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Appunti sul presente

Date post: 26-Mar-2016
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica
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Numero 8, (nuova serie) 2013
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Page 1: Appunti sul presente

Numero 8, (nuova serie) 2013

Page 2: Appunti sul presente

Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: [email protected]. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale.

MassiMo aDiNoLFi (UNiv. Di CassiNo), CLaUDia BaRaCCHi (THe New sCHooL FoR soCiaL ReseaRCH, New YoRk); MassiMo BaRaLe (UNiv. Di Pisa), GiUsePPe BeDesCHi (UNiv. La saPieNza, RoMa), LUiGi BeRLiNGUeR (UNiv. Di sieNa), eNRiCo BeRTi (UNiv. Di PaDova, aCCaDeMia Dei LiNCei), FRaNCo BiasUTTi (UNiv. Di PaDova), ReMo BoDei (UNiveRsiTY oF CaLiFoRNia (Los aNGeLes)), aLMUT sH. BRUCksTeiN (Ha’aTeLieR, BeRLiNo/GeRUsaLeMMe), MassiMo CaCCiaRi (siNDaCo Di veNezia, UNiv. saN RaFFaeLe, MiLaNo), GiUsePPe CaNTiLLo (UNiv. Di NaPoLi), CaRLa Ca-NULLo (UNiv. Di MaCeRaTa), aNDRea CaUsiN (eseCUTivo PD), sTeFaNo CeCCaNTi (UNiv. La saPieNza, RoMa), MaURo CeRRUTi (UNiv. Di BeRGaMo, DePUTaTo), PieRPaoLo CiCCaReLLi, (UNiv. Di CaGLiaRi), UMBeRTo CURi (UNiv. Di PaDova), GiaNFRaNCo DaLMasso (UNiv. Di BeRGaMo), aNToNio Da Re (UNiv. Di PaDova), RoBeRTa De MoNTi-CeLLi (UNiv. saN RaFFaeLe, MiLaNo), PieTRo D’oRiaNo (UNiv. La saPieNza, RoMa), MassiMo DoNa’, (UNiv. saN RaFFaeLe, MiLaNo), aDRiaNo FaBRis (UNiv. Di Pisa), MaURizio FeRRaRis (UNiv. Di ToRiNo), GiovaNNi FeRReTTi (UNiv. Di MaCeRaTa), MaRCo FiLiPPesCHi (DiRiGeNTe NazioNaLe PD, siNDaCo Di Pisa), PieRFRaNCesCo FioRaTo (UNiv. Di sassaRi), MassiMo FioRio (UNiv. Di ToRiNo), viTToRia FRaNCo (seNaToRe, UNiv. Di Pisa), FaBRizia GiULiaNi (UNiv. Di sieNa), seRGio GivoNe (UNiv. Di FiReNze), aLFoNso M. iaCoNo (UNiv. Di Pisa), GiovaNNi iNviTTo, (UNiv. Di LeC-Ce), MaRCo ivaLDo (UNiv. Di NaPoLi), aNToNeLLo La veRGaTa (UNiv. Di MoDeNa), CLaUDia MaNCiNa (UNiv. La saPieNza, RoMa), saNDRo MaNCiNi (UNiv. Di PaLeRMo), aLDo MasULLo (UNiv. Di NaPoLi), eUGeNio MazzaReLLa (UNiv. Di NaPoLi), CaRMeLo Meazza (UNiv Di sassaRi), aLBeRTo MeLLoNi (UNiv. Di MoDeNa), viRGiLio MeLCHioRRe (UNiv. CaTToLiCa, MiLaNo), GasPaRe MURa (PoNTiFiCia UNiveRsiTà URBaNiaNa), siLvaNo PeTRosiNo (UNiv. CaTToLi-Ca, MiLaNo), aNDRea PoMa, (UNiv. Di ToRiNo), MaURo PoNzi (UNiv. RoMaUNo), aLFReDo ReiCHLiN (PResiDeNTe DeL CesPe), LUiGi RUsso (UNiv. Di PaLeRMo), LeoNaRDo saMoNa’ (UNi. Di PaLeRMo), GeNNaRo sasso (UNiv. La saPieN-za, RoMa, aCCaDeMia Dei LiNCei), aLDo sCHiavoNe (UNiv. Di FiReNze), LUCiNDa sPeRa (UNiv. Di sieNa), TaMaRa Ta-GLiaCozzo (UNiv. RoMa TRe), aNDRea TaGLiaPieTRa (UNiv. saN RaFFaeLe, MiLaNo), CoRRaDo viaFoRa (UNiv. Di PaDova), CaRMeLo viGNa (UNiv. Di veNezia), MaURo viseNTiN (UNiv. Di sassaRi), FRaNCo voLPi† (UNiv. Di PaDova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica

Direzione: elio Matassi - Vannino Chiti - MarCo FilippesChi - CarMelo Meazza

Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

Adesioni

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i n D i C e

Per una sinistra cosmopolitaDi elio Matassi p. 3

Caritas e giustiziadi MarCo iValDo p. 6

Cupio dissolvidi anDrea poMa p. 12

InSchibboleth si evolve. Dal nome di un periodico-forum nascono due primi impegni editoriali: una rivista a vocazione internazionale Phasis e Quaderni di InSchibboleth che ospiterà innanzi tutto ricerche e saggi di giovani studiosi. Entrambe le riviste saranno parzialmente consultabili on line e saranno presto pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili in siti collegati, opportunamente predisposti. Il forum non sarà più al centro del sito Inschibboleth. Conserverà la periodicità mensile ma si trasforma in Appunti sul presente e sarà consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali a fuoco su temi o questioni al centro del dibattito pubblico. In questa scelta di un maggiore distacco dall’impegno più diretto sui temi della politica pesa un certo giudizio sul presente, la conclusione di una lunga fase costituente che ha visto impegnato il maggiore partito della sinistra italiana ed europea. Quella stagione di innovazione e di coraggiosa apertura verso nuove frontiere corre il serio rischio di esaurirsi e in ogni caso sembra terminata quella fase in cui sono circolate le promesse più convincenti per la riforma della politica e delle istituzioni della Repubblica. Il sito sarà potenziato invece nei suoi contenuti multimediali, nelle sezioni, negli scambi internazionali, e si dedicherà innanzi tutto alla ricerca filosofica.

La Redazione di InSchibboleth

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Nella più immediata contemporaneità, il cosmopolitismo kantiano non può non essere riletto anche sulla base dell’affermarsi ormai irreversibile della “mediasfera”. Sul cosmopolitismo vale, in ultima analisi, la stessa obiezione che Hans Jonas avanza intorno all’imperativo categorico kantiano: non si può pensare che sia un modello concettuale astratto, ossia a-tem-porale e a-storico, quanto piuttosto un paradigma che deve essere contestualizzato con lo sviluppo che nel frattempo il processo storico ha raggiunto.La svolta informatica ha ormai raggiunto, in modo particolare per le più giovani generazioni, una diffusione pervasiva, determinando una vera e propria “rivoluzione” cognitiva che non può non avere riflessi decisivi sull’etica e sulla politologia. Per approfondire il senso di questa rivoluzione scelgo, come meto-do, quello del “saggismo” del primo Novecento, ossia parto dall’arte per arrivare alla realtà. L’arte considerata come lente di ingrandi-mento dei problemi interni alla realtà e, più in particolare, alla no-stra epoca. A questo fine, utilizzo alcuni romanzi contemporanei che possono essere piegati e declinati a grandi metafore di ciò che sta avvenendo

Per una sinistra cosmopolita

di Elio Matassi

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con la svolta impressa dal digitale. Il primo, tradotto liberamente dal tedesco, Il quinto giorno – il titolo originario Der Schwarm (“lo sciame”) è senza alcun dubbio più inci-sivo – è dello scrittore contemporaneo Franz Schätzing, presentato come il thriller degli oceani, è un autentico best-seller mondiale con oltre due milioni e mezzo di copie vendute. Si tratta, senza forzatura alcuna, della più grande metafora della mediasfera e della sfida che questa comporta. Il genere umano, ormai minacciato in maniera irre-versibile dalla globalizzazione e dalle élites che la esprimono, decide di rivoltarsi, assumendo come alternativa le vesti dello ‘sciame’, ossia dal pulviscolo reticolare, dal movimentismo tipico del mondo digitale, per creare una sorta di “co-produzione della cittadinanza”, che aspira a rappresentare una forma di democrazia diretta. Se ne possono comprendere le ragioni sostanzialmente difensive da contrapporre ai limiti evidenti della democrazia rappresentativa (come sta avvenendo in Europa) o dell’autocrazia (come in Medio Oriente e in Russia). Questa risposta difensiva non può comunque eludere una riflessione di più ampia portata sulla natura autentica del-la cosiddetta “democrazia digitale”, il cui rischio maggiore sta nella fragilità, nella volatilità. Non presumendo né una struttura centrale, né articolazioni corrispondenti, il pulviscolo reticolare, lo sciame, può dissolversi all’istante, proprio nelle stesse modalità con cui si è affer-mato. E ancora, la presunta invisibilità della leadership non è in alcun modo garanzia di democraticità; non è affatto un paradosso conside-rare le adunanze invisibili dei social forum come forme di democrazia dove a dominare non è il principio della discussione (come nell’agorà classica), ma quello del silenzio.Il secondo romanzo in questione è Transmission del giovane scrittore di origine indiana Hari Kunzru, tradotto in italiano con La danza di Leela, in cui viene narrato l’incontro impossibile e romantico tra una splendida diva del cinema, Leela, e un giovane hacker, Arjun. Il gran-de tema del romanzo è l’identità digitale. Quale identità presume il mondo digitale? È l’identità in quanto principio della logica aristoteli-ca, trasferito con tutti i rischi del caso in sede metafisico-filosofica e in quella politico-sociale, o l’identità assunta dal digitale, che riuscirebbe a immunizzarsi dalle tentazioni identitarie? La rivolta individualistica di Arjun Metha, in preda all’orror vacui di tornare a Delhi sconfitto e a mani vuote, quella rivolta che gli fa indossare il “cappello nero” dell’hacker per creare un virus informatico dedicato a Leela Zahir, la sua diva preferita di Bollywood, quali ambizioni nutre? È la rivolta di un’identità che vuole rimanere privata e non annegare nell’esclusiva dimensione pubblica? È proprio questa tipologia d’iden-tità che lotta senza tregua contro la sua dimensione complementare (l’identità pubblica) a determinare il disastro. Il virus di Leela transita senza sforzo dal mondo virtuale dei network a quello concreto delle cose.E infine il terzo romanzo, Monna Lisa Cyberpunk di William Gibson, il grande racconto della Babele del XXI secolo, dove a contrapporsi al super potere scientifico-tecnocratico è uno sparuto gruppo di esseri umani, in particolare una donna, la bellissima Monna Lisa, le cui lon-tane origini affondano probabilmente nella terra di Lucania. Un’oppo-sizione, un’identità, depositaria di un ideale di bellezza che non potrà mai tramontare?

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L’orizzonte di riferimento, aperto dai tre romanzi contemporanei, offre anche il programma più generale che una sinistra democrati-ca, autenticamente cosmopolita, dovrà porsi. Il confronto con il “pensiero della rete” e della conseguente rivolu-zione culturale La problematizzazione del concetto di identità che la mediasfera drammatizza nel campo di tensione che si istituisce tra privato e pubblicoLa difesa del grande patrimonio culturale della nostra tradizione che rischia di essere marginalizzato.Sono queste tre le riflessioni ineludibili sulla cui base è possibile – per l’Europa e, più in particolare per l’Italia – costruire un futuro nel segno della democrazia e del cosmopolitismo.

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Caritas e giustizia

di Marco Ivaldo

Vorrei fare interagire fra loro due logiche, o due economie (intese come concezioni della vita dotate di una propria interna coerenza), che designo la logica dell’equivalenza e la logica del dono, cioè la logica ispirata alla virtù della giustizia e quella ispirata all’atteggia-mento della caritas. Una volta stabilita la loro specificità vorrei sotto-lineare come queste logiche o economie possano collaborare. 1. Mi occupo dapprima della giustizia. Aristotele definisce la giu-stizia come “la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile agli altri, sia ai capi sia alla società” (Eth. Nic. 1130 a). Con la giustizia emerge perciò immediatamente l’orizzonte comunitario, il legame accomu-nante: la giustizia è una modalità virtuosa di dividere e assegnare i beni fra le persone e di farle eguali fra di loro equilibrando vantaggi e svantaggi. In questo senso, direi, la giustizia è un certo bene comu-ne, è la virtù che pone nella giusta relazione reciproca gli individui e li unisce in una comunità. Non va dimenticato poi che per Aristotele assai importante è l’equità (epieikeia), che è la virtù di adattare la legge a casi particolari e fa parte della giustizia politica, e che per lui importantissima è l’amicizia (philia): dove c’è giustizia può mancare l’amicizia, ma dove c’è amicizia c’è anche giustizia. La giustizia non esaurisce perciò l’orizzonte della vita della polis: in particolare la

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comunità politica si regge su una forma di amicizia che ha per fine l’utilità che dura per tutta la vita. Oggi diremmo che la giustizia non basta da sola a costruire una società bene ordinata, la “buona socie-tà”, se manca la saggezza e se difetta quell’altra forma del legame intersoggettivo che viene designata come “amicizia civile” e che sca-turisce da virtù come la solidarietà, la liberalità, la magnanimità, la generosità, la dedizione (qui abbiamo una apertura della logica della giustizia a quella che ho designato economia del dono). Nella tradizione la giustizia viene declinata non solo come honeste vivere e neminem laedere ma anche come suum cuique tribuere, “dare a ciascuno il suo”. Mi fermo solo su quest’ultimo punto. La giustizia si presenta con questa sua declinazione come una forma trascendentale della prassi: come il programma di un retto fare le parti (Ur-teilen) fra i membri di una società. Si pone la questione di determinare che cosa sia allora quel “suo” che è dovuto a “ciascuno”: quali sono il bene e il complesso di beni cui “ciascuno” ha diritto. Qui deve agire la ragione pratica, la ragione di ciò che è giusto, e perciò la riflessione morale e politica. La giustizia è un programma della ragione pratica, che è definito nella sua intenzionalità trascen-dentale (dare a ciascuno il suo), ma è da re-inventare o determinare volta a volta nei suoi contenuti determinati (che cosa è il suo proprio di ciascuno?). L’enciclica Centesimus annus parlava di una giustizia superiore a quella legata alla logica dello scambio di equivalenti, e che è fondata sul principio per cui “esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo” (n. 34). “Qualcosa” è dovuto all’uomo per-ché è uomo prima della (=indipendentemente dalla) attesa di una prestazione corrispondente da parte di colui che riceve ciò che gli dovuto. La questione che si pone è che cosa sia dovuto all’uomo in quanto tale, questione che rinvia al tema maggiore: “Chi è l’uomo”, “Che cosa è l’uomo”. E’ noto che questa domanda per Kant riuniva in sé quelle della teoria, della morale, della religione. Anche da que-sta apertura oltre lo scambio di equivalenti verso la domanda antro-pologica vediamo che la logica della giustizia è aperta oltre se stessa, o allude a una ‘giustizia’ che consideri gli uomini non solo come eguali (come membri del genere umano), ma anche come differenti, ciascuno con caratteri, bisogni e desideri specifici. Paul Ricoeur ha evidenziato che la regola della giustizia, con la sua logica di equivalenza, è quanto di più alto ha conseguito la morale umana, solamente umana. Ciò si vede già nel sistema giudiziario, e in particolare nel diritto penale. Qui due elementi sono decisivi: tut-to nel corso del processo è basato sull’argomentazione; la sentenza giusta è quella che è proporzionale alla gravità del delitto. I nostri codici sono il frutto plurimillenario di sforzi per stabilire questa cor-relazione ragionevole fra la scala dei delitti e la scala delle pene: qui è la logica dell’equivalenza, con tutta la sua gloria, ma anche con tut-ta la sua severità, che si impone. La giustizia penale privilegia l’ugua-glianza dei cittadini davanti alla legge e, a differenza dell’amore, non tiene conto delle differenze fra le persone quando si argomenta pro o contro un imputato a proposito di una imputazione specifica , ov-vero ne tiene conto solo nel momento della pronuncia della pena – ecco un altro aspetto a proposito del quale si apre una dialettica fra la logica della giustizia e la logica della caritas. Se prendiamo poi in considerazione la giustizia sociale, in partico-

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lare l’idea di giustizia distributiva, possiamo farci una certa nozione del giusto e dell’ingiusto secondo la logica dell’equivalenza. L’idea di giustizia distributiva poggia sulla concezione della società come una ripartizione di ruoli e di compiti, di diritti e di doveri, di svantaggi e di vantaggi, di costi e benefici. La società è l’insieme degli individui in cui sono distribuite le parti; d’altro lato è proprio mediante tale ripartizione di parti che gli individui prendono parte, hanno parte attiva all’insieme. E’ qui che interviene la giustizia come la forza del-le istituzioni che presiedono a tali operazioni di ripartizione (di parti e fra le parti) secondo criteri di equivalenza – fra diritti e doveri, benefici e costi, vantaggi e svantaggi - e sulla base dell’eguaglianza. La virtù della giustizia fa le parti in maniera retta, rende a ciascuno ciò che gli è dovuto (la determinazione del ‘dovuto’ è, come abbiamo visto, un problema della ragione morale) . Rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto significa dare ad ognuno ciò che è dovuto anche a ogni altro, trattare ciascuno su una base di eguaglianza. Ora però, come è possibile salvare il principio di eguaglianza nei casi, assai frequenti, di distribuzioni diseguali in materia di redditi, di patrimoni e di servizi (cioè beni di mercato), in materia di sicu-rezza, protezione sociale, educazione, e ancora in materia di autorità e di responsabilità, e infine di onori e obblighi? Quali sono le ripar-tizioni ineguali meno ingiuste di altre? O anche: sono concepibili ineguaglianze giuste? Questo problema ha condotto all’idea di una eguaglianza proporzionale, distinta dall’eguaglianza aritmetica: una ripartizione sarà giusta quando le parti (ricevute) saranno propor-zionate all’apporto sociale delle parti (esercitate). Rawls ha soste-nuto che sarà giusta la divisione che, benché ineguale, equilibrerà l’aumento dei vantaggi ai più favoriti – per ragioni di produttività e per prestazioni sociali – con la diminuzione degli svantaggi dei meno favoriti. Si tratta del suo “principio di differenza”: le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere regolate in modo che vadano al maggior beneficio di chi è meno avvantaggiato e siano legate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. L’oggetto principale della giustizia è perciò per Rawls il sistema di regole intorno a cui si può sviluppare la cooperazione di una pluralità di individui, e con cui si può soddisfare l’esigenza che la distribuzione dei costi e dei benefici sia tale da permettere la mas-sima soddisfazione dei bisogni e sia accettabile da tutte le parti in causa. Massimizzare la parte minimale: questa è la versione moder-na del concetto di giustizia proporzionale, che sentiamo più vicina al nostro senso morale della giustizia.2. Passo adesso alla economia del dono, o alla logica della gratuità e della sovrabbondanza, diversa dalla logica dell’equivalenza. Pa-scal – mettendo in luce l’eccedenza della carità – ha scritto: “Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni, non valgono un minimo movimento di carità […]. Da tutti i corpi e spiriti non si potrebbe tirare fuori un movimento di carità, questo è impossibile, di un altro ordine, sovrannaturale” (Pensieri, ed. Brun-schvicg, sez. 12).Quella della carità è la logica della sovrabbondanza che si esprime nel canto di lode, di benedizione, di esultanza, in quella che Kierke-gaard chiama la “poesia del religioso”. La Prima lettera ai Corinzi of-

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fre un celebre esempio di questo linguaggio: “La carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, la carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non tiene in conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa” (13, 4-7). Nella Scrittura l’amore viene comandato (Amerai Dio, amerai il prossimo tuo), e questo comando ha una configurazione parados-sale, perché viene comandato un sentimento. Si può sensatamente comandare un sentimento? Kant risponde che nel comandamen-to dell’amore si tratta dell’”amore pratico”, che viene differenziato dall’amore “patologico”, e che può ben essere oggetto di un coman-do (cfr. Critica della ragione pratica, parte I, lib. I, cap. 3). Rico-eur spiega a sua volta che il comandamento dell’amore sarebbe un comandamento che non è una legge, cosa che viene ad esempio espressa dalla parola che l’amato rivolge all’amata nel Cantico dei cantici: “Tu amami!”. Il comandamento dell’amore è un comanda-mento che l’amore rivolge a se stesso, un comandamento dell’amore mediante l’amore e che contiene la condizioni della sua obbedienza nella tenerezza della sua intimazione. Niente di più contrario al genio dell’amore che contrapporre eros e agape: la dinamica dell’amore consiste nella sua agilità di salire o scendere i suoi diversi livelli, che possono venire espressi con eros, philia, agape, tre termini, o stati amorosi che si richiamano mutuamente e si designano analogicamente l’un l’altro. Ogni forma d’amore può servire da metafora di ogni altra: possiamo leggere il Cantico sia come un canto nuziale che come un poema mistico, e troviamo risonanze erotiche nei poemi mistici, anche in quelli più spirituali.La logica della sovrabbondanza – innestata dall’amore - significa: dare di più di quel che è dovuto, più di quel che è (pur) giustamente preteso. Dare senza esigere ritorno. La logica della equivalenza è quella della simmetria, quella del dono è la logica della asimme-tria tra dare e ricevere. Paolo costruisce la sua cristologia su questa logica della sovrabbondanza, o dell’eccesso: “Perché se per il fallo di quell’uno la morte ha regnato mediante quell’uno, tanto più [a maggior ragione] quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” (Rm 5, 7). “Dove il peccato è abbondato, la gra-zia ha sovrabbondato” (Rm 5, 20). Questa logica della sovrabbondanza e dell’eccesso si esprime ad esempio in modo eminente nel comandamento di amare di nemi-ci: “Voi avete udito che fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate quelli che vi perseguitano” (Mt 5, 43). Questa logica relativizza anche la Regola aurea, che è espressiva della logica dell’equivalenza e suona nella sua formulazione negativa: “Non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi stessi”. Leggiamo a questo proposito in Luca: “E se amate quelli che vi amano, quale grazia ne avete? Poiché anche i peccatori amano quelli che li amano […] Ma amate i vostri nemici, e fate il bene senza sperare alcunché” (6, 32-35). Dare senza attesa di contraccambio: questa è in definitiva l’economia della caritas, la logica del dono.

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3. Cerco adesso di vedere come le due logiche, dell’equivalenza e del dono, possano cooperare. La carità non può sostituire la giustizia, né sul piano della giustizia penale né sul piano della giustizia sociale. La questione della crea-zione di un giusto ordine sociale non può essere elusa, e essa non può venire risolta dalla attività caritativa organizzata. D’altro lato non esiste un ordinamento statuale che possa rendere superfluo il servizio dell’amore, dato che ci saranno sempre sofferenza e solitu-dine che necessitano di consolazione e di aiuto. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare del “mio” all’altro senza attesa di un ritorno. Al tempo stesso la carità non è mai senza giustizia, la quale richiede di dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli è “dovuto” in ragione del suo essere e del suo agire, e non posso donare all’altro del “mio” senza avergli riconosciuto ciò che gli è dovuto secondo giustizia, ciò che deve essere “suo”. Per il primo aspetto la carità su-pera la giustizia, con la sua logica della equivalenza, nella logica del dono e del perdono. Per il secondo aspetto la carità esige la giustizia, il riconoscimento dei diritti legittimi degli individui e dei popoli: la giustizia è la prima via della carità.Si aprono allora due vie. La prima concepisce l’amore come il mo-tivo profondo della giustizia, e la giustizia come il braccio efficace dell’amore. Questa tema si presenta nella cosiddetta piccola esca-tologia di Matteo 25: “Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere […] Allora i giusti risponderanno: Si-gnore, quando mai t’abbiamo veduto aver fame e t’abbiamo dato da mangiare? O aver sete e t’abbiamo dato da bere? […] E il Re, rispondendo dirà loro: In verità vi dico che in quanto l’avete fatto a uno di questi minimi fratelli l’avete fatto a me”. E’ la via dell’amore pratico di Kant: l’amore costituisce la motivazione della giustizia, e la giustizia è ciò che rende operativo l’amore. Qui pensiamo una convergenza e una compenetrazione delle due economie della carità e della giustizia. La seconda via è invece quella che custodisce la sproporzione fra i due ordini della carità e della giustizia e cerca di renderla fecon-da. Si tratterebbe di metter l’accento sul carattere sovrabbondante dell’amore, e sul suo carattere eccesivo e sovversivo in rapporto alla logica dell’equivalenza, e cercare di imprimere sulla nostra prati-ca della giustizia il marchio di questo carattere. Abbiamo visto ad esempio che la logica del dono, del dare senza ritorno, del porgere l’altra guancia, relativizza la Regola aurea, come modello perfetto di reciprocità ed equivalenza. Tuttavia si può anche dire che il co-mandamento d’amare non abolisce questa Regola, ma la riconduce verso il suo vero significato, liberandola da una sua interpretazione utilitaria – “io di do affinché tu mi dia” – verso una sua interpretazio-ne disinteressata – “poiché tu mi hai dato anche io ti do”. Così può avvenire anche a proposito della giustizia: l’amore deve destabilizza-re una concezione puramente utilitaria della giustizia – che mira a rendere accettabile l’arricchimento dei più favoriti con il vantaggio dei meno favoriti – e ri-orientarla verso la generosità. L’idea di fondo è quella di essere giusti non per assicurare l’equilibrio degli interessi bene intesi, ma perché il meno favorito è in ultima analisi una per-sona singolare, insostituibile, non intercambiabile. L’amore eleva la giustizia distributiva al di sopra di una semplice

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delimitazione del mio e del tuo, e la orienta verso una idea di coo-perazione, verso un sentimento di mutuo indebitamento: noi siamo originariamente in debito verso un altro, siamo in debito gli uni verso gli altri. Potremmo anche dire che l’amore rompe le frontiere provvisorie, i limiti culturali inevitabili, le figure storiche necessaria-mente limitate della giustizia. Ad esempio: si è sempre saputo che le persone umane non erano delle cose, delle merci permutabili, ma nonostante questa consapevolezza non si sono per lungo tempo collocati gli schiavi nella categoria delle persone. E’ qui che l’amore attivo e concreto ha rovesciato il muro della separazione: in Cristo, dice Paolo, non c’è più né ebreo né greco, né libero né schiavo, né uomo né donna. Tuttavia la applicazione concreta di questa idea di radicale eguaglianza fra culture, condizioni sociali, ruoli sessuali ha richiesto un lungo cammino storico, e sono stati necessari atti inno-vativi, talora illegali rispetto alle legislazioni vigenti, per incarnare nel concreto tale idea. Pensiamo a Francesco, che applica sine glos-sa i comandamenti esorbitanti, eccessivi del Discorso del monte, o a Gandhi, che trasforma la non violenza in arma politica, o a Martin Luther King che rompe le regole legali che istituivano la separa-zione razziale. Ora, grazie alla rottura che queste azioni operano nell’ordine, o meglio nel disordine stabilito, l’amore del nemico viene in soccorso della giustizia aiutandola a compiere il suo pro-gramma, la sua intenzione universalista. L’amore aiuta il senso della giustizia ad avvicinarsi al suo ideale. Eravamo partiti da un modello di convergenza fra amore e giustizia, nel senso che la giustizia articola la spinta motivante dell’amore - è l’idea di un modello profetico di giustizia. Abbiamo poi valorizza-to un modello di sproporzione fra amore e giustizia, sottolineando il carattere sovversivo e innovante dell’amore. Alla conclusione di questo secondo modello si palesa un (nuovo) rapporto di continuità fra amore e giustizia ottenuto questa volta attraverso la sproporzio-ne: l’amore destabilizza sì l’ordine dato - che spesso è un disordine sostanziale, con i suoi limiti storici, le restrizioni etniche, i pregiu-dizi di classe e di casta - ma fa questo in modo che la giustizia possa avvicinarsi di più al suo ideale universalistico, possa tendere alla ‘perfetta giustizia’. E’ in quest’ultimo modello – che tiene insieme continuità e sproporzione - che possono essere classificate le attivi-tà caritative delle organizzazioni non governative, del volontariato, delle chiese e dei gruppi religiosi, attraverso le quali la caritas in-serisce un sovrappiù di generosità, di dedizione, di compassione in un mondo di cui la giustizia non riesce da sola a limitare la violenza.

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Cupio dissolvi

di Andrea Poma

In seguito all’avvio dell’iter parlamentare in Francia della legge che vuole riconoscere il matrimonio di omosessuali, in questi giorni di-versi quotidiani e notiziari televisivi hanno diffuse poche frasi del Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e perciò autorevole voce del Magistero cattolico, la più pregnante delle quali suona : “Siamo vici-no al baratro”. Mi permetto alcune considerazioni in proposito.La questione è dibattuta nelle società occidentali da tempo, su di essa si scontrano ideologie assai differenti e sempre più combattive, ed era prevedibile che prima o poi, nonostante l’impasse ideologica, qualcosa incominciasse a muoversi anche sul piano legislativo.Voglio però far notare che la questione originaria consisteva nell’op-portunità o meno che, mediante una nuova legislazione, gli Stati dessero una forma giuridica alle unioni di fatto, cioè al dato, sempre più rilevante nelle nostre società, di persone, di sesso diverso o del medesimo sesso, che, pur non essendo sposate, convivono regolar-mente sulla base di una reciproca dichiarazione di affetto, di solida-rietà reciproca e di condivisione.Il Magistero della Chiesa cattolica romana ha sempre espresso una

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radicale e categorica opposizione anche alla semplice considerazio-ne di questa possibilità.In primo luogo, vorrei far notare che è davvero difficile negare che lo Stato possa, anzi debba, dare una forma giuridica che riconosca e quindi regolamenti uno stato di fatto diffuso nella società. Inol-tre mi sembra inumano, contrario al senso civile (e anche all’opi-nione di molti cattolici) non riconoscere alcuni diritti elementari, come il diritto all’informazione e alla partecipazione alle decisioni riguardanti le cure, il diritto alla solidarietà in materia economi-ca, più in generale il diritto al riconoscimento pubblico, a persone che, pur non sposate, condividono per libera scelta la loro vita e i loro interessi. Infine si tenga presente che, opponendosi ad una nuova legislazione in merito, non si ottiene il risultato che queste coppie non siano riconosciute e regolamentate dallo Stato, ma solo che esse siano di fatto considerate irregolari e perciò regolamentate negativamente da tutti quei diritti riconosciuti esclusivamente alle coppie sposate e quindi implicitamente negati alle altre, il che si-gnifica una loro discriminazione e su certi temi una vera e propria persecuzione.Al di là di ogni posizione ideologica, dunque, è un’evidenza del buon senso civile, se vogliamo escludere l’idea malvagia di una leg-ge che decreti in positivo la persecuzione delle coppie non sposate, che l’unica via possibile è quella di una seria discussione dei diritti che devono essere loro riconosciuti, il che presuppone un loro rico-noscimento giuridico.La posizione del Magistero cattolico in questi anni è sembrata ispi-rata prevalentemente dalla paura, da quello che si potrebbe chia-mare il terrore del “buco nella diga”, cioè dal timore che qualun-que riconoscimento civile e giuridico delle coppie di fatto porti al superamento e all’abbandono del matrimonio nel costume della società. La paura non è mai stata né mai sarà una buona consiglie-ra nel comportamento privato e sociale, tanto meno lo può essere nell’esercizio legislativo di uno Stato. Nella realtà non vi è alcuna evidenza che il diffondersi di coppie di fatto abbia disincentivato i matrimoni. La crisi dei matrimoni è evidentemente frutto di ben altre cause, da ricercarsi nella condizione di precariato sociale, eco-nomico, lavorativo, civile, di un numero sempre maggiore di cittadi-ni, soprattutto di giovani. Inoltre, lo stato di coppia di fatto non è né concettualmente né empiricamente in concorrenza con quello del matrimonio. In fine, proprio dando luogo, in sede legislativa, ad un riconoscimento e ad una regolamentazione delle coppie di fatto, si potrebbe definire giuridicamente la differenza delle due condizio-ni, i diritti e i doveri peculiari di ciascuna di esse. Nel caso delle coppie omosessuali, sembra che vi sia inoltre nella Gerarchia cattolica un desiderio ossessivo di marcare in tutti i modi la condanna morale di ciò che è considerato un abuso e una perver-sione. Ora, a parte la discutibilità del giudizio morale sull’omoses-sualità, non sembra davvero che si possa esigere che uno Stato laico si faccia portatore di tale giudizio ed esecutore della pena rispettiva.Oltre a queste considerazioni di principio, che potrebbero e do-vrebbero essere ulteriormente sviluppate, mi paiono opportune, in luogo secondo e subordinato, alcune considerazioni politiche.

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Che ci si trovi ora di fronte a un baratro o meno, l’esito che si profila era del tutto prevedibile e anche previsto (anche da molti cattolici, tra i quali sobriamente mi considero) e pare proprio che la respon-sabilità maggiore di questo esito sia di coloro che hanno sempre opposto un radicale rifiuto a discutere la materia.Non è un mistero, al contrario è un’evidenza, che la maggioranza delle persone nelle nostre società non si riconosca più nell’insegna-mento morale e politico del Magistero cattolico, che molte posi-zioni ideologiche differenti tra loro convivano nelle nostre società, ormai non omogenee da questo punto di vista. Persino un autore confessionalmente impegnato in maniera radicale come Tristan Engelhardt, ha riconosciuto che le nostre società sono costituite da “stranieri morali”, i quali devono trovare un modus vivendi civile per convivere nella diversità delle loro convinzioni ideologiche. In tale situazione, un ruolo importante della discussione civile e poli-tica è quello di mediare tra le differenti posizioni per giungere ad una legiferazione che, nel rispetto delle differenze, non offenda le esigenze delle varie opinioni. In una tale situazione sarebbe utile, anzi necessario, che anche i cattolici partecipassero attivamente e con buona volontà al dialogo, in modo da raggiungere, nel consenso o meglio nel “compromesso” (una parola oggi vituperata, ma essen-ziale alla vita politica), la produzione di una legislazione condividi-bile, che, fra l’altro, eviti alcune forme estreme che i cattolici (e non solo loro) riterrebbero inaccettabili. La semplice opposizione della minoranza cattolica non può portare che a misurarsi in termini di potere con il trionfo incondizionato del vincitore (una situazione barbarica e bellica, non civile e politica). Questo è appunto ciò che sembra avvenire: vi è il rischio concreto che nuove leggi in materia siano il frutto trionfante delle ideologie più estremiste, invece che il risultato misurato e proporzionato di un accordo civile.Per concludere, con un po’ di enfasi ma non senza verità, si po-trebbe dire che proprio i cosiddetti “difensori della famiglia”, con la loro ostile chiusura ad ogni dialogo, possono diventare i maggiori responsabili di una situazione massimalista, nella quale non vi sia più alcuna differenza giuridica tra famiglie e coppie di fatto, nella quale si riconosca, senza una debita riflessione sulle reali esigen-ze dei bambini, il diritto incondizionato alla genitorialità, ecc. Tale atteggiamento è solo apparentemente un’eroica testimonianza di fedeltà ai valori, in realtà è un cupio dissolvi, che persegue cieca-mente la negazione e l’annientamento di essi.Una reale e sincera preoccupazione per la tutela della famiglia, a mio parere, dovrebbe esercitarsi innanzitutto nell’attivo impegno per creare le condizioni economiche e sociali che la favoriscano e, inoltre, in uno sforzo comune di tutti, attraverso il compromesso ideologico, per configurare sul piano giuridico e legislativo, le altre forme di convivenza diffusamente esistenti nella società, che legitti-mamente chiedono allo Stato riconoscimento e definizione.


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