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Antologia 3 Noi cittadini del mondo · pa, il 30% dei tragitti effettuati in automobile copre...

Date post: 26-Jan-2020
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Argomentazioni e riflessioni sul presente e sul futuro 7 cittadini mondo Noi del IL PIACERE DI LEGGERE OBIETTIVO SVILUPPO SOSTENIBILE AA. VV. Il nostro piccolo gesto quotidiano p. 128 AA. VV. La bistecca fa male alla Terra p. 139 V. Senesi Dai diamanti non nasce niente… p. 142 NO AL RAZZISMO T. Ben Jelloun Non hai paura di partire? p. 145 F. Gatti Schiavi del XXI secolo p. 148 ERAVAMO COME LORO V. Cercenà Un diario dal passato p. 152 ABBATTERE I MURI AA. VV. La Carta della Terra p. 156 IL CORAGGIO DI DIRE NO ALLE MAFIE J. Dickie Giovanni Falcone e Paolo Borsellino p. 159 G. C. Caselli Mafia e politica p. 167 PER CONCLUDERE L. Ciotti Le scrivo per chiederLe scusa p. 170 Antologia 3
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Argomentazioni e riflessioni sul presente e sul futuro

7 cittadinimondo

Noidel

IL PIACERE DI LEggERE

OBIETTIVO SVILUPPO SOSTENIBILE

AA. VV. Il nostro piccolo gesto quotidiano p. 128

AA. VV. La bistecca fa male alla Terra p. 139

V. Senesi Dai diamanti non nasce niente… p. 142

NO AL RAZZISMO

T. Ben Jelloun Non hai paura di partire? p. 145

F. Gatti Schiavi del XXI secolo p. 148

ERAVAMO COME LORO

V. Cercenà Un diario dal passato p. 152

ABBATTERE I MURI

AA. VV. La Carta della Terra p. 156

IL CORAggIO DI DIRE NO ALLE MAFIE

J. Dickie Giovanni Falcone e Paolo Borsellino p. 159

G. C. Caselli Mafia e politica p. 167

PER CONCLUDERE

L. Ciotti Le scrivo per chiederLe scusa p. 170

Antologia 3

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3 ObiettivO sviluppO sOstenibile7. Noi cittadini del mondo

Autori variIl nostro piccolo gesto quotidianoDi fronte al riscaldamento del pianeta che minaccia il futuro dell’umanità, dobbiamo solo  stare a guardare, aspettando che i governi prendano provvedimenti, oppure possiamo fare qualcosa anche noi, nella vita di ogni giorno?

Il pianeta viaggia verso un aumento della temperatura che, a fine secolo, potrà oscillare tra i 2 e i 6 gradi. Cioè tra un bru-

sco, ma non irreversibile, scrollone agli ecosistemi e una cata-strofe. Dobbiamo solo stare a vedere se il film del cambiamen-to climatico appartiene al genere horror, oppure possiamo fare qualcosa anche noi, ogni giorno?Possiamo restare a guardare gli eventi oppure scendere in cam-po con un piccolo gesto quotidiano: riciclare un giornale, cam-biare una vecchia lampadina con una ad alta efficienza, fare la spesa portandosi un contenitore da casa, spegnere le luci dello stand-by degli apparecchi elettronici, comprare frutta e verdura della stagione e del luogo.Ognuna di queste azioni può sembrare piccola e banale di fronte all’immensità del danno che si profila. Eppure, moltiplicate per i 365 giorni dell’anno e per i milioni di persone che possono aderi-re a questa sfida in tutto il mondo, rappresentano una svolta: un cambiamento che nasce dal basso, che cresce con il passaparola, che si alimenta del consenso e delle critiche che riceve.

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In tutti i paesi avanzati si moltiplicano le iniziative per costruire uno «stile di vita a basso livello di car-bonio»: un comportamento quotidiano in cui si evitano le azioni che comportano un alto con-sumo di combustibili fossili (dalla benzina all’elettricità prodotta con olio combustibi-le o carbone) e quindi un’elevata produzio-ne di anidride carbonica (CO

2). Uno stile di

vita che consenta – senza rinunce dram-matiche ma anzi coltivando il piacere del-la socialità e l’uso della tecnologia avanzata – di immaginare un mondo in cui ci sia un po’ di posto anche per gli altri. In cui all’at-tuale miliardo di consumatori ricchi o abbienti possano aggiungersi altre persone senza far sal-tare l’equilibrio ecologico da cui dipende il benesse-re di tutti.Dopo la pubblicazione del quarto rapporto dell’IPCC (Intergover-nmental Panel on Climate Change) sappiamo che dalle nostre scelte di oggi dipende il futuro di miliardi di persone. Nel cor-so di un anno, riciclando gli imballaggi in Italia si può evitare l’emissione di 4,8 milioni di tonnellate di anidride carbonica (un centesimo delle emissioni serra nazionali). E basta sostituire 70 lampadine a incandescenza con lampadine fluorescenti per evi-tare l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica.Cambiare è dunque possibile non solo in teoria. Ognuno di noi può sentirsi schiacciato dalla paura dell’inutilità di una «buona azione» ecologica isolata. Ma tutti assieme possiamo costruire un’azione collettiva che può essere pesata, misurata nei suoi ef-fetti.

1. Usare mezzi di trasporto alternativi all’autoAbbiamo tutti una bicicletta sotto casa, o un biglietto dell’auto-bus in tasca, o la voglia di fare una camminata. Vogliamo prova-re a usare un po’ di alternative all’automobile? Dal punto di vista ambientale sarebbe buona cosa per due motivi.Il primo è che il 27% delle emissioni di gas serra, quelli che stanno facendo saltare la macchina del clima, dipende dai tra-sporti: più di un quarto delle responsabilità del disastro ambien-tale che si sta delineando va attribuito al modo in cui ogni gior-no scegliamo di spostarci per arrivare al lavoro, per comprare la mozzarella, per andare a trovare la zia, per accompagnare i figli dal dentista. Il secondo è che lo smog in città uccide anche di-rettamente, senza passare per il riscaldamento globale: secondo

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l’Organizzazione mondiale della sanità le polveri sottili tolgono la vita a 9 mila persone l’anno nelle 13 principali città italiane.Le emissioni di CO

2 dei trasporti su strada, rotaia e aereo in Ita-

lia sono aumentate del 15% fra il 1995 e il 2003, raggiungendo il livello di 131 milioni di tonnellate. I viaggi su strada, con 116 milioni di tonnellate, sono responsabili della maggior parte di questo forte incremento di emissioni.Eppure il traffico non è una maledizione senza appello. In Euro-pa, il 30% dei tragitti effettuati in automobile copre distanze inferiori ai 3 chilometri. Queste distanze, soprattutto in ambi-to urbano, possono essere percorse in breve tempo in bicicletta o anche a piedi, generando benefici per la salute e vantaggi per la società.Per ogni persona che s’impegna a percorrere fra i 30 e i 50 chi-lometri la settimana in bici o a piedi si ottiene un vantaggio, nel corso dell’anno, di 198 chili di anidride carbonica evitata e di 100 euro risparmiati. Se i 30-50 chilometri si percorrono con i mezzi pubblici il vantaggio è di 43 euro e 190 chili. Anche or-ganizzandosi per avere un passaggio si ha un beneficio: 99 chi-li e 50 euro.

2. Abbassare il riscaldamento in casaIn Danimarca è stato deciso di eliminare i doppi vetri tradizio-nali per sostituirli con vetri super isolanti. A Berlino sono stati finanziati interventi sugli edifici per migliorarne l’efficienza. Il governo inglese ha varato misure sull’edilizia che porteranno a eliminare 400 mila tonnellate di anidride carbonica. E anche in Italia, dove da poco è stata approvata la nuova legge sull’efficien-za energetica, si può fare qualcosa subito per spendere di meno inquinando meno.

Occorre muoversi su due fronti:n ridurre la dispersione di calore, e quindi lo spreco di combu-

stibile, migliorando l’isolamento termico dell’edificio: oltre che sui vetri è possibile intervenire su muri, tetti e solai;

n prestare un po’ più di attenzione alla temperatura della casa, ricordando che un caldo eccessivo non fa bene alla sa-lute e fa male all’atmosfera perché provoca un’inutile emis-sione di gas serra. Ricordiamo che per ogni grado in meno di temperatura si risparmia il 7% di combustibile (e quindi di emissioni). Occorre dunque perdere la cattiva abitudine, che molti hanno, di soggiornare in abbigliamento estivo, in pieno inverno, in ambienti eccessivamente riscaldati: meglio un ma-glione in più e un grado in meno!

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Chi ha il riscaldamento autonomo può regolare il caldo con un piccolo aggiustamento del termostato. Chi invece ha il riscalda-mento centralizzato può comunque verificare la temperatura e chiedere di intervenire se è troppo alta. È consigliabile inoltre inserire valvole ai caloriferi in modo da calibrare il calore stan-za per stanza.Prestare attenzione al riscaldamento domestico conviene anche economicamente: migliorando l’impianto di riscaldamento ogni famiglia può tagliare dal 20 al 40% delle spese. Anche chi ha un impianto centralizzato può installare sistemi di contabilizzazione del calore per pagare a consumo.

3. Ridurre l’uso dei condizionatoriD’estate sempre più spesso si ricorre ai condizionatori. Questi apparecchi consumano grandi quantità di energia elettrica, sono anzi i più «energivori» tra gli elettrodomestici (un condizio-natore medio divora in un’ora tanto quanto un frigo da 300 li-tri). Perciò il boom dei condizionatori d’aria sta provocando un aumento esponenziale dei consumi energetici: difendersi dal caldo in questo modo finisce con l’aggravare il problema, per-ché maggiori consumi vogliono dire maggiore produzione di energia, e quindi più emissioni inquinanti che provocano l’effet-to serra e l’aumento delle temperature.Non dovremmo dimenticare che gli esseri umani sono mam-miferi, dotati di un sistema termoregolatore che consente loro di mantenere costante la temperatura del corpo, indipendente-mente da quella dell’ambiente: sono perciò in grado di affronta-re il freddo durante l’inverno e il caldo in estate. È innatu-rale pretendere di vivere in ambienti a temperatu-ra costante lungo tutto il corso dell’anno, o ad-dirittura, come spesso avviene, a 25-26 gradi d’inverno e a 20-21 in estate. Molti soffrono per il caldo soprattutto perché, vivendo sem-pre in ambienti refrigerati artificialmente, non sono più abituati alle temperature ele-vate.Prima di ricorrere al condizionatore si possono scegliere metodi di refrigerio più ecologici: un ventilatore fissato al soffit-to, per esempio, ha un consumo di elettri-cità irrisorio. L’aria in movimento, inoltre, è più salutare dell’aria fredda sparata dal condi-zionatore. La ventola che muove l’aria rimuove l’umidità stagnante sulla nostra pelle, che impedi-

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sce l’evaporazione del sudore facendoci soffrire. Un sollievo im-mediato e sufficiente a farci stare meglio.A chi proprio non potesse fare a meno del condizionatore si rac-comanda di limitarne l’uso il più possibile e di non superare una differenza di temperatura fra l’esterno e l’interno di 4-5 gradi. Sarà più salutare per le persone e per l’ambiente.Anche il climatizzatore dell’auto deve essere usato con mode-razione, poiché esso aumenta il consumo di carburante. È molto più ecologico aprire i finestrini!

4. Consumare prodotti a chilometri zeroUn buon contributo alla salvaguardia del clima, oltre che alla salvaguardia della propria salute, può venire da una spesa non distratta. Invece di riempire il carrello di cibi sepolti da monta-gne di cellophane – che servono anche a nascondere le tracce della fatica accumulata nei lunghi viaggi percorsi da ciò che fi-nirà nel nostro stomaco – si possono comprare alimenti freschi che hanno fatto poca strada per arrivare in tavola. È la «spe-sa a chilometri zero». Mangiare «a chilometri zero» permette di risparmiare, perché i prezzi sono fino a dieci volte più alti se gli alimenti acquistati hanno percorso lunghe distanze, e consente di ridurre le emissioni di gas serra: per trasportare a Roma un chilo di pesche dall’Argentina (12 mila chilometri in aereo) si consumano 5,4 chilogrammi di petrolio. Mentre, consumando prodotti locali e di stagione, una famiglia può risparmiare fino a una tonnellata di anidride carbonica l’anno.Mangiare «a chilometri zero» significa rifiutare i prodotti fuo-ri stagione, che quasi sempre vengono da lontano; a volte sono coltivati vicino a noi, ma in serre riscaldate artificialmente: an-che in questo caso, dunque, sono responsabili dell’emissione di gas serra.Occorre abbandonare l’abitudine di mettere in tavola ogni tipo di frutta e verdura in qualsiasi momento dell’anno: si tratta di tornare al ciclo naturale delle stagio-ni, mangiando asparagi e fragole in primavera, pomodori e pesche in estate, uva e pere in au-tunno, cavolfiori e mele in inverno. Oltre a fare un regalo all’ambiente, si scopriranno cibi più gustosi e sapori dimenticati: un frutto matura-to naturalmente al sole ha ben altro sapore da quelli che vengono raccolti verdi per poter af-frontare lunghi viaggi e poi sono fatti maturare artificialmente. E ben diverso è anche il conte-nuto di vitamine e di sostanze nutritive.

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5. Usare lampadine a basso consumoSostituire le vecchie lampadine a incandescen-za con lampadine fluorescenti compatte per-mette di abbattere fino all’80% dell’energia uti-lizzata, alleggerendo il peso economico della bol-letta elettrica. Secondo le stime dell’associazione ambientalista Greenpeace, basterebbe passare a questa nuova tecnologia d’illuminazione per evi-tare l’immissione di tre milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari a circa il 3% del deficit dell’Italia rispetto agli obiettivi di Kyoto.Mediamente una lampadina a fluorescenza consente di evitare l’emissione di 80-90 kg di cO2 l’anno. Cambiando tutte le vec-chie lampadine si eviterebbe la costruzione di una centrale da 1000 megawatt.

6. Spegnere la luce quando non serveUsare lampadine a basso consumo è importante, ma è ancora più importante evitare di accenderle quando la luce naturale è sufficiente. Non dimentichiamo, inoltre, di spegnere la luce quando usciamo da una stanza!

7. Spegnere completamente gli apparecchi elettriciOgni volta che spegniamo televisore, videoregistratore e stereo con il telecomando, il nostro elettrodomestico entra in funzio-ne stand-by ovvero è in attesa che noi lo riaccendiamo. Spie di questa funzione sono lucine colorate, generalmente rosse, che ri-mangono accese. Ciò significa che l’apparecchio continua a con-sumare corrente: dai 4 ai 12 watt l’ora. Può sembrare poco, ma nel corso di un anno diventano dai 30 ai 90 kwh di energia elet-trica consumata, che corrispondono a un’emissione da 20 a 65 kg di anidride carbonica (si tenga presente che 1 kwh di ener-gia elettrica corrisponde all’emissione di 0,72 kg di cO2). Se tutti gli italiani spegnessero sempre tutti gli stand-by dei loro elettro-domestici, potremmo disattivare tre centrali elettriche di media potenza!

8. Risparmiare energia nell’uso del computerÈ possibile risparmiare energia elettrica rispettando alcune sem-plici regole:n quando ci prendiamo una pausa, concediamola anche al com-

puter, mettendolo in stand-by;

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n ricordiamo però che, quando è in stand-by, il computer conti-nua a consumare anche più di 20 watt l’ora: dobbiamo perciò spegnerlo completamente se non lo usiamo per un lungo pe-riodo di tempo, in particolare alla fine della giornata;

n il computer, se ha la spina inserita, assorbe elettricità anche da spento: quando lo spegniamo, perciò, dobbiamo ricordarci di staccare la spina.

9. Risparmiare con gli elettrodomesticiPer evitare di buttare via inutilmente petrolio e denaro, si posso-no adottare semplici accorgimenti nell’uso degli elettrodomesti-ci. Per esempio:n utilizzare lavatrici e lavastoviglie solo quando sono a pieno carico;n adoperare programmi che consentono di risparmiare acqua

e di usarla a una temperatura più bassa;n assicurarsi che il frigorifero sia ben chiuso e ricordare che

ogni minuto in cui sta aperto il consumo aumenta.

Inoltre si deve fare attenzione nella scelta dell’elettrodomestico. Una direttiva europea obbliga i produttori di elettrodomestici a etichettare i propri prodotti a seconda del loro consumo di ener-gia. Si va dall’etichetta verde di classe a (basso consumo) a quella rossa di classe g (alto consumo). Un elettrodomestico di nuova generazione (classe a, cui si sono aggiunte anche a+ e a++) è più caro di uno di vecchia concezione, ma consente di ri-durre il consumo energetico di circa il 30%. La differenza di costo, dunque, viene recuperata nel giro di poco tempo grazie al risparmio sulla bolletta.

10. Meglio le scale dell’ascensoreUno degli apparecchi elettrici che usiamo più spesso è l’ascenso-re. Soprattutto chi abita entro i primi 2 o 3 piani dovrebbe impa-rare a farne a meno, ma anche per chi abita più in alto salire e scendere le scale a piedi è una forma di attività fisica utile alla salute e all’ambiente. Ogni volta che non usiamo l’ascensore ri-sparmiamo circa 0,05 kwh: se questo gesto si ripete anche solo due volte al giorno, nel corso di un anno si può evitare l’emissio-ne di circa 26 kg di cO2.

11. Eliminare i sacchetti di plasticaIn Italia si producono ogni anno 15 miliardi di sacchetti di plastica. Un numero che comporta qualche problema non tra-scurabile.

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Il primo è legato al cattivo uso: lo shop-per è leggero, non costa quasi niente, serve a portare tante cose e liberarse-ne non è una perdita economica. Pur-troppo è una grande perdita ambientale: una volta abbandonati in campagna o al mare – per incuria, disattenzione, igno-ranza – i sacchetti di plastica inquinano e deturpano il paesaggio per decenni o secoli.Ma c’è anche un problema legato a un uso apparentemente corretto. Anche chi evita di lasciare in giro i sacchet-ti, che però continua a comprare a rit-mo forsennato ogni volta che fa la spe-sa, si rende responsabile di un signifi-cativo contributo all’aumento dell’effetto serra. Poiché la plastica viene prodotta a partire dal petrolio, l’uso dei sacchet-ti di plastica determina ogni anno, solo in Italia, l’emissione di 400 mila tonnel-late di anidride carbonica e comporta l’acquisto dell’equivalente di 200 mila tonnellate di gasolio.Per questo, in base a una direttiva europea, a partire dal 1° gen-naio 2010 sarà vietato l’uso delle borse di plastica, che dovranno essere sostituite da sacchetti biodegradabili realizzati con mate-riali di origine vegetale (in particolare il mais).Anche questa, tuttavia, non è una soluzione soddisfacente: se continueremo a usare 15 miliardi di sacchetti ogni anno, anche l’impiego di plastica biodegradabile potrà creare problemi. In particolare, potrebbe succedere ciò che avviene già ora con i bio-carburanti: in un mondo nel quale 854 milioni di persone soffro-no la fame, è assurdo sottrarre migliaia di ettari di terra alla pro-duzione alimentare per destinarla ai carburanti o alla plastica. Il risultato non può che essere un’impennata del prezzo dei cereali e un aumento drammatico del numero di chi non ha da mangiare.In realtà, non possiamo trattare il sacchetto della spesa come un «usa e getta», adoperandolo nel tragitto dal negozio a casa e poi buttandolo per farcene dare un altro alla spesa successiva. Dobbiamo imparare a riutilizzare più e più volte il sacchetto del-la spesa. Dobbiamo tornare a usare le borse della spesa di tela o di iuta e i cesti per le verdure, come si faceva una volta. Con una sola borsa di tela potremo fare la spesa per anni, rispar-miando centinaia o migliaia di sacchetti di plastica.

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12. Non sprecare la cartaPer produrre carta serve cellulosa. La cellulosa si ricava dagli alberi che per questo scopo vengono abbattuti. Se un albero vie-ne abbattuto non produce più ossigeno e non assorbe CO

2. Ecco

allora che è nell’interesse della salute di tutti che vengano abbat-tuti meno alberi possibile. Per questo sono tre le cose importanti:n non sprecare carta;n usare preferibilmente carta riciclata;n gettare la carta non più utilizzabile negli appositi contenitori

per il riciclaggio.

Alcuni consigli per ridurre il consumo di carta: scrivere sem-pre su entrambi i lati dei fogli, usare i fogli da buttare come carta per appunti.

13. Limitare il consumo di carneC’è chi ne fa una questione di principio: i vegetariani, in crescita anche in Italia, rifiutano di nutrirsi con la soppressione di anima-li. Ma anche chi non ha optato per questa scelta radicale può ri-durre il consumo di carne rossa, ottenendo un duplice beneficio, per gli esseri umani e per l’ambiente.per gli esseri umani: nel mondo ci sono 1,3 miliardi di bovini, un’immensa mandria che occupa, direttamente o indirettamen-te, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone. Una delle cause per le quali 854 milioni di esseri umani soffrono la fame è che enormi estensioni di terra vengono sottratte alla coltivazione di cereali per l’alimentazione umana e utilizzate invece per produrre cereali o soia a uso zootecnico.per l’ambiente: l’allevamento intensivo del bestiame ha gravi ef-fetti negativi sull’ambiente. Infatti:n per creare nuovi pascoli e per coltivare i cereali e la soia desti-

nati all’alimentazione degli animali si distruggono ogni anno vaste aree delle foreste tropicali; ne deriva, fra l’altro, una diminuzione dell’assorbimento di CO

2 da parte della vegetazio-

ne e, parallelamente, il rilascio di grandi quantità dello stes-so gas negli incendi cui spesso si ricorre per la deforestazione;

n altre emissioni di gas serra sono provocate dal trasporto dei cereali e della soia dalle coltivazioni intensive, situate in gran parte nell’America meridionale, ai luoghi di allevamento;

n è importante anche l’emissione di un altro gas serra, il meta-no, che si produce in grandi quantità nell’intestino degli ani-mali d’allevamento.

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Che cosa possiamo fare?n limitare il consumo di carne, tenendo presente che un ecces-

so di questo alimento favorisce malattie cardiovascolari, dia-bete e tumori. La dieta mediterranea, che continua a guada-gnare punti nella considerazione internazionale, è basata pro-prio sull’uso moderato della carne, utilizzata come ingrediente all’interno di un menu in cui la verdura e la frutta giocano un ruolo centrale.

n Scegliere carni provenienti da allevamenti «sostenibili», in cui gli animali non vengono nutriti con enormi quantità di ce-reali, mangimi e soia per farli crescere rapidamente, ma sono allevati in modo più lento e naturale con foraggio prodotto nei terreni stessi dell’azienda.

n Ridurre il consumo di carne rossa e preferire le carni bian-che (polli, tacchini, conigli), la cui produzione ha conseguen-ze ambientali negative inferiori a quelle della carne bovina. La condizione, però, è che si scelgano carni provenienti da alleva-menti biologici o, per lo meno, allevamenti in cui gli animali siano tenuti in libertà: sono assolutamente da evitare gli ani-mali cresciuti negli allevamenti intensivi, anzitutto per ri-spetto dei diritti degli animali (in questi allevamenti i polli vi-vono in condizioni di enorme sofferenza), inoltre perché queste carni presentano rischi per la salute umana e perché questo tipo di allevamento è dannoso per l’ambiente (gli animali sono «pompati» con la solita soia importata, responsabile della defo-restazione).

14. Rifiuti: produrne meno, differenziarne di piùAnche i rifiuti contribuiscono al cambiamento climatico, poiché la fermentazione di materiale organico portato in discarica e l’incenerimento dei rifiuti producono rispettivamente metano e cO2, importanti gas serra.In ordine di priorità, ecco le azioni utili per ridurre l’impatto dei rifiuti sull’ambiente e sul clima:n ridurre la quantità di rifiuti, evitando il più possibile i pro-

dotti usa e getta, privilegiando invece i materiali durevoli e il riuso degli oggetti;

Per approfondire i problemi connessi con il consumo di carne, ti invitiamo a leggere,

in questo stesso percorso, il brano di Mark Bittman, La bistecca fa male alla Terra: l’effetto serra ci cambia la dieta.

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n riciclare il più possibile, facendo la raccolta differenziata: carta e cartone, plastica, vetro, alluminio, rifiuti organici, pile, farmaci scaduti, cartucce per stampanti.

Per ridurre la quantità di rifiuti, dobbiamo fare attenzione a cosa compriamo. Quando acquistiamo un prodotto, dobbiamo scegliere fra tutti quello che ha meno imballaggi, oppure quello che ha im-ballaggi riutilizzabili, riciclabili e con minore impatto ambientale.Fra due prodotti, ad esempio, che siano contenuti rispettiva-mente in una bottiglia di vetro e in una di plastica, scegliere-mo quello nel vetro. Quando sarà finito, potremo riutilizzare la bottiglia come contenitore per l’acqua o per mettere la conserva di pomodoro. Quando la bottiglia non ci servirà più, la buttere-mo nei cassonetti per la raccolta differenziata del vetro. I conte-nitori di plastica, invece, non sono in genere riutilizzabili; inol-tre la plastica, essendo un derivato del petrolio, è responsabile dell’emissione di grandi quantità di gas serra; il suo stesso rici-claggio, infine, è molto più complesso e meno efficiente di quel-lo del vetro.Se possibile, evitiamo di acquistare quei prodotti che presentano troppi imballaggi o troppo spreco di materiale: anche le aziende devono capire qual è la strada per inquinare meno e questo pos-siamo farglielo capire solo noi non comperando i loro prodotti.

adatt. da:

Antonio Cianciullo, Il vostro piccolo gesto quotidiano, www.repubblica.it

Manuale per il risparmio energetico, www.amicidellaterra.org

Michele Buono - Piero Riccardi, Buon appetito!, www.report.rai.it

I tempi stanno cambiando, Museo Regionale di Scienze Naturali, Torino

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

La bistecca fa male alla Terra: l’effetto serra ci cambia la dieta

La produzione mondiale di bestiame è responsabile di più gas dell’intero sistema dei trasporti

Mark BittmanUn noto scrittore e giornalista americano, esperto di alimenta zio­ne, ci aiuta ad approfondire i problemi legati al consumo di carne. L’articolo che ti presentiamo è stato pubblicato sul quotidiano statunitense «The New York Times» e ripreso da un quotidiano italiano.

Un cambiamento epocale nell’uso di una risorsa che si dà per scontata potrebbe essere imminente. No, non si tratta di pe-

trolio, ma di carne. Come il petrolio, anche la carne è soggetta a una domanda crescente a mano a mano che le nazioni diventa-no più ricche, e ciò ne fa salire il prezzo. E come il petrolio anche la carne è qualcosa che tutti sono incoraggiati a consumare in quantità minori. La domanda globale di carne si è letteralmente impennata negli ultimi anni, sulla scia di un benessere crescen-te, alimentata dal proliferare di vaste operazioni di alimentazio-ne forzata di animali d’allevamento. Queste vere e proprie fabbri-che della carne, simili a catene di montaggio, consumano quan-tità smisurate di energia, inquinano l’acqua e i pozzi, generano significative quantità di gas serra, e richiedono sempre più mon-tagne di mais, soia e altri cereali, un fatto che ha portato alla di-struzione di vaste aree delle foreste pluviali tropicali.Recentemente il presidente brasiliano ha annunciato provvedi-menti di emergenza per fermare gli incendi controllati e l’abbat-timento delle foreste pluviali del Paese volti a creare nuovi pascoli e aree di coltura. Ne-gli ultimi cinque mesi soltan-to, ha fatto sapere il governo, sono andati persi 3240 chilo-metri quadrati di foreste.Nel 1961 il fabbisogno com-plessivo di carne nel mondo era di 71 milioni di tonnella-te. Nel 2007 si stima che sia arrivato a 284 milioni di ton-nellate. Il consumo pro capi-te di carne è più che raddop-piato in questo arco di tem-

ObiettivO sviluppO sOstenibile7. Noi cittadini del mondo

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po. Nel mondo in via di sviluppo è cresciuto ancora più rapida-mente, raddoppiando negli ultimi venti anni. Il consumo mon-diale di carne si prevede che sia destinato a raddoppiare nuova-mente entro il 2050.Produrre carne comporta il consumo di tali e tante risorse che è una vera impresa citarle tutte. Ma si consideri: secondo la FAO, la Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite, le ter-re destinate all’allevamento del bestiame costituiscono il 30% delle terre emerse non ricoperte da ghiacci del pianeta. Questa stessa produzione di bestiame è responsabile di un quinto delle emissioni di gas serra della Terra, più di quelle emesse dai tra-sporti nel loro complesso. Uno studio dell’Istituto nazionale di scienze dell’allevamento in Giappone ha stimato che ogni taglio di carne di manzo da un chilogrammo è responsabile dell’equi-valente, in termini di biossido di carbonio (CO2

), delle emissioni di una vettura media europea ogni 250 chilometri circa e brucia l’energia sufficiente a tenere accesa per 20 giorni una lampadi-na da 100 watt.Cereali, carne e perfino energia sono collegati tra loro in un rapporto di interdipendenza che potrebbe avere spaventose con-seguenze. Benché più di 850 milioni di persone di questo pia-neta soffrano la fame o siano affette da malnutrizione, la mag-gior parte dei raccolti di mais e soia coltivati finiscono a nutrire bestiame, maiali e galline. Ciò avviene nonostante un’implicita inefficienza: per produrre, mediante il consumo di carni di be-stiame allevato, le stesse calorie assimilate con il consumo diret-to di cereali occorre una quantità di cereali da due a cinque vol-te maggiore, secondo quanto afferma Rosamond Naylor, docente associato di economia all’università di Stanford. Negli Stati Uni-ti l’agricoltura praticata per soddisfare la domanda di carne con-tribuisce, secondo l’Agenzia per la Protezione Ambientale, a cir-ca tre quarti dei problemi di inquinamento che caratterizzano i fiumi e i corsi d’acqua della nazione.Considerato poi che lo stomaco degli animali allevati è fatto per digerire erba e non cereali, il bestiame allevato a livello indu-striale prospera soltanto nel senso che acquista peso rapidamen-te. Questo regime alimentare ha reso possibile allontanare il be-stiame dal suo ambiente naturale e favorire l’efficienza dell’alle-vamento e della macellazione in serie. È tuttavia una prassi che provoca problemi di salute tali che la somministrazione di anti-biotici è da ritenersi usuale, al punto da dar vita a batteri resi-stenti agli antibiotici.Questi animali nutriti a cereali contribuiscono a una serie di problemi sanitari tra gli abitanti più benestanti del pianeta, qua-li malattie cardiache, alcuni tipi di cancro e diabete. La tesi se-

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condo cui la carne fornisce un apporto pro-teico è giusta, purché le quantità siano li-mitate. L’esortazione americana quotidiana a consumare carne – del tipo «guai a te se non mangi la bistecca» – è negativa.Che cosa si può fare? Risposte facili non ce ne sono. I prezzi reali di carne bovina, di maiali e pollame si sono mantenuti costanti, forse sono perfino scesi, per 40 anni e più, anche se ora stiamo assistendo a un loro au-mento di prezzo. Se i prezzi elevati non co-stringeranno a cambiare le abitudini ali-mentari, forse sarà tutto l’insieme – la com-binazione di deforestazione, inquinamento, cambiamento del clima, carestia, malattie cardiache e crudeltà sugli animali – a inco-raggiare gradualmente qualcosa di molto semplice: mangiare più vegetali e meno ani-mali.Ridurre il consumo di carne può essere uti-le al raggiungimento di più obiettivi: la pre-venzione di gravi malattie, la salvaguardia dei diritti degli animali, la lotta contro la povertà e la fame, la difesa dell’ambiente. È un caso in cui ciò che giova alla salute delle persone è utile anche alla salute del pianeta.La domanda di prodotti animali e la difesa dell’ambiente sono, in qualche misura, conciliabili se si scelgono carni, uova e latticini provenienti da allevamenti sostenibili. Questi prodotti sono più costosi degli altri: ma è giusto così, perché la carne dovrà torna-re a essere considerata un alimento pregiato più che un’abitudi-ne quotidiana. Probabilmente il consumo di carne non diventerà raro come in passato, ma in ogni caso, proprio come i SUV do-vranno cedere il passo a vetture ibride, l’epoca dei 220 grammi al giorno di carne è destinata a finire. Forse, dopotutto, non sarà poi così drammatico.

«la Repubblica»

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Antologia 3

Dai diamanti non nasce niente, nemmeno dal fango né dall’immondizia

Vauro SenesiLa povertà e le guerre sono le cause principali degli attuali fenomeni migratori. L’articolo che segue ti aiuterà a conoscere le condizioni drammatiche in cui vivono molti nostri concittadini del mondo. Ti aiuterà a capire che molti paesi sono poveri pur essendo ricchissimi di risorse naturali, che sono però sfruttate da società straniere. Per il possesso di quelle risorse, anzi, spesso si scatenano guerre che portano alla rovina i paesi in cui esse si trovano. La miseria in cui vivono popoli interi non è dunque una fatalità, ma è la conseguenza di ingiustizie, sfruttamento e violenze.

Freetown è la capitale della Sierra Leone, un paese che fino ai primi mesi del 2000 è stato dilaniato da una feroce guerra

civile, riuscita nell’impossibile impresa di rendere più miserabili le condizioni di vita dei suoi cinque milioni di abitanti.Qui la guerra non ha portato miseria: ha aggiunto miseria alla miseria. Alla miseria di un paese ricchissimo: diamanti, titanio e cromite. E recentemente pure il petrolio, tutto ciò che serve a ren-dere ricchi gli altri e a condannare inesorabilmente chi ci vive.Freetown significa «città libera», perché fu fondata da schiavi liberati. Ma solo l’enorme albero (cotton tree), piantato nel suo centro quando la città sorse, ricorda il senso che il nome aveva all’origine.Dieci anni di guerra civile hanno provocato una slavina di mi-seria umana, che dai promontori e dalle terre dell’interno della Sierra Leone si è riversata sulla città, investendola di disperati.

ObiettivO sviluppO sOstenibile7. Noi cittadini del mondo

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I 300 000 abitanti che la capitale contava prima della guerra, sono diventati 2 milioni e mezzo.Freetown si è trasformata in un immenso campo profughi. Scen-dendo verso il centro dalle zone di lusso dove, cintate da alte mura e rotoli di filo spinato, sorgono le ville degli arricchiti dal-la corruzione, ci si trova presto immersi in una fiumana di fol-la, che scorre densa tra botteghe, case fatiscenti1 e qualche ma-landata costruzione di stile coloniale2. Una bolgia di colori: tra quelli degli stracci sporchi, spiccano vivaci quelli dei vestiti tra-dizionali delle donne. Vecchi furgoni e auto sembrano navigare tra i corpi in movimento. Il suono dei clacson si fonde con il vo-cìo e con le musiche di ritmo reggae che si accavallano da radio e stereo a tutto volume.Le ceste di mercanzie e i sacchi, che molte donne portano sul capo, paiono galleggiare su questo torrente di umanità che scen-de verso il mare. Il cielo grigio della stagione delle piogge si ri-flette sull’oceano, dandogli lo stesso colore della infinità di tetti di lamiera ondulata che coprono le baracche sedimentate sulla costa sino a sfiorare l’acqua.Un dedalo3 inestricabile di fango e sporcizia sembra saldare ine-sorabilmente dentro di sé ogni barlume di speranza per chi è co-stretto a viverci, facendo apparire assurda anche solo l’idea di una via d’uscita.Eppure l’enorme baraccopoli non è che la porta di accesso a un girone di miseria ancora più profondo.Oltre i suoi confini si distende la vasta discarica d’immondizia della città. Lì, tra la melma nera, i fumi di combustione e i mia-smi mefitici4 che si levano, impregnando l’aria sino a renderla opaca, si scorgono le sagome scure degli esseri umani che vi hanno trovato un’ultima possibilità di sopravvivenza. Avvicinan-dosi prendono la forma di bambini che aiutano le madri a estrar-re dalle montagne di pattume marcio tutto ciò che possa avere ancora un’utilità o un pur misero valore di mercato: metalli, ve-tro, avanzi di cibo. Una vecchia cammina curva su un rettangolo di sporcizie, spianato come un piccolo orto dalla mano lascia ca-dere dei semi, coltiva verdure e fiori per venderle e per nutrirsi.Gruppi di baracche sorgono qua e là dentro la discarica. Chi non ha nemmeno quelle, quando cala la notte, semplicemente si sten-de tra la spazzatura.Molto più a est di Freetown, vicino ai confini con la Guinea, nel-la zona di Kono, ci sono uomini che la slavina della miseria non ha trascinato sino alla città perché sembrano piantati nella ter-ra. L’acqua fangosa delle miniere di diamanti alluvionali5 a cielo aperto ha davvero lo stesso colore rossastro delle montagnole di terra scavata che la circondano. Dalle otto del mattino sino alle

L’autore del brano è un disegnatore e giornalista, noto soprattutto, con il solo nome di Vauro, come vignettista satirico. Collabora da anni con l’associazione umanitaria Emergency, che ha un ospedale in Sierra Leone: per questo ha potuto conoscere da vicino i problemi di quel paese.

Il titolo si richiama a una canzone famosa di Fabrizio De André, Via del Campo, che si conclude con questi versi: «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior».

1. fatiscenti: ridotte in pessimo stato, in rovina, cadenti.

2. stile coloniale: stile architettonico proprio degli edifici costruiti dagli europei che colonizzarono il paese.

3. dedalo: labirinto, intrico di strade in cui si perde l’orien­tamento.

4. miasmi mefitici: esalazioni irrespirabili.

5. diamanti alluvionali: diamanti che si trovano in giacimenti superficiali, mescolati al fango, dopo essere stati trasportati dalla pioggia o da corsi d’acqua.

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6. si fomentano: si favoriscono, si promuovono, si provocano.

quattro del pomeriggio un altro esercito di disperati vi sta im-merso sino alle ginocchia, scavando e setacciando il fango nella speranza di vedere luccicare una pietruzza, e aumentare con la piccola percentuale, che chi ha la licenza di estrazione per l’area riconosce loro, il misero salario di meno di due dollari al giorno che percepiscono.I diamanti veri stanno altrove nelle miniere sotterranee control-late da grandi società straniere, libanesi, sudafricane, canade-si… Sono i diamanti per i quali si fomentano6 le guerre. Sono la ricchezza che qui lascia solo la miseria incancrenita dalla corru-zione. Frugare tra l’immondizia o nel fango alla ricerca di pietre preziose non fa differenza in Sierra Leone.

«Emergency», n. 44

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Antologia 3

Tahar Ben JellounNon hai paura di partire?

1. Tangeri: città del Marocco, sullo Stretto di Gibilterra.

Azel, un giovane marocchino, non ha prospettive di futuro nel suo paese. Non gli resta altra speranza che quella di partire…

Ogni volta che Azel pensa al suo destino, si chiude in un si-lenzio in cui nessuna presenza si staglia e ha freddo. Qua-

lunque sia la stagione, il suo corpo è scosso da un leggero tre-mito. Sente il bisogno di allontanarsi dalla notte, si rifiuta di en-trarci. Cammina nella città, non parla con nessuno, e si immagi-na di essere un sarto, uno stilista, ma di un genere speciale, ca-pace di cucire insieme con un filo bianco i vicoli stretti e i larghi viali, come in quella storia che sua madre gli raccontava quando faceva fatica ad addormentarsi.Fu in una notte di febbraio del 1995 che decise di abbandonare il suo lavoro di sarto, persuaso che Tangeri1 non fosse più un abito, ma una di quelle coperte di lana sintetica che gli emigra-ti portano dal Belgio. La città era nascosta sotto quel tessuto, che tratteneva il calore senza però tener lontana l’umidità. Non aveva più forma, non aveva più un centro, solo luoghi dai con-torni decisamente spigolosi in cui le automobili avevano preso il posto delle contadine venute dal Fahs per vendere la frutta e la verdura.«Che cosa è diventata la mia città!» pensava Azel. «Questo pae-se è un vero mercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, un mercato dove tutti sono in vendita, basta avere un minimo di po-tere e tutto ha un prezzo, non co-sta molto, giusto un paio di botti-glie di whisky, anche se per i colpi grossi le cose sono un po’ più com-plicate… il denaro passa di mano in mano… se vuoi che chiuda un oc-chio, dimmi il giorno e l’ora esat-ti e non avrai problemi, fratello… se invece vuoi una firma, una pic-cola sigla in calce a questo docu-mento, nessun problema, passami a trovare, e se preferisci non distur-barti, mandami il tuo autista… Sì, questo è il Marocco, da una parte ci sono quelli che lavorano come dan-

7. Noi cittadini del mondo nO al razzismO

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nati, lavorano perché hanno deciso di essere persone oneste, la-vorano nell’ombra, nessuno li vede e nessuno ne parla, mentre andrebbero premiati, dal momento che il paese funziona grazie alla loro integrità, e poi ci sono gli altri, una legione, sono ovun-que, in tutti i ministeri, perché nel nostro benemerito paese la corruzione è l’aria che respiriamo… sì, puzziamo di corruzione, è sui nostri volti, nelle nostre teste, è annidata nei nostri cuori».All’università, Azel aveva studiato diritto. Aveva ottenuto una borsa di studio grazie a una particolare nota di merito alla ma-turità. I suoi genitori non avrebbero potuto pagargli gli studi. Per trovare un impiego, contava su uno zio che aveva uno stu-dio legale a Larache. Dopo una storia complicata, in seguito alla quale lo zio aveva perso la sua clientela, lo studio era però sta-to chiuso. Di fatto, aveva perso la maggior parte dei suoi clien-ti perché si rifiutava di comportarsi come tutti gli altri. Era sta-to così che si era creato una brutta reputazione: «Non andare dall’avvocato El Ouali, è uno onesto, niente compromessi con lui, niente agevolazioni, perde tutti i processi!». Azel aveva capito che il suo avvenire era a rischio, e che senza raccomandazioni non avrebbe mai avuto nessun lavoro.Lasciare il paese. Era un’ossessione, una specie di chiodo fisso che lo tormentava giorno e notte. Come fare? Come farla finita con quell’umiliazione? Partire, lasciare questa terra che non ne voleva più sapere dei suoi figli, voltare le spalle a un paese così bello per poi tornare, un giorno, a testa alta e forse ricco, par-tire per salvarsi la pelle, pur rischiando di perderla… Ci pen-sava, e non capiva come fosse potuto arrivare fino a quel pun-to; quell’ossessione ben presto era diventata una maledizione. Si sentiva perseguitato, maledetto e destinato soltanto a sopravvive-re, a uscire da un tunnel per poi sbucare in un punto morto. La sua energia, la sua forza fisica, il suo corpo atletico perdevano vigore di giorno in giorno.Per vivere, Azel dipendeva da sua sorella, che lavorava come in-fermiera in una clinica. Faceva dei lavoretti extra in altri posti, dal momento che la clinica non la pagava un granché.Azel aveva rinunciato a cercare lavoro, perlomeno con metodi tradizionali, e cioè con una lettera di presentazione accompagna-ta da un curriculum. La cosa non portava da nessuna parte. Le aveva provate tutte, sia nella pubblica amministrazione sia nelle professioni private, ma non aveva le spalle abbastanza larghe per avventurarsi in quel mondo di pescecani. In fin dei conti, Azel era un bravo ragazzo, educato, onesto e non violento. Poveretto! Non sapeva di trovarsi sulla strada sbagliata! La sua idea fissa era sempre la stessa, e lui la perseguiva costantemente: parti-re! Era l’unica cosa che gli interessasse e si aggrappava a quel-

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la prospettiva. Nell’attesa vivacchiava, cercava di rivendere auto d’occasione, faceva il mediatore per un’agenzia immobiliare, ed era persino arrivato a mettersi in fila davanti al consolato fran-cese per conto di un tizio coi soldi che gli dava duecento dirham per le cinque ore di attesa. Ma non bastavano, né per lui né per i suoi sogni. Azel ci pensava… una famiglia… forse, un giorno!Parecchie ragazze erano innamorate di Azel, ma lui le scorag-giava dicendo loro la verità a proposito della sua situazione: «Ho ventiquattro anni, sono laureato, non ho un lavoro, non ho sol-di, non ho una macchina, sono un caso umano, sì, sono anch’io alla deriva, pronto a tutto pur di andarmene, pur di vedere que-sto paese solo in cartolina, quindi non sono fatto per l’amore, e poi voi vi meritate di meglio, meritate il lusso, la bellezza, la po-esia… Io ho già tentato di attraversare i quattordici chilometri2 che ci separano dall’Europa, ma sono stato truffato; e, comun-que sia, ho avuto più fortuna di mio cugino Noureddine, che è annegato a pochi metri da Almeria, non so se mi spiego».Le ragazze lo ascoltavano, e alcune di loro piangevano. Venivano tutte da famiglie in cui qualche parente aveva tentato di partire allo stesso modo. Siham, quella che gli piaceva di più, confessò di aver attraversato lo stretto anche lei, ma all’alba gli agenti del-la Guardia Civile erano lì sulla spiaggia ad attenderli in divisa mimetica, come ai tempi della guerra. Era stata arrestata, inter-rogata e poi riaccompagnata a Tangeri, dove la polizia maroc-china l’aveva pestata. Da allora si era inventata altri progetti, an-che se non aveva mai rinunciato all’idea di partire e di andare il più lontano possibile da lì.– Io, se mai riuscirò a emigrare, sarà per occuparmi degli anzia-ni. Mia sorella lavora a Milano presso due famiglie: lì le persone anziane sono abbandonate dai loro stessi figli o dai nipoti, ed è per questo che si rivolgono a giovani maghrebine che prepara-no loro da mangiare, li accompagnano in ospedale, li portano a fare una passeggiata, gli leggono qualcosa, insomma, gli dan-no ciò di cui hanno bisogno. È bello, come lavoro. È questo il mio sogno. Mia sorella sta cercando di capire come posso ottenere il visto.– E non hai paura di partire?– Il cambiamento, amico mio, è la chiave del desiderio.

T. Ben Jelloun, Partire, Bompiani

2. quattordici chilometri: è la larghezza dello Stretto di Gibilterra.

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Antologia 3

La schiavitù non è un fenomeno di secoli lontani, da studiare sui libri di storia. Ancora oggi ci sono uomini che sfruttano altri uomini come schiavi. Anche in Italia. L’autore di questo brano è un giornalista che, fingendo di essere un immigrato, si è mescolato ai tanti stranieri che ogni anno vengono a lavorare nelle aziende agricole di molte regioni italiane. Ha così potuto conoscere da vicino le condizioni in cui essi vivono e lavorano. Leggi che cosa ha scoperto.

Fabrizio GattiSchiavi nel XXI secolo

Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di

Foggia. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Lungo la via che porta i pellegrini al santuario di San Giovanni Rotondo. Una set-timana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fat-to un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Romeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Sene-gal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli im-prenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se

nO al razzismO7. Noi cittadini del mondo

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1. articoli uno, due e tre:sono gli articoli in cui la Repubblica Italiana si impegna a garantire i diritti fondamentali di ogni persona.

2. caporali:persone che fanno da intermediari per il reclutamento illegale di manodopera costretta a lavorare in nero e sottopagata.

3. Mississippi burning:è un film sul tema del razzismo contro i neri negli Stati Uniti.

4. concorrenza sleale all’Unione Europea:gli imprenditori che si servono di lavoratori in nero, sottopagati, hanno minori costi di produzione e possono vendere i loro prodotti a un prezzo inferiore rispetto a chi osserva la legge.

ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre1. E della Dichiarazione universale dei diritti umani. Per proteg-gere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltiva-to una rete di caporali2 spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemme-no i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge italiana sull’im-migrazione: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cer-cati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film Mississippi burning3. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La pro-vincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della tra-sformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui di-ventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, po-modori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. Abbiamo controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione Europea4. Dentro questi orizzonti di ulivi e cam-pagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.L’acqua che tirano su dal pozzo non la possono bere. È inquina-ta da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Provo a informarmi sui costi di questo tugurio. «Cerchi un materasso? Devi chiedere al caporale, quando arriva» mi spiega Asserid. «Se ti conosce, ti fa pagare cinquanta euro al mese. Se sei nuovo, cinque euro a notte. Ma devi lavorare per lui. Perché i soldi li trattiene sulla paga». «Cinque euro per questi materassi luridi?» esclamo. «È così. Il caporale guadagna il dop-pio. Perché su ogni materasso dobbiamo dormire in due. Anche su quelli piccoli da una persona. Qui, vedrai, non ci sono mate-rassi grandi. Poi ti toglie altri cinque euro al giorno per il tra-sporto sui campi. E cinquanta centesimi o un euro per ogni ora pagata. Perché, dice, è grazie a lui che lavoriamo».Poi Asserid mi spiega che a volte, quando è giorno di paga, gli stessi padroni chiamano i carabinieri per segnalare la presen-za di immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Così i braccianti vengono portati via per il rimpatrio e nessuno di loro viene pagato.

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5. bingo bongo: espressione che riproduce il suono di alcune parole africane e che viene usata da persone di mentalità razzista per riferirsi in modo spregiativo ad africani

6. Giovanni: un caporale che si occupa di trasportare i braccianti sui campi.

7. vuole sapere… i bianchi: Gatti si è presentato come africano e, per giustificare la propria pelle bianca, ha detto di provenire dal Sudafrica, dove una parte della popolazione è formata dai discendenti dei coloni europei..

Quando il padrone vede arrivare il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi dà gli ordini gridando: «Forza bin-go bongo5». Si lavora a testa bassa. Guai ad alzare lo sguar-do: «Che c’è da guardare? Giù e raccogli», urla il padrone avvi-cinandosi pericolosamente. Si chiama Leonardo, una trentina d’anni. È pugliese. Da come parla è il proprietario dell’azienda agricola. O forse è il figlio del proprietario. Si occupa della ma-nodopera.Una sorta di comandante dei caporali. Leonardo si fa aiutare da un altro italiano, il caporale dei romeni. Il terzo italiano è pro-babilmente il compratore del raccolto. Parcheggia il suo Suv e si fa subito sentire. Qualcuno ha appoggiato per sbaglio le casset-te piene sulle piante di pomodoro. E lui grida come un pazzo: «Il primo che rimette una cassetta sulle piante, gliela spacco sulla testa». I tre italiani sudano. Ma solo per il caldo. Oltre a sorve-gliare i loro schiavi, non fanno assolutamente nulla.Giovanni6 va a recapitare altri braccianti. Poi torna con i rifor-nimenti d’acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e mezzo da far bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono bottiglie ri-empite chissà dove. Una zampilla da un buco e arriva quasi vuo-ta. L’acqua ha un cattivo odore. Ma almeno è fresca. Comunque non basta. Due sorsi d’acqua in oltre quattro ore di lavoro a qua-ranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior parte dei ra-gazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto colazione. Così ci si arrangia mangiando pomodori verdi di nascosto dai capo-rali. Anche se sono pieni di pesticidi e veleni.Leonardo vuole sapere com’è che in Africa ci siano i bianchi7. Gira tra le schiene curve come un professore tra i banchi. Mo-hamed, 28 anni, un ragazzo della Guinea, chiede il permesso di rispondere. Per smettere di lavorare o solo per parlare, qui bi-sogna sempre chiedere il permesso. Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in Sudafrica. È laureato in scienze politiche e re-lazioni internazionali all’Università di Algeri. Parla italiano, in-glese, francese e arabo. E risponde rimanendo in ginocchio, da-vanti a quell’italiano che confessa senza pudore di non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela.Giunta la sera, Giovanni ci riporta alla stalla: «Domani matti-na vengo a prendervi alle cinque» annuncia. Sono ormai le die-ci passate. Calcolando una doccia improvvisata con l’acqua del pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I ragazzi africani mi spiegano le sanzioni. Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono ven-ti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis.

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Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno sa quanti siano i lavoratori romeni, bulgari o africani spariti. I ca-porali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non san-no nemmeno come si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto in-sistere i diplomatici di Varsavia. È dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa.Dopo mesi di inutile attesa l’appello è stato girato al Comando generale dei carabinieri. E finalmente la Procura antimafia di Bari ha aperto un’inchiesta.Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Il pic-colo sarebbe nato a fine settembre. Liliana D., 20 anni, quasi all’ottavo mese di gravidanza, la settimana di Ferragosto arran-ca con il suo pancione tra piante di pomodoro. Né il marito, né il caporale, né il padrone italiano pensano a pro-teggerla dal sole e dalla fatica, benché da giorni le temperature siano sopra i quaranta gradi. Quando Liliana sta male, è troppo tardi. Ha un’emorragia. Resta due giorni senza cure nel rudere in cui abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia. Soltanto il sabato il marito decide di rischia-re l’espulsione e porta la moglie in ospedale. La ragazza rischia di morire. Il bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma il suo cuore non batte più. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa disumana che premia chi più taglia i costi di produzione.

«L’espresso»

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Antologia 3

Vanna Cercenà

1. cotola: gonna, in dialetto veneto.

2. Nuovaiorc: in passato il nome di New York veniva italianizzato in Nuova York, qui scritto come è pronunciato.

Carlotta, una ragazza in vacanza sulle Dolomiti, scopre nella soffitta dell’alloggio in cui si trova un diario di cento anni prima. Questo diario era stato scritto da una ragazza della sua stessa età di nome Caterina, parente di una famiglia che tuttora vive in un paese vicino a Belluno. Caterina era una «migrante», partita per l’America o, come la chiamava lei, la Merica.Forse l’anno scorso hai già letto, ONLINE, nel brano Diario allo specchio, le pagine iniziali dei diari delle due ragazze. Ora ti proponiamo la parte in cui Caterina parla del suo arrivo in America, dopo il viaggio in nave.

Un diario dal passato

13 agosto 1904

Quando mi sono svegliata ho avuto un’impressione strana, non sentivo più muoversi il pavimento sotto i piedi. Qualcu-

no batteva alle porte delle cabine e gridava di prendere le nostre cose e salire sul ponte.Sono salita di corsa col mio fagotto. Tutti si accalcavano ai para-petti gridando: – Merica, Merica!Io, per vedere, mi sono arrampicata sulla cassa e quasi cascavo di sotto dalla meraviglia. La statua! La statua della libertà che mi aveva detto Peppino c’era davvero! Reggeva in alto una fiac-cola. Era in piedi su una stella di pietra con tutto il mare intor-no. Il sole la illuminava e la faceva splendere.Mentre ero lì che non potevo smettere di guardarla, mi sono sen-tita tirare per la cotola1: era Peppino. Quasi non lo riconoscevo, si era tolto quel blusotto unto e ora aveva un giacchetto a quadri che gli arrivava quasi ai piedi tanto era grande.– Hai visto, Catarì, quanto è bella Nuovaiorc2? – mi ha gridato.Mi sono voltata dalla sua parte e questa volta ho rischiato dav-

vero di cadere in mare dall’impressione che mi hanno fat-to tutte quelle case, alte come campanili! Non ho avu-

to il tempo di dirlo a Peppino perché all’improvvi-so, proprio dalla parte della nave dove stavo io,

sono spuntati degli uomini tutti vestiti uguali di blu, con i bottoni d’oro e uno stemma sulla manica.Peppino è immediatamente sparito giù per la scaletta. Uno di quegli uomini aveva una specie di imbuto e ha cominciato a gridare delle cose in americano, ma pochi capivano. Allora ha ricominciato: – ATTENZIONE, AT-

TENZIONE! – e la voce dall’imbuto gli usciva fortissima. A poco a poco si è fatto un silenzio

che mi faceva paura.– ATTENZIONE! – ha urlato di nuovo. – Ora vi fac-

ciamo scendere dalla nave, ma dovete rimanere in fila

eravamO cOme lOrO7. Noi cittadini del mondo

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

3. isola di Ellis: è Ellis Island, un isolotto nella baia di New York che per molti anni fu il principale punto d’ingresso per gli emigranti che sbarcavano negli Stati Uniti.

4. plismen: si tratta della parola inglese policemen (poliziotti), scritta nel modo in cui la ragazza la sente pronunciare.

dentro i cancelli. Vi porteremo all’isola di Ellis3 dove vi faranno la visita medica e controlleranno i vostri documenti –. Tutti hanno cominciato a chiedere, a chiamarsi…– ATTENZIONE! – ha gridato ancora l’uomo nell’im-buto. – Le famiglie si devono mettere al centro del ponte, le donne sole con i bambini a sinistra, gli uomini soli a destra. Le famiglie cominciano a scendere per prime. Senza spingere e documenti alla mano! – Subito è stato come se si muoves-se un’onda, tutti correvano qua e là e i bambi-ni piangevano attaccati alle cotole delle mam-me. Io non sapevo che fare. Quelli vestiti di blu ci spingevano per dividere i gruppi e ve-devo che tutti gli uomini erano ammucchia-ti dall’altra parte, lontano. Non avevo pensato a farmi rendere i documenti! Ho cominciato a chiamare forte Michele, ma non riuscivo a ve-derlo.E ora che mi succedeva? Mi rimandavano indietro?Mi sono messa a piangere, non avevo mai avuto tanta paura. Senza farmi vedere dagli uomini blu sono tornata indietro verso la scaletta e ho gridato:– Peppino, Peppino!Quasi per miracolo lui è saltato fuori. – Che succede, Catarì? – mi ha detto.– Non ho con me i documenti, sono rimasti da Michele, non so che fare! – ho singhiozzato.Lui mi ha detto di smettere di piangere, mi ha preso per mano e mi ha portato in uno stanzino accanto alle cucine.– Stai qui buona – ha detto ed è sparito. La sirena della nave suonava di continuo e si sentiva da lontano il gridare dei poli-ziotti e della gente. Io me ne stavo rintanata nello sgabuzzino, che aveva un puzzo di grasso andato a male da far vomitare. Quelli sono stati i minuti più brutti della mia vita. Poi è spuntato Peppino trionfante, con qualcosa in mano. Ho riconosciuto subi-to la sacchetta che mi aveva cucito la mamma per tenere i miei documenti; l’aveva fatta con un vecchio grembiule a fiorellini. Ho ricominciato a piangere per la gioia stringendomela al cuore. Non riuscivo nemmeno a dire grazie, mentre Peppino mi spinge-va su per la scaletta e mi raccontava che aveva trovato Michele dall’altra parte; anche lui era disperato, non lo facevano passare per venire da me…Ora invece è contento, diceva, e si è messo a suonare la fisarmo-nica e i plismen4 lo lasciano fare, così gli uomini cantano e stan-no tranquilli.

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5. pieve:chiesa (il termine era usato per indicare una chiesa parrocchiale di campagna).

6. gabbanella: camice.

7. delle carte:dei documenti.

Mi sono ritrovata sul ponte senza capire più nulla, con la mia sacchetta ben stretta in mano. Peppino non lo vedevo più. Ho sentito una voce che gridava: – Addio Catarì e buona fortuna!– Grazie Peppino, non ti dimenticherò mai! – ho urlato, mentre i poliziotti mi spingevano verso il gruppo delle donne.

13 agosto 2004Questa pagina l’ho riletta cento volte. È troppo bella! Ecco per-ché Caterina ha chiamato Giuseppe suo figlio!Chissà se la potrò usare una volta in un testo tipo «Descrivi un tuo viaggio». Forse la prof Talamini lo troverebbe molto origi-nale. Ma poi, se legge il diario, si accorge subito che ho copiato. Niente da fare.

14 agosto 1904Dopo non so quante ore era venuto finalmente il turno delle donne coi bambini di scendere a terra. Ci hanno messi in fila e poi fatti salire su una nave piccola. Siamo arrivati quasi subito all’isola e ci hanno spinto su un ponte stretto che univa la nave a una grande casa dove ci facevano entrare uno per volta. Io fa-cevo fatica a camminare su quella passerella perché mi si erano gonfiati i piedi e le gambe, ma volevo sembrare sana e allora mi sono fatta coraggio. La stanza dove ci hanno fatto entrare era enorme e più alta della pieve5.Abbiamo dovuto posare i fagotti; tutti lo facevano malvolentie-ri, però non c’è stato niente da fare; poi siamo andati avanti. Ci hanno fatto salire le scale e poi siamo entrati nelle stanze dove i dottori ci visitavano. Mi sembrava di essere alla fiera di otto-bre, quando vendono le capre e le mucche. Mi hanno guardata da tutte le parti. Alla fine della visita un dottore con la gabba-nella6 bianca mi ha attaccato sul petto un cartello con stampata una grossa A maiuscola. Una delle donne che era con me sulla nave aveva invece una H e piangeva, diceva che la rimandavano in Italia perché era malata di cuore.Dopo siamo andate al controllo delle carte7. Le nostre voci e quelle degli uomini che stavano dietro ai banchi rimbombava-no. La confusione, le grida, la poca pazienza di quelli che ci fa-cevano le domande non le dimenticherò mai. Mi hanno fatto ri-petere il mio nome cento volte. Io cercavo di spiegare che ero con Michele, ma loro non capivano me e io non capivo loro. La prima cosa che voglio fare in Merica è imparare l’americano. Alla fine hanno chiamato uno che correva qua e là da un banco all’altro e parlava italiano e io ho detto a lui di Michele, poi gli ho mostrato

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8. gud: è l’inglese good (bene), scritto come viene pronunciato.

9. Ellisailand: trascrizione della pronuncia di Ellis Island.

tutto quello che avevo nella sacchetta. Quell’uomo ha parlato con loro svelto svelto e alla fine hanno detto: – Gud, gud8 – e mi han-no lasciata andare.Credevo che fosse finita, invece una signora mi ha preso per mano, mi ha dato un bicchiere di latte e una fetta di pane con sopra una specie di burro dolce e poi mi ha portato in una stan-zetta dove non c’era nessun altro. Mi ha fatto cenno di mettermi a sedere su una panca che era lì e poi se n’è andata chiudendo a chiave la porta. Mi avevano messo in prigione?Allora mi sono proprio persa di coraggio. Fino a quel momento non avevo avuto paura perché pensavo che ormai ero riuscita a attraversare il mare, non avevo patito la fame sulla nave e stavo in Merica. Ora invece ero sola e non sapevo cosa mi succedeva.Quando si è riaperta la porta della stanza, mi batteva forte il cuore. Forse mi venivano a prendere per rimandarmi in Italia? Invece, dietro alla signora che mi aveva portato lì c’era Miche-le. Ho provato una felicità così grande che mi pareva di morire. Credevo che lui e la sua fisarmonica fossero impazziti. Infatti si era dimenticato di fermarla con le cinghie e lei faceva dei suoni per conto suo, andando su e giù. Mi ha detto che quelli che mi avevano guardato le carte lo avevano cercato per tutto il pome-riggio, ma non lo trovavano perché era stato fra gli ultimi ad ar-rivare a Ellisailand9.Aveva un foglio appuntato sulla giacchetta. Era il permesso di sbarco, mi ha detto. Ora potevamo tornare al porto di Nuovaiorc. Dovevamo solo andare a prendere il battello.

14 agosto 2004Anche questa pagina me la sono letta cento volte. Tutte queste cose che succedevano agli emigranti le voglio raccontare a scuo-la, quando facciamo la ricerca di storia. Spero che non sia suc-cesso così anche a Shirin, la nostra compagna kurda, quando è sbarcata in Italia; ma penso di no, perché da allora è passato un secolo!

V. Cercenà, Diario allo specchio, Edizioni EL

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3 abbattere i muri

La Carta della Terra

Ci troviamo in un momento critico della storia della Terra, un momento in cui l’umanità dovrà scegliere il suo futuro. Man

mano che il mondo diventa sempre più interdipendente1 e fragi-le il futuro riserva grossi pericoli e, nello stesso tempo, grandi promesse. Per andare avanti dobbiamo riconoscere che nel mez-zo di una straordinaria diversità di culture e stili di vita siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società glo-bale fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universa-li, la giustizia economica e una cultura della pace.Noi, pertanto, affermiamo i seguenti principi per lo sviluppo so-stenibile in base ai quali guidare e valutare le condotta di indi-vidui, organizzazioni, imprese economiche, governi e istituzioni.

1. in terdipen dente: significa che le diverse aree del mondo dipendono reciproca mente l’una dall’altra.

La Carta della Terra si presenta come «una dichiarazione di principi etici fondamentali per la conservazione dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile».Essa affronta molti temi, strettamente legati fra loro: la protezione ambientale, il rispetto dei diritti umani, la giustizia economica e sociale, la lotta contro la povertà, il rifiuto di ogni discriminazione, il trionfo della non violenza e della pace.Ti presentiamo alcuni dei principi affermati nella Carta.

7. Noi cittadini del mondo

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche.a. Facendo in modo che le comunità, a tutti i livelli, garantisca-

no i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tut-ti le opportunità per realizzare appieno il proprio potenziale.

b. Promuovendo la giustizia sociale ed economica, permettendo a tutti di raggiungere uno standard di vita sicuro e dignitoso ed ecologicamente responsabile.

Sradica la povertà come imperativo etico, sociale e ambientale.a. Garantendo il diritto all’acqua potabile, all’aria pulita, alla si-

curezza alimentare, al suolo incontaminato, alla casa e a con-dizioni igieniche sicure.

b. Dando a ogni essere umano l’istruzione e le risorse necessa-rie per garantire un tenore di vita sostenibile e fornendo una rete previdenziale e di sicurezza per coloro che sono incapaci di sostenersi da soli.

c. Assistendo gli esclusi, proteggendo le persone vulnerabili, so-stenendo coloro che soffrono e permettendo loro di sviluppare le proprie capacità e di perseguire le proprie aspirazioni.

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Sostieni i diritti di tutti, senza alcuna discriminazione, a un ambiente naturale e sociale capace di garantire la dignità umana, la salute dei corpi e il benessere dello spirito, soprattutto per quanto riguarda i diritti degli indigeni e delle minoranze.a. Eliminando le discriminazioni in ogni loro forma, come quel-

le basate su colore della pelle, sesso, orientamento sessuale, religione, lingua e origine nazionale, etnica o sociale.

b. Affermando i diritti dei popoli indigeni alle proprie forme di spiritualità, conoscenze, terre e risorse, e alle relative pratiche di vita sostenibili.

c. Onorando e aiutando i giovani delle nostre comunità, permet-tendogli di adempiere il loro ruolo fondamentale di creare so-cietà sostenibili.

d. Tutelando e restaurando i luoghi di notevole significato cul-turale e spirituale.

Promuovi una cultura della tolleranza, della non violenza e della pace.a. Incoraggiando e sostenendo la comprensione reciproca, la so-

lidarietà e la cooperazione tra i popoli, all’interno e fra le na-zioni.

b. Attuando strategie ampie per evitare i conflitti violenti e uti-lizzando la risoluzione collaborativa dei problemi per gestire e risolvere conflitti ambientali e altre dispute.

c. Smilitarizzando i sistemi di sicurezza nazionale al livello di un atteggiamento di difesa non provocativa e riconvertendo le risorse militari a scopi di pace, compresa la bonifica ambien-tale.

d. Eliminando gli armamenti nucleari, biologici e tossici e le al-tre armi di distruzione di massa.

e. Riconoscendo che la pace è l’insieme creato da relazioni equi-librate e armoniose con se stessi, con le altre persone, con le altre culture, con le altre vite, con la Terra e con quell’insieme più ampio di cui siamo tutti parte.

www.cartadellaterra.it

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Antologia 3 il cOraggiO di dire nO alle mafie

Falcone e Borsellino sono i nomi più noti del «pool» palermitano che segnò un decisivo passo avanti nella lotta contro la mafia. Con i loro successi i due magistrati firmarono la propria condanna a morte.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino John Dickie

Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici

Il 1981 vide l’inizio della mattanza. L’assassinio diventò uno spettacolo quasi quotidiano; i cadaveri venivano lasciati nei

pressi della questura, o semplicemente bruciati in strada. Una tra le più illustri vittime della mafia cadde nel momento culmi-nante della carneficina. Pio La Torre, un attivista contadino abi-tuato a parlare fuori dei denti, era diventato deputato del Partito comunista e uno dei più energici membri della Commissione antimafia. Nell’aprile 1982 cadde vittima di un’imboscata in una strada di Palermo.Lo Stato italiano reagì inviando nel capo-luogo siciliano il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in qualità di prefetto. Dalla Chiesa aveva un lungo curriculum di com-battente antimafia. Inoltre aveva ottenuto grandi successi nella lotta contro il terro-rismo delle Brigate rosse. Prima di partire per la Sicilia, tenne a chiarire che non ave-va alcuna intenzione di usare i guanti con l’ala politica della mafia. Pochi mesi dopo il suo arrivo a Palermo, un gruppo di fuoco composto da una dozzina di mafiosi bloccò la strada davanti alla sua automobile in via Carini, e mitragliò lui, la giovane moglie e una guardia del corpo. L’indomani qual-

7. Noi cittadini del mondo

Pio La Torre Carlo Alberto Dalla Chiesa Rocco Chinnici

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cuno scarabocchiò su un muro, nel luogo dell’eccidio, le parole «Qui è morta la speranza dei siciliani onesti». I funerali furono teletrasmessi in diretta in tutto il paese, e gli italiani videro la folla scagliare monete contro i ministri presenti.I politici non avevano concesso a Dalla Chiesa i poteri da lui ri-chiesti; e d’altro canto una campagna di attacchi giornalistici creò l’impressione che il generale fosse isolato, come spiegò suo fi-glio cinque giorni dopo la strage:

Durante la lotta al terrorismo mio padre era stato abituato ad avere le spalle coperte, ad avere dietro di sé tutti i partiti poli-tici, Democrazia cristiana in testa. Questa volta, appena arri-vato a Palermo capì, sentì che una parte della Democrazia cri-stiana non solo non lo copriva ma gli era contro.

Constatando l’assai tiepido appoggio ricevuto dal generale Dal-la Chiesa, Cosa Nostra si sentì autorizzata a trattare la sua no-mina come un ennesimo gesto privo di sostanza, e a ritenere che il prezzo politico della sua eliminazione sarebbe stato basso. Cosa Nostra, con la nuova ricchezza ricavata dall’eroina e l’anti-ca esperienza d’impunità, puramente e semplicemente non pren-deva sul serio lo Stato italiano. La sua era una campagna all’in-segna del disprezzo piuttosto che del terrore. Nuovi nomi non tardarono ad aggiungersi alla lista dei cadaveri eccellenti. Ma dai politici continuarono ad arrivare segnali ambigui. Non fu mai lo «Stato italiano» in quanto tale a dare l’assalto a Cosa No-stra. A combattere la battaglia contro la mafia rimase un’eroica minoranza di magistrati e poliziotti, appoggiati da una mino-ranza di politici, amministratori e cittadini comuni.Il 29 luglio 1983 Cosa Nostra piazzò un’autobomba nel centro di Palermo per uccidere il Consigliere istruttore Rocco Chinnici. Nell’esplosione morirono anche le due guardie del corpo del ma-gistrato e il portiere del palazzo in cui abitava. Un anonimo poli-ziotto descrisse a «L’Ora» la disperazione degli inquirenti:

Siamo in guerra, ma per lo Stato e le autorità di questa cit-tà, di questa regione, è come se non succedesse mai niente… I mafiosi sparano con mitra e tritolo. Noi rispondiamo con pa-role. Loro sono migliaia. Noi poche centinaia. Noi facciamo i posti di blocco spettacolari in pieno centro. Loro passeggiano tranquillamente per corso dei Mille, a Brancaccio, all’Uditore1. 1. Brancaccio… Uditore:

quartieri di Palermo.

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2. mutuata: presa in prestito, ricavata.

Antonino Caponnetto e il pool antimafia

La morte di Chinnici condusse a un atto d’eroismo silenzio-so quanto straordinario, tipico del modo in cui una mino-

ranza eroica combatteva la battaglia contro la mafia. La notizia dell’omicidio Chinnici colpì profondamente Antonino Caponnet-to, un pallido, timido magistrato il cui hobby erano i canarini. Caponnetto, che aveva una posizione sicura e prestigiosa a Fi-renze, era ormai vicino alla pensione. Eppure nel giro di pochi giorni dall’assassinio di Chinnici presentò la sua domanda per la sostituzione del magistrato ucciso. Come spiegò in seguito, fu «un impulso dettato in parte dallo spirito di servizio con cui ho sempre lavorato, e in parte dalla mia sicilianità». Quando prese possesso del suo nuovo ufficio nel Palazzo di Giustizia di Paler-mo, trovò sulla scrivania un telegramma di congratulazioni in cui la formula «le auguro successo» era stata manipolata, diven-tando «le auguro occiso». Nei successivi quattro anni e mezzo, la residenza di Caponnetto fu, per esigenze di sicurezza, una minu-scola stanza in una caserma dei carabinieri.Subito dopo il suo arrivo, Caponnetto mise insieme una picco-la squadra di magistrati che avrebbe finito con l’infliggere alla mafia siciliana colpi formidabili. La sua idea, mutuata2 dalla campagna contro il terrorismo, fu di dar vita a un pool di magi-strati specializzati nella lotta alla mafia, allo scopo di mettere in comune le informazioni e ridurre così il rischio di rappresaglie. Caponnetto formò la sua squadra mirando a delineare un qua-dro «organico e completo» del problema mafia. Del pool faceva-no parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Nell’atmosfera di tranquilla determinazio-ne creatasi sotto la guida di Caponnetto, questi uomini si mise-ro al lavoro.Il pubblico si rese conto degli straordinari risultati ottenuti dal pool soltanto il 29 settembre 1984, quando Caponnetto tenne una conferenza stampa al Palazzo di Giustizia. Il vecchio ma-gistrato annunciò che Tommaso Buscetta, il «boss dei due mon-

Antonino Caponnetto

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3. quasi la stessa età: Falcone era nato nel 1939, Borsellino nel 1940.

4. Giuseppe Impastato: giornalista siciliano ucciso dalla mafia nel 1978.

di», stava collaborando con la giustizia, e che ciò aveva frutta-to l’emissione di 366 mandati di cattura. Nonostante molti de-gli incriminati fossero già latitanti, quando si riuscì a mettere le mani su tutti gli altri la polizia palermitana si trovò a corto di manette. Con un largo sorriso sulla sua faccia sottile, Capon-netto chiarì il significato delle prove che erano state accumulate:

Non ci troviamo più di fronte a diversi processi di mafia. Que-sto è il processo alla mafia. Non è azzardato parlare di opera-zione storica. Siamo riusciti finalmente a penetrare nel cuore della struttura mafiosa.

Il gigantesco processo di cui parlava Caponnetto si proponeva di dimostrare che la mafia era una struttura unitaria – il teorema Buscetta, come dissero i giornali. Era una rivoluzione copernica-na nel modo di concepire l’onorata società.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano vecchi amici all’epoca in cui prepararono la sentenza di rinvio a giudizio

che fu alla base del maxiprocesso. Avevano quasi la stessa età3, ed erano cresciuti nello stesso quartiere del centro di Palermo, figli di genitori che appartenevano allo stesso tipo di ambiente borghese: il padre di Falcone era un chimico e quello di Borselli-no un farmacista. I due uomini erano accomunati da un’identica devozione al dovere e un’incrollabile fede nella giustizia.Entrambi traevano forza dalla voce sempre più robusta del movi-mento antimafia siciliano. Gli studenti organizzavano dimostra-zioni contro la mafia nelle strade di Palermo. Un gruppo di atti-visti aveva creato un centro studi intitolato a Giuseppe Impasta-to4. In Salvatore Pappalardo la Sicilia aveva adesso un cardinale arcivescovo che non temeva di usare la parola «mafia» o di de-nunciare l’inerzia dello Stato di fronte alla carneficina. A causa di quest’atteggiamento, nel 1983 la messa pasquale celebrata dal cardinale nel carcere dell’Ucciardone fu boicottata dai detenuti.

Giovanni Falcone

Paolo Borsellino

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5. collusione: accordo segreto, per fini illeciti, tra esponenti politici e la criminalità organizzata.

Alla base della gerarchia, alcuni preti erano ancora più schietti nella loro opposizione alla mafia.Forze favorevoli al mutamento andavano prendendo forma anche nel mondo politico siciliano. Leoluca Orlando, il sindaco DC di Palermo eletto nel luglio 1985, era un avversario dichiarato della mafia, e fece sì che il Comune si costituisse parte civile nel maxi-processo. Orlando era l’uomo di punta di quella che divenne nota come la «primavera di Palermo» – un entusiasmante contrasto con il tetro inverno della collusione5 che in tutto il periodo suc-cessivo alla Seconda guerra mondiale aveva coinvolto buona par-te del consiglio comunale.

Il maxiprocesso

Il maxiprocesso cominciò il 10 febbraio 1986. Sarebbe durato quasi due anni. Con l’inizio dei lavori, una calma piena di ten-

sione scese su Palermo. Centro dell’attenzione divenne un impo-nente bunker di cemento illuminato a giorno, situato a ridos-so del carcere dell’Ucciardone, che ospitava l’aula giudiziaria co-struita appositamente per il maxiprocesso.Molti temevano che il maxiprocesso fosse un tentativo di ammi-nistrare la giustizia all’ingrosso, e che sarebbe stato impossibile accertare con precisione la colpevolezza o l’innocenza dei singo-li imputati. Anche le testimonianze dei pentiti suscitarono dubbi: tra quanti assistevano al processo, molti avevano grosse perples-sità circa il grado di attendibilità che le loro dichiarazioni avreb-bero dimostrato di possedere.La sentenza che concluse il maxiprocesso fu pronunciata il 16 dicembre 1987. Su 474 imputati, 114 furono assolti; su quelli giudicati colpevoli si rovesciò un totale di 2665 anni di prigione. Il messaggio contenuto nei numeri era chiaro: la Corte d’Assise aveva confermato il teorema Buscetta, ma d’altro canto non ave-va amministrato il tipo di giustizia all’ingrosso che molti aveva-no temuto (le assoluzioni erano lì a provarlo).Nei giorni successivi alla sentenza, i giornali che appoggiava-no i magistrati proclamarono la fine del mito secondo il quale la mafia era una componente invincibile della cultura siciliana. Falcone sottolineò il fatto che per la prima volta l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra era stata «processata in quan-to tale». «Ed è un processo che non si è concluso con la solita se-rie di assoluzioni per insufficienza di prove, ma con ben dodici ergastoli».

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6. cupola: il vertice del l’or­ganiz zazione mafiosa.

La fine del pool

Nel 1990 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo annullò alcu-ne delle condanne del maxiprocesso e – soprattutto – si ri-

fiutò di confermare il nucleo centrale del teorema Buscetta, cioè l’idea che Cosa Nostra fosse un’organizzazione unica e che perciò i membri della cupola6 dovessero essere considerati responsabili di tutti gli omicidi compiuti dalla mafia. Il caso fu rinviato alla Corte di Cassazione.Intanto all’interno della magistratura si manifestò un’insidiosa opposizione a Falcone. Dopo la sentenza del maxiprocesso Anto-nino Caponnetto, il fondatore del pool antimafia, decise di torna-re a Firenze. Falcone era il candidato naturale alla sua succes-sione. Ma a conclusione di una sordida vicenda di manovre poli-tiche, intrighi di corridoio e gelosie professionali, il posto andò ad Antonino Meli, un magistrato che non aveva alcuna espe-rienza in materia di processi di mafia. Il metodo da lui seguito andò contro il principio fondamentale del lavoro di Falcone: os-sia l’idea che Cosa Nostra era un’organizzazione unica, e che era quindi necessaria una risposta giudiziaria coordinata. In bre-ve tempo, il pool antimafia si dissolse. Nel 1991 Falcone accettò l’incarico di coordinare a livello nazionale la lotta contro la cri-minalità organizzata.

Una grave sconfitta per la mafia

Il 31 gennaio 1992, dopo due mesi di udienze, la Cassazione ro-vesciò la sentenza della Corte d’Assise d’Appello sul maxipro-

cesso, confermando le tre tesi centrali contenute nella sentenza redatta da Falcone e Borsellino: che Cosa Nostra esisteva ed era un’organizzazione unitaria; che i membri della cupola erano tut-ti congiuntamente responsabili degli omicidi compiuti in nome dell’organizzazione; e che le testimonianze fornite dai pentiti di mafia erano valide. Il «teorema Buscetta» era ora una verità di fatto, e le sentenze a carico dei capi di Cosa Nostra diventarono definitive.Dopo 130 anni, lo Stato italiano aveva finalmente dichiarato che la mafia siciliana costituiva una sfida organizzata – una sfida mortale – al suo diritto a governare. Era la più grave sconfitta in tutta la storia della più famosa associazione criminale del mon-do. E non era tutto. Era generale la previsione che Falcone sareb-be stato chiamato a ricoprire l’ufficio appena creato di Procura-tore nazionale antimafia, con il potere di sfruttare i vantaggi of-ferti dalla nuova situazione in Sicilia, nell’intero paese e perfino su scala internazionale. Era molto forte l’impressione che altre sconfitte attendessero la mafia.

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Le stragi di Capaci e via D’Amelio. Le reazioni

Pochissimi giorni dopo la pronuncia della Corte di Cassazio-ne furono rispolverate le sentenze di morte che la cupola

aveva pronunciato contro Falcone e Borsellino molto tempo pri-ma. Il primo a cadere fu Giovanni Falcone: il 23 maggio 1992, mentre tornava in auto dall’aeroporto verso Palermo, fu ucciso con la moglie e con la scorta mediante l’esplosione di una carica di tritolo.Ai funerali di Stato delle vittime della bomba di Capaci fu una piccola, pallida donna, la vedova di Vito Schifani, Rosaria, a dar voce in modo straziante alla propria desolazione e al furore di una città. Il marito, insieme con i colleghi poliziotti Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo, si trovava nell’automobile investita in pieno dall’esplosione. In piedi davanti al leggio, guardando la folla riunita nella chiesa, sotto gli occhi delle telecamere di nu-merose reti televisive nazionali, Rosaria gridò: «Agli uomini di mafia che sono anche qui dentro voglio dire… tornate a essere cristiani, ve lo chiedo per la città di Palermo, che avete reso città di sangue… Uomini di mafia, io vi perdono, ma dovete mettervi in ginocchio».La pressione morale sugli uomini politici italiani perché dimo-strassero di non essere complici degli assassini che a Capaci avevano ammazzato Giovanni Falcone si dimostrò irresistibile. Nei giorni successivi ai funerali, molti cominciarono a muover-si per trasformare il dolore in motore del cambiamento. In tut-to il centro della città comparvero appesi alle finestre lenzuoli su cui era scritto: «Falcone vive», «Palermo chiede giustizia», «Fuori la mafia dal governo», «Ma la volete smettere di uccide-re questa città?». Tra le molte nuove organizzazioni antimafia nate alla base della società spuntò un «Comitato dei lenzuoli». Le parole di Rosaria Schifani – «Mafiosi, inginocchiatevi» – fu-rono stampate sulle T-shirt indossate da coloro che un mese dopo la strage formarono una catena umana attraverso la città. Un albero fuori della casa di Falcone fu trasformato in un pic-colo sacrario che si riempì di fiori, fotografie e messaggi.Incredibilmente, il 19 luglio 1992 Cosa Nostra dimostrò che lo Stato non sapeva neppure proteggere l’uomo che aveva preso il posto di Falcone come il nemico numero uno della mafia: Paolo Borsellino. L’esplosione che lo uccise in via D’Amelio insieme con i cinque poliziotti della scorta fu udita in mezza città.Nonostante il loro stupefatto smarrimento, molti palermitani trovarono la forza di protestare. Tra le innumerevoli indimen-ticabili immagini create dai molti sit-in e cortei di quel periodo, ce n’è una di un ragazzino che indossava a mo’ di sandwich due

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cartelli: quello sul petto diceva «Voglio essere degno di Falcone», e quello sulla schiena «Voglio essere degno di Borsellino». Per al-cuni straordinari mesi la minoranza virtuosa s’impadronì di Pa-lermo e convinse una gran parte della popolazione dell’urgenza della lotta contro la mafia.La situazione esistente in Sicilia era un’emergenza nazionale. Settemila soldati furono spediti nell’isola per sostituire la poli-zia nei suoi compiti più ordinari, così da permettere agli agenti di partecipare a una gigantesca caccia i cui bersagli erano Totò Riina, mandante dell’omicidio di Falcone e Borsellino, e le sue squadre di killer. I funzionari delle forze dell’ordine che avevano fallito nel compito di proteggere i due magistrati furono rimos-si. Il Procuratore della Repubblica di Palermo, un uomo che s’era più volte scontrato con Falcone, chiese il trasferimento. Offrendo un nuovo esempio di straordinario coraggio personale, un magi-strato di Torino, Gian Carlo Caselli, si candidò a ricoprire il po-sto resosi vacante a Palermo. Seguirono dozzine di arresti. Fu approvata una legge per la protezione dei pentiti. La DIA7 e la DNA8, i nuovi organismi antimafia progettati da Falcone, entra-rono in attività. Ma la cosa più importante fu l’approvazione di norme che stabilivano più severe condizioni carcerarie per i ma-fiosi, affinché non potessero continuare a governare i loro impe-ri da dietro le sbarre, com’era stata pratica corrente in passato.

J. Dickie, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza

Se vuoi SaPerne di Piùsui motivi che portarono alla dissoluzione del pool

antimafia, leggi in questo stesso percorso il brano di Gian Carlo Caselli, Mafia e politica.

7. DIA: Direzione Investigativa Antimafia, nata per unificare l’azione dei carabinieri, della polizia e delle altre forze dell’ordine nella lotta contro la mafia.

8. DNA: Direzione Nazionale Antimafia, una procura nazionale incaricata di indagare sulla mafia.

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Antologia 3 il cOraggiO di dire nO alle mafie

Ogni volta che la magistratura cerca di far luce sui rapporti della mafia con il mondo della politica e degli affari, si scatenano contro i giudici violente polemiche che ne ostacolano l’azione.Gian Carlo Caselli, autore di questa denuncia, è stato procuratore di Palermo dal 1993 al 1999, anni che videro la reazione dello Stato alle stragi di mafia del 1992 (gli omicidi di Falcone e Borsellino). Sotto la sua direzione, la Procura di Palermo ottenne risultati decisivi nella lotta antimafia, con la confisca di beni ai boss, migliaia di arresti e numerosi processi, tra cui quelli ai politici Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri.

Mafia e politica Gian Carlo Caselli

Negli ultimi anni abbiamo assistito a risultati di grande ri-lievo nella lotta contro la mafia. Sono importanti, in par-

ticolare, le organizzazioni che, come «Libera» guidata da Luigi Ciotti, operano per coinvolgere la società civile in un effettivo impegno antimafia, senza più deleghe esclusive alle forze dell’or-dine e alla magistratura, inevitabilmente indebolite se lasciate sole. Per cui è proprio su questo versante – del coinvolgimento e dell’impegno della società civile – che si possono registrare i se-gnali più rilevanti, comprendendovi anche i ragazzi di Locri e i giovani «Addio pizzo» a Palermo. Segnali che si collocano in un quadro ancora molto cupo, e tuttavia importanti.Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. Va premesso che l’azione della magi-stratura e delle forze dell’ordine contro la mafia ormai registra una forte e rassicurante continuità: dall’arresto di Riina e soci fino agli arresti di Provenzano e dei Lo Piccolo e alla mega-in-chiesta «Old bridge» del febbraio 2008 in cooperazione fra Italia e USA, ecco tutta una serie di importanti interventi che dimo-strano come l’apparato investigativo-giudiziario antimafia si sia stabilmente assestato su livelli di assoluta eccellenza. Non altret-

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tanta continuità, però, è dato di registrare sul versante del con-trasto alle cosiddette «relazioni esterne», vale a dire le complicità, coperture e collusioni con pezzi del mondo legale (politica, affari, imprenditoria, istituzioni…) che rappresentano la spina dorsale, il nerbo del potere mafioso. Se tali coperture non sono aggredi-te con forza e continuità, senza sconti di alcun genere, Cosa No-stra continuerà a trovare sostegni preziosi anche nei momenti più difficili. Se persiste la pessima abitudine di applaudire quan-do si arrestano capimafia e gregari, per poi gridare al complot-to quando si cerca di far luce più in profondità, allora avrà anco-ra una volta ragione chi sostiene che si possono anche arrestare boss su boss, ma l’alt ad andare oltre, in forma anche esplicita e non solo sottintesa, rimane: e pesa come un macigno.Persino il pool di Falcone e Borsellino dovette piegarsi a questa «regola». Con il maxiprocesso, il pool aveva posto fine (nel ri-spetto rigoroso delle regole, delle prove, delle procedure) al mito dell’invulnerabilità di Cosa Nostra. La mafia poteva essere final-mente sconfitta, e invece si dovette registrare un fatto che rap-presenta una colossale vergogna della nostra storia nazionale. Il pool, invece di essere sostenuto nella sua azione, venne lette-ralmente spazzato via. Siamo quattro o cinque anni prima delle stragi, e una tempesta di accuse tanto violente quanto ingiuste si scatena contro il pool: professionisti dell’antimafia, uso spre-giudicato dei pentiti, uso della giustizia a fini politici di parte, pool trasformato in centro di potere. Per effetto di queste ag-gressioni, alla fine il pool di fatto scompare e il suo metodo di lavoro – che si era dimostrato vincente – viene cancellato. E ciò proprio nel momento in cui il pool comincia a occuparsi non solo di mafiosi di «strada», ma anche dei cugini Salvo, di Ciancimi-no, dei Cavalieri del lavoro di Catania (vale a dire dei rapporti della mafia con pezzi della politica, delle istituzioni, del mondo degli affari…). È allora che il pool non va più bene. Perché sta mettendo in atto quel che aveva sostenuto nella sentenza conclu-siva di un processo del 1985, quando denunciava «una singola-re convergenza fra interessi mafiosi e interessi riguardanti la gestione della cosa pubblica: vi è tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina». È nel momento in cui il pool comincia a «voltare pagina» che si moltiplicano – furibondi – gli attacchi che ne causano la delegittimazione e poi la scomparsa, con azzeramento del suo metodo di lavoro.La tecnica è semplice: ripetere ossessivamente (a forza di ripe-terle, anche le menzogne diventano credibili) che le indagini ri-guardanti i rapporti tra mafia e politica sono invenzioni di ma-gistrati politicizzati. Ovviamente è un’assurdità, comprensibile

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1. collusi: esponenti politici che hanno stretto accordi seg­reti e illegali con la criminalità organizzata.

soltanto se a propagandarla è Cosa Nostra, che difatti la sosten-ne contro il pool di Falcone, quando Antonino Salvo, per difen-dersi dalle accuse del pool, proclamava di essere «sotto il mirino dei politici e, in particolare, del Partito comunista italiano». Una falsità che sarà poi ripresa pari pari da Salvatore Riina, pronto a inveire pubblicamente contro i «comunisti» che complottano ai suoi danni anche nella Procura della Repubblica di Palermo.Ma quel che interessa sottolineare è che la storia (almeno in par-te) si ripete, nel senso che anche dopo le stragi del 1992 le cose vanno bene, per il pool dei magistrati inquirenti della Procura di Palermo, finché ci si occupa soltanto di Riina e soci. Ma quan-do – non in base a teoremi politici ma a fatti e prove – si aprono anche procedimenti a carico di imputati «eccellenti» appartenen-ti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre hanno un ruolo centrale nella storia della mafia), ecco che – pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azio-ne di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra – sono molti coloro che accettano di perdere una guerra che si sarebbe potuta vincere. Le tappe di questa strategia rinunciata-ria sono note e già sperimentate contro il pool di Falcone: l’insi-nuazione di uno scorretto rapporto tra «pentiti» e inquirenti; la conseguente delegittimazione dei «pentiti» (cosa – inutile dirlo – del tutto diversa dalla doverosa prudenza nella valutazione delle dichiarazioni degli stessi); l’accusa a pubblici ministeri e giudi-ci di costruire teoremi per ragioni politiche o, più brutalmente, di «essere comunisti o amici dei comunisti». Risultato? Proprio mentre l’incalzare dell’azione della Procura stava disgregando l’organizzazione criminale, proprio quando l’isolamento di Cosa Nostra (grazie anche alle indagini sui collusi1) sembrava ormai irreversibile, ecco nascere un «processo» contro i giudici paler-mitani. E se le persone da mettere sotto accusa sono i magistra-ti, ad avvantaggiarsene – obiettivamente – è la criminalità. Cosa Nostra fa meno fatica a risorgere, ha più tempo e più spazio per ricostruire le fortificazioni sbrecciate. Sembrava fatta, Cosa No-stra e i suoi complici stretti in un angolo, sotto una gragnola di colpi portati con rigoroso rispetto delle regole e delle garanzie, e invece… Certo, l’azione degli inquirenti non viene bruscamen-te interrotta come ai tempi del pool di Falcone, ma la strada si fa più in salita. Continuano i successi sul versante militare dell’or-ganizzazione, ma l’indispensabile lotta alle collusioni rallenta e si inceppa. Ed è proprio qui che si può registrare quanto sopra anticipato: molte cose sono cambiate in positivo nell’impegno an-timafia; quel che invece non cambia mai – o cambia troppo poco – è la politica, perlomeno certa politica.

G. C. Caselli, in N. Tranfaglia, Perché la mafia ha vinto, UTET

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Antologia 3 per cOncludere!

Ti proponiamo, a conclusione del percorso, un testo che esprime in modo esemplare un atteggiamento di solidarietà, di attenzione e di estremo rispetto verso tutti e verso ciascuno. L’autore dimostra che problemi molto sentiti nel nostro tempo come quelli legati alla sicurezza e alla lotta contro la criminalità possono essere affrontati soltanto attraverso il rispetto per le persone e l’attenzione per i loro diritti.

Le scrivo per chiederLe scusa Luigi Ciotti

Cara signora,ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quo-

tidiani, una foto che La ritrae. Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine, una più grande, con gli occhi sbar-rati, spaventati, e l’altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie. Accanto a Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo. Nel suo volto, signora, si legge un’espressione di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di Napoli, dove il cam-po in cui abitavate è stato incendiato. Sul retro di quel furgon-cino male in arnese – reti da materasso a fare da sponda – una scritta: «ferrovecchi».Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco il suo po-polo, le sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti.Nel nostro Paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza. È un’esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno di sicurezza ce lo abbiamo tutti, è trasversale, appartiene a ogni essere umano, a ogni comunità, a ogni popolo. È il bisogno di sentirci rispet-tati, protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo. Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di do-

Io chiedo scusa

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Questo articolo è stato scritto in un momento nel quale in Italia si manifestavano fenomeni di razzismo e di xenofobia. Un sentimento di paura verso gli stranieri, alimentato da molti mezzi di informazione e da alcune forze politiche, condusse in particolare all’incendio dei campi nomadi situati nei pressi di Napoli.Il testo si presenta come una lettera indirizzata a una delle persone costrette a lasciare quei campi. Oltre al contenuto del brano, ti invitiamo a osservare la forma in cui esso è scritto. Rivolgendosi a una donna che sicuramente è sempre stata disprezzata come «zingara», l’autore la chiama «signora» », usa un tono di estrema cortesia e non solo le dà del lei, ma adopera la lettera maiuscola per i pronomi personali che la riguardano («una foto che La ritrae», «chiederLe scusa»): è la cosiddetta maiuscola reverenziale, che si adopera in segno di rispetto quando si scrive a persone importanti. Anche una «zingara» è importante e merita assoluto rispetto, perché è, come ognuno di noi, cittadina del mondo.

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tarsi di una serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello che non era lecito, per-ché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo – essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da po-polo nomade lo sapete bene – doveva servire per reintegrare nel-la comunità, per riaccogliere. Il segno della civiltà è anche quel-lo di una giustizia che punisce il trasgressore non per vendicar-si ma per accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza.Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franan-do. Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provoca-te dall’insicurezza economica – che riguarda un numero sempre maggiore di persone – e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita migliore.Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto. La reazione è allora di scaccia-re dalla nave quelli considerati «di troppo», e pazienza se sono quasi sempre i più vulnerabili. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime. Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La sto-ria ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione del reato si può facilmente passare, se viene meno la giustizia e la raziona-lità, alla criminalizzazione di un popolo, di una condizione di vita, di un’idea: ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla loro pelle.Lo ripeto, non si tratta di «giustificare» il crimine, ma di avere il coraggio di riconoscere che chi vive ai margini, senza opportu-nità, è più incline a commettere reati rispetto a chi invece è inte-grato.

Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel «sociale», nella politica, nell’amministrazione delle città, si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni che con fatica e determinazione cercano di dimostrare che un’altra sicurezza è possibile. Che dove si co-struisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute, per ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità, vogliono

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partecipare da cittadini alla vita comune.La legalità, che è necessaria, deve fondarsi sulla prossimità1 e sulla giustizia sociale. Chiedere agli altri di rispettare una leg-ge senza averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il proposito di istituire un «reato d’immigrazione clandestina» nasce proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po’ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi creda – anche per essere stati figli e nipoti di migranti – continuano a nutrire.

La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo ma-rito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto e più umano.

L. Ciotti, in «la Repubblica»

1. prossimità: il farsi «prossimo» degli altri, cioè avere un atteg gia mento di vicinanza e di solidarietà.


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