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Anno XXI n. 1 Aprile 2012
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  • Anno XXI n. 1Aprile

    2012

  • i diaconi. Credo tuttavia che occorra sempre più favorire mo-menti anche di comune formazione e incontro tra presbiterie diaconi, sia nelle unità pastorali, sia nei distretti e a livellodiocesano, per superare il rischio di una autoreferenzialità.

    Il problema si pone anche nei confronti dei laici, perchépiù facciamo crescere una Chiesa comunione, in cui ognicomponente stabilisce un forte aggancio sia sul piano dellaformazione che della pastorale con le altre, e più favoriremola crescita armonica dell’unità della Chiesa e il superamentodi chiusure anacronistiche che perpetuano una realtà diChiesa a compartimenti stagni. Puntiamo tutti di più e conconvinzione a creare uno stile sinodale, quel “fare la stradainsieme” come in cordata, per cui ci si sente legati per aiu-tarsi a percorrere la stessa via, stretta, come ci ricorda il Si-gnore, ma che conduce alla vera vita, quella dell’amore vi-cendevole.

    Auguri, dunque, ai nostri diaconipermanenti e a tutti coloro che sistanno preparando o che il Signorevorrà ancora chiamare. Dico loro ea tutti di avere fiducia e speranzaperché, se il Signore ha premiato inmodo così esteso la nostra Diocesidonandoci tanti diaconi, ci aiuti amantenere, valorizzare e promuo-vere questo ministero e le vocazioniad esso, con l’apporto sereno, convinto e rico-noscente da parte di tutti i presbiteri e dell’inte-ra comunità diocesana.

    Torino, 1° gennaio 2012Solennità della Divina maternità di Maria Vergine

    Cesare NOSIGLIAArcivescovo di Torino

    Sono lieto di celebrare i quarant’anni dellaistituzione del diaconato permanente nella no-stra Diocesi. È una data significativa che segna ilcammino della Diocesi e coinvolge dunque nonsoltanto la comunità diaconale, ma anche il pre-sbiterio, i religiosi e religiose, i consacrati e i lai-ci. Una festa di riconoscenza al Signore che haguidato i miei predecessori a promuovere sullascia del Concilio questo ministero nella Chiesa eha trovato una ampia accoglienza da parte deilaici e delle loro famiglie. Va dato atto a quanti,con sacrificio e impegno, hanno sostenuto e pro-mosso via via questo cammino e tutt’oggi ne ga-rantiscono lo sviluppo ormai ampio e ricco difrutti positivi per la nostra Chiesa locale.

    Il diaconato permanente si è infatti rivelatofecondo di grazia e di crescita nell’unità e comu-nione ecclesiale, per cui possiamo ben afferma-re che esso rappresenta oggi uno dei pilastriportanti della ministerialità della nostra Chiesae ne sostiene il percorso di evangelizzazione,santificazione e servizio pastorale e missiona-rio. Al di là infatti degli impegni pastorali che idiaconi svolgono con ammirevole dedizione,va evidenziato questo carattere ecclesiale chene qualifica il ministero e offre alla comunitàtutta un supporto di grazia sacramentale cosìstrettamente unita al servizio del vescovo edei presbiteri, come si conviene a un ministe-ro ordinato. I ministeri, infatti, non vannoconsiderati soltanto come fattori di serviziofunzionali al fare, ma come fonti di donoper tutta la Chiesa, e tanto più questo mi-nistero del diaconato che è parte inte-grante del sacramento dell’Ordine.

    Un altro aspetto importante, che si è via via evidenziatoin questi anni circa il diaconato permanente e che dovrà es-sere ulteriormente sviluppato, è lo stretto raccordo traquesto ministero ordinato e quello del vescovo e dunquedella Chiesa particolare. Il che significa che il diacono vieneordinato come collaboratore del vescovo e del presbiteroe risponde a un mandato ecclesiale ampio, non circoscrittodunque esclusivamente alla comunità di provenienza o rife-rito al presbitero che ne ha avviato il cammino e accompa-gnato il percorso in una determinata parrocchia. Il diaconodovrà sempre più rendersi disponibile ad esercitare il suoservizio là dove il vescovo lo manda, per rispondere alleconcrete esigenze della Chiesa locale secondo il noto prin-cipio di Antiochia, per cui Paolo e Barnaba sono inviati dallacomunità di provenienza nel mondo secondo il volere delloSpirito Santo.

    Non è dunque opportuno che ci siano parrocchie o uni-tà pastorali con più diaconi e altre senza alcuno. La caritàpastorale esige che ci si orienti a svolgere un servizio so-prattutto là dove più bisognosa appare la parrocchia o l’u-nità pastorale. Penso soprattutto alla realtà ormai semprepiù diffusa di parrocchie senza il presbitero residente, percui occorre una presenza autorevole e ministeriale qualepuò essere appunto il diacono con un mandato specifico diresponsabilità sulla pastorale della comunità, anche se instretta e convergente sintonia e collaborazione con il par-roco. Il mandato del vescovo può essere utile anche per de-finire bene i compiti del diacono nelle parrocchie, in modoche non si creino né attese oltremisura, ma neanche ridu-zioni del servizio designato.

    Inoltre, lo stesso discorso vale per i servizi diocesani difrontiera nel campo della carità, degli ambienti di lavoro, dimissione nel territorio. E qui si impone un obiettivo di fon-do: quello della formazione appropriata che, se da un latodovrà essere sempre più qualificata sul piano delle scienzeteologiche e culturali e pastorali, dall’altro dovrà anche pre-vedere, magari dopo l’ordinazione, una specializzazione perchi viene scelto per esercitare il diaconato negli ambienti esituazioni missionarie. Chiedo pertanto ai diaconi di aprirsia queste prospettive; a quelli in formazione di accoglierel’impegno dello studio con generosità, come stanno facen-do anche se costa sacrificio. Sono certo che i loro sforziporteranno frutti abbondanti per la loro crescita cristiana eil loro futuro ministero.

    La comunità diaconale nelle sue varie fasce, da quella de-gli aspiranti a quella degli ordinati, rappresenta una realtà im-portante per dare solidità di comunione, amicizia e intesa tra

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    Quarant’anni! È il tempo della maturità, delle re-sponsabilità e anche dei primi bilanci. Il diaconato per-manente a Torino vive questa stagione della vita. La sua èuna storia che affonda le radici più recenti nel ConcilioVaticano II, che l’ha riportato alla luce, ritornando alleorigini, alle sorgenti della Chiesa. Per Torino non è piùuna novità, eppure è ancora da riscoprire come dono diDio alla sua Chiesa, un dono talmente grande e delicatoda essere sostenuto e arricchito dalla grazia del Sacra-mento. Il diaconato a Torino, assieme ad altre Diocesi, hafatto un po’ da apripista a tante Diocesi che hanno guar-dato alla nostra esperienza con interesse e come riferi-mento.

    Forse il primo dono, è bene dirlo, l’ha ricevuto la fa-miglia stessa del diacono. La quasi totalità dei nostri dia-coni vive la vocazione matrimoniale. È su questa vocazio-ne, e non a lato o in concorrenza, che si innesta la voca-zione diaconale. Il diaconato, se vissuto fedelmente, hauna ricaduta positiva anzitutto sul cammino cristiano deldiacono e della sua famiglia. Per questo, in questi anni, inostri formatori hanno dedicato una particolare atten-zione anche al coinvolgimento e alla formazione dellespose e dei figli dei diaconi.

    Se, dopo 40 anni, guardiamo alla presenza dei diaconinelle nostre comunità, non possiamo dire che siano giàstati pienamente riconosciuti e valorizzati. Con la forma-zione dei diaconi occorrerà contemporaneamente cura-

    re meglio la conoscenza e il senso della presenza dia-conale nei sacerdoti e nelle comunità stesse. E tutta-via, di anno in anno, in Diocesi è cresciuta la loro va-lorizzazione, non soltanto nelle comunità parrocchia-li, ma anche nelle strutture ospedaliere assistenziali,nel servizio Caritas, nei vari uffici pastorali della Dio-cesi, nei servizi religiosi cimiteriali, nelle varie “com-missioni” e “fondazioni” che costellano la vita di unaDiocesi.

    È certo che senza la loro presenza, umile e discre-ta, la vitalità della nostra Diocesi sarebbe più debole.Ma è altrettanto certo che nella Chiesa del futuro (egià del presente!) la loro presenza e la loro “diaco-nia” darà un contributo grande a una Chiesa chia-mata ad annunciare il Signore, a celebrare il Signore,a servire il Signore nei poveri e nei sofferenti.

    Il mio augurio è che, grazie alla loro “diaconia”,al loro servizio, in tutta la Chiesa lieviti la dimen-sione del servizio umile, generoso, gratuito a imi-tazione di Gesù “venuto per servire e non peressere servito”.

    Guido FIANDINOVescovo Ausiliare di Torino

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    Un anniversario di riconoscenzae di speranza

    Senza la presenza diaconalela vitalità della Diocesisarebbe più debole

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    Che sia stato il cardinale Pellegri-no a introdurre, tra i primi in Italia,il diaconato permanente, non è ca-suale: eletto arcivescovo di Torinonel settembre 1965, padre Pellegri-no si era proposto come programmaepiscopale l’attuazione del Conci-lio, che contemplava anche il ripri-

    stino del diaconato permanente. Infatti, l’arcivescovo Michele Pellegrino, ricevutol’assenso del Consiglio Presbiterale Diocesano giàil 18 gennaio 1971, aveva costituito un comitatocon l’incarico di preparare il programma e avviareil cammino diaconale, appena ricevuto l’“ok” del-la CEI. Finalmente, sulla «Rivista Diocesana Tori-nese» del marzo 1972, don Giovanni Pignata, Vica-rio episcopale per la formazione permanente delclero, informava che l’arcivescovo, secondo gliorientamenti CEI e nello spirito della sua recentelettera pastorale Camminare insieme, aveva decisodi introdurre in diocesi il cammino di formazioneal diaconato permanente «sia pure in forme prov-visorie e sperimentali sotto la guida di un appositoComitato di sacerdoti e di laici». Precisava: «La preparazione spirituale sarà per ora particolar-mente seguita da don Vincenzo Chiarle, parroco di

    Vallo Torinese, con incontri periodici a piccoli grup-pi. La preparazione biblico-teologica sarà curata dapadre Eugenio Costa S.I. e da don Luigi Losacco spe-cialmente in brevi corsi intensivi. Il primo, che è inpreparazione, si terrà a Villa Lascaris [a Pianezza,Torino - ndr] dal 10 al 14 maggio p.v. La prepara-zione pastorale (alla quale il documento [CEI - ndr]dà particolare importanza) sarà seguita dai parrocidei candidati e dal sottoscritto che ha il compito dicoordinare la promozione del Diaconato perma-nente nella Chiesa Torinese». Seguiva un “caldo in-vito” ai sacerdoti e ai laici a segnalare all’Ufficio delPiano pastorale i soggetti ritenuti idonei.Si trattava di inventare, letteralmente, un cammi-no di formazione dando una concreta identità mi-nisteriale ai diaconi permanenti. Le adesioni furo-no molte. I luoghi di formazione furono soprattut-to Villa Lascaris a Pianezza e il Santuario di Sant’I-gnazio in val di Lanzo, in estate. Nell’autunno del1975 furono ordinati dal cardinale Pellegrino i pri-mi diaconi permanenti: nell’ordine, Angelo Am-brosio, Aldo Diani, Giuseppe Gasca, Mario Man-cini, Luigi Luppi, Enzo Olivero e Gianni Barra;poi, il 10 gennaio 1976, Giuseppe Ferrero. Da allo-ra, ogni anno si sono avute ordinazioni, con la so-la eccezione del 2004.

    Il successore, il carmelitano Anastasio A. Ballestre-ro, che aveva partecipato al Vaticano II come perito epoi come padre conciliare, riguardo al diaconato con-tinuò la linea del predecessore: lo accolse, lo stimò elo promosse, dando direttive e conferendo una strut-tura abbastanza precisa al cammino di formazione. Infatti, dopo le direttive ad experimentum del gen-

    naio 1979, tenendo con-to delle norme del nuovoCodice di Diritto Cano-nico, promulgato nel1983, il 13 maggio 1987emanò le Direttive per lascelta, la formazione el’attività dei diaconi per-manenti. Si esigeva che ilmatrimonio dei candida-ti sposati durasse almeno

    da cinque anni; si confermavano i 35anni come età minima per l’ordinazionee si stabilivano i 55 anni come età mas-sima per iniziare il cammino; si introdu-ceva un anno propedeutico al trienniodi formazione specifica; si stabiliva unpreciso programma di studi, per i qualiera «richiesta la preparazione culturaleequipollente alla scuola media superiore». Per la for-mazione permanente si prevedevano due corsi an-nuali di aggiornamento teologico e pastorale. La for-mazione era demandata a un delegato del vescovo,coadiuvato da altri «due sacerdoti collaboratori, no-minati dal vescovo». La frequente presenza paternadel cardinale Ballestrero tra gli aspiranti e i diaconiera la prova più eloquente che gli stavano davvero acuore i diaconi (che si trovavano a loro agio con lui)e la loro formazione.

    Giovanni Saldarini, un biblista che giungeva daMilano, dove il diaconato era stato appena introdot-to, disse subito con franchezza che non capiva moltola validità del diaconato permanente. Tuttavia presesul serio la ormai consistente realtà diaconale tori-nese ricevuta dai predecessori: non la affossò e nep-pure la ingessò, ma le impresse uno scossone rinno-vatore, che, pur provocando un certo disorienta-mento, risultò benefico per il futuro del diaconato.Resosi conto della situazione, dopo un certo tempodi riflessione, di decantazione, di discernimento e diselezione (anche dolorosa) dei candidati, l’arcive-scovo volle conferire una organizzazione organica eprecisa alla formazione al diaconato, dimostrando divoler bene al diaconato non a parole, ma con i fatti;con due provvedimenti in particolare: cambiamento(nella continuità) di formatori e un preciso program-ma di formazione, durato nella sua impostazione di

    base fino a oggi.Don Pignata, renden-dosi conto che pro-grammi nuovi esige-vano uomini nuovi,avendo compiuto il22 settembre 1990 ifatidici 75 anni di età,

    il 4 ottobre rassegnò le dimissionida Delegato, che vennero accet-tate. Si comportò con dignità esereno spirito di obbedienza, purcon indubbia sofferenza, sia per-ché il diaconato torinese era unpo’ una sua creatura, sia perchéVilla Lascaris, culla e casa deldiaconato, lasciò il posto a ValloTorinese per la formazione permanente e alla dia-spora per il cammino degli aspiranti. Poi, il 13 no-vembre don Pignata fu creato monsignore.A succedergli come Delegato arcivescovile per ilDiaconato permanente, il 9 ottobre 1990 fu no-minato don Domenico Cavallo. Il 15 ottobre ven-ne approvata la Commissione dei formatori cosìcostituita: don Cavallo (Delegato); don Chiarle(responsabile della formazione), don Carlo Collo(responsabile per gli studi), don Rino Maitan(economo), diac. Adalberto Pozzi (segretario),diac. Gilberto Bonansea e diac. Gianfranco Gi-rola (coordinatori per gli studi).Per integrazione e per parziale modifica delle Di-rettive del 1987, il 10 agosto 1991 vennero pro-mulgate le Direttive per la scelta, la formazione el’attività dei diaconi permanenti nell’arcidioce-

    MICHELE PELLEGRINO

    1972-1977

    GIOVANNI SALDARINI

    ANASTASIO A. BALLESTRERO

    La storia del diaconato torineseattraverso i periodi di episcopato di questo quarantennio

    Il

    1989-1999

    1977-1989

    cammino ormai quarantennale del diaconatoa Torino è stato scandito da cinque episcopati.Non si tratta soltanto di una questione di fatto,ma di diritto, dato il rapporto particolare chel’ordinazione diaconale stabilisce tra il vescovo eil diacono, tra il vescovo e la comunità diacona-le, per la quale il vescovo è il punto di riferimen-to ecclesiale.All’origine del ripristino del diaconato perma-nente nella Chiesa sta il Vaticano II, che con laLumen gentium, costituzione dogmatica sullaChiesa, del 21 novembre 1964, aveva stabilito: “Il

    Diaconato potrà in futuro essere restituito come pro-

    prio e permanente grado della gerarchia (…) Spette-

    rà poi ai competenti ceti Episcopali territoriali decide-

    re (…) se e dove sia opportuno che tali Diaconi siano

    istituiti per la cura d’anime”. Infatti, dopo i neces-sari decreti attuativi di Paolo VI (dal 1967 al1972), l’8 dicembre 1971 la Conferenza Episco-pale Italiana (CEI) autorizzava i singoli vescovi aprocedere, a loro discrezione, all’introduzione deldiaconato nelle loro diocesi, indicando concretiorientamenti formativi.

    Mons. Giovanni Pignata, Delegato arcivescovile per il Diaconato sino al 1990.

  • si di Torino. La novità maggiore riguardava ilcammino di formazione al diaconato: con l’intro-duzione di un nuovo anno, diventava quinquen-nale, articolato in un biennio propedeutico e in untriennio teologico. Il piano di studi veniva ulterior-mente arricchito e specificato. Inoltre, per gli studiera «richiesto il diploma di media superiore o unapreparazione culturale equipollente».Si introdusse anche una calendarizzazione dei varipassi liturgici verso il diaconato: l’Ammissione tra icandidati era concessa al termine del secondo annopropedeutico; il Lettorato e l’Accolitato erano con-

    feriti rispettivamente nel secondo e terzo anno teolo-gico; il Diaconato dopo il quinto anno. Si introdusseanche la prassi di compiere tale cammino in dateprogrammate, insieme ai seminaristi, in cattedrale.Un fatto rilevante il crescente ruolo formativo deidue diaconi coordinatori, uno del biennio e uno deltriennio.Il 22 settembre 1998, poi, da parte di monsignor PierGiorgio Micchiardi, Vescovo ausiliare, si stabilì la di-stinzione dei ruoli formativi: a don Cavallo era affida-ta la formazione degli aspiranti e a don Chiarle la for-mazione permanente, con percorsi autonomi.

    Da quanto esposto, emerge che la cartina di tornasole dell’approccio del singo-lo arcivescovo al diaconato è soprattutto l’impostazione del cammino di forma-zione degli aspiranti, in un trend di graduale e chiaro perfezionamento.Nel passato quarantennio, gli aspiranti hanno avuto una scuola teologica auto-noma, che ha registrato un continuo sviluppo, passando da tre a quattro e a cin-que anni, con un corso di studi sempre più impegnativo. Il nuovo arcivescovo, de-siderando diaconi sempre più qualificati anche sotto il profilo teologico, ha stabi-lito che a partire dall’anno accademico 2012-2013, il corso teologico sia affidatoall’Istituto Superiore di Scienze Religiose (con sede in via XX Settembre 83, To-rino), “spalmando” i primi tre anni di studio in cinque (un biennio filosofico e un triennio teologico), al terminedei quali si può conseguire la Laurea breve in Teologia, previa tesi. Il diaconato sarà conferito dopo un sesto an-no, in cui si concludono gli studi e si perfeziona la preparazione pastorale, come il corso sulla predicazione e altro.

    In conclusione, alcuni dati sulla realtà diaconale in diocesi, più eloquenti di ogniparola: dal 1975 al 2011 gli arcivescovi di Torino hanno ordinato 179 diaconi, di cui133 attualmente in servizio in diocesi. La loro è ormai una presenza pastorale ca-pillare: collaboratori parrocchiali in oltre cento parrocchie, responsabili di parroc-chie e succursali, assistenti religiosi in ospedali, case di riposo e di cura, formatoridegli aspiranti diaconi, addetti agli uffici della Curia, economi dei seminari e del-l’ISSR, addetti o responsabili della Caritas a vari livelli (da quella diocesana allaparrocchiale), di Conferenze di San Vincenzo, direttori di mense dei poveri, inservizio nei cimiteri di Torino, autisti degli arcivescovi… E quasi tutto in totalegratuità!

    don Giuseppe TUNINETTIDelegato arcivescovile per il Diaconato permanente

    L’introduzione deL diaconatopermanente a torino

    Come previsto dal Concilio (LG 29; AG 16),il diaconato permanente è stato costituitoquale grado della gerarchia, conferito a uominidi matura età, anche viventi nel matrimonio, epure a giovani idonei, vincolati alla legge delcelibato.

    Il cardinale Michele Pellegrino fu tra i primivescovi italiani a voler dare attuazione nell’arci-diocesi di Torino al diaconato permanente, nel-la convinzione che tale iniziativa poteva appor-tare un provvidenziale contributo di testimo-nianza cristiana e di servizio pastorale. La pro-posta, accolta con favore dai Consigli diocesanipastorale e presbiterale, suscitò nell’opinionepubblica pareri discordanti, ma prevalentemen-te favorevoli.

    Ben presto venne costituito un gruppo di la-voro per determinare le modalità di attuazio-ne. Si prese contatto con esponenti di altrediocesi (Reggio Emilia e Napoli) per confronta-re i pareri sui vari quesiti da approfondire. Ci siinterrogava: l’opinione pubblica accetterà facil-mente il ministero svolto da diaconi coniugati?Essi avranno tempo da riservare al servizio pa-storale, occupati come sono nel proprio lavoroprofessionale? L’impegno pastorale gioverà allafamiglia del diacono, oppure sorgeranno ten-sioni tra i coniugi, o anche il malcontento dei fi-gli? Per il ministero della predicazione il diaco-no disporrà della necessaria autorevolezza? Eancora: i nuovi compiti del diacono si integre-ranno serenamente con l’attività del rispettivoparroco? Sarà l’esperienza a suggerire le moda-lità da adottare per prevenire o risolvere posi-tivamente tali interrogativi.

    Intanto il gruppo di lavoro per lapromozione del diaconato si occupa-va di varie questioni: i requisiti dachiedere ai candidati; i limiti di età; lapresentazione dei richiedenti da partedei rispettivi parroci; l’idoneità valutata daun’apposita commissione; il programma di teo-logia; gli incontri di spiritualità (ritiri mensili,esercizi annuali); la designazione dei docenti e ladeterminazione della sede per le lezioni e le ri-unioni di formazione; la nomina di un sacerdoteresponsabile, sia durante il corso di preparazio-ne, sia per l’animazione dei diaconi ordinati.

    Fin dall’inizio si creò tra i candidati e le ri-spettive mogli un clima di cordialità, di armoniae collaborazione fraterna. Insieme all’atmosferadi fiducia e di ottimismo, si rendeva spontaneolo scambio delle rispettive esperienze e la gene-rosità degli aiuti vicendevoli, pur in presenza dinotevoli dislivelli di età. Particolarmente ammi-revole fu la disponibilità dei diaconi all’animazio-ne della carità e alla prestazione di servizi umilia favore di sacerdoti e di persone in difficoltà.

    La storia del diaconato permanente nella no-stra arcidiocesi, durante l’episcopato dei cardi-nali Ballestrero, Saldarini e Poletto, si sviluppòattraverso varie vicende, prove e difficoltà. Ma lacontinuità del diaconato e la progressiva acco-glienza da parte dei sacerdoti e dei laici, spiega ilfelice incremento delle vocazioni. Iddio ha pre-miato la fiducia e la perseveranza dei diaconi, in-sieme all’illuminata guida dei sacerdoti prepostialla loro guida e formazione.

    Livio MARITANOgià Vescovo ausiliare del card. Michele Pellegrino

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    SEVERINO POLETTO

    Mons. Livio Maritano ha predicato gli esercizi spiritualinell’agosto 2001 al Santuario di S. Ignazio, in Val di Lanzo.

    Circa i suoi rapporti con il diaconato spiccano tre provvedimenti. Il primo: approvazione epromulgazione, in data 10 agosto 2004, del Regolamento Diocesano per le questioni economicheriguardanti i diaconi permanenti dell’arcidiocesi di Torino. Il secondo: il ritorno, il 1° settembre2005, all’abbinamento della formazione degli aspiranti con quella permanente, nella personadi don Giuseppe Tuninetti, nuovo delegato arcivescovile, chiamato a succedere a don Chiar-le e a don Cavallo, che lasciarono l’incarico rispettivamente dopo 33 e 15 anni di servizio aldiaconato. Il terzo (last, but not least): dal 2006, l’incarico a don Michele Olivero di padre spi-rituale e di confessore, nel cammino formativo degli aspiranti.

    1999 - 2010

    CESARE NOSIGLIA

    Dal 2010

  • Verso la fine del 1971, l’allora parroco di Santa Te-resina, Don Giuseppe Bruno, invitò alcuni uomini aun incontro sul diaconato. Ne avevo sentito parlare,ero interessato e ci andai. C’erano due cose che inquel momento ancora non sapevo: primo, che quel-l’incontro era parte di un ‘tour promozionale’ perfar conoscere il diaconato e stimolare interesse neipotenziali candidati; secondo, e più importante: che ilCard. Pellegrino, di ritorno dal Concilio, aveva decisodi partire. Ne aveva parlato in Consiglio Presbitera-le, e Don Pignata gli aveva scritto che secondo lui lariattivazione del diaconato sarebbe stata una cosabella e benefica per la Chiesa. La risposta di Pellegri-no fu… l’incarico di occuparsene.

    Comincia da qui la testimonianza di Angelo Am-brosio, il primo diacono permanente ordinatonella Diocesi di Torino. Nel suo ricordo, la figuradi Don Pignata si definisce con tre parole: delica-tezza, allegria, entusiasmo.

    “Una delicatezza immensa nel parlare con noi,che non era mai reticenza nel dire le cose, maun atteggiamento che ci aiutava a salire a bordodi un’esperienza completamente nuova. Ovvia-mente lui sapeva molte più cose di noi, ma cele trasmetteva in modo che le sentivamo su-bito come un patrimonio condiviso. Poi tra-spariva da lui una grande allegria per l’incari-

    co che aveva ricevuto, e che esercitava con entusiasmo: mai ci èparso che per lui fosse un impegno pesante”.

    Quale fu la prima impressione all’inizio del cammino?

    Negli incontri di presentazione nelle parrocchie era statachiesta la disponibilità ad approfondire. Noi che l’avevamo datafummo invitati a un incontro a Villa Lascaris di Pianezza, dovearrivammo con una lettera di presentazione dei parroci. Erava-mo tutti un po’ spaesati, io ero tra i più giovani con i miei 38 an-ni. Don Pignata chiese di scegliere una preghiera d’inizio, pro-posi il Padre Nostro. Poi ci descrisse l’impianto della scuola, chesarebbe partita in ottobre del ‘72, durata tre anni, incontri il sa-bato, con cena insieme per fare comunità. Mi sembrò ben pen-sato e strutturato, i temi erano precisi dall’inizio, insomma, ca-pii che si faceva sul serio, anche se naturalmente il percorso sisarebbe mano a mano costruito e ‘inventato’. Quando insiemea Mario Mancini con Don Pignata conoscemmo Don AlbertoAltana, il vero e proprio precursore del diaconato in Italia, cirendemmo conto che l’influsso del suo pensiero era forte.

    Quale clima si respirava nella prima scuola sotto la guida di Don Pignata?

    Un clima di comunione, voluta e cercata prima di ogni altracosa. D’altra parte, anche sotto questo profilo penso che lascelta di affidare l’incarico a Don Pignata sia stata una felice in-tuizione del Card. Pellegrino. Proprio lui, sedendosi con noi nelgiardino di Villa Lascaris, ci diceva: “Sino a che non sarete unacomunità, io non farò ordinazioni.” E a guidare il percorso ave-va scelto proprio un grande esperto di vita di comunità. Inoltre,Pignata era stato prete operaio, ed era quindi in grande sinto-nia con la nostra situazione di persone che lavoravano e aveva-no famiglia: era per lui come ritrovarsi coi colleghi di lavoro econ le loro famiglie.

    Come attuava il suo ruolo?

    Per tutti noi era il responsabile del nostro cammino, certo,ma anche e soprattutto una persona che viveva questo ruoloin modo amicale. La stessa responsabilità di verifica la esercita-va ponendosi egli stesso in atteggiamento di verifica: verificavala sua vita con noi in un cammino di comunità. La sua parola-chiave per autodefinirsi era “collaboratore”: si sentiva collabo-ratore del Vescovo e collaboratore nostro nel percorso versoil diaconato.

    Un tuo ricordo particolare…

    Luglio 1975. Siamo a S. Ignazio per gli esercizi e io vedo usci-re dall’ufficio di Don Pignata… il mio parroco! Facendomi vio-lenza, non chiedo nulla. Passa un mese, in agosto andiamo conDon Pignata a Gallarate per un convegno interregionale e inuna pausa lui mi dice: ‘Cominciamo con te a ottobre’. Rimasibloccato. Perché io per primo? Il mio parroco aveva chiesto chel’ordinazione – allora si tenevano nelle parrocchie – avvenissein occasione della festa patronale di S. Teresina, il 5 ottobre1975, lo stesso giorno in cui, nel 1958, il Vescovo di allora avevabenedetto la prima pietra della chiesa. Prima pietra, primo dia-cono: è una coincidenza che mi ha sempre commosso.

    Il clima di comunione coinvolgeva anche le spose?

    Certo. Se noi eravamo partiti molto spaesati, tanto più lo era-no le nostre spose. Da quell’incontro in parrocchia in cui sentiiparlare di diaconato a Torino io ero tornato saltando e ballan-do. Con entusiasmo ne parlai a Renza e le dissi che avevo la-sciato scritto il nome per saperne di più. Eravamo in attesa delquarto figlio, la nostra Elena, e mia moglie disse: ‘Ma fai già tan-te cose in parrocchia…’. Risposi che lo sentivo come una voca-zione, e lei: ‘Se è il Signore che chiama…’. Ma naturalmente sor-gevano in lei e nelle altre spose tante domande e anche unacomprensibile inquietudine. E sempre Don Pignata sapeva ac-cogliere e incoraggiare. Anche in questa attenzione alle nostrefamiglie vedevo e vedo una sua sintonia profonda con Pellegri-no. Un mese prima dell’ordinazione, il Cardinale ci convocò conle famiglie e accogliendoci disse: ‘Ci voleva il diaconato per sen-tire la voce dei bambini sulle scale dell’arcivescovado!’.

    Ed eccoci al fatidico 5 ottobre 1975...

    Ecco, guarda questa immaginetta di Santa Teresina, leggi la de-dica che mi ha scritto il parroco: ‘5 ottobre 1975, ore 18,30. AdAngelo Ambrosio, Diacono della Chiesa di Cristo. Con tanto af-fetto, Don Giuseppe Bruno’. Vedi? ‘di Cristo’ è sottolineato.Eravamo diaconi per tutta la Chiesa. E la sera, a cena, ne venneuna prima conferma da Don Vincenzo Chiarle, che presto ave-va affiancato Don Pignata. Mi prese sottobraccio, mi portò da-vanti al parroco e gli disse: ‘Ora per un po’ di tempo lo lasci ame, perché dobbiamo andare in giro’. Intendeva quegli incontri

    promozionali nelle parrocchie, cheerano stati ‘galeotti’ anche per me.

    Cosa vi chiedevano negli incontri?

    A volte andavamo insieme, Renza eio. La domanda più frequente era: checosa fa un diacono? Quali competen-ze deve avere, quali prerogative gli dàil ministero? E alla sposa, immancabil-mente, chiedevano se io trascuravo lafamiglia e se e quale ruolo avesse la moglie.

    Te lo chiedo anch’io: che cosa hai fatto all’ini-zio come diacono?

    Rispondo anzitutto che il fare era l’ultima dellepreoccupazioni sia nell’insegnamento che riceveva-mo, sia nella nostra auto-percezione. Il primo impe-gno era… quello di cui c’era bisogno. Per me sonostati i battesimi. Ma l’essenziale era altro... Ed è unacosa che riguarda l’essere, non il fare. È molto belloconstatare che oggi, quarant’anni dopo, ai candidativengono dette queste stesse cose: non è un cliché, èla natura stessa del diaconato.

    diac. Giorgio AGAGLIATI

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    don pignata:deLicatezza

    aLLegriaentusiasmo

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    Da sinistra: il diacono Giuseppe Gasca, il card. Michele Pellegrino e i diaconi Mario Mancini ed Angelo Ambrosio.

    Alcuni diaconi con mons. Pignata, in occasione dei suoi 80 anni.

    Diaconi torinesi con le loro spose, in Piazza San Pietro, in occasione del Giubileo dei diaconi permanenti, nei giorni 18-20 febbraio 2000.

    Settimana di convivenza diaconale, a Pré St. Didier (Aosta), nell’agosto 2002.

  • si, esprimeva “il compiacimento per l’espe-rienza di impegno ecclesiale di particolareintensità ritrovato nell’ambito dei diaconi.Compiacimento e ammirazione anche perla loro testimonianza di unità e di comu-nione offerta alla Chiesa e a noi Vescovi” eauspicava che in questa direzione sempresi fosse camminato. “Esperienza dunquemolto positiva - ebbe ad affermare - che ri-chiedeva però un impegno a riscoprire me-glio la sostanza del diaconato, la sua iden-tità rispetto ad altri ministeri per poter in-terpretare più profondamente la sua ri-spondenza ai bisogni di oggi”.

    Nelle indicazioni date alla fine deglianni ’90 dal Magistero ecclesiastico tro-viamo una fiduciosa prospettiva di spe-ranza per questo dono, sorto non in ruolosuppletivo per la mancanza di preti, macome grazia essenziale per la comunità ec-clesiale in missione oggi nella storia.

    Incoraggianti furono le parole del San-to Padre Giovanni Paolo II in occasionedel Giubileo dei Diaconi, sia nell’udienzadel 19 febbraio, sia nell’Angelus del 20febbraio 2000. Il Papa ha voluto “sottoli-neare l’importanza del ruolo che vi è pro-prio. Siate attivi apostoli della nuovaevangelizzazione che ha bisogno del vo-stro apporto fatto di coerenza e dedizione,di coraggio e generosità… Portate tutti aCristo! Nella vostra famiglia, nel vostroambiente di lavoro, nella parrocchia, nel-la diocesi, nel mondo inte-ro… Non arrestatevi da-vanti a nulla anche se sot-toposti al “martirio” del-l’incomprensione. Il vostroservizio della carità, comecoerente conseguenza delmistero eucaristico vi portia vincere l’affaticamento,la frustrazione e l’incom-prensione di molti. Viven-do pienamente la Commu-

    Vallo Torinese, novembre 2005: mons. Vincenzo Chiarle con alcuni diaconi e spose, nel 20° anniversario della loro ordinazione.

    o ancora ben presentequando il cardinale

    Michele Pellegrino mi con-vocò a Villa Lascaris di Pia-nezza, nella primavera del1972, e là, seduti sotto ilgrande faggio, mi disse:“Paolo VI ha dato autorizza-zione ai vescovi che lo vo-gliono di introdurre nelle lororispettive diocesi il diaconatopermanente. Io vorrei fare su-bito questo dono alla chiesadi Torino, ma a una condizio-ne: che vengano formati noncome noi sacerdoti in modoindividualistico, ma con unospirito più aperto, di servizio(il diacono è “servo”), di co-munione. Ho pensato di met-tere te, accanto a don Giovan-ni Pignata, perché tu hai unaspiritualità comunitaria”.

    Quest’anno il diaconato aTorino compie 40 anni: nel1975 le prime ordinazioni.Ringrazio Dio per averlo su-scitato, attraverso appunto lasapiente intuizione del cardi-nal Pellegrino. “I diaconi - midisse ancora - devono essereesempio di comunione. È illoro specifico, il vero servi-zio! Siano specialisti nell’es-sere “servi”, diversamentenon potrebbero dare questatestimonianza così preziosanella Chiesa. Infatti, lorohanno la capacità di essereuomini esperti di comunio-ne perché la devono viverein famiglia, con i compa-gni di lavoro, con i supe-riori e nella Chiesa, spe-cie con i parroci (che for-se è il “banco” più diffi-cile!). Devono essereesempio di servizio e dicomunione. È questa

    la preziosa testimonianza che debbonodare nella Chiesa”.

    A gloria di Dio, alla luce dell’esperien-za fatta nei trentatré anni in cui sono rima-sto corresponsabile del diaconato in Dio-cesi, mi sento di poter affermare che, al dilà di alcune carenze e difficoltà – del restoinevitabili – il bilancio è di gran lunga posi-tivo e la vita del diaconato, se vissuta nellafedeltà e nell’impegno, si sta rivelando perla comunità ecclesiale una presenza viva diapostolato e di testimonianza adeguata alleesigenze dei tempi. Per l’individuo stesso,una via di santità. Ce lo testimoniano iprofili di alcuni di loro, ormai partiti per ilcielo, che le loro comunità e i loro parrocici hanno lasciato e che conservo nel mioarchivio come tesoro prezioso.

    In passato, ho avuto modo di contatta-re varie realtà diaconali sparse in Italia, dalNord al Sud. Conservo, ad esempio, un ri-cordo particolarmente vivo di quando nel1991, invitato dal Patriarca di VeneziaMarco Cé e da don Cleto Bedin di Treviso,sono stato a Mestre per presentare ai Ve-scovi del Triveneto gli “Orientamenti for-mativi per il diaconato” emanati dallaConferenza Episcopale. Ebbene, a contat-to con realtà molto diverse (così come in

    Romagna o in Sicilia, ma anche nei variincontri all’estero: in Spagna, in Belgio,Portogallo, Svizzera, Germania, ecc.) misono fatto questa convinzione: per orien-tare positivamente una realtà così nuovanella Chiesa del post-Concilio, sarebbestato opportuno che come viene fatto peri seminari, istituzione pluricentenaria, unVisitatore incaricato dalla CEI, avesse se-guito le varie evoluzioni diocesane del na-scente diaconato italiano. Non sempre, amio avviso, il carisma del diaconato è sta-to sufficientemente compreso e forse ade-guatamente vissuto ed interpretato.

    Fin dall’inizio ho cercato di aiutare gliaspiranti diaconi e poi i diaconi a vivereuna vita evangelica orientata dalla Parolavissuta, nell’impegno di vivere concreta-mente la fraternità diaconale, non soltan-to nel dare importanza agli incontri stabi-liti per la formazione permanente e a pe-riodi di prolungata convivenza con i con-fratelli e con le loro famiglie, da attuarsispecialmente durante le ferie, ma anchelasciandosi ispirare dall’esempio della co-munità primitiva in cui vigeva la comu-nione dei beni. Il Card. Ballestrero piùvolte mi disse: “Nella tua comunità par-rocchiale hai un confronto e uno stimoloalla vita evangelica da proporre ai diaco-ni. Se una cinquantina di famiglie vivemensilmente la comunione dei beni, co-me non aiutare e pretendere dalle fami-glie dei diaconi un certo stile di condivi-sione e una simile testimonianza di pover-tà?”. Si era così formata la cassa comunediaconale con la quale si veniva incontroalle eventuali necessità economiche deiconfratelli, specie per quanto riguardavale spese di partecipazione agli incontri diformazione permanente, e si finanziavanole attività organizzate e le opere sostenutein comune dai diaconi stessi.

    Mi sono rimaste impresse alcune sot-tolineature che l’allora nostro Vescovo au-siliare mons. Livio Maritano, poi Vescovodi Acqui – grande sostenitore e amico deidiaconi – portando il saluto del cardinalPellegrino che stava per lasciare la Dioce-

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    Ricordi e riflessionidal 1972 al 2005

    Da sinistra: mons. Vincenzo Chiarle, il card. Giovanni Saldarini e mons. Giovanni Pignata.

    nio Ecclesiale e la fra-ternità diaconale nel-la vostra diocesi, Ge-sù vi ristorerà: nonperdetevi di corag-gio!”

    Nel luglio del2003, il Dicastero Ro-mano, presieduto dal-l’allora Cardinale Jo-seph Ratzinger, aveva

    emanato il documento della Commissio-ne Teologica Internazionale su “Il diaco-nato: evoluzione e prospettive”. Dopoaverlo presentato a nostri diaconi, scrive-vo: “L’esauriente excursus storico sul dia-conato, le posizioni maturate dal Concilioe le prospettive riguardanti aspetti ancorabisognosi di una ulteriore chiarificazionesono stati per tutti un impegno a vivere illoro “essere”, più del “fare”, e a testimo-niare questo dono dello Spirito per unaChiesa-comunione serva della missione.Sono convinto che anche l’aspetto trini-tario, all’interno del sacramento dell’ordi-ne, espresso in modo così significativo daS. Ignazio di Antiochia, se diventa vitanella Chiesa potrà portare tanti frutti diuna migliore ricomprensione del ministe-ro apostolico”.

    Per 33 anni sono stato incaricato indiocesi della formazione spirituale dei dia-coni e per quasi vent’anni accanto a mons.Giovanni Pignata, deceduto nel 2002, chefu il nostro primo Delegato arcivescovileper il diaconato torinese. Egli così scrivevanel suo testamento: “Ringrazio il Signoreanche per avermi chiamato ad interessarmiin diocesi e fuori diocesi del Diaconatopermanente, che è stato per me una grandesorgente di consolazione nel vedere la fedee la disponibilità dei nostri diaconi e il granbene da essi operato. Auguro di cuore atutti loro che siano sempre più apprezzati

    e valorizzati eche continuino aservire la Chiesacon l’umiltà e ilfervore che li hadistinti fin dall’i-nizio”.

    In quegli anniavevo ripresen-tato ai nostri dia-coni una sua magistrale con-ferenza dal titolo “Una stranacoppia”, dove mons. Pignatametteva in risalto anche ilruolo della moglie del diaconoaccanto al marito, ministro or-dinato, illustrando l’arricchi-mento e la responsabilità dicoloro che aggiungono alla gra-zia del matrimonio la grazia delsacramento dell’Ordine.

    A 40 anni dall’inizio diquesta vocazione nella Chiesa,auguro a tutti voi diaconi chequesto “far memoria” dia unaspinta nuova al nostro diaco-nato italiano perché, come siaugurava mons. Pignata, “ilMinistero dei diaconi, testimo-niato nella gioia del servizioquale «icona vivente di CristoServo», venga sempre più ap-prezzato e valorizzato”. Questoè anche il mio augurio, accom-pagnato ogni giorno dalla pre-ghiera in cui affido a Maria idiaconi, le loro mogli e le lorofamiglie. E prego perché i no-stri amici, che hanno già rag-giunto il premio, intercedanoper tutti noi. Auguri di ognibene!

    Mons. Vincenzo ChIARLE

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    Agosto 1974, santuario di Sant’Ignazio in Val di Lanzo: il card. Michele Pellegrino, mons. Livio Maritano e mons. Giovanni Pignata con gli aspiranti diaconi e le loro spose.

    H

  • miei quindicianni, dal 1990

    al 2005, con la Co-munità dei diaconie aspiranti diaconidella nostra archi-

    diocesi torinese, per me sono stati determinanti, nel mio or-mai lungo ministero sacerdotale.

    Nel 1990, in un incontro del Consiglio Episcopale, di cui fa-cevo parte in quegli anni, il cardinale Giovanni Saldarini, divenerata memoria, dopo aver accolto le dimissioni di mons.Giovanni Pignata da Delegato arcivescovile per il diaconatopermanente, mi fece un invito improvviso: quello di far con-tinuare il cammino di quel diaconato che, iniziato negli anniSettanta, durante l’episcopato del cardinal Pellegrino, conta-va già parecchi ordinati. Con titubanza, ma con impegno, av-valorato dalla preghiera, affrontai quella realtà che, in qual-che misura, già conoscevo, per il mio servizio nel territorionord della diocesi.

    Con l’aiuto di una commissione apposita, mi preoccupai diconoscere personalmente i diaconi già inseriti nel ministero,ma pensai particolarmente alla formazione degli aspiranti,cioè a quelli che, presentati dai loro parroci o singolarmente,venivano a esprimermi il desiderio di iniziare il cammino dipreparazione, allora quinquennale, verso l’ordinazione diaco-nale, nel sacramento dell’Ordine.

    La responsabilità delle scelte, che dovevano svolgersi subi-to o, possibilmente, nei primi due anni di preparazione, mi èsempre stata gravosa e problematica. Le decisioni finali eranopensate e meditate, con scrupolo, in sede di commissione epoi affidate, in ultimo, al discernimento dell’arcivescovo, perl’ordinazione. È con grande gratitudine che penso ai miei col-laboratori in quel difficile compito di selezione e di scelte, checoinvolgevano persone e famiglie!

    I cinque anni di preparazione prevedevano una seria forma-zione spirituale, fatta di incontri, ritiri ed esercizi spirituali,

    una formazione culturale di buon li-vello, adattata a persone che doveva-no fare i conti con il loro lavoro e coni loro impegni familiari. Era una miagrossissima responsabilità, se pensoche, in quei quindici anni, presentai perl’ordinazione, prima al cardinale Saldarini e poi alcardinal Poletto, ben 56 candidati, provenienti davarie comunità parrocchiali diocesane.

    Dopo qualche anno, fu limitato il mio incarico didelegato, avendomi i superiori affidato il compitospecifico della direzione del Centro di formazione(una forma di seminario) per gli aspiranti al diacona-to. Nel 2005, data la mia età, sono stato sollevato dal-l’incarico, ma non posso dimenticare, con le fatiche eanche qualche delusione, le gioie spirituali provatenegli incontri formativi e, soprattutto, nelle ordina-zioni diaconali.

    Il diaconato permanente fu uno dei doni più belliche il Concilio Vaticano II ha fatto alla Chiesa uni-versale, nella sua storia bimillenaria, durante gli anniSessanta del secolo ventesimo. Fu richiamata cosìfortemente la “diaconia” in seno al Popolo di Dio, giàpresente nella Chiesa fino al secolo IV, rilanciando il“servizio” proprio dei ministri ordinati nei tre gradidel sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato,diaconato. Per il diaconato si accolgono uomini, an-cora in buona età, che, naturalmente, diano prova divivere una fede viva e sincera nelle loro famiglie, sesono sposati. A tal fine anche le spose dei diaconi,con i figli, sono invitate e aiutate a condividere la vo-cazione diaconale dei mariti.

    È auspicabile che il diaconato permanente siasempre più conosciuto e riconosciuto dalla comuni-tà diocesana e, attraverso l’impegno generoso deisingoli diaconi, si possa gustare l’efficacia della sua

    presenza. Il Signore benedica econfermi questa testimonianzadi “servizio”!

    don Domenico CAVALLOgià Delegato arcivescovile

    per il Diaconato permanente

    13

    icordando la storia del dia-conato nella nostra diocesi,

    il mio pensiero corre spontanea-mente al cardinal Anastasio A.Ballestrero, nei confronti del qua-le nutro ammirazione, nonché sin-cera e affettuosa simpatia e rico-noscenza. Riassumere in modobreve il suo insegnamento appare

    arduo: mi limito, pertanto, ad alcune sintetiche conside-razioni circa sue esortazioni, derivanti da un suo costantemodo di vivere la propria missione di maestro e di pastore.

    Ricordo subito una sua preghiera, sgorgata spontanea –come era solito fare – dal suo cuore paterno. Il Signore hacura del “suo ciotolo”: questa certezza, pur nelle difficoltàdel ministero, è derivata dalla pazienza, da padre Ballestre-ro definita “sovrana del tempo umano”. Appare commo-vente e spronante l’esortazione: «Questo fa sì che la vitainvesta completamente: la fatica del vivere, la fatica di es-sere uomini, la fatica di portare avanti la storia, la fatica dicurare la civiltà, la fatica di promuovere l’umanità…». Lafatica comporta pazienza: è uno stile di vita che deve coin-volgere totalmente il nostro essere Diaconi.

    Padre Ballestrero ha sempre esortato a saper accoglieretutti con semplicità, con uno stile di vita rivolto sempre al-la “verità”, ma con “bontà”. Il suo motto episcopale – mu-tuato dalla lettera di Paolo agli Efesini – appare assai im-pegnativo “In omni bonitate et veritate”, bontà e verità.Questo deve essere lo stile del cristiano e, pertanto, segnoessenziale dei diaconi, chiamati a una qualità rara nell’a-gire quotidiano, dovendo vivere come “figli della luce”,senza partecipare alle opere infruttuose delle tenebre.

    Al diacono, padre Ballestrero ha insegnato a sapercontemperare “azione e contemplazione”, portando –con il suo esempio – la ricchezza dell’azione nella con-templazione e la dolcezza della contemplazione nell’a-zione. Per questo di lui è stato affermato: «Quando erasua dovere parlare e intervenire, diceva la verità,chiedendo obbedienza, ma sempre con accoglienzapaterna, affettuosamente misericordioso della perso-na così com’era, anche nelle sue debolezze e incoe-renze». Da lui guidata, ogni persona si sentiva nonoggetto di giudizio, ma amata. Non sempre questo

    suo insegnamento è stato capito e seguito, anzi, talora, è stato aspra-mente commentato.

    Conseguentemente padre Ballestrero ha esortato il diacono a esseresempre disponibile al dialogo, ispirato dai sentimenti e dalle caratteristi-che evidenziate della bontà nella verità. Di questo è stato costanteesempio. Afferma mons. Carlo Ghidelli: «Avvicinandolo non si potevanon avvertire la sua grande apertura al dialogo e la sua spontanea ten-denza al silenzio e al raccoglimento. Con pari agilità egli passava dall’u-na all’altra sponda e lo percepivi gioioso di lasciare la cella interiore delsuo cuore per il dialogo e l’incontro con tutti coloro che lo cercavano co-me guida spirituale, esperto consigliere». Per questo, al di là di ogni con-siderazione protocollare, tutti ben potevano rivolgersi a lui chiamando-lo “padre”.

    Come padre, esortava a essere attenti alle concrete forme di vita. Era-no sorprendenti la sua capacità di analisi delle situazioni e la sua raraabilità di sintesi dopo lunghe e prolisse discussioni alle quali prestavasempre la massima attenzione, anche quando taluni erroneamente lo ri-tenevano assente col pensiero.

    Questo modo di concepire la vita del cristiano l’ha portato ad esseremessaggero di speranza, da proporsi come contrapposizione al pessimi-smo che «diventa una specie di nebbia che ottenebra la luce, che oscu-ra ogni visibilità e lascia l’uomo intontito di fronte a tutto». Sempre haindicato Gesù Redentore quale fonte di speranza «con la consapevolez-za che non tutto è compiuto, il Signore parla ancora, chiama ancora, egli inviti del Signore sono ad andare avanti». È la speranza che fa appa-rire reale il fine ultimo dell’uomo, Dio sommo bene. Nella vita diaco-nale possono esserci momenti di sfiducia e di stanchezza: padre Balle-strero ha esortato alla speranza nella quale «c’è una forza che ci spingeavanti e ci rende capaci di spingere gli altri, perché il nostro ministeroci impone di avere speranza per noi e per tutti». Ma la speranza si tra-muta in una certezza: Dio ci ama. Tale realtà è di per sé ampiamentesufficiente per essere sereni e fiduciosi nella nostra missione, qualunquesiano i risultati umani.

    Padre Ballestrero era solito dire ai giovani: «Se qualcosa ha dato unsenso, e soprattutto se la mia vita ha conservato la felicità, questo è avercreduto al Signore, aver detto sì a occhi chiusi e averlo seguito come undiscepolo che non sa dove va, ma sa di avere le mani di Qualcuno, chelo sa anche per lui».

    Quante esortazioni di padre Ballestrero vorrei richiamare in questamia riflessione: ho però ritenuto necessario scegliere fiore da fiore. Unacircostanza mi sento di sottolineare: nel breviario conservo con gelosia ecommozione un ritratto di padre Ballestrero in paramenti episcopali: èsorridente e con la sua mano destra saluta. Sotto la fotografia c’è unoscritto assai commovente, vergato con mano incerta, che evidenzia ilsuo grave stato di salute: “Arrivederci + Anastasio”. È un invito, un au-gurio, una concreta fonte di speranza.

    Quell’“arrivederci”, unito al suo sorriso, è motivo e sprone a vivere –con letizia e con speranza – la nostra missione diaconale. Ci consola cheanche lui, che abbiamo amato come padre, anche se non sempre abbia-mo applicato i suoi insegnamenti, ci sta ad aspettare, aiutandoci a salirealla Casa del Padre.

    diac. Oreste LONGhI

    Quindici anniindimenticaBiLi

    iL cardinaLe anastasio BaLLestreroe i diaconi

    I

    Agosto 1992: convivenza diaconale ad Usseglio (Torino).

    12

    “Cosa farai di questo ciotolo che sono io,di questo piccolo sasso

    che tu hai creato e che lavori ogni giornocon la potenza della Tua pazienza,

    con la forza invincibiledel Tuo amore trasfigurante”.

    Anastasio A. Ballestrero

    R

  • ccingendomi a scrivere questo con-tributo, ho ripensato a quel sabato

    pomeriggio dell’autunno 1986, quando,spaesato e perplesso, ho fatto il mio in-gresso nella famiglia diaconale, che mi ac-coglieva per la prima volta come aspiran-te dell’anno propedeutico. Nello stessotempo ho ripensato alla mia ultima espe-rienza della prima accoglienza dei nuoviaspiranti, vissuta come formatore nell’au-tunno 2009, e ho cercato di analizzare inun unico colpo d’occhio i due momenti.

    Il primo commento è stato: quantastrada! Un’analisi più attenta, però, hamesso in evidenza, relativamente alla for-mazione al diaconato, un cammino per-corso nella sua crescita, nella sua matura-zione, conservandone però i tratti fonda-mentali e introducendo le novità semprein continuità con il passato, senza crearealcun strappo in avanti e senza attardarsiin nostalgie e rimpianti, come può succe-dere quando si ha a che fare con una real-tà in continuo divenire.

    Il primo dato che può essere messo inevidenza, come costante in tutti questianni, è la serietà della formazione: sia daparte dei formatori, che hanno semprecercato di adeguarla alle nuove situazionidella Chiesa torinese che si venivano de-terminando, sia da parte degli aspiranti,che hanno accettato, qualche volta consacrificio, ma sempre con fiducia e dispo-nibilità, le novità di volta in volta intro-dotte.

    Con il termine formazione si vuole in-dicare tutto il complesso delle attivitàche hanno segnato e segnano il cammino

    vocazionale degli aspiranti verso l’ordina-zione diaconale: si tratta, quindi, di forma-zione umana, spirituale, teologica, pasto-rale. Le implementazioni via via introdot-te nelle attività formative hanno sempretenuto conto di tutti gli aspetti della for-mazione: l’ampliamento della formazioneteologica, con il conseguente aumentodelle ore di lezione, è sempre stato ac-compagnato da un maggior numero dioccasioni di spiritualità, quali ritiri, perio-di residenziali, ecc.

    Riassumendo, si può concludere chela formazione ha sempre cercato di ri-spondere alla domanda “quale diaconoper quale Chiesa?”, in modo da soddisfa-re sempre, nel modo più adeguato possi-bile, le mutate esigenze e situazioni dellaChiesa. Inoltre i vari aspetti della forma-zione sono sempre stati concepiti e at-tuati in modo da integrarsi a vicenda e da-re unitarietà a un cammino formativo co-stituito in modo omogeneo e integrato.

    In questi anni si sono anche verificatiimportanti mutamenti sia sociali, sia ec-clesiali e questi hanno avuto ripercussio-ni sulla formazione, determinando unamaggior attenzione nei confronti dei sin-goli aspiranti e un maggior confronto coni loro parroci e le loro comunità. Perquanto riguarda il contesto sociale, si citaper esempio l’alienazione che possonoprodurre i ritmi di vita enormemente ac-celerati rispetto al passato e la precarietàdel lavoro. La stessa vita di coppia è piùdifficile, in quanto le persone dispongonodi minori risorse fisiche, mentali e di tem-po, con conseguente maggiori difficoltà di

    dialogo e co-munione. Perquanto riguardail contesto ec-clesiale, rispet-to al passato la vi-ta delle parrocchie e dellecomunità ecclesiali in genereè molto più articolata e ri-chiede maggiori energie: gliaspiranti sono sempre più co-involti nella vita della comuni-tà di riferimento, tenendoconto che molte volte perso-ne e situazioni devono essereseguite in modo capillare.

    La formazione è stata an-che adeguata alle indicazionisuggerite o richieste dagli arci-vescovi che sono succeduti alcardinal Pellegrino, con l’aiutoanche della maggior esperien-za che si andava accumulando:

    con il cardinal Ballestrero ècominciato un percorso attoa determinare l’evoluzionedel diaconato passando dauna fase carismatica iniziale,per altro indispensabile, auna fase di maggior istituzio-nalizzazione, determinandomeglio i criteri di discerni-mento e arricchendo con al-cuni insegnamenti nuovi laformazione dottrinale;

    con il cardinal Saldarini èstato portato a compimen-to questo cammino di isti-tuzionalizzazione e sonostati definiti in modo siste-matico:• il piano di studi per la

    formazione teologica, conulteriore ampliamento siadel numero di insegnamen-ti, sia dei programmi, ren-dendo così necessariol’aumento a cinque anni,dai quattro precedenti,del cammino vocaziona-le formativo;

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    ono proprio venti gli anni da quando sono in-caricato della formazione degli aspiranti dia-

    coni. È stata un’esperienza molto intensa e bella,ma anche molto variegata, passando attraverso trevescovi (compreso l’attuale) e soprattutto tre dele-gati. Questi ultimi hanno avuto tre interpretazionimolto diverse del loro incarico, con la conseguenzadi farmi richieste molto differenti nel mio ruolo.Comunque, l’esperienza è sempre stata positiva,nell’assistere sia alla crescita verso il ministero deldiaconato persone molto diverse, sia all’evoluzionestessa della concezione di questo ministero in ven-t’anni di vita della nostra diocesi. In particolare lacosa più bella è stata l’ambiente di armonia e di co-munione nel gruppo degli aspiranti, comprese le lo-ro mogli e le famiglie, comunione che è andata sem-pre crescendo.

    Personalmente, ho sempre cercato di sottolinea-re l’importanza primaria del cammino di formazioneumana e cristiana (e quindi dei ritiri, delle convi-venze, ecc.), prioritariamente anche agli studi scola-stici. Ben inteso: la formazione teologica è essenzia-le, e lo è sempre di più in un mondo complesso co-me quello di oggi. Tuttavia, senza nulla togliere aciò, è importante far reagire gli aspiranti alla tenta-zione di lasciarsi dominare troppo dalle preoccupa-zioni scolastiche, tentazione inevitabile se si tieneconto che essi iniziano lo studio teologico anni do-po aver terminato ogni tipo di scuola, e sovente conuna preparazione a monte spesso tecnica. È impor-tante, quindi, far capire che l’efficacia del proprioministero non dipenderà soltanto e principalmentedalla cultura teorica, ma soprattutto dalla matura-zione cristiana e umana acquisita, sia come singoli,sia come coppia (salvo pochissime eccezioni, in ge-nere gli aspiranti diaconi sono sposati e con figli).

    Per questo è necessario fare ancora molta stra-da verso una formazione che (come ha esplicita-mente richiesto il nostro arcivescovo), non scim-miotti quella al presbiterato ma che abbia un’at-tenzione specifica alla crescita nel rapporto dicoppia cristiana, nella famiglia e anche (aspettomolto importante) nella vita di lavoro e di pre-senza nel mondo, come (con un’intuizione ge-niale) ha desiderato il Concilio nella restaura-zione del diaconato permanente, lasciandolo inuna forma di vita di tipo laicale.

    Questo vuol dire particolarmente insiste-re su una formazione che avvenga quanto

    più in un contesto comunitario, di Chiesa, e non secondoschemi spirituali piuttosto individualistici ormai sorpassati.Bisogna insegnare ai futuri diaconi a diventare veri uomini dicomunione, secondo quello che fu il desiderio del cardinalPellegrino quando instaurò il diaconato in diocesi, e secondola visione di Giovanni Paolo II che definisce la Chiesa (equindi anche le nostre comunità particolari) come “casa escuola di comunione”. Ciò presuppone, tra l’altro, di coinvol-gere molto di più le comunità di origine, stando attenti a nonfare del gruppo degli aspiranti un’“isola felice” un po’ separa-ta dal mondo reale.

    In modo specialissimo, nel cammino si richiede un coin-volgimento sempre maggiore delle spose. Si sono già fatti mol-ti passi avanti al riguardo, ma c’è ancora da camminare perchéesse non si sentano soltanto “accompagnatrici” ma pienamen-te partecipi della vocazione che il Signore ha dato sì al marito,ma inevitabilmente, in qualche modo, alla coppia.

    In quest’ottica è stata una decisione molto saggia quella ditrasformare la presenza dei due diaconi, che prima erano solo“tutor” dell’aspetto scolastico, in veri formatori corresponsabi-li nell’équipe del corso, proprio perché essi, sposati e lavorato-ri, possono portare non soltanto l’esperienza, ma anche unavera e propria grazia di stato in questi aspetti. E in questo essisono accompagnati dalla frequente presenza delle loro mogli.

    Penso che il compito dell’attuale corpo diaconale – e quin-di anche del corso di preparazione – sia, oltre a un serviziosempre più necessario nella nostra Chiesa, anche quello di aiu-tare la Chiesa stessa a scoprire l’identità profonda di questoministero ordinato, secondo l’intuizione del Concilio. Il diaco-nato attuale è praticamente neonato: nella storia della Chiesaquarant’anni sono come un sol giorno. La potenzialità di esso,oggi e qui, nella situazione concreta del nostro mondo, è an-cora in gran parte da scoprire. Per questo penso che sia essen-ziale che tutta la comunità diocesana (preti e fedeli) senta ildesiderio di conoscere sempre meglio questa realtà, venga co-involta in essa e partecipi attivamente a questo cammino.

    don Aldo BERTINETTI14

    studi e spirituaLitÀcostanti e camBiamentiVent’anni accanto

    agLi aspiranti diaconi

    Agosto 1974, prima ammissione, nel santuario di S. Ignazio, in Val di Lanzo. Da sinistra, i futuri diaconi Angelo Ambrosio, Giovanni Baracco, Aldo Diani, Giuseppe Ferrero, Giuseppe Gasca, Mario Mancini, Enzo Olivero e Luciano Pavan.

    æ

    S

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    17-22 agosto 1998, S. Messa durante la convivenza a Ca’ di Nava.Da sinistra: diac. Giulio Brunatto, don Aldo Bertinetti,

    don Domenico Cavallo, il vescovo mons. Pier Giorgio Micchiardi,

    allora Ausiliare a Torino, e mons. Vincenzo Chiarle.

  • orrei fare sul diaconato permanente unariflessione in controluce con la vita di Mo-

    sè, durata centoventi anni e divisa in tre perio-di di quarant’anni. Nel primo periodo, Mosè èalla corte del faraone, immerso in un mondo diidoli: non soltanto quelli dell’affollato pan-theon egizio, ma anche quelli del potere e del-la gloria. Il secondo periodo vede Mosè scen-dere dai suoi fratelli, accorgersi della loro sof-ferenza, schierarsi dalla loro parte e dover fug-gire nella terra di Madian. Qui, pascendo igreggi di Ietro, si sottoporrà inconsapevolmen-te alla pedagogia del Signore, che vuole affi-dare la conduzione del suo popolo a coloroche abbiano già dimostrato di essere buonipastori (cfr 1Sam 16, 11). L’ultimo periodo hainizio il giorno in cui Mosè “condusse il be-stiame oltre il deserto” (Es 3, 1). Giunto all’O-reb, dopo essersi tolto i sandali per accostarsial Signore, ricevette la teofania insieme con lamissione di liberare gli Israeliti.

    Per quarant’anni guiderà nel deserto - inun cammino di progressivo allontanamentodagli idoli - un popolo che sovente mormore-rà rimpiangendo il passato, dando così ra-gione a quell’esegeta che ha detto: “È statopiù facile per il Signore trarre Israele dall’E-gitto che l’Egitto da Israele”. Mosè non met-terà piede nella Terra Promessa, ma si gua-dagnerà la più alta onorificenza, quella diessere definito dal Signore stesso: “il mioservo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tut-ta la mia casa” (Nm 12, 7), grazie allasua disponibilità a farsi cancellare dal li-bro della vita [Es 32, 32], intercedendoper Israele.

    Lo Spirito del Signore soffia ora sullequaranta candeline del diaconato per-

    manente, ma in quale periodo di quelli vissuti da Mosè sitrova ora questo ministero? Prima di tentare una risposta,devo premettere una considerazione di Kierkegaard:“L’uomo è, allo stesso tempo, individuo e specie”. Quel-lo che intendo dire è che il diaconato si trova – o vienepercepito – al livello dove lo porta ogni singolo diaconosecondo l’autenticità con cui vive il proprio ministero.

    Ci potrà, dunque, essere un diaconato esposto all’ido-latria di una presunta superiorità sui laici, di una ricerca divisibilità e di protagonismo, di rivalità con i presbiteri e difrequente mormorazione. Ci potrà essere, poi, un diaco-nato in cui ci si sottomette, sì, al servizio e all’obbedienza,ma con una remissività di routine, senza essere ancora an-dati “oltre il deserto”, essersi tolti i sandali per un’ascesi diavvicinamento al Signore. Ci potrà essere, infine, un dia-conato costituito da diaconi che sono diventati “servi diDio, uomini di fiducia nella sua casa” grazie alla loro dis-ponibilità ad annullarsi, a farsi cancellare dal libro pur dialimentare lo spirito di comunione. Quando questo spiritodi comunione ci sembra arduo, se non impossibile, da rea-lizzare in certe comunità o con certi presbiteri, proviamo aparagonare il diaconato al matrimonio e a riflettere sull’a-forisma: “Il segreto del-la buona riuscita di unmatrimonio non è neltrovare un buon part-ner, ma nell’essere unbuon partner”.

    diac. Michele FANELLI

    MA QUALI?

    • la struttura della for-mazione spirituale co-stituita da un program-ma quinquennale di ar-gomenti e tematiche sucui focalizzare il camminoanno per anno;• le figure dei diaconi co-ordinatori (tutor), uno peril biennio propedeutico euno per il triennio teologi-co, la cui presenza ha resopossibile il seguire passopasso, in modo capillare e

    personale, con continuità, i singoli aspiran-ti; momenti specifici di formazione per lespose; con il cardinal Poletto sono state con-

    solidate le nuove situazioni, implemen-tando e perfezionando i cammini for-mativi, sia dal punto di vista spirituale,sia teologico.

    A fronte di questa progressione rea-lizzata nel progettare i cammini formativi,la costante per eccellenza è sempre statolo spirito di comunione che, per grazia diDio, ha caratterizzato il cammino e la vi-ta degli aspiranti: una vera famiglia in cui

    condividere le gioie, le speranze, le ansie,le sofferenze, in cui confrontarsi nei mo-menti di difficoltà e di scelta, in cui trova-re gli stimoli e gli esempi per diventare“diaconi di comunione” nella comunitàecclesiale.

    Si è sempre cercato di conservare etrasmettere questa importante eredità,consegnata da chi ha cominciato la realtàdel diaconato permanente a Torino, puradeguandola alle esigenze nuove sortenel corso di questi anni.

    diac. Gianfranco GIROLA

    16

    40 ANNI

    marzo si compiono quarant’anni dalla nascita, nellanostra diocesi, del diaconato permanente ripristina-

    to dal Concilio Vaticano II. È un’ottima occasione per unariflessione che eviti di leggere questo tempo in modo trop-po “trionfalistico”. Siamo cresciuti in umiltà e semplicitàdi cuore, badando sempre e soprattutto all’essere, più cheal venire considerati come pedine nell’ingranaggio gerar-chico della Chiesa. Per cui, il ricordo che vorrei eviden-ziare, mi aiuta a fare un serio esame di coscienza.

    Ho già anticipato che siamo partiti in sordina, senzaun particolare obiettivo di arrivo, semplicemente chie-dendoci quale significato potesse avere il fatto che il Con-cilio avesse ridato vita a questa presenza sacramentale deiprimissimi tempi della Chiesa. Siamo stati fortunati inquesto cammino di ricerca perché ci hanno accompagna-to tre persone speciali: il card. Pellegrino (il Padre), donGiovanni Pignata e don Vincenzo Chiarle.

    Io sono capitato a Pianezza per caso, cercando don Pi-gnata che mi avrebbe dato dei suggerimenti per aiutare, inmodo continuativo e impegnato, un suo compagno di se-minario, mons. Lorenzo Mensa, missionario Fidei donumin Argentina. Don Pignata rinviò le risposte attese e miinvitò a fermarmi, quel sabato pomeriggio, con una venti-na di uomini che discutevano sul diaconato. Don Vincen-zo, che curava la preparazione spirituale, mi affascinò.Così, parlatone in famiglia e consigliatomi con il padrespirituale, decisi di continuare a frequentare Pianezza. Eral’aprile del 1972.

    Mi accorsi, anzitutto, che il diaconato richiedeva unaconversione, e cioè un vero cambiamento di mentalità, dicuore e di atteggiamento operativo, per non portarmi die-tro le preoccupazioni pastorali della comunità e per nonsembrare malato di liturgia. La prima cosa che ci siamo

    sentiti proporre fu l’invito pressante a unamaturazione spirituale nella preghiera enell’umiltà, per ottenere il dono di unagrande comunione. Comunione anzituttotra di noi. Il card. Pellegrino era statochiaro ed esplicito: «O voi diventate uncorpo diaconale, o non vi ordinerò».

    In un simile clima di entusiasmo e difervore abbiamo cercato di capire, nei fre-quenti ritiri, che la comunione richiede unmorire a noi stessi. E la disponibilità al servizio, caratte-ristica del diacono, non è un qualche cosa di bello e difacile, ma è il duro prezzo da pagare per arrivare a quel-la comunione che cominciavamo a gustare e che a suavolta è il frutto della carità, culmine della vita cristiana.

    Dopo la scoperta della comunione tra di noi comemezzo di preparazione al diaconato, ecco la seconda sco-perta: la comunione in famiglia, come primo campo di at-tività diaconale. L’impostazione, data sin dall’inizio indiocesi, di coinvolgere non sacramentalmente, ma affetti-vamente ed ecclesialmente, le mogli e i figli è stata un’in-tuizione particolarmente felice, di cui non si può non te-ner conto.

    Questo spirito di comunione scoperto tra di noi, in fa-miglia e sul posto di lavoro, viene poi realizzato nella co-munità parrocchiale. Credo di poter affermare che la pre-senza del diacono nella comunità parrocchiale ha spessocreato comunione tra parroco e fedeli e tra i vari gruppiparrocchiali.

    Uno dei ricordi più belli dei primi anni del mio diaco-nato risale all’assistenza al clero ammalato e anziano. Ilsabato mattino, coordinati dal diacono Giuseppe Gasca,partivamo con due o tre auto da Torino per Pancalieri,dove, per quella dimensione di affetto e di fraternità chescaturisce dalla comune matrice sacramentale, ci adope-ravamo per fare il bagno ai sacerdoti ricoverati e per altriservizi richiesti.

    Per la mia presenza di insegnante nella scuola, il card.Pellegrino, ricevendo me e mia moglie prima dell’Ordi-nazione, volle che proprio in quell’ambiente continuassi

    17

    15-16 settembre 1996: pellegrinaggio al santuario francese di La Salette, con il card. Giovanni Saldarini e il vescovo ausiliare Pier Giorgio Micchiardi.

    V

    æ

    sperienz

    QueL pomeriggiod’apriLe deL 1972

    A

    Il volume, pubblicato nel 2007

    dai diaconi Michele Bennardo (diocesi di Susa), Lorenzo Bortolin e Benito Cutellè

    (diocesi di Torino), reca la presentazione

    del card. Severino Poletto.

  • a fare il diacono, con “fantasia”, preghiera,umiltà, disponibilità, cordialità, pazienza. Hocercato di essere fedele a questo mandato, peroltre 20 anni, dove evangelizzare vuol dire,prima di tutto, farsi sentire fratello da chi ti av-vicina, vuol dire entrare con discrezione a con-tatto con persone tanto diverse e distratte daun’infinità di problemi e di situazioni.

    Oltre alla mia professione, nella parrocchiadi abitazione mi sono sempre occupato della ca-techesi degli adulti. Proprio in questo campo losguardo, dapprima puntato sulla propria comuni-tà, si è allargato facendomi comprendere che unlavoro diaconale qualificato è quello di far nasce-re la Chiesa là dove è più difficile. Vorrei ricordare

    come il laicato ci ha accolti con amicizia, ci ha sostenuti nel pe-riodo di preparazione, ci ha incoraggiati nel cammino non sem-pre facile e piano di una presenza diaconale in parrocchia, confunzione critica ed anche incoraggiante, con una collaborazio-ne aperta e sincera.

    In questo 2012 festeggerò i 35 anni di ordinazione, e vorreiaugurare a me e ai miei confratelli che i rapporti con i sacerdo-ti diventino sempre più aperti, i suggerimenti sempre più sti-molanti, l’amicizia sempre più fraterna ed autentica. Se riusci-remo a rendere veramente possibile un’intesa che si radichi suun rapporto di fiducia e di stima, ci sentiremo sempre più re-sponsabili nell’attività pastorale che tutti cerchiamo di svolge-re unicamente per l’avvento del Regno di Dio.

    diac. Enrico PERIOLO

    Nel maggio 1987, chiamati da don Pignata, del quale con-serviamo un devoto ricordo, siamo inviati dal Vicario episcopa-le territoriale don Domenico Cavallo nella nascente chiesa suc-cursale di S. Giuseppe Artigiano, in Settimo. Laura ha quattroanni, Fabio venti ed è al servizio militare, il papà di Enza è gra-vemente ammalato. “Abitare la casa del Signore ogni giornodella vita” erano le parole più ricorrenti in quegli anni. La suc-cursale, intitolata alla Beata Vergine Consolatrice è stata bene-detta ed inaugurata dal card. Ballestrero nel settembre 1987.Ricordo molto bene le parole augurali dell’Arcivescovo: “Sequesto centro religioso riuscirà davvero a far crescere questosenso di comunione fraterna, di famiglia in mezzo a tutti voi, sa-rà un gran bene per tutti, soprattutto per quelle giovani gene-razioni, che tutto aspettano dalla vita… Questa sera celebria-mo qui, per la prima volta, l’Eucaristia. Viene il Signore per ri-manere in mezzo a voi”. Concludeva con questo invito: “Que-sto centro non sia soltanto un perimetro di mura, ma sia unsantuario di fede e sia soprattutto un fermento di carità e disperanza!”.

    La posizione della chiesa, al centro delle case Gescal, ha fa-vorito la conoscenza quasi personale delle 800 famiglie residen-ti. Le ho visitate tutte, per due volte, portando la benedizionedel Signore e il saluto del parroco a quanti hanno aperto la ca-sa. Questo “andare per case” è stato impegnativo, ma fecondo;mi ha molto aiutato nell’intessere relazioni, amicizie e nel con-tempo a dare informazioni sul diaconato. Ho trovato molte col-laborazioni, ma anche vere povertà. Per realizzare le parole delCardinale, con Enza e altri amici, abbiamo aperto un piccolooratorio, il gruppo famiglia, il gruppo Caritas, il gruppo di pre-ghiera itinerante nei cortili durante le feste mariane. Sono sta-ti anni meravigliosi.

    Nel 1999, Enza ed io ci siamo confrontati per pianificare glianni a venire. E ci siamo detti: “Restiamo a Settimo, oppurediamo la disponibilità per una nuova esperienza?”. Detto, fatto.Dopo avere parlato con i superiori, ci siamo trovati nella chie-sa Santa Francesca di Chantal, succursale di S. Maria Goretti,in Torino. Detto fatto, non senza avere passato prima le conse-gne al diacono Mario. Bene accolti dal parroco e dai parroc-chiani, non nuovi alla presenza di un diacono, mi è stato chie-sto di occuparmi dell’oratorio. All’inizio ero preoccupato, maho superato le difficoltà perché chi mi aveva preceduto aveva

    fatto un ottimo lavoro e bastava segui-re l’impostazione. Così mi sono ritro-vato ad essere un diacono della caritàimprestato all’oratorio. Tra molti erro-ri e molte più gioie, in un baleno sonopassati altri 11 anni.

    Se è così bello, perché cambiare?È l’interrogativo che molti si sono po-sti, quando all’inizio del 2010 ho co-municato alla comunità, al parroco, airesponsabili del diaconato il desiderio di tornarea “casa”. La nuova decisione è maturata in conse-guenza di alcune realtà: l’età che avanza, la salu-te, la casa dei genitori resasi libera, ci hanno fattopensare che fosse giunta l’ora di ritirarci a vita“privata”. Poi, i tempi supplementari a Collegno.Nell’intimo penso di vivere i tempi supplementaridopo una importante partita. Questi tempi li stogiocando in casa, al servizio delle parrocchie diCollegno. A dire il vero, pensavo a una stagione diriposo, ma la situazione ecclesiale non me l’ha per-messo: come restare inoperosi con un parroco cheguida e governa due parrocchie e due succursali?Così faccio quello che posso e a volte sono soltantouna presenza.

    Quando, poi, mi hanno chiesto di entrare nel-l’Organismo di Coordinamento del diaconato, nonho osato oppormi. Che cosa volete farci, siamo perservire: in fondo, la vita è per cercare Dio, la morteper trovarlo, la vita eterna per goderlo nell’al di là.Che Dio ci benedica.

    diac. Enzo ed Enza PETROSINO

    i questa neonata realtà di quarant’anni, io neho già vissuti trentuno. E anche in questa

    straordinaria “storia sacra”, mi sembra giusto chia-mare in causa lo Spirito Santo. Con le sue misterio-se vie fa sentire la sua presenza, in ogni epoca e inogni luogo nella Chiesa. Vorrei sottolineare l’im-portanza della “chiamata” da parte di qualcuno,strumento e messaggero nelle mani di Dio per laproposta iniziale.

    La cosa più importante maturata negli anni del-la scuola è stato l’amore per la Chiesa. Artefici diquesto materno legame, sono stati: il card. Pellegri-no, ma soprattutto il padre Ballestrero. L’ho capitoquando, nelle omelie, negli esercizi il Cardinalenon diceva mai “la mia Chiesa”, ma sempre “laChiesa di Gesù”. Come molte altre persone, a que-sta Chiesa ho dato la disponibilità personale e del-la famiglia, perché mi ha perdonato molto; forseanche, di non essermi donato totalmente e conaudacia nella prima giovinezza.

    Quattro sono le stagioni concatenate tra loro,che formano l’espressione del mio diaconato,condiviso con Enza, mia sposa: nella parrocchiadi origine S. Vincenzo de’ Paoli, in Torino; poi, itrasferimenti nella parrocchia S. Giuseppe Arti-giano, in Settimo Torinese, e in quella di S. Ma-

    ria Goretti, in Torino; infine, come dopo una grande partita, i“tempi supplementari” nelle parrocchie S. Giuseppe e S. Lo-renzo, a Collegno.

    Ordinato diacono nel 1980, sono rimasto nella parrocchiadi S. Vincenzo de’ Paoli. Del resto, lì è nata e maturata la via aldiaconato. Ricordo in particolare un gruppo di ragazzi e ragaz-ze, mamme, amici che frequentavano assiduamente la preghie-ra nella nostra casa, prima o dopo un momento conviviale. Og-gi la maggioranza di quei giovani sono padri e madri di fami-glia, una è diventata Piccola Sorella del Vangelo e un giovaneè diventato sacerdote. In quella comunità ho imparato a servi-re i più poveri, attratto dall’esempio del parroco don G. Vietto.Sono stati anni intensi, grazie anche ad Enza e mio figlio Fabio,coinvolti nella vita della comunità. In quel periodo, nasce Lau-ra, con grande gioia. Siamo così al 1983.

    18 19

    Un fatto raro: padre e figlio ordinati insieme. Nella foto, scattatanel Duomo di Torino il 16 novembre 1997, da sinistra: StefanoTuri, diacono transeunte (e sacerdote dal 6 giugno 1998),mamma Antonietta, la sorella Emanuela e papà Giacomino,diacono permanente.

    una grande partitacon i tempi suppLementari

    D

    21 settembre 1980: ordinazione diaconale in Duomo. Da sinistra: diac. Enrico Periolo, il card. Anastasio Ballestrero, diac. Giuseppe Ghidella e diac. Enzo Petrosino.

    Traves (Torino), 28 giugno 1997, inaugurazione del sentiero “Piergiorgio Frassati”.

    Da sinistra: il diac. Osvaldo Boggio, il card. Giovanni Saldarini e mons. Vincenzo Chiarle.

  • diacono daL 2000

    a gioia e il “grazie!” al Signore: questi i miei senti-menti a quarant’anni dall’avvio della Scuola di for-

    mazione al diaconato permanente. Accompagnati daun sorriso: l’essere stato l’aspirante diacono più giova-ne d’Italia e anche il più “ripetente”. Tutto inizia nell’e-state del 1972: parlando con don Giovanni Pignata, re-sponsabile della Scuola appena costituita, lui mi propo-ne di frequentare il primo corso e «Poi, si vedrà». All’e-poca, infatti, io ho soltanto 24 anni e sto per sposarmicon Savina (nel febbraio successivo), mentre già alloral’età minima per ordinare gli sposati era di 35 anni.

    In quel primo corso siamo una quarantina di personecon età, cultura ed esperienze diverse, eppure nasconoamicizie che superano l’erosione del tempo. Un nome pertutti: Giovanni Gasca. E grazie a formatori come padre Eu-genio Costa senior e don Vincenzo Chiarle, crescono l’a-more per la Chiesa e la comunione fraterna tra noi. Nellaprimavera del 1975, durante il terzo e allora ultimo anno diformazione, Savina ed io parliamo con padre Michele Pelle-grino (il cardinale si intratteneva spesso con gli aspiranti, aVilla Lascaris). Lui mi propone di terminare il corso e di at-tendere perché «considerata la tua età, non mi sento dichiedere la dispensa a Roma». Così facciamo, ma via via cistacchiamo dal gruppo, pur mantenendo le amicizie, viveancor oggi. Poi, nascono i figli - Maria Norma (1976) e Mi-chelangelo (1979) - e subisco due interventi chirurgici.

    Il 10 ottobre 1986, padre Pellegrino torna al Padre. Savinae io andiamo a “salutarlo” nella chiesa del Cottolengo, pri-ma del funerale. Lì incontriamo don Vincenzo, che a brucia-pelo domanda: «Quando riprendi gli studi per il diacona-to?». Superata la sorpresa, Savina ed io ci confrontiamo conqualche amico e con don Aldo Bertinetti, che all’epoca se-gue i figli negli scout. Alla fine… torniamo a Villa Lascaris.Poco dopo, dalla parrocchia torinese di Sant’Ignazio di Lo-yola, dove abitiamo, siamo invitati ad inserirci pastoralmen-te in quella di San Giovanni Maria Vianney, di fronte a Mi-

    rafiori. Già allora si pensava a diaconi “itineranti”! Lì, l’annodopo, la gioia di altri amici che iniziano la Scuola: GiovanniFarina e Roberto Mollo, seguiti poi da Francesco Cantino.

    Nel frattempo, gli anni di studio sono diventati quattroe i giorni di ritiro e convivenza sono quasi raddoppiati.Non basta: io devo frequentare di nuovo tutte le lezioni,da “ripetente”, perché non mi è riconosciuto nessun esa-me precedente. Una cosa, comunque, mi sorprende: an-che quando devo recarmi fuori Torino per lavoro (sonogiornalista all’“illustratofiat”), rientro sempre in tempoper le lezioni e gli incontri. Nel 1989, la sofferenza fa dinuovo capolino, con altri interventi chirurgici, e i respon-sabili rinviano l’ordinazione. Intanto, il caro cardinale Ana-stasio Ballestrero lascia la guida della Diocesi e mons. Pi-gnata passa il testimone a don Domenico Cavallo. Infine, il15 novembre del 1992, a vent’anni dai primi incontri a Vil-la Lascaris e a 44 d’età, il card. Giovanni Saldarini mi ordi-na diacono con altri tre amici e mi chiede un altro spo-stamento: questa volta, la parrocchia Assunzione di MariaVergine, al Lingotto. Un nuovo “camminare insieme”, cheprosegue sino al 2000, quando mi è chiesto di tornare aSant’Ignazio di Loyola, mia comunità di residenza (chel’autunno scorso ha festeggiato l’ordinazione diaconale diAndrea Variara). Poi, nel 2003 sono nominato anche ad-detto all’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi.

    Così, se il Signore vorrà, il prossimo novembre festeg-gerò i vent’anni di ordinazione. Per tutte queste cose, achi talvolta mi chiede “Lo rifaresti?”, rispondo con gioia:“Certo: anche se non tutto è facile, è una ‘avventura’ affa-scinante”. E aggiungo quanto sono vere le parole del Si-gnore «Ecco il mio servo che io sostegno» (Is 42,1; diáko-nos in greco significa, appunto, servo). E Lo ringrazio an-cora una volta del dono che ha fatto a me e alla mia fa-miglia chiamandomi al suo servizio, nel diaconato.

    diac. Lorenzo BORTOLIN

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    BiLancio di un anno

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    Il card. Poletto presiede la S. Messa d’inizio dell’Anno pastorale dei diaconi, nella chiesa di San Lorenzo, il 28 settembre 2008.

    una corsa ad ostacoLi durata Vent’anni

    L

    pesso ci accorgiamo del cammino percorso quando civoltiamo indietro e vediamo in lontananza il punto di

    partenza. Preferisco, però, vedere questo periodo di tempo,dall’ordinazione ad oggi, come una parte di un periodo cheabbraccia tutta la mia vita e quella della mia famiglia, quindiuna normale evoluzione nell’ottica della trasformazione, piùche qualcosa di nuovo. È stato un anno carico di umanità,con tutto il suo bagaglio di gioie e di fragilità: mi sono do-vuto rapportare quotidianamente con la malattia, ed hoscoperto che anche nell’esperienza del dolore esistonospazi attraverso i quali il Signore si fa conoscere. Ritengoche questa sia la chiave di lettura con la quale ho interpre-tato, con l’aiuto del buon Dio e la collaborazione di miamoglie e dei miei figli, questi primi mesi di ministero: uncontinuare a stare nel mondo, come diacono tra la gente eper la gente, cercando le orme del Signore che passa. Unabuona parte del mio ministero la svolgo sul posto di lavoro,cercando di testimoniare che la Chiesa è famiglia e comu-nione che accoglie. Cerco di vivere la mia fede e di parlar-ne sempre nel rispetto dell’altro, poiché, anche se ha idee

    differenti, ognuno è portatore in se stesso dell’immagine diDio e di una storia di relazione con Lui. Il testimoniare,quindi, altro non è che aiutare le persone a dare senso allaquotidianità, cercando insieme “i segni dei tempi” attraver-so i quali il Signore continua ad incontrarci entrando nellastoria di ciascuno. Un annuncio quindi esperienziale cheparte dal vissuto, più che un parlare semplicemente di Luidal punto di vista intellettuale. Vivo la fatica forse più gran-de tra i vicini, tra noi che ci diciamo cristiani, perché a vol-te non abbiamo più la curiosità dei “lontani”, non ci stu-piamo più: ci sentiamo arrivati. Il problema però è che ipunti d’arrivo spesso sono distanti e allora occorre co-struire ponti nonostante tutto, mediare, a volte tacere...Una grande fatica. Il bilancio del primo anno è senza dub-bio positivo. Ringrazio il Signore per questo grande do-no immeritato e lo prego affinché mi sostenga e mi ri-cordi sempre che quanto è stato dato a me e alla miafamiglia non è un dono privato, ma un bene da ammi-nistrare a servizio degli altri.

    diac. Massimo SCARzELLA

    ono stato ordinato diacono dal card. Severino Poletto,insieme ai cari amici Battista, Luigi e Angelino. Era il 19

    novembre del 2000, anno giubilare. L’abbraccio calorosocon tanti diaconi presenti all’ordinazione, nella chiesa di S.Filippo Neri, mi ha fatto subito percepire, anche fisicamen-te, che entravo a far parte di una grande e bella famiglia,quella diaconale. Prima di uscire dalla chiesa, salutandomi,don Domenico Cavallo mi chiese se fossi già andato allaparrocchia Gesù Buon Pastore: fu così che scoprii qualefosse la mia destinazione pastorale! Ricordo bene la grandegioia che avevo in cuore, gioia condivisa con mia moglieGrazia, per la bontà del Signore che, senza mio merito, miaveva chiamato a servirlo, in questo modo, nella sua Chiesa.

    Tutto quello che è seguito in questi undici anni, sino adoggi, lo vedo come un cammino percorso insieme a Qual-cuno la cui mano, il cui amore davvero non ci abbandonamai. Giorno dopo giorno - me ne rendo conto adesso - siè fatta più intensa la mia vita di preghiera, e insieme è cre-sciuta la disponibilità al servizio e l’attenzione ad ogni sin-gola persona, in famiglia, al lavoro, in parrocchia e là doveero chiamato a dare qualcosa di me e del mio tempo.Questo non ha certo fatto sparire i miei difetti e i mieipeccati (anzi mi sembra ora di vederli più chiaramente, equanti sono e quanto grandi, ma il Signore è misericor-dia!). ho cercato però, con l’aiuto di Dio, di mantenermifedele alle occasioni proposte per tenermi stretto a Gesù(l’incontro con i poveri, dove Lui continua oggi a soffrire ea domandarci il sollievo della nostra misericordia; la pre-ghiera personale e liturgica; gli esercizi spirituali…) e percamminare insieme con i fratelli e le sorelle: la vita quoti-diana in famiglia e al lavoro; le tante occasioni di condivi-

    dere fede, preghiera, amicizia con i fedeli diGesù Buon Pastore e di altre realtà eccle-siali; gli incontri di fraternità e di formazio-ne permanente insieme ai confratelli diaco-ni, e da tre anni a questa parte il bel cam-mino con i cari aspiranti diaconi e le lorofamiglie…

    In questi anni trascorsi, dove tutto è gra-zia e dono del Signore (la mia parte, invece, sono le mol-te pigrizie, inadempienze e sciocchezze commesse), miaccorgo di come la forza del sacramento ricevuto - seproprio non mi ostino a sbarrare la strada - opera e agi-sce, “lava ciò che è macchiato, piega ciò che è rigido, scal-da ciò che è freddo”. Mi rendo conto che essere diaconoha fatto crescere in me la coscienza di essere un “fratellopiccolo” di tutte le mie sorelle e fratelli con cui Gesù mifa dono di camminare e condividere la vita. Il Signore mista togliendo di dosso pesi che rendono più faticosa lamarcia: il bisogno di avere riconoscimenti, l’attaccamentoai miei punti di vista, il sottile compiacimento di aver rea-lizzato qualcosa d’importante, sia pure per il bene degli al-tri. Mi sento più leggero… anche se il cammino è sempreall’inizio e ogni giorno si riparte. Dopo questi undici anniho la gioia di poter mettere nelle mani di Gesù non cosefatte, non “successi pastorali”, ma semplicemente un cuo-re innamorato, riconoscente del dono che Lui mi fa di po-terlo incontrare e servire, ogni giorno, nei miei cari in fa-miglia, nei ragazzi a scuola, nei parrocchiani e negli aspi-ranti, nei confratelli diaconi, nei carissimi “don”, nei pove-ri, in tutti!

    diac. Angelo BARSOTTI

    S

    S

  • ono Franco e con mia moglie Loredana,alla fine del 2005, dopo un breve corso

    di formazione al CUM di Verona, partivoper il Brasile, con due preti e una giovanecoppia torinese per un’esperienza di mis-sione in appoggio alla diocesi di Belèm, se-condo un progetto concordato dal card. Po-letto con il vescovo del luogo.

    Siamo stati scelti da Dio per una serie dicoincidenze: siamo senza figli, Loredana eragià in pensione e io potevo prendere un’a-spettativa dal mio lavoro di insegnante. Così,senza nostri meriti, il diaconato torinese si èaperto alla missione “ad gentes”. Per noi è sta-to immergerci nelle gravi necessità del TerzoMondo e delle chiese più povere di clero, co-me non potevamo neppure immaginare dalleriviste missionarie, e vedere quanto il Vangeloè forza per gli uomini di tutti i paesi.

    Prima di tutto, invece che portare i nostrischemi di vita e di chiesa, abbiamo dovuto in-culturarci. Abbiamo trovato un laicato attivo evivace, e ai più disponibili abbiamo dato la pos-sibilità di formarsi con corsi adatti. Non è faci-le descrivere il luogo. Belèm è una capitale delNord Brasile dove ogni anno dalla campagnaaffluiscono molte migliaia di famiglie, in cerca dilavoro e vita migliore. Spesso queste speranzenon si avverano e quelle persone restano incondizioni precarie per molto tempo: in unafavela le case sono povere, la


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