimi anni, questo argomento della progettazione infrastrut turale nel Mezzogiorno ha conosciuto, da parte della Fiat, un interesse grande e crescente. Tutto il settore del l'engineering, delle grandi opere infrastrutturali, sembra anzi disegnare una tappa nuova e cospicua nella presenza Fiat al Sud, su cui sarebbe interessante sentire le sue riflessioni.

Bisogna distinguere, a questo proposito, due diverse logiche. La

prima riguarda il modo in cui questo tipo di intervento si è realizza to fino ad ora. Fin qui siamo andati alla ricerca di singole commesse di lavoro, partecipando alle gare, agli appalti con qualcuna delle no stre società che si occupano di engineering e di ricerca. La seconda

logica riguarda il fatto che, alla distanza, questo insieme di interventi

può significare anche un cambiamento di atteggiamento. Diciamo che

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Interviste

al momento si tratta ancora di interventi sporadici. Col tempo, ci

può essere un effetto cumulativo, tale da consentire un progetto di

intervento più organico.

Ma con che logica la Fiat cerca le commesse in questo settore?

Oggi, è «normale» ricerca di lavoro. Alcune caratteristiche sono

naturalmente immaginabili: sono lavori per i quali va bene una gran de impresa, lavori più di sistema che non di diretta realizzazione tra

mite imprese edili. Noi non siamo un'impresa edile, ma l'esperienza e il modo di lavorare di un'azienda come la nostra, che è soprattuto specializzata nei sistemi, può essere di grande utilità. C'è stata una

sola occasione, fino ad ora, che avrebbe potuto comportare da parte nostra un intervento di grande rilievo e che poi invece è caduta nel

nulla. Mi riferisco al progetto per la riorganizzazione dell'area dei

Campi Flegrei a Napoli. Penso che il blocco di quella ipotesi non

sia stato una cosa positiva: poteva essere un'occasione diversa dalle

altre anche per noi, perché era un'inizitiva di sistema, non limitata

ad un singolo profilo. In quel caso, si sarebbe trattato di concepire un intervento integrato, affrontando tutti i diversi aspetti e creando le condizioni perché ci potesse essere un riorientamento economico

complessivo dell'area. In effetti mi pare che il problema dei Campi

Flegrei fosse così riassumibile: sono rimaste due attività industriali in quel contesto; spostiamole, localizziamole altrove. Avremo delle

aree disponibili, e partendo da queste potremo ridisegnare una boni

fica sia da un punto di vista ambientale (eliminando così tutte quelle sovrastrutture negative che si sono venute a creare) sia da quello de

gli assetti urbani. Restauriamo le città, i monumenti, creiamo dei ser

vizi, delle infrastrutture, in modo che l'intera area possa avere una

destinazione turistico-culturale. Era un progetto, nato dalle forze lo

cali, in cui noi eravamo stati coinvolti, senza esserne i promotori. Però, quando eravamo stati interessati, ne avevamo visto la positivi tà. In particolare, dal nostro punto di vista, si trattava di verificare

cosa veramente possono fare in simili situazioni le forze private, do

tate di effettive capacità progettuali; quale contributo esse possono dare per risolvere un problema di grande complessità in un'area di

una tale ampiezza. E, purtroppo, è difficile pensare che oggi vi pos sano essere, nella pubblica amministrazione, capacità progettuali ade

guate. Invece, è emersa una serie enorme di difficoltà che hanno bloc

cato la stessa definizione del progetto. E soprattutto si è manifestato

uno dei nodi fondamentali, che prima o poi bisognerà pur sciogliere:

quali sono le regole che devono governare questi interventi? Da una

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

parte, evidentemente, il «pubblico» non si può spogliare della titola rità di simili progetti, perché essi hanno un tale rilievo che non pos sono essere fatti in una logica privatistica; dall'altra, però, solo i pri vati sono in grado di realizzare effettivamente progetti di tale com

plessità e dimensione. Si tratta di vedere quali regole si possono sta bilire. Si tratta, soprattutto, di fare in modo che il pubblico, invece di spendere le proprie capacità in precari tentativi di progettazione, riversi le proprie energie in una quantità di controlli seri, di analisi e di definizione degli obiettivi e dei vincoli, e in una capacità di con trollo effettivo del loro rispetto. Da una parte, oggi, c'è una diffusa sfiducia che il pubblico riesca a fare tutto questo; dall'altra c'è un'al trettanto diffusa sfiducia che i privati, non essendo sufficientemente

controllati, utilizzino correttamente queste cose, e non le deformino secondo i loro interessi. In conclusione, pur avendo queste iniziative una forte motivazione, si bloccano tutte. E io sono convinto che, so

prattutto nel Mezzogiorno, se non ci si muove su questa strada, sarà difficile fare interventi di ampio respiro.

È un poblema politico, essenzialmente?

In primo luogo, è un problema di amministrazione; il solito, «me

tafisico», problema della pubblica amministrazione. Perché l'attività di controllo venga fatta in maniera adeguata, essa richiede capacità pari a quelle di coloro che eseguono i lavori. In secondo luogo è un

problema politico, nel senso che si tratta di fare scelte nette, decidere chiaramente una direzione, sapendo che cosa ciò significa e cosa bi

sognerà fare. Per i pubblici poteri, in questi casi, prendere la strada di grandi concessioni ai privati non è la cosa più semplice e comoda; è, paradossalmente, la cosa più impegnativa, quella che richiede mag giore capacità di controllo. Per tornare al caso da cui eravamo parti ti, io non so per quale motivo il progetto di risanamento dei Campi Flegrei non sia partito. Ma certo, ci possono ancora essere stati moti vi di scarsa forza politica in zona...

Vuol dire di scarsa forza politica dei proponenti?

Sì, dei proponenti. Un impegno così grosso richiedeva che ci fosse una forte volontà politica locale. Ma, a un certo punto, le cose sono

cambiate; è mancata una determinazione politica convincente. In ogni caso, anche se fosse partito con una maggiore carica politica, a mio

parere il progetto sarebbe poi andato di nuovo a incagliarsi sui pro blemi che prima cercavo di indicare. In queste condizioni è difficile

pensare a un «nuovo modo» di stare della Fiat nel Mezzogiorno. Re

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Interviste

sta tuttavia il fatto che la Fiat cerca di essere presente, di incidere, di prendere le occasioni di lavoro che si presentano...

...nel senso che ovviamente voi andate a cercarvi le commesse. Qui però si

pone un problema di valutazione del modello che lei descriveva. Allo stato at

tuale, il rapporto tra sfera pubblica, grande impresa esterna e realizzazioni infra

strutturali nel Mezzogiorno si sviluppa in una maniera che non è soltanto insod

disfacente ai fini dei risultati complessivi, ma che comporta molti gravi effetti

«procedurali», che forse è il caso di analizzare. Per esempio, c'è tutto il problema delle aree di disfunzione che si creano con i subappalti. Per essere più precisi, attualmente, la cosa si presenta in termini che sono «disfunzionali» dal punto di vista della realizzazione complessiva dei progetti, ma forse non lo sono altret

tanto dal punto di vista dei singoli attori che sono implicati nel discorso. Vedia

mo fin da vicino come si realizza l'intero ciclo: il potere politico centrale ha il

problema di concepire degli interventi «a blocco» nell'area meridionale, di tipo «straordinario», ma non nel senso tradizionale del termine. Il sistema pubblico tende a disegnare il proprio intervento sempre di più per grandi programmi, uni

ficati attorno ad un obiettivo e bloccati nel tempo: il modello che tende a preva lere è quello dei «mondiali di calcio», per intenderci. A questo punto intervengo no le grandi società di sistema — come lei le ha definite — normalmente esterne

all'area meridionale, che entrano con la loro capacità di progettazione. Ma c'è

poi una fase esecutiva che molto spesso presenta grossissimi problemi di scolla

mento rispetto ali'imput politico generale e alla programmazione strategica del

l'azienda esterna. E in quella fase, in effetti, che intervengono i problemi del su

bappalto esecutivo; è lì che si realizza il vero impatto con la società meridionale, con le sue vischiosità, le sue logiche clientelari, le sue mentalità «protette». Il pro blema del subappalto, il problema del rapporto con sistemi clientelari-mafiosi di tipo locale, il problema di una efficienza ed efficacia dell'intervento progetta to sembra interessare poco la grande azienda progettista; spesso si ha la sensazio

ne che l'impresa di engineering finisca con l'essere preoccupata solo di approfit tare di una occasione di investimento, di presentare il progetto, e poi di uscire

al più presto dal ciclo complesso delle sue logiche di realizzazione. Naturalmen

te, esercita così un suo legittimo interesse. Ma, se non si occupa di più delle effet

tive logiche di realizzazione, è difficile che poi riesca realmente a misurare gli effetti sul territorio che quelle politiche dovrebbero avere.

Bisogna distinguere: molto spesso, anzi nella maggioranza dei ca

si, il nostro intervento si limita a dare un supporto tecnico-progettuale a programmi definiti da parte di enti o consorzi: vogliono fare una

strada, oppure un porto, supponiamo, e noi interveniamo; ma non è facile per noi dare un senso strategico a quesi tipi di interventi. Il

problema è l'altro; è quello che la domanda dava un po' per sconta

to, e che invece onestamente non mi pare lo sia molto; è quello dei

grandi progetti pubblici...

...i famosi progetti strategici.

Sì. Ogni tanto qualcuno li lancia, ma poi non arrivano a concre tizzarsi. Ci sono stati anche un paio di convegni su questo tema, ma

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

non mi pare si sia mai superato il livello dei convegni. Certo, sareb be questa la logica auspicabile; invece di decentrare i soldi disponibili per il Mezzogiorno a tutte le unità di spesa, che sono innumerevoli nell'ambito della pubblica amministrazione, lo Stato fissi alcune grandi

priorità; decida, per esempio, che il problema delle coste dello Jonio ha una rilevanza prioritaria (ho fatto l'esempio dello Jonio perché questo era uno dei grandi progetti che si erano ipotizzati). La pubbli ca amministrazione fissi le regole per il funzionamento del sistema, e stabilisca i modi per affidare concessioni o i vincoli da imporre ad alcune concessioni, che possano non dico risolvere i problemi di cor rettezza e legalità che prima venivano evocati, ma quantomeno crea re le condizioni perché le cose avvengano in modo migliore da quel lo che avviene adesso. Mi pare che questa sia una strada che si è sem

pre bloccata; si è bloccata, come dicevo prima, già per i Campi Fle

grei che sono un'area abbastanza circoscritta: questi maxi-progetti che invece dovrebbero essere addirittura trasversali, anzi dovrebbero avere le caratteristiche di vedere più coinvolte, regioni nei fatti non sono mai riusciti ad andare avanti.

È stato posto prima un problema che merita di essere considerato più da vici

no; è il problema del rapporto che le imprese operanti nel Sud si trovano ad ave

re con la criminalità organizzata, con i meccanismi più o meno impazziti della

società civile meridionale. Lo stesso problema si è presentato qualche tempo fa, in un convegno di giovani industriali meridionali, nel quale c'è stata una denun

cia allarmata, che ha creato anche qualche contraccolpo politico. Qual è, al pro

posito, l'esperienza che avete fatto voi, che operate da tanto tempo nel Mezzo

giorno?

Il problema che veniva richiamato in quel convegno è quello del modo con cui vengono assegnate le commesse pubbliche; è un pro blema che la Fiat non ha, almeno per tutta la parte industriale della sua presenza nel Mezzogiorno, che è poi quella prevalente. Non aven do a che fare con commesse pubbliche, o comunque avendovi a che

fare solo a un livello nazionale, la Fiat non ha praticamente nessun

contatto con gli ambienti locali. Da questo punto di vista noi non

siamo mai stati toccati da questi problemi; a parte il fatto che nelle

zone dei nostri insediamenti questi fenomeni in genere si presentano

pochissimo o non ci sono affatto. Ma anche a Termini Imerese, è co

me se fossimo in Svizzera; il disinteresse per il nostro tipo di attività

da parte dell'ambiente locale è fortissimo. Che a Palermo ci sia uno

stabilimento della Fiat probabilmente non è ritenuto in alcun modo

interessante, perché è fuori da ogni possibilità di controllo fa parte

degli interessi locali. Questa è in fondo la riprova (se si vuole, in

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Interviste

questo caso, positiva) del fatto che in alcune aree le attività delle grandi industrie hanno grande difficoltà a integrarsi nel contesto.

Dunque, nella vostra esperienza nel Mezzogiorno, voi non avete mai avuto

contatti o pressioni da parte di qualche tipo di sistema mafioso.

Assolutamente no, non l'abbiamo nemmeno sfiorato. In certe si

tuazioni, soprattutto a Napoli, gli uomini dello stabilimento posso no avere avuto dei rapporti con persone che si può anche sospettare abbiano legami con certi ambienti; ma noi non abbiamo mai avuto nessuna esperienza diretta.

Per esprimerci in una maniera un po' colorita, dunque voi non avete mai avuti

«costi-mafia»...

No, nella maniera più assoluta. Il giorno in cui noi andassimo a

prendere un appalto di un pezzo di autostrada, il giorno in cui deci dessimo di fare un solo chilometro dell'autostrada, dalla Calabria a non so dove, allora lì è tacito che avremmo problemi del genere; tut te le persone che hanno avuto questa avventura, di prendere pezzi di autostrada di qualsiasi genere, per rifare il manto stradale o che

so io, sono state toccate da questa questione: ci si finisce immediata

mente; arriva subito qualcuno che ti spiega che queste sono le regole locali, e che devi sottostarci.

Queste considerazioni sulla società meridionale e i suoi drammatici problemi di equilibrio civile ne richiamano altre, su cui ci piacerebbe conoscere il suo pun to di vista: ci sono delle conseguenze più generali, che si ottengono con l'insedia

mento di una cultura industriale in un contesto come quello meridionale. Esse

non riguardano solo gli effetti economici, ma anche le socialità, le abitudini di

vita, la cultura, il costume. Se lei dovesse dare una valutazione complessiva della

presenza della Fiat nel Mezzogiorno in questi venti anni, come definirebbe i suc

cessi e le difficoltà d'impatto dei vostri insediamenti nei confronti della società

civile meridionale? Quali sono le conseguenze più significative che avete riscon

trato in questo senso?

Direi che il nostro insediamento ha rafforzato in primo luogo quei settori della società civile che potremmo definire più specificamente urbani, e in particolare quel ceto urbano che va dall'operaio al tecni co. Sicuramente, da questo punto di vista, la presenza della grande impresa ha valorizzato fortemente il tessuto sociale; in tutte le realtà in cui siamo intervenuti c'è stato un processo di stabilizzazione so

ciale, che però ha trovato due limiti. Il primo è stato rappresentato dal fenomeno del pendolarismo, che da una parte ha allargato note volmente l'area di coinvolgimento, ma dall'altra ha indebolito gli ef fetti culturali della nuova presenza. Il secondo limite è stato rappre

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

sentato dalla difficoltà di diffondere effettivamente una cultura indu striale. Questo obiettivo è stato realizzato ovviamente in misura molto

più soddisfacente in realtà come quelle di Bari, dove si è arrivati in un ambiente in cui già c'erano molte condizioni favorevoli; è molto

più difficile da realizzare in contesti come quello di Foggia, dove l'am biente è sicuramente da questo punto di vista meno sensibile. Però devo dire che l'inserimento nella società locale è stato in genere mol to buono, fisiologico, non è mai stato eccessivamente conflittuale.

Restiamo ancora un momento su questo problema della conflittualità e del

l'impatto con i mercati del lavoro; c'è stata una clamorosa divergenza di strate

gie aziendali da questo punto di vista tra la Fiat e l'Alfa Romeo, negli anni degli insediamenti massicci nel Mezzogiorno?

L'Alfa ha dovuto subire una serie di pressioni che noi abbiamo subito in misura limitata.

Ma c'erano dietro anche diverse filosofie di approccio al Mezzogiorno?

Non mi risulta. No. L'Alfa ha dovuto affrontare un mercato del lavoro dai caratteri molto particolari: la parte che non si è mai inse rita a Pomigliano è stata soprattutto quella dei lavoratori dei cantieri navali dell'area napoletana, che avevano fatto una pressione violen

tissima, quando era entrata in crisi la produzione cantieristica, per essere assunti all'Alfasud. Si trattava di manodopera che non aveva caratteristiche adatte a un lavoro nell'industria automobilistica. Le

singole persone, magari, si sarebbero anche inserite; ma essendo en trati in massa e contemporaneamente, evidentemente l'azienda non è riuscita a realizzare un processo di riorientamento. In secondo luo

go, c'è stato un altro fenomeno: nelle assegnazioni effettuate dagli uffici di collocamento, date le caratteristiche della zona, i criteri adottati non si possono certo dire ottimali. Per riassumere, nel caso dell'Alfa

già c'era un'area suburbana come quella di Napoli, che sicuramente

presentava problemi sociali più gravi che non quelli dell'area intor no a Cassino o a Foggia o a Termoli; inoltre, gli uomini dell'Alfa sono stati posti addirittura in condizione di selezionare al peggio. In

realtà, quello è stato un caso veramente clamoroso; credo che in Ita lia un fenomeno come quello non ci sia mai stato. E infatti la vicen da di quelle assunzioni ha pesato in maniera terribile su tutta la sto ria successiva dell'Alfa. Noi invece abbiamo sempre trovato un cer to equilibrio; innanzitutto, ci siamo insediati in aree fondamental mente agricole, dove la manodopera si adatta più facilmente al lavo ro industriale: magari con maggiori problemi sul piano tecnico, ma certo con minori problemi sul piano sociale. Questo del resto è acca

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Interviste

duto sempre; in tutti i paesi i processi di industrializzazione hanno avuto queste fasi iniziali straordinariamente buone e tutti hanno be neficiato delle «virtù», delle disponibilità al lavoro di una manodo

pera che veniva dall'agricoltura. E il ruolo del lavoro agricolo che, di sua natura, non è contestativo, non parte da una disposizione ag gressiva. E l'atteggiamento culturale di questi lavoratori che vengo no dall'agricoltura mostra una buona disponibilità verso il lavoro in dustriale. Poi — è chiaro — anche questo tipo di lavoratore se si tro va male, protesta; però quando entra, dice: «se queste sono le regole, io le accetto». Col tempo può scoprire che queste regole non sono

giuste, ma la sua prima tendenza è di accettarle. Da questo punto di

vista, le zone in cui si è insediata la Fiat sono sempre state zone mol to buone. Prendiamo per esempio il bacino di manodopera di Cassi

no; lì tutto ha funzionato bene, ma con caratteristiche di manodope ra molto articolate. C'è una certa differenza tra la pare nord e la par te sud; la parte nord (il basso frusinate o anche l'alto, perché a Cassi no arrivano fino da Sora, da 60-70 chilometri) è una zona cultural mente «laziale»: la linea del Sud verso Caserta dal punto di vista cul turale è invece «campana». L'Abruzzo è in questo senso, diciamo co sì «antropologico», più in Italia centrale che meridionale. Anche Lecce

è, dal punto di vista culturale, una delle zone più elevate e Bari lo è da sempre. Come si vede, si è trattato quasi sempre di zone con un retroterra sociale e culturale buono, o per le radici agricole, o perché c'era già una precedente esperienza di industrie o di commerci a li vello abbastanza alto.

Quali sono stati, in questo quadro, ι vostri rapporti con la controparte sinda

cale al Sud? Avete trovato, in questo ambito, delle diversità rispetto alla vostra

precedente esperienza?

Devo dire che parecchi degli stabilimenti del Mezzogiorno hanno avuto situazioni anche fortemente conflittuali, durante gli anni '70.

Si è trattato, però, di una conflittualità un po' diversa da quella del

Nord, si potrebbe dire che è stata una conflittualità a vampate. Lo stabilimento di Termoli, per esempio, era uno stabilimento perfetta mente tranquillo; ma una volta l'anno, più o meno, si verificava qual che esplosione. La spiegazione che un sindacalista nazionale, ma di

origine meridionale dava era che, come un tempo c'era nel profondo Sud l'assalto delle stazioni ferroviarie, con lo stesso spirito veniva as saltata la palazzina della direzione. Devo dire che da questo punto di vista sembrerebbe siano passati tanti anni, perché questa condizio ne è notevolmente cambiata. E anche dove ci sono situazioni di con

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

flittualità, ormai esse sono del tutto industriali cioè motivate, circo

scritte, risolvibili, non totalitarie, irrazionali, incomponibili, come erano in passato, anche se poi si spegnevano in pochi giorni, senza che nessuno si ricordasse più di averle promosse. Per ciò che riguar da il sindacato, c'è sempre stata una certa debolezza del sindacato ester

no; i rapporti sono stati sempre molto più forti con il sindacato in

terno; se si considera che noi, per una scelta di politica sindacale, ab biamo sempre cercato di regolare il sistema attribuendo anche un ruolo molto forte al sindacato esterno, si può capire che, in genere, nel Mez

zogiorno abbiamo trovato da questo punto di vista maggiori difficoltà.

Questo, secondo lei, dipende dal fatto che il sindacalista viene vissuto dagli

operai come una figura, diciamo così, esterna al processo produttivo, o dal fatto

che non è in grado di «rappresentare» e «mediare» le richieste dei lavoratori?

Sì, direi che media poco; non ha quella forza che ha al Nord: al

Nord, anche se viene contestato, anche se viene disatteso, però poi complessivamente è lui a dire l'ultima parola. Naturalmente, le si tuazioni variano da zona a zona; anche la forza delle diverse organiz zazioni sindacali è diversa a seconda delle zone, e questo evidente mente incide. Devo dire però che, da parte nostra, non ci sono stati mai scostamenti dal nostro modello di comportamento, qualunque fosse il comportamento degli interlocutori sindacali. Il fatto stesso che noi abbiamo sempre adottato ovunque — in Spagna o a Torino, a Brescia o nel Mezzogiorno

— lo stesso modello di rapporti, ha fat

to sì che anche le relazioni sindacali fossero sostanzialmente simili, che si uniformassero. Perciò si può dire che, più o meno, le cose che suscitano reazioni e conflitti da una parte, suscitano le stesse reazio ni e gli stessi conflitti da un'altra parte. In fondo, noi riteniamo che uno dei punti irrinunciabili per noi sia proprio questa uniformità di

comportamenti. Questo elemento è stato sempre oggetto di forti di scussioni con la controparte sindacale: se, presupponendo una parti colarità antropologica del Mezzogiorno, si dovesse avere un sistema di rapporti, un insieme di regole, in particolare per gli stabilimenti decentrati nel Sud, diversi da quelli in atto. Noi invece, fin dall'ini

zio, siamo partiti dall'assunto che, dovendo tutti fare lo stesso lavo

ro, dovendo tutti fare lo stesso prodotto, dovessero farlo sulla base delle stesse regole: ciò significa gli stessi carichi di lavoro, le stesse

prerogative, gli stessi diritti e gli stessi doveri. Credo che questo sia

stato un elemento vincente, perché era un fatto, diciamo così, di so stanziale elevazione: dovendosi misurare con regole che vengono co stantemente saggiate in tutte le diverse realtà, normalmente ne viene

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Interviste

fuori un equilibrio abbastanza facile, abbastanza spontaneo. Se que sto equilibrio avesse dovuto essere ritrovato tutte le volte in un mo do diverso nei singoli reparti, avremmo trovato difficoltà molto più forti, anche perché, avendo queste realtà una scarsa tradizione indu

striale, gli equilibri sarebbero stati da reinventare tutte le volte.

Ma, per esempio, rispetto a certi luoghi comuni «classici», ad esempio una

minore adattabilità dei lavoratori meridionali al ciclo della produzione industriale, voi non avete mai verificato significative differenze?

No, nella maniera più assoluta. Può essere, come si diceva prima, che a seconda dei luoghi si verifichi da parte dei lavoratori, maggiore o minore motivo di interesse, questo sì; non però maggiore o mino re adattabilità, anche perché, se ci si riflette, anche una larga parte della realtà industriale del Nord d'Italia è stata fatta dagli operai del

Mezzogiorno. Un altro fenomeno c'è stato poi in questi ultimi anni;

oggi finalmente (perché è stato un processo un po' lento) le posizio ni dei capo-officina, dei capo-reparto sono occupate anche al Sud da

persone che hanno fatto la carriera dall'interno degli stabilimenti, men tre nei primi anni le posizioni più elevate, quelle che richiedevano

maggiore esperienza, venivano coperte da uomini con alle spalle un lavoro fatto al Nord.

sono direttori di stabilimento meridionali, oggi, negli stabilimenti al Sud?

Sì, ce ne sono parecchi anche se in generale la cosa è poco verifica

bile, perché si tratta in genere di carriere fatte in giro per l'Italia. Ma ci sono state proprio persone che hanno fatto il primo lavoro nello stabilimento che ora dirigono.

E la mobilità di carriera interna, come è misurabile, ci sono differenze

cative tra il Mezzogiorno e il Piemonte?

Ci sono delle differenze di tipo statistico, nel senso che al Nord, essendoci più attività produttiva, si può fare più carriera, ma anche in questo senso il divario sta diminuendo.

Ma la formazione, in relazione ai passaggi di professionalità, dove la fate? Li

formate in loco i vostri quadri, o ve li portate a Torino?

Facciamo sia l'una che l'altra cosa. Per esempio, nel caso di un im

pegnativo corso tenutosi a Termoli, per far passare gli operai che ave vano lavorato nella meccanica tradizionale e portarli a lavorare al

l'impianto automatico, durato intorno ai dieci mesi, ci sono state fa si di formazione fatte a Torino — dove c'era un centro di formazio ne che al momento era unico — e poi tutte le fasi successive di for

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

mazione sono state realizzate in loco. Adesso stiamo allestendo, nel l'ambito di questo ultimo accordo di programma, un centro di for mazione anche al Sud. Quello generale resta sempre a Torino: ma dal prossimo anno ce ne saranno due.

Tradizionalmente, però, si dice che la grande impresa e anche l'azienda che

decentra al Sud hanno impiantato fondamentalmente stabilimenti terminali, dal

contenuto tecnologico relativamente povero. L'effetto diffusivo della cultura in

dustriale, dell'impresa avanzata, sarebbe altrove. E vero che l'impegno della Fiat

sul territorio meridionale, in termini di grande innovazione, di ricerca d'avan

guardia, di grande cultura industriale è stato relativamente minore? E non può essere questa una delle cause di un diverso «innamoramento» per l'industria da

parte dei lavoratori meridionali?

Bisogna tener presente un aspetto: nella struttura di un'azienda una certa parte di attività che è poi, sostanzialmente, quella della ricerca e della progettazione) si svolge in alcuni luoghi; poi ci sono gli stabi limenti produttivi, che con un certo loro grado di autonomia ed un certo loro grado di innovazione, hanno il compito di procedere, ma

terialmente, alla produzione. Questa struttura prescinde dal fatto ter

ritoriale; abbiamo già visto che lo stabilimento di Cassino è identico a quello di Mirafiori; allo stesso modo, lo stabilimento di Termoli è identico, semmai più avanzato, rispetto a quello della meccanica di Mirafiori. Non è che al Sud si fa un modello di unità produttiva diverso da quello che si fa al Nord. Sono esattamente gli stessi. Anzi, se mai, gli stabilimenti del Sud, essendo lontani dal centro, hanno

qualche funzione in più. Tra ricerca e progettazione da un lato, e pro duzione dall'altro, i rapporti non sono mai immediati. Oggi che, per effetto dei nostri programmi di espansione, abbiamo deciso di decen trare la nostra ricerca cominciando a costruire centri di progettazio ne in alcune zone del Sud, in genere vicine agli stabilimenti, ciò non vuol dire che questo abbia significato qualcosa per l'operaio di stabi limento. Il fatto che tra poco a Cassino ci sarà un altro edificio, ac canto a quello della fabbrica, dove ci saranno 200 ricercatori, non è che modifichi niente rispetto alla situazione precedente delle mae

stranze, perché chi lavora nello stabilimento di Cassino vive altre lo

giche, quelle proprie dell'attività produttiva dello stabilimento. Cer

to, il fatto di sapere che a distanza di 50 metri o di due chilometri c'è una unità di ricerca può avere qualche moderato effetto psicolo gico. Ma bisogna superare il concetto artigianale secondo cui, in una attività industriale, quasi nello stesso luogo si può operare, fare inno

vazione, fare ricerca e progettazione. Nell'impresa industriale mo derna queste fasi sono nettamente separate, ed essendo la fase di pro

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Interviste

gettazione e ricerca dal punto di vista quantitativo molto limitata, rispetto a tutto il resto del sistema, non è pensabile di poterla sempre coniugare con quella della realizzazione produttiva.

Questo è un punto che vale la pena di approfondire. Lei stesso diceva prima che a Bari è stato creato un embrione di attività integrata. Lei stesso ricordava che la strategia è stata quella di diffondere sul territorio nazionale, in sostanza di decentrare, gli insediamenti del gruppo. Questa scelta ha corrisposto, come abbiamo visto, ad una domanda sociale e a un'incentivazione pubblica, ma la Fiat ha in qualche modo accettato e condiviso questa logica. Diversa è stata inve ce la logica con cui la Fiat ha scelto di ubicare i propri poli direzionali. Certo, è vero che non c'è una correlazione stretta tra l'attività di alta ricerca specializza ta che la Fiat ha condotto nell'area torinese negli anni Sessanta, e la realizzazio

ne, ad esempio, dello stabilimento di Rivalta. Però è anche vero che si è creato un bacino nel quale si riversano culture industriali a diversi livelli, con diverse

capacità operative; non sembra di poter individuare un polo direzionale della Fiat che svolga una simile funzione in qualche area del Mezzogiorno.

Sono due problemi diversi. Il profilo di cui parlavamo riguardava il lavoratore, non il ricercatore o il progettista...

Ma nel lungo periodo, l'assenza di attività direzionali può contribuire a crea re profili di lavoraori differenti...

In ogni caso sono due questioni diverse. Una prima questione ri

guarda i lavoratori, la manodopera. Se uno abita a Sora, e viene a Cas sino la mattina e ritorna a Sora la sera, è difficile che dia importanza al fatto che nell'ambiente di Cassino ci sia una crescita di culture in dustriali. Prendendo il pullman dieci o sei minuti dopo essere uscito dal lavoro, nemmeno se ne accorge. Naturalmente, nulla impedisce che Cassino possa diventare una delle zone a maggior concentrazio ne di ricerca: ci può nascere anche una nuova Princeton; ma il modo di riferimento dell'operaio di cui stavamo parlando sarà sempre quello di Sora. Quando suona la campana, Cassino si svuota, e questo vale un po' per tutti gli stabilimenti: è questo il fenomeno che rende più difficile l'attecchimento di una cultura locale del lavoro industriale al Sud.

Quindi, questa relativa impermeabilità dei meridionali alle culture industriali

lei la attribuisce soprattutto agli effetti della mancata concentrazione di manodo

pera su un territorio?

Sì, sono troppi quelli che vanno via, una volta finito il lavoro. L'ef fetto che ci fu al Nord, delle grandi masse dei lavoratori dell'indu stria che sentono di vivere insieme un'esperienza collettiva, qui non c'è stato, perché, per restare ancora all'esempio di Cassino, ci saran no le seicento persone che abitano in città, ma tutti gli altri ogni sera

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

se ne vanno lontano. Questa distribuzione delle assunzioni sul terri

torio, del resto, non sempre è stata scelta da noi. Nel caso di Cassi

no, ci fu addirittura una circolare del ministro del lavoro, Donat

Cattin, in cui si indicava per ogni paese del circondario il numero delle persone da assumere. E la distribuzione era capillare. Perciò per definizione, sono nati i pendolari; non perché non ci fosse la possibi lità di definire un bacino di manodopera più accettabile; sicuramente sarebbe stato molto arduo lo stesso assumerli tutti in loco, perché i numeri erano molto alti; però le assunzioni avrebbero potuto essere fatte in un raggio abbastanza limitato; e invece fu fatta una scelta po litica, che poi ha creato a noi parecchi problemi, e che ha comporta to tutta una serie di conseguenze.

Questo per quanto riguarda il problema del rapporto tra l'ambiente e l'acculturazione indotta dal lavoro industriale. Poi c'è l'altro pro blema, che è quello di valutare gli effetti tecnologici dell'insediamen to industriale su un territorio. C'è da dire che già oggi gli insedia menti con queste caratteristiche hanno un cervello che, se non è il cervellone centrale, comporta comunque un decentramento abbastanza alto di elaborazione tecnica. Sempre per continuare con l'esempio che abbiamo scelto, in uno stabilimento come Cassino si è sviluppa ta tutta una cultura dell'applicazione dell'informatica al processo pro duttivo. Nella progettazione prima, e nella realizzazione poi, del nuovo stabilimento di Cassino c'è stato sicuramente un apporto notevole da parte di un buon numero di persone che sono venute dall'ester no. Oggi, avere delle persone esperte in loco è una necessità, perché gestire sistemi così raffinati, così complessi, richiede una capacità di

governo molto alta, che può essere realizzata solo attraverso un nu mero notevole di esperti e tecnici. Però, in effetti, è vera l'osserva zione che facevate: fino ad ora, nella nostra esperienza nel Mezzo

giorno, è mancata la ricerca. Fino ad ora ci si era limitati a una fase di applicazione — sia pure ad un'applicazione dagli alti contenuti tec

nologici. L'ultimo passaggio, adesso, è costituito da un esperimento che stiamo realizzando, e che è suscettibile di ulteriori ampliamenti; stiamo cercando di portare al Sud — come fenomeno di decentramento direzionale — certe fasi della ricerca che finora venivano fatte al Nord.

Queste strutture nuove di ricerca sono localizzate in genere negli stessi

luoghi in cui esiste anche un'unità produttiva. Ciò ha significato fare assunzioni di diplomati, di laureati, di persone qualificate nella zona,

per creare i nuclei di nuovi autonomi centri di ricerca.

Quanti ce ne sono, di questi centri? E dove sono?

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Interviste

Ce ne sono dieci, in gran parte a ridosso degli stabilimenti. Ce ne sono due a Pomigliano, uno a Nardo, uno a Foggia, uno a Lecce, due a Bari, uno a Brindisi, uno a Rieti e uno a Chieti.

Riassumendo questo ultimo insieme di questioni, sembra di poter concludere che l'esperienza vostra nel Sud dimostra una sostanziale omologazione dei com

portamenti della società meridionale rispetto al mondo dell'industria. Voi, in

somma, non avete sostanzialmente riscontrato una specificità «antropologica» del

l'universo sociale meridionale in questo senso. Da quello che lei diceva prima, sembra anzi di capire che il ciclo di acculturazione all'industria di una manodo

pera del tipo di quella da voi impiegata nel settore automobilistico non presenta differenze rilevanti, se si tratta di un contadino del cuneese che si sposta a Tori

no o di un contadino pugliese che va a lavorare a Lecce.

Una differenza c'è, e sta nel fatto che mentre il contadino torine

se, piemontese si innamora della tecnologia, attraverso un processo di acculturazione industriale abbastanza rapido, invece nel Mezzo

giorno c'è un sentimento di maggiore estraneità.

Quello che mi ha sempre colpito, in certe indagini sociali che so no state fatte negli anni scorsi, per esempio su Cassino, è il permane re di una certa estaneità del lavoratore verso la fabbrica, in stabili menti che dovrebbero invece rappresentare una specie di «formula

della felicità». In realtà, questi lavoratori hanno in gran parte mante nuto l'attività che avevano nel loro paese: o l'attività agricola, il cam

picello, oppure il negozio. Molti sono stati quelli che, avendo un mag giore reddito, hanno aperto un negozio in paese: o ci sta la moglie, o ci sta lo stesso operaio, facendo i turni quando non lavora, oppure ci stanno altri familiari. Sommando il negozio e il campicello con l'attività lavorativa in fabbrica ne viene fuori un livello di reddito

discreto, e anche un modo di vita molto più ricco di quanto non pos sa essere ad esempio quello dell'operaio di Torino, che parte dalla sua periferia, va al lavoro, poi ritorna alla sua periferia. A Torino il retroterra, la situazione di provenienza non agisce in modo attivo, non è quasi più oggetto di attività economica. E dunque si trova me diamente maggior «interesse» per il mondo del lavoro industriale che non nel cassinate. Ma si possono trovare molti elementi che spiega no questi comportamenti dei lavoratori meridionali: uno, sicuramente, è quello che ricordavo prima, della più forte pendolarità, per cui il

luogo di lavoro diventa un fatto astratto; la vera vita rimane quella del paese. Chissà per quali motivi, ma è come se la gente avesse stabi lito di prendere un mezzo, e andare a fare una certa cosa, e poi, appe na ritorna, di rimettersi completamente dentro la situazione origina ria. E così forte l'attrazione del mondo rurale, che questo mondo

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Annibaldi: La Fiat e il Mezzogiorno

del lavoro industriale rimane un po' evanescente, astratto. Ma ci può essere un secondo motivo: visto che molti di questi lavori di fabbrica sono abbastanza semplici, dov'è che il lavoratore del Nord trova il

maggiore interesse? Probabilmente nel loro retroterra tecnico; ma

gari, il lavoratore piemontese torna a casa e accomoda la motociclet ta. Il fatto che sul lavoro faccia una cosa tecnicamente poco impe gnativa non è per lui rilevante. E più importante per lui il fatto di essere inserito in un contesto tecnologico avanzato. Questo lo incu

riosisce, anche se non riesce a dominare il complesso delle lavorazio ni in cui è inserito. Tutto ciò, nel Mezzogiorno, è ancora molto più raro che possa accadere.

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