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Anno 1 Lez 5 1 - UNITRE Torino...Tre mesi dopo la nascita i genitori diedero una grande festa a...

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L’albero genealogico dei Savoia con il ramo principale dal 70 Duca Filippo II (prima Filippo di Bresse,

detto anche "Filippo senza terra") fino al 100 Duca Emanuele Filiberto e i rami laterali interessati in

queste vicende.

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Emanuele Filiberto, decimo Duca di Savoia, nacque a Chambéry l’8 luglio 1528. Era il 30 figlio del

Duca Carlo II detto “il Buono” e di Beatrice di Portogallo. Il primo nato, nel novembre del 1522, si

chiamava Adriano in onore del padrino il Papa Adriano VI (l’ultimo papa straniero prima di Giovanni

Paolo II); il bimbo morì nel gennaio del 1523. il 2°genito Ludovico (o Luigi), nato il 4 dicembre 1523,

morì all’età di 12 anni; il 30genito, Emanuele Filiberto appunto, divenne perciò l’erede di Casa Savoia.

Venne chiamato Emanuele in onore del nonno materno, re di Portogallo, il nome Filiberto venne invece

imposto dalla madrina, Margherita d’Austria che era la vedova di Filiberto II fratellastro di Carlo II e

precedente Duca di Savoia.

Tre mesi dopo la nascita i genitori diedero una grande festa a Chambéry, la capitale del Ducato che era

allora una piccola città medievale che non superava i 3-4000 abitanti, per il battesimo del loro

terzogenito, che ebbe luogo nella Sainte-Chapelle, la bellissima Cappella gotica adiacente al Palazzo

Ducale, santuario della Sacra Sindone, la reliquia più importante di Casa Savoia.

Non possiamo capire la vita e la personalità di Emanuele Filiberto e neppure il ruolo che ebbe nel corso

della sua vita, se non consideriamo il clima in cui visse gli anni della sua infanzia e il lungo regno del

padre (dal 1504 al 1553) durante il quale gli Stati di Savoia si «dissolsero come neve al sole».

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Carlo II, il padre di Emanuele Filiberto, ne abbiamo già parlato nella scorsa lezione, fu un principe

debole e sfortunato (vaso di coccio tra due grandi vasi di ferro, Francesco I e Carlo V). Perse nel corso

del suo lungo regno, di quasi 50 anni, quasi tutti i territori del Ducato e morì in povertà a Vercelli nel

1553.

La madre Beatrice di Portogallo era una donna molto bella e dotata di un autorevole carattere come si

conviene ad una figlia di re.

Le nozze di Carlo II e Beatrice furono celebrate a Nizza il 10 ottobre 1521: la principessa non aveva

ancora 17 anni; il Duca ne aveva compiuti 35. Nessuno avrebbe immaginato l’ascendente che la

Duchessa avrebbe avuto sullo sposo. Fu un’assennata informatrice del Duca e una preziosa consigliera.

Il Duca, debole di carattere e goffo di portamento, le accordò ampia libertà di azione in molte

occasioni, come si evince dalla copiosa corrispondenza di Beatrice. Meno di un anno dopo il

matrimonio, il 19 novembre 1522, a Ivrea, la giovane Duchessa diede alla luce il primo figlio Adriano.

In seguito rimase incinta quasi ogni anno, ma dei nove figli che mise al mondo ben otto morirono

prematuramente. Ella stessa morì a Nizza l’8 gennaio 1538 a soli 34 anni nel dare alla luce il nono

figlio.

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Il nonno materno di Emanuele Filiberto, Manuele I d’Aviz, re del Portogallo, era uno dei grandi sovrani

del tempo e uno dei più ricchi, regnando su un immenso impero che aveva accresciuto con i viaggi di

grandi navigatori come Vasco de Gama e che andava dal Brasile (scoperto in quegli anni da Pedro

Alvarez Cabral), alla costa della Guinea, dal Mozambico all’India e fino ai porti di Giava.

Manuele aveva sposato in seconde nozze Maria di Trastámara, figlia dei Re Cattolici Ferdinando II

d’Aragona e Isabella di Castiglia. Due le figlie: Isabella, che aveva sposato nel 1526 l’imperatore Carlo

V e, appunto, Beatrice che aveva sposato il Duca di Savoia Carlo II.

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Dei primi anni di Emanuele Filiberto non si sa molto, molte notizie sono ricavate dalle relazioni degli

ambasciatori veneziani, fini psicologi e perfetti osservatori che ci hanno lasciato ritratti molto precisi

dei personaggi che hanno incontrato. Alla nascita, abbiamo detto, era molto gracile da far pensare che

non sarebbe sopravvissuto. Fino a tre anni si resse a malapena sulle gambe e faceva molta fatica a

camminare: si racconta che la madre lo vestiva sempre da “fratino”, per via di un voto. Così i genitori

pensarono ad una carriera ecclesiastica e il papa gli aveva promesso un cappello cardinalizio. Emanuele

Filiberto era un bimbo minuto per la sua età con carnagione chiara e capelli biondi, che si sarebbero

scuriti in seguito.

Nel 1530 Emanuele Filiberto, aveva solo un anno e mezzo, venne portato a Bologna dove il 24 febbraio

Carlo V fu incoronato Imperatore dei Romani con la corona ferrea da Clemente VII (Carlo V aveva il

titolo di Imperatore dal 1519, ma solo nel 1530 si organizzò questa incoronazione solenne).

In quella occasione Carlo V aveva donato alla cognata Beatrice, che stimava molto, i feudi di Asti,

Ceva e Cherasco. In cambio aveva preteso che i figli di Carlo II e Beatrice Ludovico ed Emanuele

Filiberto) fossero inviati in Spagna per essere educati insieme con suo figlio Filippo (futuro Filippo II).

Luigi partì da solo perché: la duchessa preferì tenere con se il più piccolo Emanuele Filiberto, conte di

Bresse, destinato alla carriera ecclesiastica.

Il piccolo Emanuele Filiberto, figlio cadetto e di gracile costituzione, era destinato alla chiesa.

Il Papa aveva promesso per lui un cappello cardinalizio, ragion per cui fu chiamato

“Cardinalino”.

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Grazie alle cure della madre il bambino riuscì a godere di buona salute, cosa che gli permise di

diventare uno dei massimi condottieri del suo tempo.

Della sua educazione si occuparono la madre e alcuni precettori, tra questi Giovan Battista Provana di

Leynì, il vescovo di Nizza e Aimone di Ginevra. I genitori inculcarono nel figlio i principi della fede

cristiana.

Emanuele Filiberto visse a Torino dai due anni e mezzo fino ai sette anni, poi dovette a fuggire, per

l’occupazione francese: a Vercelli, Milano e Nizza, e poi di nuovo a Vercelli a 14 anni.

Nonostante le traversie patite, Emanuele Filiberto conservò un buon ricordo della sua infanzia,

soprattutto del periodo trascorso a Nizza: «Per tutta la vita gli piacque sopra di tutto il nuoto» scrissero

gli ambasciatori veneziani: certo il mare era stata una scoperta meravigliosa per un fanciullo che aveva

conosciuto solo le montagne e le pianure della Savoia e Piemonte!

Nel 1536 morì a Madrid Ludovico, Principe di Piemonte; Emanuele Filiberto divenne così l’unico figlio

rimasto e l’erede al trono. Anche l’unica sorella vivente, Caterina, morirà presto, a fine 1536.

Nel 1538 morì la duchessa Beatrice, dopo il parto del nono figlio, non sopravvissuto. Il Duca si trovava

a Vercelli, con lei c’era solo Emanuele Filiberto, di 10 anni. Spariva, a 33 anni, una figura singolare e

rilevante: nei 17 anni di matrimonio aveva lottato contro le avversità e le ristrettezze economiche, con

energia e coraggio eccezionali. Il figlio ereditò dalla madre l’altissimo concetto della sovranità, che lo

rese meno popolare di Carlo II, che invece era molto amato dai sudditi. Dimentica dello splendore dei

suoi anni giovanili, la duchessa resisteva alle difficoltà, sostenuta dall’amore verso il consorte, come

traspare dalle sue lettere: «Quanto al vostro arrivo, Signore, anche se fossi in preda a mille contrarietà,

le dimenticherei immediatamente grazie alla vostra presenza e vi supplico di arrivare il più presto

possibile».

Emanuele Filiberto aveva molto amato quella madre a cui doveva molti lati del suo carattere, quando

morì pianse talmente che si temette per la sua vita. Il Duca aveva perduto il suo migliore consigliere e

la morte di lei lo lasciò in preda alla solitudine e alla disperazione.

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Ricordiamo che l’Impero di Carlo V era molto vasto e su di esso, si diceva, non tramontava mai il sole.

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Carlo V dal 1519, anno della sua elezione a Imperatore nella Dieta di Francoforte (poi incoronato ad

Aquisgrana nel 1520), aveva dovuto affrontare grandi lotte e grandi avversari.

Le lotte più importanti furono contro il re di Francia Francesco I, anche lui grande re e geloso per aver

perso il titolo di imperatore. Ma Carlo V dovette affrontare anche i principi protestanti che, dopo la

riforma di Lutero, pretendevano un’ autonomia di potere e culto dall’Imperatore del Sacro e Romano

Impero. Infine il grande imperatore turco Solimano I, detto il Magnifico, aveva iniziato grandi azioni di

conquista nell’est europeo minacciando i confini dell’impero; mentre i pirati barbareschi, suoi alleati,

infestavano le coste del Mediterraneo con conquiste nel nord Africa e saccheggi sui litorali italiani e

spagnoli.

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La riforma protestante ha una data d’inizio ufficiale, che coincide con la pubblicazione delle 95 tesi da

parte di Martin Lutero sulla porta della cattedrale di Wittenberg: 31 ottobre 1517.

Martin Lutero (Martin Luther), il grande riformatore tedesco, nacque nel 1483 ad Eisleben in Turingia,

regione della Germania centro-orientale. Entrò nel convento agostiniano-eremitano di Erfurt, dove

pronunciò i voti nel 1506, e dove fu ordinato sacerdote nel 1507. Secondo la regola dell'Ordine che

prescriveva una sistematica lettura della Bibbia, Lutero acquisì una conoscenza straordinaria della

Sacra Scrittura. Nel 1508 gli fu assegnata una cattedra di filosofia morale ed etica aristotelica

all'università di Wittenberg, da poco fondata dal principe elettore Federico III di Sassonia (il Saggio).

Nelle sue riflessioni Lutero si stava convincendo che le nostre opere non possono essere altro che

peccaminose, perché la natura umana è solo peccato. Pertanto la salvezza è concessa da Dio per la sola

fede e la sola grazia.

Nel 1510 andò a Roma e fece il giro dei luoghi santi, per guadagnare, come era consuetudine,

indulgenze. La prassi delle indulgenze, nata durante le crociate, concedeva la possibilità a chi non

poteva rispondere fisicamente all'appello dei Papi, di partecipare mediante un contributo in denaro

accompagnato da pratiche spirituali. In seguito il principio andò estendendosi e le indulgenze si

trasformarono in un grosso affare economico. Questa prassi era molto usata da alcuni arcivescovi

tedeschi e contro di essi si era scagliato Lutero con le sue tesi.

Ma le posizioni di Lutero erano discordanti anche su altri punti: la libera lettura della parola di Dio

senza l’intermediazione della gerarchia ecclesiastica (libero arbitrio), la rilassatezza dei costumi della

chiesa romana, volta più al potere temporale che a quello spirituale. La Chiesa possedeva vasti territori

e riscuoteva decime; i nobili tedeschi che sposavano il protestantesimo potevano prendere possesso di

queste proprietà. Fu in questo modo che ad esempio si costituì il nucleo della Prussia quando gli

Hohenzollern passarono al luteranesimo. Per tutti questi motivi, all’inizio del 1521 il papa Leone X (al

secolo Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) aveva scomunicato Lutero con la bolla

Decet Romanum Pontifice.

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Anche Carlo V si era preoccupato delle tesi di Lutero dal punto di vista politico. Il Sacro Romano

Impero era un organismo complesso, costituito dall'imperatore che regnava con il consenso dei principi

e dei feudatari. La religione era un importante elemento in questo equilibrio precario, a sua volta in

relazione con il papato, con le altre monarchie europee e minacciato dall’Impero ottomano nelle

frontiere sud-orientali. Per questi motivi Carlo V nella Dieta di Worms, convocata nel maggio del 1521,

fece condannare Lutero come eretico.

Lutero venne salvato dalla condanna da Federico III di Sassonia che lo ospitò in Sassonia dove

continuò la sua predicazione. I principi tedeschi si riunirono poi, lo vedremo, nella Lega di Smalcalda,

per contrastare l’imperatore Carlo V.

Non possiamo qui soffermarci sulle vicende legate al terzo grande Re della prima metà del XVI secolo:

Enrico VIII d’Inghilterra, talora alleato e avversario dell’uno o dell’altro dei due altri grandi re: Carlo V

e Francesco I.

Prima grande difensore della Chiesa di Roma, Enrico VIII nel 1532 ruppe con il Papa e fondò la Chiesa

d’Inghilterra.

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La lotta fra i Valois-Angôuleme e gli Asburgo caratterizzerà tutto il secolo XVI e iniziò proprio con

Francesco I desideroso di vendicare la sua mancata elezione a Imperatore e di acquisire nuovi territori,

in particolare in Italia e nelle Fiandre, sottraendoli a Carlo V.

Già dal 1515 i francesi erano riusciti a stabilire la loro sovranità sul Ducato di Milano con la sanguinosa

battaglia di Marigliano (oggi Melegnano) contro gli elvetici (che avevano solo conservato la zona del

Gottardo). Lì era stato fatto prigioniero il duca di Milano Massimiliano Sforza, morto poi in prigionia.

Francesco I aveva conservato il ducato fino al 1521, quando Carlo V aveva nesso sul trono Francesco II

Sforza, fratello del defunto.

Per questo e per altri motivi Francesco I iniziò la guerra contro l’imperatore occupando la Navarra

spagnola e zone delle Fiandre.

Un anno cruciale nella storia di lotta tra le due potenze era stato il 1525 quando Francesco I, sceso in

Italia per riconquistare il Ducato di Milano, era stato sconfitto dai generali di Carlo V nella battaglia di

Pavia (24 febbraio 1525) e fatto prigioniero. Trasferito a Madrid, firmò un gravoso trattato di pace detto

appunto trattato di Madrid che, appena libero, rinnegò per stringere invece la Lega Santa col Papa e i

Principi italiani a Cognac con chiaro indirizzo antiasburgico. A questa Lega aveva partecipato anche

Carlo II che però si era dichiarato fedele all’Impero.

Nel 1527, Carlo V per punire il Papa per la sua alleanza con la Francia aveva ordinato l'invasione della

città di Roma ad opera dei Lanzichenecchi, che devastarono e saccheggiarono completamente la città.

Questa vicenda è tristemente nota come il "sacco di Roma". Questi fatti suscitarono moti di sdegno

talmente aspri in tutto il mondo civile, da indurre Carlo V a prendere le distanze dai suoi mercenari e a

condannarne fermamente l'operato.

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Si giunse (2 agosto 1529) alla pace di Cambrai (località a nord della Francia) detta anche “Pace delle

due Dame”. Questa pace, una delle tante tra Francia e Impero, modificava a vantaggio della Francia il

precedente Trattato di Madrid; Francesco I era costretto a rinunciare ad ogni pretesa francese sul Regno

di Napoli e sul Ducato di Milano ma alla Francia rimaneva la Borgogna e Carlo V liberava i due figli di

Francesco I, Francesco ed Enrico, fino ad allora ostaggi in Spagna dell’Imperatore.

La pace di Cambrai è detta anche “Pace delle due Dame”, perché venne negoziata da Margherita

d’Austria, zia di Carlo V e vedova del duca di Savoia Filiberto II, e Luisa di Savoia, madre di

Francesco I, sorella di Filiberto II e sorellastra di Carlo II, l’attuale Duca. Le due principesse erano

dunque cognate, entrambe di carattere molto risoluto, non si erano mai amate.

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Nel corso del 1532 il Papa Clemente VII aveva manifestato a Carlo V l’opportunità di un colloquio

aperto con Francesco I, che stava assumendo nuovamente un atteggiamento ostile. Carlo V sospettò che

dietro la proposta si celasse un nuovo accordo tra papato e Francia, ma alla fine cedette. Francesco I

allora propose che il Papa chiedesse al duca di Savoia la consegna di Nizza e del suo castello per

accogliere i monarchi a congresso. Era questa un’idea geniale di Francesco I che in questo modo voleva

annettersi la contea di Nizza con il beneplacito del Papa, complice consapevole del tranello. Carlo II

rifiutò categoricamente, il Papa tacque e Francesco I si irritò ancor più con il Duca.

Il congresso si tenne poi a Marsiglia in ottobre e tra le altre cose venne deciso di dare in sposa al 20

genito figlio di Francesco I, Enrico d’Orléans (il futuro re Enrico II), Caterina de’ Medici, figlia di

Lorenzo II de' Medici duca d'Urbino, e di Madeleine de la Tour d'Auvergne, nelle sue vene scorreva

dunque sangue italiano e francese. Caterina rimase orfana dei genitori lo stesso anno della sua nascita

(1519). Allevata dalle zie passò parte dell’infanzia in un convento poi andò a Roma dallo zio il papa

Clemente VII, dove ricevette un’educazione molto curata. Era questo di papa Clemente VII un

capolavoro di diplomazia, riuscendo ad imparentare la famiglia fiorentina con i Valois di Francia.

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Solimano il Magnifico fu il Sultano turco (la Sublime Porta) che portò l’Impero ottomano ai massimi

fulgori. Dopo la successione al padre Selim I nel 1521 prese Belgrado e conquistò la Serbia. Nel 1525

Francesco I, in lotta con l’imperatore Carlo V, propose a Solimano la conquista dell’Ungheria, un

territorio ben più esteso di quello attuale. Nella battaglia di Mohács nel 1526 Solimano sconfisse il re

ventenne Luigi II d’Ungheria che morì sul campo e le truppe ottomane occuparono quasi tutta

l’Ungheria. Sotto Carlo V e il fratello Ferdinando, arciduca d’Austria, gli Asburgo riconquistarono

l’Ungheria ma Solimano la invase nuovamente due volte: nel 1529, ma ne fu ricacciato dopo l’assedio

di Vienna e poi nel 1532. In trattati successivi di pace con principi ungheresi appoggiati dal sultano, si

stabilì che parte dell’Ungheria doveva rimanere in appannaggio agli Asburgo.

Terminati i conflitti in Europa, Solimano continuò le sue conquiste in Asia conquistando la Persia e

l’Iraq e portando poi i confini del suo impero sino all’Azerbaigian e ad alcune fortezze in Georgia, nel

Caucaso.

Nello stesso tempo furono annessi vasti territori del Nord Africa; gli Stati barbareschi di Tripolitania,

Tunisia, Algeria (ma non il Marocco, che rimase indipendente) divennero province autonome

dell'Impero e servirono a Solimano come cuneo e scudo nel conflitto con Carlo V. In questo periodo

divennero famosi i pirati barbareschi che dal Nord Africa portarono la guerra da corsa contro la Spagna

e l’Italia e fornirono all'Impero ottomano, per un certo periodo, la supremazia navale nel Mediterraneo.

Inoltre i turchi controllarono il Mar Rosso, e il Golfo Persico fino al 1554 quando furono sbaragliati

dalla flotta dell'Impero portoghese che poi contrastò Solimano per il controllo di Aden.

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Dagli ultimi decenni del secolo XV le scorrerie delle galee con bandiera verde e mezzaluna costituì un

grave problema per l’Occidente cristiano. Il papa cercò a più riprese di organizzare una nuova Crociata,

ma si scontrò con la riluttanza dei regnanti europei, divisi da interessi diversi, che preferivano scendere

a umilianti compromessi con il Sultano piuttosto che prendere le armi.

Barbarossa Ariadeno (Khair ed Din), figlio di un greco rinnegato e di un’andalusa, non era un semplice

tagliagole ma un comandante di mare carismatico e intelligente. Catturato dai cavalieri di Rodi e messo

al remo, era riuscito a fuggire nel Maghreb. Aiutato da capaci luogotenenti, quali Dragut e il calabrese

Occhialì (Uluch Ali), divenne bey di Algeri e poi Kapudan Pascià (ossia comandante supremo della

flotta ottomana). Molti furono i suoi saccheggi sulle coste italiane, in particolare con la distruzione

delle campane (simbolo cristiano) e cattura della popolazione, ed epiche furono le lotte con Andrea

Doria e con i Cavalieri di Malta.

Nel 1534 Barbarossa si diresse a Tolone, messagli a disposizione dalla Francia; sul percorso saccheggiò

Reggio e Messina (non Napoli, difesa dalle galee spagnole). Informato, forse da un prigioniero

rinnegato, che a Fondi, feudo del principi Colonna, si trovava Giulia Gonzaga vedova di Vespasiano

Colonna, ritenuta una delle donne più belle d’Europa, progettò di catturarla e donarla al sultano.

L’impresa fallì perché, come racconta un cronista: «la duchessa se ne uscì scalza e in capelli fora del

castello» e si rifugiò Roma. A seguito di questo episodio che aveva messo in evidenza la spavalderia

dei corsari (Barbarossa aveva anche manifestato l’intenzione di rapire il Papa) il Papato dispose, per

prudenza, di rinforzare le mura della Città eterna, e intensificò i suoi sforzi per convincere i riottosi

sovrani cristiani a riunirsi in Lega contro i nemici della fede.

Nel 1535, Carlo V condusse così una grossa operazione contro Tunisi, al fine di liberarsi una volta per

tutte del Barbarossa. Con la fattiva partecipazione di Andrea Doria e della sua flotta, la città venne

conquistata, ma il pirata evitò la cattura e, l'anno dopo, aveva già recuperato le forze sufficienti per

devastare le Baleari.

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Il 10 novembre 1535 morì a Milano l’ultimo degli Sforza, Francesco II. L’Imperatore già aveva

provvisto in previsione del decesso: il suo rappresentante Caracciolo pose immediata occupazione al

Castello e alle fortezze e fu imposto ai milanesi il giuramento di fedeltà all’Imperatore. Finì così la

storia di Milano comunale, incominciava la dominazione spagnola e poi quella austriaca dopo il 1713:

tre secoli di dominazione straniera.

Don Antonio de Leyva, Principe di Ascoli e signore di Monza (1480-1536) fu il primo governatore

spagnolo di Milano; era il bisnonno della Monaca di Monza, ovvero Marianna de Leyva (1575-1650).

Cristina di Danimarca (1522-1590) era figlia di Cristiano di Danimarca e di Isabella d’Asburgo (sorella

di Carlo V). A 13 anni era andata in sposa a Francesco II Sforza. Alla morte del marito, avvenuta pochi

mesi dopo le nozze, ereditò la signoria di Tortona. Tornata a Bruxelles, nel 1538 le fu proposto un

matrimonio con Enrico VIII d’Inghilterra, dopo la morte della sua terza moglie Jane Seymour. Sembra

che lei abbia risposto: “Se avessi due teste sarei ben felice di darne una al re d’Inghilterra”. Nel 1541

sposò Francesco I duca di Lorena e da lui ebbe due figli. Morì a Tortona nel 1590.

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Francesco I non poteva rinunciare a Milano, senza combattere, e la prima vittima fu il duca di Savoia:

decise l’occupazione di Savoia e Piemonte per garantirsi le spalle nell’avanzata verso la Lombardia. Il

re di Francia chiese al Duca il libero passo alle sue truppe nei territori e la consegna in garanzia delle

piazze di Montmélian, Avigliana, Torino, Chivasso e Vercelli. Carlo protestò e si rivolse a Carlo V,

che si trovava a Napoli. Questi non diede ordini ai suoi generali in Lombardia per soccorrere il duca di

Savoia, facendo così intendere che l’occupazione francese di Torino avrebbe giustificato la sua

occupazione di Milano.

A inizio 1536 l’ammiraglio francese Chabot ebbe l’ordine di invadere la Savoia, il Saint Pol di

occupare la Bresse e il Bugey; queste regioni furono prese senza opposizione. Si sperava nella difesa di

Montmèlian, ma il governatore, il napoletano Francesco Chiaramonte, la consegnò senza combattere. Il

Duca fece ancora appello agli Stati Generali ma questi, anche in presenza del nemico, rifiutarono il

sussidio. Il governatore di Milano, Don Antonio de Leyva, venne a vedere le mura di Torino; dichiarò

che non avrebbero permesso alcuna difesa e se ne andò.

Il Duca, visto che la difesa non era possibile, decise di lasciare Torino e consigliò ai capi della

comunità torinese di non resistere ad oltranza per evitare violenze. A marzo si imbarcò con la famiglia

sul Po, alla volta di Vercelli. Presto le avanguardie francesi giunsero a Torino e, occupata la città senza

rispettare i patti di capitolazione, si diressero a Chivasso. Per sicurezza il Duca inviò a Milano, da

Cristina di Danimarca, la moglie e i figli Emanuele Filiberto e Caterina. Beatrice portò con sé la

Sindone. Da Milano l’indomita Beatrice organizzò, un tentativo di riscossa in Tarantasia (val d’Isère)

facendo radunare alcune migliaia di uomini: faceva ciò che avrebbe dovuto fare il marito!

Il Piemonte diventerà territorio di guerra tra francesi e spagnoli, per più di 20 anni, sino al 1559.

Nel gennaio del 1536, i Bernesi dichiararono guerra al Duca ed occuparono il Vaud, il Chiablese, i

baliaggi di Ternier e di Gaillard, fermandosi solo per le minacce del re di Francia. I Cantoni cattolici

minacciarono i Bernesi di aiutare il Duca, ma poi non si mossero, consentendo così ai Bernesi di

guadagnare tutti questi territori sottraendoli a Carlo II.

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Come già detto, Carlo V che si trovava a Napoli e stava visitando il sud Italia dopo la vittoriosa

spedizione di Tunisi, non era intervenuto in aiuto del Duca di Savoia.

Da Roma però, dove si era successivamente recato, aveva pronunciato in concistoro, presenti Papa e

cardinali, un violento discorso contro Francesco I, annunziando la guerra. Poi si mosse con i suoi

generali verso il nord: passò per Asti ed arrivò in Provenza. I generali francesi non si scomposero di

fronte all’avanzata imperiale, che avveniva senza artiglierie. Arles e Marsiglia erano città fortificate e

rapidamente furono creati campi fortificati ad Avignone e Valence. A settembre Carlo V iniziò la

ritirata, per l’impossibilità di prendere le città fortificate.

In Piemonte i francesi, poco numerosi, misero presidi solo a Torino ed in qualche altro luogo. Quasi

tutto il Piemonte tornò sotto l’autorità ducale; se Carlo V non avesse sciupato tempo e uomini in

Provenza, avrebbe probabilmente potuto cacciare i francesi. Il 1537 fu un anno di tregua; francesi e

imperiali taglieggiavano il Piemonte accusandosi reciprocamente; iniziarono trattative, ma Francesco I

voleva Milano e intanto univa il Piemonte alla Francia.

Carlo II si era stabilito con la famiglia a Nizza, l’unica città sicura. Di lì, in attesa di riprendere i suoi

Stati, pensava ad un ampliamento dei suoi domini. Vi erano la questione del Marchesato di Saluzzo (di

fatto in mano ai Francesi), e quella del Monferrato dove nel 1533 era morto l’ultimo Paleologo,

Giovanni Giorgio; sua figlia Margherita, sposa di Federico Gonzaga duca di Mantova, curava anche gli

affari del Monferrato. Toccava all’Imperatore decidere la successione, a cui ambiva anche il duca di

Savoia in virtù di antichi diplomi di pretesa; questi optò per il Gonzaga che ne prese possesso nel 1537.

Carlo II, da Nizza, pubblicò una solenne protesta per la violazione dei suoi diritti. L’Imperatore rimase

imbarazzato e ne uscì dichiarando che la causa per il Marchesato, rimasta ferma al possessorio, poteva

continuare per il petitorio. Era una bella trovata: che il Duca di Savoia continuasse a chiedere!

A inizio 1538 a Nizza, come già abbiamo detto, era morta di parto la duchessa Beatrice.

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Nel 1538 papa Paolo III propose un nuovo incontro di pace tra Carlo V e Francesco I, la scelta cadde di

nuovo su Nizza, ma il Duca rifiutò ancora di consegnare il castello al Papa. Paolo III venne e si stabilì a

Nizza; l’imperatore sbarcò a Villafranca (oggi Villefranche-sur-Mer) e non lontano si mise il re di

Francia.

Un episodio di quei giorni ci fa capire quale forza di carattere avesse Emanuele Filiberto, di 10 anni.

Carlo II era indeciso se mettere o no a disposizione il castello di Nizza per il convegno, ma i Nizzardi

avevano ben capito che Carlo V voleva serbare per sé Nizza punto di passaggio tra Spagna e Italia. Il

papa aveva mandato il figlio Pier Luigi Farnese a prendere possesso del castello, i Nizzardi, sotto il

comando del Provana, gli chiusero le porte. In quel mentre, i tutori di E. Filiberto erano alla sua ricerca

temendo che, uscito dalla città per accogliere il papa, potesse essere stato preso in ostaggio; ricondotto

al castello, il giovane principe vide nel salone una riproduzione del castello in legno ed esclamò: «Alla

buon’ora, messeri, abbiamo due fortezze una di legno e una di pietra: i papisti avranno quella di legno

ed io quella di pietra!». Emanuele Filiberto non dimenticò mai quella giornata, convinto che se il padre

avesse ceduto Nizza, avrebbe poi perso il resto del suo Stato.

Carlo V, furioso per la resistenza, ne fece pagare il fio a Carlo II. Il 18 giugno 1538 pattuì una tregua di

dieci anni con Francesco I, lasciando la Savoia alla Francia mentre gli Spagnoli conservavano, a spese

del Duca, Asti, Vercelli e Fossano. Carlo II dovette nuovamente sopportare umiliazioni e disprezzo,

questa volta da parte dell’Imperatore a cui era sempre rimasto fedele; si ammalò e cadde in una

profonda tristezza che incupì il resto della sua vita.

Nell’estate i due sovrani si ritrovarono ad Aigues-Mortes, in Provenza, e Francesco I propose di

restituire la Savoia al Duca, a condizione che questi rinunciasse al Piemonte e a Nizza. In cambio

avrebbe ottenuto dei feudi in Francia e del denaro, diventando di fatto vassallo del re di Francia. Carlo

II rifiutò, ma nel 1539 il re di Francia tornò alla carica e richiese Nizza con il suo castello ma il Duca

replicò che egli era e intendeva morire conte di Nizza.

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L'Imperatore si era impegnato di nuovo contro i Turchi in un conflitto che si concluse con la sfortunata

sconfitta nella battaglia navale di Prevesa (Grecia nord-occidentale) del 27 settembre 1537: la flotta

turca, guidato dal Barbarossa ebbe la meglio su quella degli imperiali di Andrea Doria, composta da

navi genovesi e veneziane (unite nella Lega Santa).

Nel 1541 Carlo V aveva organizzato una nuova spedizione contro Algeri, base logistica del Barbarossa

e punto di partenza delle scorrerie barbaresche. A Genova, base di partenza delle galee di Andrea

Doria, l’imperatore era stato omaggiato dal Duca di Savoia e dal figlio 13enne. Emanuele Filiberto

diede prova di un singolare ardire: «Vestito di porpora, la spada al fianco, fece riverenza a Sua Maestà

l’Imperatore e lo supplicò di permettergli di seguirlo in quel viaggio, con tanta sicurezza e modestia che

l’Imperatore ne fu meravigliato, e lodando la sua generosità, ribatté prontamente che egli era ancora

troppo giovane per andare alla guerra e che, fermo nella sua decisione, le occasioni si sarebbero

presentate numerose».

In effetti si presentarono, cinque anni dopo. Carlo V aveva raccolto una ragguardevole forza, al

comando di esperti condottieri quali Andrea Doria, Ferrante I Gonzaga e Hernán Cortés. Nonostante

ciò la spedizione dell'ottobre 1541 si rivelò un fallimento, perché le avverse condizioni del mare

distrussero ben 150 navi cariche di armi, soldati e rifornimenti. Con quel che restava Carlo V non fu in

grado di concludere vittoriosamente l'impresa e dovette rientrare in Spagna, ai primi di dicembre, dando

l'addio definitivo alla sua politica di controllo del Mediterraneo.

Francesco I approfittò della lontananza dell’Imperatore per inviare nuove truppe in Piemonte ed

allargare l’occupazione. Continuavano frattanto i tentativi per costringere Carlo II a cedere, né

mancarono orditure di congiure per impadronirsi di Carlo II e di Emanuele Filiberto.

Intanto Carlo II aveva ottenuto da Carlo V il consenso di stabilirsi definitivamente a Vercelli, limitando

l’autorità dei generali imperiali che dominavano i territori non in mano ai francesi.

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Nell’estate 1543 Francesco I tentò di far occupare Nizza, a cui non aveva mai rinunciato, dal suo

alleato turco; il “re Cristianissimo” nel 1542 aveva concesso ai barbareschi lo scalo nel porto di Tolone.

Da lì era partita una flotta di oltre 200 vascelli (con 26 galee francesi) al comando del Barbarossa che,

approfittando della scarsa sorveglianza delle coste, sbarcò a Villafranca (5 agosto 1543) per assediare

Nizza, dove si trovava Emanuele Filiberto. Questi assisté ai preparativi di difesa e poté valutare la

determinazione degli assediati. Fatto avvisare l’ammiraglio genovese Andrea Doria, il giovane

principe, con la foga dei suoi 15 anni, lasciò il convento dove alloggiava, per portarsi al castello e

«partecipare alla festa». Vide sfilare davanti a Nizza l’imponente flotta del Barbarossa, e solo il 31

luglio, 5 giorni prima dell’inizio dell’assedio, obbedì, contro la sua volontà, all’ordine di raggiungere

Genova con le galee del Doria che erano ancora in porto. Nizza capitolò dignitosamente il 22 agosto,

ma i turchi, furiosi nel vedere il castello resistere ostinatamente si abbandonarono a massacri

spaventosi.

Secondo la leggenda, un alfiere dei Giannizzeri tentò di piantare la bandiera con la mezzaluna su un

bastione sabaudo, ma fu affrontato da una lavandaia unitasi ai difensori: Caterina Segurana. Armata

della paletta tipica del suo mestiere, la donna strappò al turco la bandiera; poi la sventolò in segno di

vittoria, dando nuovo vigore ai difensori che respinsero l’assalto.

L’avanguardia imperiale arrivò due giorni dopo, e l’11 settembre, arrivarono le galee del Doria e i

soldati del Duca. Le truppe imperiali ripartirono poi per il Piemonte dove, mal pagate, ripresero a

saccheggiare il paese. Da ogni parte giunsero a Emanuele Filiberto le lagnanze della sventurata

popolazione: lo stesso Imperatore riconobbe che le sue truppe avevano commesso crimini che

«avrebbero fatto arrossire i Mori e i Turchi». I Francesi, che speravano di rimanere nell’Italia del Nord,

si dimostrarono invece meno temibili degli Spagnoli. Emanuele Filiberto si recò due volte a Milano per

segnalare al governatore Del Vasto le malefatte dei suoi soldati; tuttavia, benché questi avesse impartito

ordini per farle cessare, nulla cambiò.

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I Francesi, nel 1544, tenevano la linea del fiume Sesia con Desana, Crescentino e Santhià. Un tentativo

francese di occupare Carignano, a sud del Po, indusse il governatore spagnolo, marchese del Vasto, ad

affrontarli a Ceresole d’Alba, ma fu duramente sconfitto il 14 aprile 1544 dai francesi comandati da

Francesco di Borbone-Condé conte di Enghien (1519-1546). I Francesi si impadronirono di Carignano

e di altre piazzeforti.

Un successo effimero perché, poco dopo, l’Imperatore e il suo comandante in capo Ferrante Gonzaga

ottennero una serie di vittorie in Fiandra e Piccardia, l’altro teatro di guerra con i Francesi. Carlo V

arrivò ben presto a sole venti leghe da Parigi ma, scarseggiando il denaro, non riuscì a trarre profitto dai

suoi successi, così il 18 settembre 1544 vi fu il trattato di Crépy-en-Laonnois per concordare una pace

molto precaria.

Il re di Francia e l’Imperatore stabilirono di restituire i territori occupati dopo la tregua di Nizza;

Piemonte e Savoia sarebbero stati resi a Carlo II non appena Carlo d’Orléans, terzo figlio del re di

Francia, avesse sposato Maria d’Asburgo, figlia di Carlo V, che avrebbe portato in dote il Ducato di

Milano. Il re di Francia si impegnava, con una clausola segreta, a soccorrere il duca di Savoia contro gli

Svizzeri. Come è noto, i trattati erano spesso suggellati da unioni matrimoniali tra le casate

contrapposte e, nel caso di assenza di matrimonio, le clausole previste venivano invalidate. Così

avvenne per questo trattato: infatti il giovane duca d’Orléans morì poco tempo dopo e la restituzione dei

territori alla Savoia fu nuovamente rimandata.

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Emanuele Filiberto aveva compreso che la restituzione dei territori era strettamente connessa al trionfo

delle armate imperiali. Carlo II, per nulla aiutato dal cognato Carlo V, era stato trattato ancor peggio dal

nipote Francesco I. L’abilità di Carlo V come comandante militare era evidente e il principe di

Piemonte sapeva che da lui avrebbe potuto imparare molto. Ma come poteva convincere il padre a

lasciar andare in guerra il suo unico e giovanissimo figlio?

Emanuele Filiberto presentò la cosa in modo che il padre acconsentisse: non si trattava di combattere,

in quel momento c’era la tregua, ma solo di difendere, come ambasciatore, le rivendicazioni del padre

presso l’Imperatore. Carlo II esitò, si sentiva vecchio e i suoi domini erano in cattivo stato, ma alla fine

assecondò il figlio. Così nel 1545 il principe lasciò Vercelli per la Corte imperiale. Partiva con un

incarico pacifico, ma la devise da lui scelta dimostrava ben altro intendimento: “Spoliatis arma

supersunt”, “Ai derubati non rimangono che le armi”.

Il viaggio verso Worms, dove l’Imperatore presiedeva la Dieta, durò due mesi; Carlo V accolse il

nipote con “gioia e soddisfazione”. Emanuele Filiberto presentò un “memoriale” scritto in cui erano

esposte le miserabili condizioni del Piemonte. L’Imperatore si limitò a buone parole e a vaghe

promesse, rimettendosi per l’esecuzione al marchese del Vasto, governatore di Milano. Costui non solo

non tenne conto delle raccomandazioni imperiali ma, per vendicarsi dei Savoia, aumentò a spese del

Duca di Savoia la guarnigione di Vercelli.

Emanuele Filiberto partì con l’Imperatore per visitare le fortezze delle Fiandre, in vista di una nuova

guerra che Carlo V stava preparando contro i Principi luterani riuniti nella Lega di Smalcalda; con

l’occasione si fece una grande esperienza sulle tecniche e architetture militari.

Il 4 luglio del 1546 Carlo V conferì a Emanuele Filiberto l’ordine del Tosón d’oro; poi il 16 agosto

l’Imperatore affidò al nipote il comando della guardia imperiale e di tutta la cavalleria di Borgogna e

delle Fiandre. Il principe aveva appena compiuto 18 anni!

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Nel giugno del 1546 Carlo V aveva terminato i preparativi per avviare una guerra contro i principi

luterani. Occorre qui ricordare che 17 anni prima, nel 1530, Carlo V convocò la Dieta di Augusta, nella

quale si confrontarono i luterani e i cattolici attraverso vari documenti, in particolare i luterani

attraverso la "Confessio Augustana". Carlo V confermò in quella occasione l'Editto di Worms del 1521,

cioè la scomunica per i luterani, minacciando la ricostituzione della proprietà ecclesiastica. Per tutta

risposta i luterani, rappresentati dai cosiddetti "ordini riformati", reagirono dando vita, nell'anno 1531,

alla Lega di Smalcalda (Schmalkalden, città della Turingia). Tale lega, dotata di un esercito federale e

di una cassa comune, fu detta anche "Lega dei Protestanti", ed era guidata dal Duca Filippo d'Assia e

dal Duca Giovanni Federico di Sassonia.

Fino a quel momento la Lega non si era mai opposta con troppa sistematicità alla politica

dell’Imperatore, ma rappresentava una minaccia per Carlo V e una sfida alla sua autorità. Per altro, il

Pontefice Paolo III aveva convocato un Concilio Ecumenico nella città di Trento, i cui lavori furono

ufficialmente aperti il 15 dicembre 1545, che però i protestanti si erano rifiutati di riconoscere. Carlo V,

che in questo periodo aveva sospeso le ostilità con Francesco I, aveva siglato un’alleanza con Paolo III,

che aveva promesso truppe e fondi per la lotta ai principi protestanti; soprattutto aveva firmato un patto

segreto con il luterano Maurizio di Sassonia sottraendolo abilmente alla Lega Smalcaldica. Nel mese di

agosto Carlo V fece mettere al bando il Principe elettore di Sassonia e il langravio d’Assia dichiarando

de facto guerra ai principi protestanti.

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Con la Riforma luterana, e poi con quella calvinista, la Chiesa Cattolica attraversò nei decenni centrali

del Cinquecento una grave crisi. L’autorità del Papa era messa in discussione e il prestigio di Roma

aveva subito un duro colpo con il sacco del 1527. Anche tra cattolici era sentita l’esigenza di cambiare

una Chiesa troppo coinvolta in vicende mondane e lontana dal Vangelo.

Nel 1545 Paolo III decise allora di aprire un Concilio a Trento, nel 1545, città italiana ma appartenente

all’Impero, culla della Riforma. L’Imperatore condivideva la scelta: sperava di sanare la frattura della

cristianità e di rafforzare il suo dominio. La situazione apparve però subito insanabile, per

l’opposizione ad ogni apertura dei padri conciliari più intransigenti; nel 1547 fu emesso un decreto che

non concedeva quasi nulla ai protestanti. Nel marzo il Concilio fu spostato a Bologna, con il pretesto di

un’epidemia, ma in realtà per sottrarsi alla pressione imperiale. A Bologna nessun decreto fu emesso e

nel 1551 il Concilio fu riconvocato a Trento.

Nel 1549, alla morte di Paolo III, sembrò potesse vincere il cardinale inglese Reginald Pole, riformista,

ma il Sant’Uffizio gli bloccò la strada. L’elezione di Giulio III fece prevalere una “guerra spirituale”

guidata dall’implacabile cardinale Carafa, poi papa Paolo IV nel 1555-59. Esclusi accordi con i

protestanti, fu ribadita l’autorità del Pontefice. Il Concilio fu sospeso nel 1552, riprese nel gennaio 1562

con papa Pio IV e si concluse nel dicembre 1563.

Il Concilio si occupò della disciplina del clero e della riforma di diocesi e parrocchie (ad esempio si

impose ai vescovi di risiedere nelle proprie diocesi e ai preti di migliorare la loro cultura, con

l’istituzione dei seminari). La riorganizzazione della Curia con a capo il Sant’Uffizio rafforzò del

potere dei pontefici, che da quel momento furono tutti italiani. Altro punto fu il rafforzamento, con

compiti di evangelizzazione, di alcuni ordini religiosi (Teatini, Cappuccini, Barnabiti, Gesuiti) in

precedenza guardati con sospetto dall’Inquisizione. I Gesuiti fondati da Sant’Ignazio di Loyola, si

specializzarono ina particolare nella conquista spirituale delle élite europee (con collegi per i giovani

nobili) e nell’attività missionaria.

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Francesco I, re di Francia, muore il 31 marzo 1547 all’età di 53 anni. Sul letto di morte il re di Francia

aveva chiesto al delfino Enrico di riparare al male fatto al duca di Savoia rendendogli le sue terre.

Enrico II, divenuto re, sembrava dapprincipio intenzionato ad esaudire il desiderio paterno inviando alla

corte di Carlo V il signore di Andelot, fratello dell’ammiraglio Coligny, per tentare una soluzione alla

questione sabauda.

Due mesi dopo veniva inviato un ambasciatore straordinario Charles Cossé de Brissac (futuro

governatore del Piemonte) con istruzioni segrete molto precise: con Carlo V doveva trovare un

accomodamento per far conservare alla Francia definitivamente la Savoia e il Piemonte. Brissac

incontrò anche Emanuele Filiberto e lo mise al corrente delle buone intenzioni del suo sovrano, che gli

offriva la mano della sorella Margherita, sottintendendo che in seguito il padre Carlo II avrebbe potuto

riavere suoi territori. Ma queste proposte del re di Francia non dovevano essere rese note a Carlo V,

secondo l’ambasciatore francese.

Emanuele Filiberto s’insospettì e pensò, giustamente, ad una manovra del re di Francia volta a causare

un suo scontro con Carlo V: rispose all’ambasciatore che non poteva fare nulla senza consultare il

padre e l’Imperatore, alla cui autorità era sottomesso. Il principe si dimostrò molto abile perché, poco

dopo, l’Imperatore mise alle strette l’ambasciatore francese e scoprì il gioco di Enrico II che non

intendeva assolutamente restituire il Piemonte al suo sovrano. Ma questo incidente era stato utile perché

Emanuele Filiberto aveva ancora una volta dato dimostrazione della sua lealtà all’Imperatore.

Agli inizi del 1547 (28 gennaio) a 56 anni, era scomparso anche Enrico VIII re d’Inghilterra e

d’Irlanda.

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Alla fine di agosto le armate imperiali si portarono a Ingolstadt, in Baviera, dove erano confluite le

truppe dei Confederati. Il 10 settembre i Confederati aprirono il fuoco contro l’esercito imperiale di

Carlo V. Il 15 settembre, con l’arrivo di un grosso rinforzo olandese, l’Imperatore decise di procedere

all’offensiva e, in meno di due mesi, costrinse il nemico a ritirarsi nella Germania meridionale,

abbandonando città e fortezze; quindi, si stabilì ad Ulm per gli acquartieramenti invernali. Emanuele

Filiberto dimostrò valore e coraggio nel corso della battaglia, facendosi molto apprezzare dallo zio.

La guerra riprese nella primavera del 1547. All’Imperatore, che doveva affrontare la grande armata

dell’elettore Giovanni Federico di Sassonia, si erano uniti gli austriaci del fratello Ferdinando, re dei

Romani, il già citato Maurizio di Sassonia e il contingente papalino di Ottavio Farnese. Il capo della

Lega di Smalcalda si era ritirato con le sue truppe nei pressi di Mühlberg, sull’Elba. La mattina del 13

aprile 1547 gli eserciti si scontrarono violentemente; Carlo V partecipò alla battaglia direttamente,

mentre Emanuele Filiberto mordeva il freno perché era al comando della retroguardia. L’esito del

combattimento fu a lungo incerto ma, alla fine, terminò con lo sbandamento dei Confederati. Il

contributo di Emanuele Filiberto, in quest’ultima fase della battaglia, fu determinante in quanto egli,

alla guida della sua cavalleria, sbaragliò le ultime resistenze del nemico.

La vittoria degli Imperiali fu completa: Giovanni Federico di Sassonia, fatto prigioniero, dovette

restituire tutti i possedimenti e titoli al cugino Maurizio; anche il langravio d’Assia fu fatto prigioniero.

La Lega di Smalcalda venne sciolta; l’Imperatore aveva impiegato quindici anni per raggiungere il suo

scopo.

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L’infante Filippo arrivò nei Paesi Bassi a fine 1548. Carlo V voleva far conoscere il figlio alle Fiandre

ed ai principi tedeschi. Nel 1549 l’Infante visitò le Fiandre, accompagnato da Emanuele Filiberto, e nel

1550 l’Imperatore convocò una Dieta ad Augusta per presentarlo ai tedeschi. Ma Filippo, con il suo

carattere introverso, la rigida etichetta spagnola e parlando solo lo spagnolo non riuscì a farsi amare né

dai Fiamminghi, né dai Tedeschi, né dagli Italiani. Invece Emanuele Filiberto, con carattere più aperto e

abituato a vivere in mezzo ai soldati di diverse nazioni era molto amato e stimato.

Filippo, nato nel 1527 (un anno dopo Emanuele Filiberto) si affezionò al cugino; le successive

divergenze non cancellarono mai del tutto l’amicizia. Filippo era un tipico fiammingo: biondo con

occhi azzurri e bocca grande, il labbro inferiore carnoso; pur di statura modesta, appariva altero per le

maniere spagnole. Emanuele Filiberto, invece, aveva capelli castani, occhi scuri, e uno sguardo vivace,

ereditato dalla madre. Con il tempo Filippo accentuò la sua ieratica staticità; Emanuele Filiberto si

muoveva di continuo, con la spada sottobraccio, ed era capace di incantare. Pure nel carattere erano

diversi: Filippo riflessivo, chiuso e indeciso (un suo ministro scrisse di lui «In tutte le cose, la decisione

fondamentale è rimanere nell’incertezza») enigmatico, austero e invidioso della gloria altrui, viveva

appartato, spesso perdendo contatto con la realtà. Emanuele Filiberto era invece deciso, intraprendente

e sicuro, sapeva riconoscere i meriti dei collaboratori: un uomo nato per il comando e la guerra. I due

giovani non erano però diversi nell’amare piaceri della tavola, le donne, le feste mascherate e le danze.

Entrambi erano religiosi ma in modo diverso: Filippo vorrò uno stretto legame tra politica e religione

con l’inquisizione e imponendo il cattolicesimo nei Paesi Bassi. Emanuele Filiberto non si lascerà

troppo influenzare dall’ostilità della Chiesa verso i riformati. Entrambi desideravano fare grandi i loro

stati: Emanuele Filiberto darà all’erede uno stato unito e prospero, Filippo II uno stato in decadenza.

Quando Filippo, nel 1551 tornò in Spagna, Emanuele Filiberto lo accompagnò e passando per Milano

salutò il padre; poi i due proseguirono per Genova e Barcellona, su una nave di Andrea Doria. Mentre

Emanuele Filiberto era a Barcellona, comparve una flotta battente bandiera imperiale, in realtà erano

navi francesi al comando dell’ammiraglio Strozzi. Emanuele Filiberto capì l’inganno e organizzò la

difesa; la flotta francese che fu costretta ad allontanarsi. Fu in quella occasione che i Catalani diedero al

Principe di Piemonte il soprannome con cui divenne celebre “Cabeza de Hierro” (“Testa di Ferro”).

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Emanuele Filiberto era tornato in Piemonte (a Vercelli) nell’autunno 1551 e aveva offerto i suoi servigi

al governatore imperiale di Milano don Ferrante Gonzaga, che lo nominò comandante di cavalleria.

Con un centinaio di cavalieri arruolati nelle sue terre partì per la zona di guerra in Piemonte, che era di

nuovo teatro nel 1552 di violenti combattimenti tra i Francesi, comandati dal governatore, maresciallo

de Brissac, e gli Spagnoli. Vide con i propri occhi la miserabile condizione della popolazione, constatò

anche che i Francesi si erano stabilmente insediati sul territorio.

Quando, nel corso dei combattimenti, prese d’assedio la città di Bra e ingiunse la resa, un alfiere

piemontese rispose che non riconosceva altro Signore se non il re di Francia. Quando Bra capitolò (fine

agosto 1552) tutti i soldati francesi e i mercenari furono passati a fil di spada dagli Spagnoli; i

Piemontesi (ribelli) furono invece impiccati e i cadaveri appesi sulle feritoie delle mura. E’ difficile

giustificare questo atteggiamento del principe che, di sicuro, non aveva nulla del sanguinario; è

probabile che l’ordine provenisse direttamente dal comandante spagnolo la cui brutalità era nota e che

voleva dare un esempio alla città di Bra.

Emanuele Filiberto, dopo questo triste episodio, ebbe probabilmente l’impressione che se fosse rimasto

in Piemonte sarebbe diventato, agli occhi dei suoi sudditi, complice delle violenze spagnole rimanendo

per sempre inviso dal suo popolo. Paradossalmente, il comportamento dei francesi (gli invasori) in

Piemonte era meno brutale di quello degli spagnoli (sostenitori del governo legittimo); questo sia

perché i francesi consideravano ormai il Piemonte come "casa loro" sia perché il governatore De

Brissac era un uomo intelligente e che apprezzava il Piemonte.

Emanuele Filiberto scrisse perciò all’Imperatore implorandolo di richiamarlo nelle Fiandre dove era

ripresa la guerra con la Francia.

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All’inizio del 1552 era ripresa la guerra tra Carlo V e i principi luterani che si erano accordati con

Enrico II di Francia (trattato di Chambord, 15 gennaio 1552). Il tradimento del Principe luterano

Maurizio di Sassonia che, dopo aver aderito alla causa imperiale, aveva cambiato fazione e si era

venduto al re di Francia, era stata la causa scatenante. Enrico II aveva promesso di finanziare gli alleati

tedeschi, in cambio avrebbe ricevuto i tre vescovati di Metz, Toul e Verdun. L’elettore di Sassonia si

era prefisso di catturare l’Imperatore e il re di Francia aveva mosso le sue truppe verso le Fiandre.

L'iniziativa di Enrico II colse di sorpresa l'Imperatore, il quale, non potendo raggiungere le Fiandre per

l'interposizione dei francesi, dovette ripiegare sul Nord Tirolo con una fuga precipitosa verso Innsbruck

evitando una vergognosa prigionia. Rientrato in Austria, Carlo V iniziò il rafforzamento del suo

contingente militare facendo affluire rinforzi e danaro sia dalla Spagna che da Napoli; inducendo quindi

Maurizio di Sassonia ad aprire trattative per evitare una sconfitta. Si giunse ad un accordo tra

l’Imperatore e i principi luterani che fu poi definito nel trattato di Passau (2 agosto 1552). In esso

vennero concesse maggiori libertà ai riformati, in cambio dello scioglimento dell'alleanza con Enrico II.

Una volta ottenuto l'isolamento della Francia, Carlo V, nell'autunno dello stesso anno, volle

intraprendere, per riconquistare il proprio prestigio, un’azione punitiva assediando la città di Metz in

Lorena. Sordo a tutte le obiezioni, non volle ascoltare il Duca d’Alba, che voleva rinviare l’assedio alla

primavera successiva, poiché si annunciava un inverno molto rigido. Anche Emanuele Filiberto

considerava l’impresa molto ardua, dato il valore militare del comandante francese Francesco di Guisa.

La campagna di guerra ebbe esito disastroso, nonostante la sproporzione tra le forze schierate in campo

a favore degli imperiali, dieci volte superiori. Il freddo, la fame, le malattie e le diserzioni costrinsero

Carlo V a ripiegare verso la Mosella, lasciando alle spalle migliaia di soldati moribondi e feriti.

La sconfitta determinò pesanti conseguenze poiché si riaccese l’ostilità dei principi protestanti: Carlo V

non aveva mai subito una simile disfatta. Forse proprio in quella occasione prese in considerazione per

la prima volta l’idea di rinunciare al trono! Dopo l’umiliante sconfitta, don Fernando Alvarez de

Toledo, duca d’Alba comandante duro e sanguinario, dovette lasciare il comando e a tornare in Spagna.

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Nell’aprile del 1553 ripresero le ostilità contro i francesi e l’Imperatore decise di porre sotto assedio

Thérouanne (nell’attuale regione del Nord-Passo di Calais). Emanuele Filiberto si era proposto per il

comando ma Carlo V, con sorpresa generale, gli preferì Adriano di Croÿ, conte di Roeulx che però

morì poco prima della fine dell’assalto finale. La sua successione provocò una lunga serie di discussioni

tra i generali di Carlo V che ambivano a diventare comandanti, tutti di alto lignaggio e buona

reputazione militare. Dopo una settimana di attesa, il 27 giugno 1553, l’Imperatore nominò Emanuele

Filiberto «capo e comandante generale dell’esercito dei Paesi Bassi, con pieni poteri sui movimenti

della cavalleria, della fanteria, dell’artiglieria e delle munizioni». Il nuovo generale non aveva ancora

compiuto 25 anni! La sua nomina fu accolta con soddisfazione dai soldati tedeschi, borgognoni e

fiamminghi che costituivano l’esercito di Carlo V, e soprattutto dagli Spagnoli che erano i più vicini al

principe. Il principe, profondamente religioso, volle ringraziare il Signore per le responsabilità ottenute,

passando la notte in preghiera al monastero di S. Paolo. Il mattino seguente, dopo essersi comunicato e

aver raccomandato l’anima a Dio, si mise in marcia per andare ad assolvere il suo compito di generale.

La prima impresa che gli fu affidata dall’Imperatore fu l’assedio di Hesdin, città fortificata al confine

con la Piccardia. L’assedio durò due settimane poi la piazzaforte capitolò. Conquistata la città,

Emanuele Filiberto ne autorizzò il saccheggio, ma prima, cosa del tutto eccezionale per i tempi, aveva

fatto radunare nelle chiese gli anziani le donne e i bambini, salvando quei poveretti e le cose sacre. I

prigionieri partirono per i Paesi Bassi. Il riscatto richiesto fu enorme e servì per rimpinguare le finanze

di Emanuele Filiberto, sempre a corto di denari. Poi, su ordine di Carlo V, fece radere al suolo la

piazzaforte. Un anno dopo Emanuele Filiberto fu incaricato dall’Imperatore di riedificare una fortezza a

due miglia di distanza dalla precedente, per la difesa delle frontiere imperiali dalle incursioni che

potevano provenire dall’Artois. La nuova città assunse la forma ad esagono regolare fiancheggiato da

sei bastioni reali, circondato da un fossato e con mezzelune. Il principe la chiamò Hesdinfert e appose

al nome della città l’antica devise F.E.R.T. di casa Savoia. I lavori per la costruzione durarono appena

due mesi e, tuttavia, oltre un secolo dopo, «Vauban si compiacque di riconoscere che un uomo

superiore aveva presieduto alla scelta della sua posizione e alle fortificazioni di quella piazzaforte».

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In breve tempo Emanuele Filiberto assunse il comando delle truppe, impegno molto gravoso. L’esercito

di Carlo V era infatti costituito da soldati di molte nazionalità: Tedeschi e Spagnoli, Fiamminghi e

Valloni e, in misura minore, Italiani, Ungheresi, Moravi, Croati e Polacchi. Gli Spagnoli si mostravano

per lo più disciplinati mentre i Tedeschi, soprattutto i lanzichenecchi, seminavano il terrore.

Per mantenere l’ordine in questo variegato insieme di truppe fu necessario imporre un regolamento

severissimo. Esso prevedeva la morte per i disertori, pene severe per i capitani che avessero tentato di

avere diarie per i soldati inesistenti (era una prassi comune) e vietata ogni violenza. Successivamente

furono decretate altre sanzioni: erano passibili di impiccagione non solo i ladri, ma anche i blasfemi e i

soldati che osassero tagliare il grano prima della maturazione. Le misure adottate da Emanuele Filiberto

erano naturalmente molto impopolari ma il modo in cui il principe si sacrificava personalmente con il

suo esempio e la sua spiccata personalità indussero anche le truppe mercenarie ad ammirarlo.

Non sempre fu facile. Ricordiamo qui un fatto che avvenne qualche tempo dopo e che mette in risalto

la personalità del Principe di Piemonte. All’epoca aveva ai suoi ordini 400 uomini di una soldataglia

tedesca, gli Schwarze Reiter – cavalieri sempre vestiti di nero – al comando diretto del conte di

Waldeck. Erano tristemente noti per brutalità, arroganza e per i saccheggi in cui non facevano

distinzione tra amici e nemici. Uno di questi era stato condannato all’impiccagione per aver rubato dei

viveri e Waldeck chiese ad Emanuele Filiberto chiarimenti. Il principe fece adunare le truppe e iniziò il

chiarimento con il comandante. Ma la discussione, dapprima misurata, si alzò di tono a tal punto che il

conte tedesco fece il gesto di estrarre la pistola dalla cintola. Emanuele Filiberto, visto il pericolo e

sapendo quanto quella gente fosse capace di fare, lo anticipò e scaricò la sua pistola su di lui,

uccidendolo di colpo davanti ai suoi soldati. Un tentativo di ammutinamento dei soldati tedeschi fu

subito bloccato dalle truppe spagnole che li circondavano e il principe ebbe rapidamente sotto controllo

la situazione. Ma Emanuele Filiberto non era un uomo vendicativo: avendo dovuto, come generale in

capo, uccidere Waldeck per evitare il peggio, volle comunque che egli avesse un funerale solenne e

concesse una rendita al figlio che nominò comandante delle truppe in luogo del padre.

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Nella carta è messa in evidenza la zona di guerra tra imperiali e francesi nel periodo 1553-1558 che ha

fine con la pace di Cateau-Cambrésis nel 1559.

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Carlo II morì in miseria nell’arcivescovado di Vercelli nella notte tra il 16 e 17 agosto del 1553 a 66 anni,

colpito da un attacco apoplettico. Senza cerimonie le sue spoglie furono composte nella bara, portate nella

cattedrale e issate sopra un armadio della sacrestia, dove rimasero dimenticate per ben 84 anni! Nel 1637 si

aprirà il triplice feretro (due bare di legno e una di piombo) e si identificherà l’infelice padre di Emanuele

Filiberto dall’iscrizione: ”Carolus secundus Dux Sabaudiae”. Il 18 agosto una manciata di fedeli prestò

giuramento al nuovo Duca, lui non c’era: seppe della morte del padre solo il 26 agosto. Dopo un anno

ricevette da Carlo V l’investitura formale: di tutte le terre gli erano rimaste solo poche piazzeforti in

Piemonte: Asti, Ceva, Cuneo, Fossano, Vercelli, più Nizza e la Valle d’Aosta.

A suo tempo, il principe aveva stabilito cha alla scomparsa del Duca la luogotenenza fosse data al conte

Renato di Challant, maresciallo di Savoia e grande feudatario del Ducato. Morto il padre, Emanuele

Filiberto inviò a Vercelli il de Châtelard come assistente del maresciallo di Challant. In un proclama inviato

ai sudditi il nuovo Duca scriveva: «Se nella persona del mio Signore avete perduto un principe che vi amava

e che voleva la vostra pace, in noi ne scoprirete uno che non verrà meno a questi propositi, se voi

continuerete ad essergli affezionati così come avete sempre fatto con lui e con noi».

Tre mesi dopo la morte di Carlo II, Vercelli fu presa di sorpresa e saccheggiata dai francesi del Brissac (la

Sindone fu però salvata). Châtelard fu ucciso e Challant fatto prigioniero. Francesco d’Este, colonnello

imperiale, sapendo che la cittadella di Vercelli resisteva ancora, si precipitò sul luogo con i suoi fanti e

Brissac dovette ritirarsi. A sostituire Châtelard, il Duca nominò Andrea Provana di Leynì. Fu un’ottima

scelta: il Provana aveva otto anni più di lui ed era da sempre suo amico, lo aveva seguito in battaglia ed era

quanto lui interessato alle arti militari e della marina. Intelligente, preparato e devoto, fu una delle personalità

più importanti dello Stato, sul letto di morte Emanuele Filiberto lo raccomandò al figlio Carlo Emanuele.

La val d’Aosta, che teneva all’indipendenza, era restata neutrale nella lotta franco-spagnola; la contessa di

Challant si era rifiutata di ricevere i rinforzi ducali e aveva proibito ai soldati di prestare giuramento a

Emanuele Filiberto. Anche per questo Andrea Provana scrisse al Duca che le condizioni dei suoi territori

erano deplorevoli e che la sua presenza era indispensabile per ridare fiducia ai sudditi.

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Il 1554 fu segnato da un evento importante. L’Imperatore aveva cercato altre vie per ottenere il dominio

sulla Francia; dopo sconfitte aveva capito che non sarebbe stato facile instaurare la pace negli Stati

tedeschi; infatti sotto la facciata di una guerra di religione, i feudatari tedeschi volevano opporsi al potere

imperiale, e in questo principi riformati e cattolici erano d’accordo. A Carlo V per sconfiggere i Valois

serviva un altro appoggio: per avere l’alleanza degli Inglesi, combinò il matrimonio tra il figlio Filippo e la

regina d’Inghilterra Maria I appena salita al trono nel 1553. Il contratto matrimoniale, firmato il 5 gennaio

1554, stabiliva che Filippo avrebbe ricevuto il titolo di re d’Inghilterra ma avrebbe regnato soltanto la

regina. Filippo, infante di Spagna, era vedovo dal 1545 di Maria Emanuela del Portogallo (cugina sposata

nel 1543, a soli 16 anni) che gli aveva dato un figlio, Don Carlos di Spagna.

Maria Tudor (“Maria la Cattolica” o “Maria la Sanguinaria”) era la figlia del re Enrico VIII e di Caterina

d’Aragona, sue prima sposa poi ripudiata (e figlia dei reali di Spagna Isabella di Castiglia e Ferdinando

d’Aragona). Maria aveva 11 anni più di Filippo ed era giunta al trono a 37 anni per la morte del giovane

fratello Edoardo VI e della sfortunata Jane Grey, che aveva regnato per soli 9 giorni. I due si sposarono

1554 a Winchester; Carlo V aveva dato al figlio il regno di Napoli come dono di nozze. Se gli sposi

avessero avuto figli l’unione avrebbe sarebbe stata la miglior mossa politica del secolo XVI, mettendo la

Francia in una situazione di accerchiamento. Maria, attaccata alla Chiesa romana, desiderava il rilancio del

cattolicesimo e il matrimonio con Filippo assicurava l’egemonia cattolica nell’Europa occidentale, di fronte

a Germania e Svizzera protestanti. In Inghilterra, dove la Riforma anglicana era radicata, il matrimonio non

era piaciuto. Non piaceva neppure a Filippo che non provava desiderio per la moglie, più vecchia di lui e

non bella. Avrebbe di sicuro preferito la giovane sorellastra Elisabetta (la futura Elisabetta I) di soli 20 anni.

Filippo aveva anche pensato di far maritare la giovane Elisabetta con un principe fedele alla Spagna, e con

poco denaro per non essere pericoloso. La scelta era caduta su Emanuele Filiberto. Nel 1554 Emanuele

Filiberto andò a Londra per rendere omaggio ai nuovi sovrani, ma Elisabetta rifiutò di incontrare il Duca:

era il primo di una lunga serie di pretendenti che Elisabetta “la Grande” avrebbe rifiutato nella sua vita.

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Nel mese di maggio del 1555 Emanuele Filiberto ottenne da Carlo V il permesso di fare ritorno nei suoi

territori. Dopo aver ceduto il comando al principe d’Orange, il duca partì in gran segreto da Bruxelles

accompagnato solo da un domestico. Questi si faceva passare da padrone e il duca da servitore. Così

abbigliato Sua Altezza attraversò la Germania ed arrivò a Milano dove fu accolto dal nuovo

governatore il terribile duca d’Alba. Quindi si recò a Vercelli, ove rimase un mese; durante questo

periodo impartì ai comandanti delle fortezze, le poche che erano rimaste ancora sotto la sua autorità, gli

ordini che voleva venissero eseguiti. Il 3 agosto era di nuovo a Bruxelles. Prima di partire aveva

ricevuto assicurazioni dal duca d’Alba «di portare un po’ di conforto ai sudditi, che si trovano per così

dire in extremis, e sul punto di rendere l’anima a Dio, l’unica cosa che ancora possiedono». Il duca di

Savoia sperava che il valore militare del nuovo governatore della Lombardia avrebbe avuto la meglio in

Piemonte sul Brissac, ma purtroppo non fu così. Un cospicuo arrivo di rinforzi permise al comandante

francese di passare all’offensiva, scontrandosi con truppe spagnole spossate e senza viveri. Il duca

d’Alba fu costretto ad abbandonare Volpiano e l’assedio di Santhià permettendo alle sue truppe atroci

violenze e saccheggi e dando prova egli stesso di quella crudeltà che, come vedremo successivamente,

lo rese tristemente famoso nelle Fiandre.

Nella primavera del 1555 il papa Paolo IV (Giovanni Antonio Carafa, della famiglia Carafa) succedeva

al papa Marcello II che era morto dopo meno di un mese di pontificato. Questo nuovo Pontefice, di 79

anni, considerava Carlo V il suo più acerrimo nemico e la personificazione del diavolo, non avendogli

mai perdonato il sacco di Roma del 1527. Un’azione contro l’Imperatore presupponeva un’alleanza con

al Francia, per questo iniziarono trattative segrete per una Lega offensiva e difensiva contro gli

Spagnoli. Temendo che le truppe pontificie e francesi attaccassero il regno di Napoli, Carlo V inviò il

duca d’Alba nel Sud. Fu un’altra delusione per Emanuele Filiberto che sperava di ottenere il comando.

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Nel 1555 Carlo V aveva siglato ad Augusta un trattato di pace con i principi protestanti; in esso si

stabiliva il principio “cujus regio, ejus religio” in base al quale i sudditi dovevano seguire la religione del

proprio sovrano: un fallimento per Carlo V il cui obbiettivo era stato l’imporre un’unica fede nell’Impero.

Carlo V, 55enne, era assai malato: un ambasciatore veneziano lo descrive con «pochi denti davanti e

completamente marci, la barba corta e ispida… quasi sempre sofferente di emorroidi e di frequenti

attacchi di gotta…». Carlo V decise di abbandonare tutti i poteri e ritirarsi in un convento spagnolo. Nel

corso del 1555-56 cedette in tempi successivi al figlio Filippo i Paesi Bassi, le corone di Spagna, Castiglia,

Sicilia e delle Nuove Indie, la Franca Contea e la corona di Aragona. Infine, cedette la corona imperiale al

fratello Ferdinando al quale andarono anche l’arciducato d’Austria e il regno d’Ungheria e di Boemia.

Prima dell’abdicazione, Carlo V aveva provveduto anche alla reggenza dei Paesi Bassi: la scelta era

caduta su Emanuele Filiberto (6 ottobre 1555).

Carlo V era giunto anche a un trattato di pace con Enrico II, il 5 febb 1556 nell’abbazia di Vaucelles,

presso Cambrai. Con questa pace, che durerà poco, si decise che Impero e Francia avrebbero tenuto per

cinque anni le terre occupate: Enrico II avrebbe tenuto Savoia e Piemonte; come risarcimento Emanuele

Filiberto avrebbe ricevuto un appannaggio annuo in denaro dalla Francia. Il Duca quando apprese ciò,

pianse di dolore e rabbia, per il tradimento di Carlo V; rifiutò il denaro francese e scrisse a Carlo V e

Filippo, dichiarando che sebbene avesse perduto le sue terre al servizio dell’Imperatore e del re di Spagna

e non ne avesse ricevuto una equa ricompensa, il suo animo rimaneva quello di un principe, che avrebbe

patito fino a che Dio non lo avesse liberato da ogni sventura

Terminate gli atti di successione, Carlo V nel settembre 1556 accompagnato dalle sorelle Eleonora e

Maria, partì dal porto di Vlissingen, in Olanda, diretto al monastero di San Jeronimo de Yuste

nell'Estremadura. Uscito dalla scena politica Carlo accentuò il suo carattere ascetico, non disdegnava però

i piaceri della buona tavola, sordo ai consigli dei medici. Continuò ancora ad essere prodigo di consigli sia

alla figlia Giovanna, reggente della Spagna, che al figlio Filippo. Morì il 21 settembre 1558,

probabilmente di malaria, dopo tre settimane di agonia.

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Con l’abdicazione di Carlo V i due rami degli Asburgo si divisero: quello di Spagna continuerà fino al

1700 con la morte di Carlo II; quello d’Austria terminerà nel 1740 con Carlo VI, ma continuerà con gli

Asburgo-Lorena fino al termine della prima guerra mondiale.

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Il 15 dicembre 1555 il Papa ed Enrico II avevano concluso un patto segreto che prevedeva di sottrarre

alla Spagna il regno di Napoli e il ducato di Milano per darli ai figli cadetti del re di Francia e di

estendere, a scapito della Spagna, i possedimenti del Papa.

Temendo una ripresa delle ostilità, Filippo II prese l’iniziativa e il 10 settembre 1556 il duca d’Alba

invase lo Stato Pontificio e ben presto arrivò alle porte di Roma. A questo punto il re di Francia inviò

Francesco di Guisa (nominato luogotenente generale in Italia), col pretesto di venire in aiuto del Papa,

ma in realtà nella speranza di conquistare il regno di Napoli. Questi partì da Parigi e si ricongiunse in

Piemonte con le truppe del Brissac. Il 17 gennaio 1557, con la presa di Valenza sul Po da parte dei

Francesi, la tregua di Vaucelles andò in fumo. Filippo II era furioso per il tradimento francese e si

dichiarò disposto «a consumare tutti i suoi beni e dare il suo sangue per vincerli». Ma, dopo i primi

successi, i Francesi segnarono il passo.

Nella primavera del 1557 l'esercito francese assediò Cuneo. Il governatore della città Carlo Manfredi

Luserna d’Angrogna, aveva rinforzato buona parte delle mura e tratto in inganno il nemico con il

disporre ponteggi e attrezzi sulle mura giù sistemate, in moda da fargli intendere che quella era la parte

ancora da rinforzare. Dopo che i colpi di artiglieria avevano martellato per quasi due mesi la città, che

resisteva facendo combattere anche le donne, il Brissac fu informato che un figlio del governatore, di

pochi mesi, si trovava a balia, a Chiusa Pesio. Brissac fece rapire il bambino e minacciò il governatore

di ucciderlo, se non si fosse arreso. Sia Carlo Luserna Manfredi sia Beatrice di Savoia-Racconigi, la

giovane moglie, reagirono con rabbia e sdegno alla proposta. Secondo alcuni cronisti Beatrice, salì sulle

mura e, si sarebbe alzata le vesti dicendo "fate pure ho ancora le membra per farne altri di figli".

Brissac non diede seguito alla minaccia e proseguì l'assedio senza uccidere il piccolo.

A quasi sette settimane dall'inizio dell'assedio una colonna imperiale del marchese di Pescara arrivò in

soccorso alla città, attaccando i francesi alle spalle; contemporaneamente i pochi difensori fecero una

sortita che mise in rotta l'armata francese. L’eroica resistenza all'assedio valse per Cuneo elevazione al

rango di "città" da parte di Emanuele Filiberto.

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Mentre Enrico II, con ostinazione, voleva concentrare la guerra in Italia, cacciando gli spagnoli, Filippo

II meditava un’offensiva nel Nord della Francia. Invitò Emanuele Filiberto a predisporre un piano

operativo da eseguirsi sulla frontiera della Champagne e della Piccardia con la maggior parte delle

forze imperiali, comandate dal Duca, a cui si sarebbe aggiunto un contingente inglese. Nel maggio

1557 Emanuele Filiberto preparò un piano di battaglia con l’obiettivo di conquistare la piazzaforte di

San Quintino sul fiume Somme, a soli 150 chilometri da Parigi, che sbarrava la strada più veloce verso

la capitale. Le operazioni di guerra sembravano cominciare sotto i migliori auspici anche perché Filippo

II, il 7 giugno, era riuscito nell’intento di ottenere dall’Inghilterra la dichiarazione di guerra contro i

Francesi.

Illuso che le operazioni di guerra sarebbero rimaste circoscritte in Italia dove aveva inviato la maggior

parte delle truppe, Enrico II fu preso alla sprovvista quando venne a sapere dei movimenti imperiali nel

Nord della Francia; incaricò pertanto il maresciallo Anne di Montmorency, conestabile di Francia, di

fare tutto il possibile per fermare le truppe del duca di Savoia. Il conestabile riuscì a radunare una

grossa armata però, non conoscendo i piani di Emanuele Filiberto, divise le sue truppe in due parti: la

prima guidata dall’ammiraglio Coligny, raggiunse i confini dell’Artois, l’altra si diresse nella

Champagne. Il duca di Savoia, che era riuscito a mantenere segreto il suo piano d’azione, ingannò il

Montmorency facendogli credere di assediare la città di Guise, invece nella notte tra l’1 e il 2 di agosto

arrivò davanti a San Quintino con un grosso esercito.

La guarnigione di San Quintino, presumendo che Guise fosse minacciata, era accorsa in suo aiuto.

Quando Emanuele Filiberto la cinse d’assedio nella piazzaforte erano rimasti solo 300 uomini con 15

pezzi d’artiglieria. La città era comunque molto ben protetta da fortificazioni in buono stato: due dei

quattro lati erano inaccessibili. Il lato sud lungo la Somme si ramificava in numerosi bracci e il lato

ovest era circondato da una zona paludosa. Il Coligny era però riuscito a entrare nella piazzaforte con

250 uomini, ancora non completamente attaccata e aveva richiesto aiuto al Montmorency.

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Ma Emanuele Filiberto aveva fatto sbarrare la strada di accesso. Allora il Montmorency si mise in

marcia per San Quintino per soccorrere la piazza ma, saputo dalle avanguardie che il blocco era totale,

decise di dar battaglia al duca di Savoia, nonostante il rapporto di forze fosse sfavorevole ai francesi.

Era il 10 agosto 1557, giorno di San Lorenzo.

Emanuele Filiberto riuscì, con abili movimenti a tenaglia delle sue truppe a piombare inaspettatamente

sull’armata francese del Montmorency e a sconfiggerla in una battaglia in campo aperto. Molti furono i

morti, i feriti e i prigionieri francesi. Tra essi i migliori generali e lo stesso comandante Anne di

Montmorency, che fu ferito ad una gamba da un colpo di pistola e fatto prigioniero. Tutta l’artiglieria

francese era caduta in mano agli imperiali, i più disgraziati furono, come sempre, i soldati feriti e

moribondi che vennero abbandonati al loro triste destino.

Emanuele Filiberto non si era limitato al ruolo di generale in capo, egli stesso si era battuto con grande

coraggio: «così vicino al nemico, combattendo con la spada; il suo braccio destro, la visiera dell’elmo

erano completamente insanguinati», come scrisse un testimone dell’evento. Ma, cosa più importante,

per la prima volta aveva diretto le operazioni da solo e come intendeva lui: le sue qualità tattiche si

rivelarono in maniera decisiva tanto che la battaglia di San Quintino divenne un modello nella storia

militare, la più grande vittoria del secolo, come scrisse qualcuno. Ma il Duca aveva anche compreso

che la vittoria di San Quintino rappresentava il primo passo per la riconquista del suo Ducato. Dal

campo dinanzi alle mura della città, aveva inviato un proclama ai suoi sudditi richiamandoli ad essere

fedeli e a prendere le armi per cacciare l’oppressore francese.

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Intanto il Coligny continuava la sua strenua difesa della piazzaforte di San Quintino con un pugno di

uomini, sperando nell’arrivo di soccorsi francesi che si erano messi in movimento dalla Francia,

mentre Emanuele Filiberto continuava il bombardamento senza posa della piazza.

Alla fine, il 27 agosto, le brecce nelle mura permisero l’assalto finale e la città fu espugnata. Anche

Coligny, quasi irriconoscibile dopo tanti giorni di eroica resistenza, fu fatto prigioniero. L’eroica

resistenza francese aveva ritardato di quasi un mese l’avanzata imperiale verso la capitale, fu dunque la

salvezza per Parigi. La fine dell’assedio ebbe le usuali conseguenze del saccheggio della città. I

vincitori si accanirono sui morti, sventrati nella speranza di trovare monete d’oro; donne, infermi e

vecchi furono massacrati o mutilati orribilmente nella speranza che confessassero dove tenevano il

denaro. Alcuni furono arsi vivi nelle loro case incendiate dai tedeschi, che si rivelarono di una crudeltà

e avidità tremenda, accanendosi sugli abitanti e sottraendo persino il bottino ai soldati spagnoli.

Filippo II fece il suo ingresso nella città saccheggiata tre giorni dopo. Passò in rivista i prigionieri

francesi, le bandiere e i pezzi di artiglieria lasciando a Emanuele Filiberto il compito di disporne.

L’artiglieria fu inviata dal duca di Savoia al forte di Villefranche, gli stendardi furono posti nella

cattedrale di Sainte-Marie de Cimiez (Santa Maria di Cimella) a Nizza (si trovava vicino al Castello e

fu fortemente danneggiata nell’assedio del 1691 e poi definitivamente distrutta insieme al Castello

durante l’assedio francese del 1706).

I prigionieri furono inviati nei Paesi Bassi suddivisi per grado e qualità

Risultato della battaglia fu anche un riavvicinamento tra Filippo II e il papa Paolo IV che si

scambiarono messaggi di amicizia attraverso gli ambasciatori.

Il sovrano, in segno di riconoscenza per la vittoria ottenuta il giorno di San Lorenzo, decise di erigere

un monastero: l’Escorial, la cui pianta a forma di graticola ricorda il martirio del Santo.

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Il duca di Savoia, voleva ora marciare su Parigi, lasciando gli inglesi ad assediare San Quintino. Una

volta entrato nella capitale francese il re di Spagna avrebbe potuto dettare al re di Francia pesanti

condizioni di resa, mettendo fine a 40 anni di conflitto tra Asburgo e Valois. Filippo II si oppose, e

motivò la decisione con la stanchezza dell’esercito, la mancanza di denaro e la defezione di alcune

truppe tedesche; il suo fu un errore tattico che scandalizzò anche Carlo V e sconcertò Emanuele

Filiberto I Francesi si presero una rivincita: nel gennaio 1558 Francesco di Guisa prese Calis e Guines,

le ultime piazzeforti di Francia in mano agli Inglesi da più di 200 anni! Fu una terribile umiliazione per

gli Inglesi. Maria Tudor disse: «Se apriranno il mio cuore, vi troveranno inciso a lettere d’oro il nome

di Calais».

Emanuele Filiberto non aveva più ricevuto denari per il pagamento delle truppe ed era perciò costretto

all’immobilità. I francesi ne approfittarono per prendere Thionville (in Lorena), piazzaforte ritenuta

inespugnabile; poi presero Dunkerque. Emanuele Filiberto esercitava il suo comando in condizioni

difficili perché Filippo II, quando lui era assente dal campo di battaglia, inviava spesso ordini ai suoi

generali, scavalcandolo Si legge nei Diari delle Fiandre: «Scrivo a V.M. perché abbia soltanto la bontà

di rivolgersi a me, affinché io faccia arrivare gli ordini agli altri». Talvolta evitava obbedire a direttive

poco sensate di Filippo, che in campo militare era decisamente incompetente «Non ho ritenuto

opportuno eseguire gli ordini di S.M.» annotò una volta il Duca.

Nonostante tutto il duca riuscì a riportare in quella estate una vittoria strepitosa a Gravelines, il 13

luglio;. L’attacco coordinato via terra e via mare mise in fuga i francesi. Dopo San Quintino era questo

un altro colpo mortale per la Francia, un terzo colpo non sarebbe stato sopportabile. Emanuele Filiberto

sperò che fosse la volta buona per marciare su Parigi, ma anche questa volta Filippo II si oppose.

Il re di Francia cercava ora la pace e anche Filippo II, che si era svenato per tutte le campagne di guerra

condotte, non era contrario a trattative. Le trattative di pace ebbero inizio a fine del 1558 e furono

condotte da Anne Montmorency e dal maresciallo di Saint-André, entrambi prigionieri di Emanuele

Filiberto; Cristina di Danimarca rappresentava Filippo II.

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