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Archeologia Con Gli Occhi Di Silvia

Date post: 25-Jul-2015
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A resume about the studies of late archeologist Silvia Mellace
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L’ARCHEOLGIA CON GLIOCCHI DI SILVIA

Atti dellA giornAtA di studiper ricordAre VAleriA silViA MellAce

Palazzo Massimo alle Terme, 7 marzo 2009, Roma

a cura di AnnA GAllone e SAbrinA ZottiS

Edizioni Prampolini

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PREFAZIONE

Questo volume raccoglie gli interventi presentati durante la giornata di studi L’archeologia con gli occhi di Silvia, tenuta il 7 marzo del 2009 a Palazzo Massimo alle Terme (Roma) per ricor-dare l’archeologa Valeria Silvia Mellace, nostra amica e collega, prematuramente scomparsa nel dicembre del 2008. In quell’occr-sione abbiamo voluto ricordare Silvia attraverso il suo percorso formativo e lavorativo, e attraverso le parole di amici e colleghi che l’avevano incontrata e avevano condiviso con lei gioie e do-lori della professione di archeologo. La giornata di studi è scatu-rita da uno spunto di Renato Sebastiani, che ha trovato anche la sede in cui svolgerla, ed è stata organizzata dal DAT.

Il DAT è nato da un’idea buttata lì in un caldo pomeriggio estivo romano, sorseggiando una birra ristoratrice dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro sullo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio. Tutti noi archeologi (più di venti!) impegnati su quello scavo eravamo pian piano passati dall’essere semplici colleghi all’essere veri amici, e per questo avevamo bisogno di trovare un modo per non perderci di vista alla fine di quel lavoro, che come tutti i cantieri di emergenza era destinato a finire. E così tra una ri-sata, una nocciolina e un sorso di birra abbiamo deciso che sarem-mo diventati una associazione culturale che si sarebbe occupata in primis della divulgazione della storia del rione Testaccio, che tutti noi avevamo imparato a conoscere e che era stata in qualche modo il collante della coesione del nostro gruppo. La prima ad essere entusiasta di quest’idea fu proprio Silvia, nella quale oltre tutto noi vedevamo l’anima del gruppo dato che era la decana del-

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lo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio, avendolo iniziato insie-me a Silvia Festuccia quattro anni prima. A quel punto però c’era il problema di trovare un nome alla nascitura associazione; ma dopo pochi minuti ci rendemmo tutti conto che lo avevamo già: D[opolavoro] A[rcheologi] T[estaccio]. Così avevamo battezza-to, da qualche mese, le nostre numerose attività extra lavoro che prevedevano cene in pizzerie e ristoranti, gite fuori porta, e anche un famoso weekend in campeggio in Toscana. Per suggellare la nascita ufficiale del DAT datammo e firmammo una banconota da 5 €, il comune e indivisibile resto del conto delle ristoratrici birre.

Silvia purtroppo non ha mai visto l’atto costitutivo con il tim-bro dall’Agenzia delle Entrate che trasformava il dopolavoro archeologi Testaccio nell’Associazione Culturale DAT. Lei non c’era più, ma proprio per questo noi decidemmo che avremmo aggiunto un nuovo scopo alle originarie intenzioni del DAT: non dimenticare Silvia e non farla dimenticare. Nel breve termine l’Associazione si sarebbe dunque fatta carico di organizzare la giornata di studi L’archeologia con gli occhi di Silvia, e nel lungo termine, accogliendo un desiderio della famiglia, avrebbe istituito e gestito il Premio di studio Silvia Mellace.

La giornata a Palazzo Massimo è stata organizzata in perfetto stile DAT: tutti i membri dell’associazione si sono autotassati in modo da poter offrire un rinfresco a tutti i partecipanti. Abbiamo lavorato tutti insieme, ognuno si è occupato di qualcosa: dalla preparazione e distribuzione delle locandine per promuovere la giornata, alla ricerca di tutto il necessario per il catering, all’ac-quisto dei fiori per abbellire il tavolo. Tutto il personale del mu-seo ci ha assistito, aiutandoci sempre con un sorriso, malgrado la confusione creata con la nostra organizzazione un po’ casalinga dell’evento. Ma la cosa più bella per noi è stata vedere quanti fa-miliari, amici e colleghi hanno costantemente gremito la grande sala conferenza di Palazzo Massimo.

Nel 2010 il Premio di Studio Silvia Mellace è diventato una realtà. Il DAT ha istituito una commissione di professori univer-

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sitari, che con infinita sensibilità hanno accettato l’incarico, e che hanno assegnato la prima, speriamo di molte, borse di studio a un giovane laureato in archeologia per il compimento di una ricerca scientifica.

Vorremmo ora ringraziare coloro che hanno reso possibile tut-to ciò: il marito di Silvia, Maurizio Vitale che per questo volume ha anche scritto una biografia di Silvia, la famiglia Mellace, tutto il personale del Museo di Palazzo Massimo alle Terme, Renato Sebastiani e Mirella Serlorenzi che non ci hanno mai fatto man-care il loro supporto, Gianfranco Caporlingua della Geim s.p.a. che ha finanziato questa pubblicazione, tutti gli amici che ci han-no sostenuto (tra i quali ci piace in particolare ricordare Barbara Rossi e Fabio Zonetti), tutti coloro che sono intervenuti alla gior-nata di studi. E naturalmente tutto il DAT: Federica Andreacchio, Maria Laura Cafini, Alba Casaramona, Sara Colantonio, Alessia Contino, Lucilla D’Alessandro, Silvia Festuccia, Anna Gallone, Claudio La Rocca, Elena Lorenzetti, Federica Luccerini, Ema-nuela Mariani, Valentina Mastrodonato, Donatella Mastrosilvestri, Fabio Pagano, Daniele Putortì, Maria Cristina Romano, Callio-pe Schistocheili, Simona Sclocchi, Roberta Tanganelli, Claudia Tempesta, Roberta Tozzo, Giovanna Verde, Chiara Vergari, Glo-ria Zanchetta, Sabrina Zottis.

Grazie a tutti per aver reso possibile L’archeologia con gli oc-chi di Silvia.

Il volume è dedicato a Silvia e a tutte le persone sopracitate.

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STORIA DI UN’ARCHEOLOGAMAuriZio VitAle

Proprio nel periodo nel quale Silvia è venuta a mancare all’af-fetto di tutti, a fine 2008, al raggiungimento del suo 38esimo anno d’età, si compiva una divisione quasi perfetta della sua vita. La prima metà di essa, infatti, l’aveva trascorsa in Calabria, e la se-conda a Roma, dove arrivò nel 1989 per frequentare l’Università, Lettere Classiche.

Era stata la radice magno greca della sua terra, che amava mol-to, uno degli stimoli principali che la condussero alla scelta degli studi antichi. Sulle prime era più orientata verso il mondo gre-co, verso il mondo che sentiva suo, se non altro per nascita. Fu col proseguire degli studi che si interessò sempre maggiormente all’universo latino e fu solo ad un certo punto che scoprì l’arche-ologia e se ne innamorò. Dapprima, in virtù dell’autentica venera-zione che tributava a tutto ciò che vi è di antico, spinta dal deside-rio di immergersi, anche fisicamente, in quel mondo classico che da sempre aveva amato. Successivamente, a ciò si aggiunse una serie di esperienze lavorative e di studio che la portarono a svi-luppare una visione molto moderna del mestiere dell’archeologo: un professionista che, mai dimentico del rispetto per l’antico, ciò nonostante vive e opera nell’odierna realtà lavorativa stretta tra emergenze archeologiche ed emergenze economiche, tra la ne-cessità di salvaguardare il mondo della cultura e quello di rispon-dere alle esigenze dei committenti, spesso imprenditori privati.

Questa, appena descritta, è la parabola culturale di Silvia, co-mune a tantissimi archeologi dell’attuale generazione. Da un ini-

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ziale e mai rinnegato amore per Tucidide, al project financing e all’analisi stratigrafica mediante carotaggi. Non lo si legga come un tralignamento o come un aver tradito, magari per necessità, le giovanili ambizioni: tutt’altro. E’ stata, piuttosto, la naturale evo-luzione del mestiere dell’archeologo degli ultimi decenni. Nelle pagine che seguono mi propongo proprio questo scopo: mostrare come il percorso di Silvia non sia stato casuale, ma piuttosto pos-sa considerarsi l’emblema di come sia, culturalmente e forse, in parte, anche antropologicamente diversa la sua, l’attuale, genera-zione di archeologi rispetto alle precedenti. Il percorso di Silvia, salvo piccole variazioni, è stato comune a quello di tante sue col-leghe e tanti colleghi. Parlare di Silvia è parlare dell’archeologo del duemila.

Come detto, Silvia nacque a Catanzaro, il 12 dicembre del 1970, da Ivo e Vittoria. Una famiglia solida, con Papà impiegato e Mamma insegnante di Religione, che vollero investire molto nella cultura dei tre figli (Silvia, infatti, era preceduta da Mimmo e seguita da Stefania) i quali hanno tutti frequentato, a differenza dei genitori, il Liceo. Lo scientifico per il fratello e il classico per le sorelle. Silvia, inutile dirlo, era un’ottima studentessa, ed era studentessa molto diligente, e con ciò si intende che passava molte e molte ore alla scrivania. Ebbe voti lusinghieri alla matu-rità, grazie, appunto, all’intenso impegno che vi profuse. Non fu fatto di secondaria importanza, e si può dire che alcuni aspetti del carattere di Silvia, forgiati in quegli anni, si mantennero anche dopo. Innanzitutto Silvia si rese conto che con l’impegno e la de-dizione si potevano raggiungere risultati ritenuti al di fuori della propria portata. Inoltre Silvia maturò, in quegli anni, quella pro-fonda umiltà intellettuale che fu il vero punto di forza negli anni seguenti. Riteneva infatti di dover sempre apprendere, studiare, informarsi. Mai manifestò una, seppur giustificabile, prosopopea intellettuale. Era sempre convinta di essere inadeguata, e ciò era sprone perché lei continuamente fosse spinta a leggere e appro-fondire. Non si sentì mai ‘arrivata’, si sentiva, invece, sempre

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come la novizia che dovesse colmare profonde, e spesso inesi-stenti, lacune, investendo sempre maggior tempo nello studio.

La scelta di prendere Lettere Classiche, e di frequentare a Roma, avvenne in maniera meno ponderata di quanto la sua evo-luzione culturale successiva possa lasciar supporre. In realtà Sil-via aveva a lungo coltivato, negli anni del Liceo, la passione per la musica, e per la chitarra classica in particolare. Era quindi in-certa se abbandonare questo interesse andando a frequentare così lontano o, piuttosto, rimanere in Calabria e proseguire con studi universitari, compiuti probabilmente a Cosenza, abbinati all’ap-profondimento della musica. Fu una delusione musicale, per così dire, che la convinse a dedicarsi a tempo pieno all’Università. Scelse quindi, per conseguenza, Roma, in quanto considerata la migliore per le Lettere Classiche. Questa risoluzione fu presa nel corso dell’estate del 1989, quella della maturità e non a giugno, ma a settembre.

La scoperta dell’archeologia, per lei appassionata di lettere, avvenne gradualmente. Silvia non era stata l’adolescente cre-sciuta nel mito di Indiana Jones, era, come detto, un’ottima stu-dentessa che amava il mondo classico. Nel corso dei primi anni universitari s’imbatté in Epigrafia, un ponte tra le Lettere e l’Ar-cheologia. L’essere a Roma, il poter avere a disposizione un’infi-nità di materiali la spinse a spostarsi, lei Magnogreca di nascita, sul versante latino. I suoi studi cominciarono allora ad assumere una connotazione propriamente archeologica e partecipò ai pri-mi scavi, in ambito universitario, nell’odierna Pratica di Mare. Si trattava di periodi di tempo limitati a poche settimane, con-centrate nella bella stagione, un po’ come si usava nella remota antichità per i conflitti bellici ai quali, peraltro, il termine ‘campa-gna’ rimanda. Erano scavi che massimizzavano la conoscenza e la didattica, durante i quali si adoperava, insieme all’onnipresente trowel, il pennello e la vanga. Scavi condotti secondo modalità e tempi consolidati nei decenni, per i quali non era fondamentale la conclusione dei lavori e la chiusura definitiva del cantiere che, di anno in anno, veniva riaperto per nuove leve di studenti. Una pa-

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lestra, insomma, non un campo di gara. Sempre in quel periodo, nei mesi estivi, per qualche settimana partecipava anche a scavi in Calabria, a Roccelletta, non lontano da casa sua e dal suo mare: esperienze formative, che integravano lo studio dei testi e la pre-parazione degli esami.

In ogni caso, l’interesse per l’epigrafia, in quegli anni universi-tari, rimase il prevalente. Partecipò a numerosi seminari e iniziati-ve del Dipartimento e fu nell’ambito di questa disciplina che svi-luppò la sua tesi di Laurea che discusse nel dicembre del 1996.

Il periodo immediatamente successivo, il 1997, trascorse in approfondimenti di Epigrafia, nella frequentazione di un corso di Biblioteconomia presso il Vaticano e, soprattutto, nella prepara-zione dell’esame per la scuola di specializzazione in Archeologia che tenne, e superò, alla fine dello stesso anno. Ebbe anche la possibilità di partecipare, per qualche settimana in autunno, ad uno scavo nella sua terra, a Capo Colonna. Fu l’ultima esperienza nella sua Magna Grecia, anche se, ovviamente, non poteva saper-lo. Ritornare a scavare in Calabria (e, magari, anche all’estero, in una provincia romana) fu un desiderio che l’accompagnò sempre e la cui realizzazione fu sempre rimandata a causa dell’urgenza dei lavori romani.

La svolta lavorativa e professionale di Silvia, quella che con-dizionò il lavoro nei dieci anni successivi avvenne, come spesso capita, per caso. Un passa parola tra colleghe, alla fine dell’estate del 1998, l’aveva portata a conoscenza del fatto che ai Fori, e nel Foro della Pace in particolare, si ricercavano giovani archeologi per uno dei cantieri che, in previsione anche del 2000, avrebbe portato alla parziale liberazione dell’area archeologica ricoperta da Via dei Fori Imperiali e dagli adiacenti giardini. L’accettazione di quel lavoro causò una qualche titubanza, superata peraltro in poche ore, in quanto avrebbe significato un totale sconvolgimento della sua vita e dei suoi ritmi. Pur con qualche incertezza accettò e fu assunta e inquadrata, in mancanza di particolari specifiche contrattuali, con il ruolo di manovale. Con stipendio, ovviamente, correlato ed adeguato.

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In un saggio che segue è descritta l’enorme valenza scientifica di quello scavo a cui Silvia partecipò, prima come apprendista e poi, mano a mano che i mesi passavano, con sempre maggiore consapevolezza e sicurezza. Ciò che, piuttosto, mi preme raccon-tare in queste righe introduttive è come l’impatto con il mondo lavorativo dei cantieri mutò la percezione di Silvia nei riguardi del mestiere dell’archeologo. Percezione che negli anni successi-vi subì molti approfondimenti ma non stravolgimenti essenziali.

Ho usato il termine impatto, perché in esso è contenuto un si-gnificato che rimanda a scontro, a opposizione. Infatti, sulle pri-me fu così. Abituata ai cantieri universitari, agli studi approfon-diti, alle vanghe e ai pennelli, Silvia non riuscì a concepire, sulle prime, la logica dei metri cubi da spalare giornalmente con ausilio di mezzi meccanici. Misurare l’archeologia a metri cubi (giorna-lieri) era per lei poco meno che un sacrilegio e, nei primi giorni, non si capacitava del fatto che un lavoro da lei inteso in maniera essenzialmente qualitativa, quasi un’arte, potesse essere soggetto a condizioni così quantitative. Ma, col passare dei giorni e delle settimane questa nuova esperienza la portò a maturare alcune con-siderazioni sulle quali costruì la successiva vita professionale.

Innanzitutto Silvia rimase affascinata dal mondo dei cantieri. Sino ad allora aveva lavorato prevalentemente in ambito accade-mico, con colleghi studenti come lei. Ora si trovava di fronte a realtà come inquadramenti professionali, contratti di lavoro, ma-estranze, gerarchie determinate non solo e non tanto dai titoli ac-cademici maturati. Silvia cominciò a sentirsi parte integrante del cantiere, lavoratrice tra lavoratori, e non studentessa tra studenti e professori. Un episodio apparentemente minore può forse spie-gare il suo stato d’animo. A quell’epoca (e immagino anche ora) si discuteva di quale forma contrattuale fosse più adeguata per gli archeologi. Silvia si iscrisse, anche sulla base delle sue idee politiche, alla CGIL e, proprio nell’ambito di quel sindacato, una larga parte di suoi colleghi, insieme a restauratori e altre figure fortemente professionalizzate, ma non adeguatamente collocate, si iscrisse al Nidil, la Federazione della CGIL che si propone di

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inquadrare i lavoratori atipici. Silvia non seguì la maggioranza dei suoi colleghi e si iscrisse invece alla FILLEA, la Federazione dell’Edilizia e delle Costruzioni. Questo perché lei si sentiva una lavoratrice del settore. Desiderava che nel contratto futuro fosse creata una figura professionale nella quale includere gli archeolo-gi, ma voleva che questo avvenisse nell’ambito dello stesso con-tratto che comprendesse anche i manovali e gli operai, i tecnici e i geometri e, in generale, tutte le figure professionali operanti all’interno di un cantiere.

Fascino del mondo dei cantieri e di quello del lavoro in ge-nerale, quindi. Ma quell’esperienza fece riflettere Silvia su una questione che di lì a qualche anno sarebbe diventata ancora più centrale. Si rese conto, infatti, che nella penuria cronica di finan-ziamenti pubblici, l’unica maniera di ‘scavare’ era quella di farlo nell’ambito di un rapporto di tipo privato, con capitali privati e committenze private. E’ vero che lo scavo ai Fori era ancora uno scavo commissionato dal Pubblico, ma veniva portato avanti, con le ovvie supervisioni, da imprese private vincitrici di gare d’ap-palto.

Si rese conto, insomma, che stavano terminando i tempi degli scavi finanziati dalle ‘Belle Arti’ o, in generale, dal Pubblico. Per il futuro, o si cessava di scavare in attesa di un concorso che mai sarebbe giunto, di un posto in Soprintendenza che mai si sarebbe creato (per non parlare di una collocazione in ambito accademi-co), oppure ci si orientava a lavorare per conto di privati con la supervisione delle varie Sovrintendenze. E questo non in cantieri di tipo archeologico, cantieri, cioè, nei quali l’archeologia rap-presenta lo scopo e il fine dello scavo, ma in cantieri ‘norma-li’, fossero essi destinati alla costruzione di un palazzo o di un parcheggio, nei quali la figura dell’archeologo appare nella fase preventiva, per scongiurare che le erigende costruzioni possano compromettere o danneggiare vestigia non ancora documentate. L’archeologo, quindi, da essere il dominus del cantiere diviene, in quest’ottica, un tecnico specializzato, inserito in un programma la cui finalità prescinde completamente dall’archeologia stessa.

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In nuce (e non solo lì) c’era e c’è un conflitto di interessi di enormi dimensioni. Basti pensare che interesse del pubblico e degli archeologi, allorquando si inizia lo scavo preliminare per la costruzione di un qualunque edificio, è quello di scoprire il maggior numero di tesori possibile, tesori che possano illumina-re un frammento della nostra conoscenza dell’Antico. Viceversa, interesse del privato che il palazzo vuole costruire (e che paga gli archeologi) è quello di non trovare proprio nulla: solo strati di anonima sabbia o terra che possano spianare la strada alle ruspe e alle gru per accelerare la vendita degli appartamenti. In una si-tuazione in sé conflittuale è necessario barcamenarsi con grande buon senso e Silvia, che di qualità certo non difettava, di buon senso abbondava. Si rese conto che l’unico modo per prevenire eventuali conflitti tra committente privato e Soprintendenze era quello di riuscire a svolgere il lavoro di sondaggio preliminare nel modo più efficiente possibile. Come? La risposta arrivò qualche tempo dopo la chiusura dei cantieri del Foro della Pace, che av-venne verso la fine del 1999.

Nel corso del 2000, durante il quale fu impegnata prevalente-mente in incarichi di poco conto, essenzialmente per il controllo di lavori di Società di Servizi che dovevano porre cavi o riparare condutture, fu chiamata per una sorveglianza presso il cantiere di un costruendo parcheggio sotterraneo in Via Ricci Curbastro, nei pressi di Piazzale della Radio, a Roma.

Nel corso di quegli scavi fu rinvenuto un fronte di cava e, nel-la roccia era ancora possibile vedere con chiarezza i segni degli strumenti di lavoro usati da antichi cavatori. Reperti certamente interessanti, ma non memorabili. Ma quello scavo ebbe un’im-portanza enorme per Silvia perché fu in quell’occasione che entrò in contatto col mondo della geologia, ovviamente per lei declina-ta come geoarcheologia.

Si apriva, per lei intrisa di studi umanistici, un mondo com-pletamente nuovo, fatto di stratificazioni geologiche e non sto-riche, di età della Terra e non solo dell’Uomo, di composizioni chimiche. Prese gusto a riconoscere le rocce, lei che era abituata

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a distinguere cocci e manufatti. Gusto che, sia lecita una parentesi personale, fu causa non certo di litigi, ma di sarcastici appunti da parte mia in quanto prese l’abitudine di tornare da ogni viaggio con un certo numero di campioni di rocce assortite. Fossero sco-gliere bretoni o irlandesi, calcaree coste pugliesi o croate, monti valdostani o provenzali, ogni occasione era buona per infilarsi in tasca un ciottolo a futura memoria. Persino dall’Egitto, nono-stante il draconiano limite sui chili di bagaglio da imbarcare, fu in grado di tornarsene con qualche pietruzza. Purtroppo, dati i limiti di cui sopra, di dimensioni troppo modeste rispetto a quanto auspicato.

Il passo successivo e obbligato fu quindi la frequentazione del master di geoarcheologia presso l’Università di Roma Tre. Naturalmente la frequentazione e lo studio avveniva in parallelo all’attività lavorativa che la vide impegnata per diverso tempo in un’area periferica, alla Muratella. Nel corso di questi scavi ebbe ancora più materiale per proseguire, sul campo, le sue riflessio-ni geoarcheologiche. Era, infatti, un’area priva di importanti in-sediamenti antichi (furono trovate solo delle sepolture arcaiche) ma era un’area che si prestava moltissimo, per la sua vastità a quell’esame comparato dei suoli che le permetteva di verificare sul campo (meglio: nella terra) ciò che andava approfondendo negli studi geoarcheologici.

Fu in questo periodo che il cerchio, in un certo senso si chiuse, quando cominciò a impratichirsi, e poi a padroneggiare, le tec-niche di carotaggio. Questo tipo di indagine rispondeva a molte questioni che Silvia si era nel frattempo posta.

Innanzitutto, nell’esame dei vari strati, poteva mettere a frutto le acquisite conoscenze geologiche e riconoscere, con buona ap-prossimazione, il tipo di sedimentazione sottostante. Ma, soprat-tutto, vedeva nel carotaggio lo strumento ispirato dal buon senso a cui si accennava.

Nel corso di uno scavo preventivo, infatti, il metodo classico delle trincee era per lei troppo dispendioso. Si rischiava di sacrifi-care preziosi fondi per un’operazione che, forse, con molta minor

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spesa e minor tempo, si sarebbe potuta affrontare con un certo numero di carotaggi ben fatti. Il risparmio così ottenuto sarebbe stato certo gradito al committente e avrebbe permesso, nel caso di ritrovamenti, o sospetti di ritrovamenti, una maggior disponibilità per l’approfondimento.

In quel periodo, accanto agli interessi di tipo geoarcheologico, ebbe però l’occasione di partecipare ad un importante scavo di tipo ‘classico’, la necropoli di Vigna Pia. Riprese in mano, tro-vandosi dinnanzi a reperti classici per un archeologo, come lapi-di, mosaici, tombe, una serie di competenze passate, dall’epigra-fia all’iconografia. Negli interventi seguenti tra l’altro vengono descritti i risultati di quella campagna di scavi per la quale curò numerose pubblicazioni.

Fu nello stesso anno, nel 2002, nell’area dei Mercati Generali, che mise a frutto le sue nuove conoscenze, con una campagna di sondaggi archeologici condotta con la tecnica dei carotaggi. Ne era molto soddisfatta, direi quasi entusiasta, e si proponeva di approfondire ancora di più la sua padronanza di questa mate-ria quando, nell’estate del 2002, le fu diagnosticata la malattia, il morbo di Hodgkin, le cui complicazioni furono in seguito fatali. Seguirono due anni di grandi sofferenze psicologiche e fisiche che mi sia lecito evitare di rammentare, ma che non è difficile immaginare.

Nel corso di questi due anni, comunque, anche se era ovvia-mente bandita una sua presenza negli amati cantieri, non stette mai con le mani in mano. Terminò la scuola di specializzazione e il master, discutendo tesi su argomenti lievemente eccentrici rispetto alla sua precedente formazione. Per il Master discusse una tesi collettiva incentrata sugli antichi insediamenti preistorici nella piana del Fucino. Per la scuola di specializzazione presentò invece una tesi di museologia focalizzata sul progetto di un co-stituendo Museo di Celano. Purtroppo il tempo non le consentì di sviluppare come avrebbe desiderato questi interessi, ma l’ipotiz-zare un Museo del territorio, un Museo, quindi, che raccogliesse testimonianze della storia del luogo e della sua conformazione

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naturale, e che delineasse il percorso degli insediamenti passati in rapporto all’ambiente circostante, fu un ulteriore passo verso nuovi orizzonti culturali e di conoscenza. In quello stesso anno, inoltre, approfondì le sue letture recuperando, via internet, testi di geoarcheologia americani o inglesi e non abbandonò mai la spe-ranza, anche nei momenti peggiori, di tornare a svolgere il lavoro che amava e che considerava la sua vita piena, contrapposta a quella monca che la malattia la costringeva a vivere.

Finalmente, nella primavera del 2004, poté ritornare, emozio-nata come una scolaretta al primo giorno di scuola, alle ruspe, alle paline, ai flessometri e alla trowel.

Da allora sino alla fine della sua vita, lavorò nell’area del Te-staccio, un quadrante di Roma che non è ignoto a nessuno stu-dente di Archeologia ma che lei aveva molto frequentato in quan-to le sue attività principali si erano prevalentemente concentrate nell’area ovest sud-ovest di Roma, lungo quelle direttrici (Por-tuense, Ostiense) che dall’Urbe portavano al mare. Il Testaccio è l’ultimo baluardo intramoenia prima dell’inizio di questi tragitti verso il litorale.

Si parlerà diffusamente del Testaccio nel seguito del volume dal punto di vista scientifico e non è, questo capitolo introduttivo, la sede più idonea per accennarvi. Dal punto di vista di Silvia, però, il Testaccio rappresentò il cantiere della maturità raggiunta e acquisita.

Il suo percorso culturale era ormai ben delineato. Certo, avreb-be potuto approfondire sempre maggiormente le sue competenze, avrebbe potuto sempre essere più informata. Ma non credo, an-che se manca la controprova, che la sua formazione si sarebbe, qualora avesse potuto vivere più a lungo, modificata in maniera radicale. Ormai Silvia aveva compiuto il suo apprendistato, aveva individuato nuove aree di studio e aveva allargato i propri oriz-zonti culturali. Era diventata una figura intellettuale che sapeva coniugare il rigore dello studio accademico con la necessaria ca-pacità di coordinare maestranze, rispettare tempi di lavoro, mini-mizzare i costi e proporre soluzioni.

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Il Testaccio era infatti la summa di tutto ciò per cui Silvia ave-va studiato e lavorato.

Era infatti un’opera finanziata mediante la finanza di progetto, vale a dire un’opera pubblica (nella fattispecie il mercato rionale) realizzata da un privato che, in cambio, otteneva la facoltà di rea-lizzare strutture generatrici di reddito (parcheggi, per esempio). Gli scavi archeologici, propedeutici alla realizzazione del pro-getto, erano parte integrante della spesa sostenuta dall’impresa costruttrice.

Vi era quindi, nella fase iniziale, una parte di sondaggi per i quali furono messe a frutto le conoscenze sui carotaggi e sulla geoarcheologia in genere. Successivamente, nella fase di scavo, allorquando vennero alla luce gli ambienti in seguito descritti, si ritornò ad un’analisi classica di tecniche di costruzione, datazio-ne, attribuzione storica.

Il tutto nel rispetto di tempi e costi imposti da budget e piani finanziari, nel colloquio costante con i committenti e supervisori di Soprintendenza. Insomma, il Testaccio fu lo scavo della sua maturità perché era ormai attrezzata per un’esperienza così com-plessa. La sua formazione era terminata. Sarebbe iniziata, se il destino fosse stato con lei, e con noi tutti che la conoscemmo, maggiormente benigno, la fase della sua realizzazione.

Nel corso degli anni vissuti con Silvia ho conosciuto decine di sue colleghe e di suoi colleghi. Ciascuno ha la sua storia, le sue peculiarità, i suoi percorsi, ma io credo che nella vicenda profes-sionale di Silvia si possano rinvenire alcuni tratti caratteristici di un’intera generazione di archeologi che, come lei, hanno ormai terminato la fase di preparazione e formazione e sono ormai pron-ti e maturi per scrivere il futuro di questa disciplina. Riannodando i fili di questo discorso, credo si possa dire che il decennio appena trascorso abbia modificato profondamente la figura dell’archeo-logo.

Salvo casi particolari, oggi l’archeologo lavora prevalente-mente per un soggetto privato. E’ stipendiato dal privato ma svol-

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ge, con la supervisione delle varie Soprintendenze, un incarico pubblico. Ciò comporta che oggi il giovane archeologo debba mi-surarsi molto precocemente con tutta una serie di problemi (e ter-mini: quale archeologo degli anni ’80 sapeva cos’era un project financing?) che non appartengono al classico bagaglio formativo. Si troverà sovente ad essere tra incudine e martello, tra Soprinten-denza e Privato e dovrà presto imparare a trovare le soluzioni che possano permettere la necessaria e indispensabile armonia tra i due soggetti, entrambi portatori di interessi leciti, ma non sempre intonati. Le soluzioni, infatti, andranno trovate perché è un costo sociale sia il non mettere in giusta luce un aspetto culturale della nostra eredità sia il non realizzare un’opera infrastrutturale, e que-sta necessaria opera di problem solving (come si usa dire) spette-rà, in casi sorprendentemente numerosi, proprio all’archeologo.

Per quanto riguarda la formazione di base, un tempo si diceva che chi non amava la matematica poteva prendere Legge o Let-tere (forse anche qualcos’altro). Questo luogo comune, se mai ha risposto a verità, di certo non vale oggi. E’ certamente vero che l’archeologo assai difficilmente si troverà a risolvere equazioni differenziali, ma ormai una conoscenza di materie scientifiche è richiesta quasi quanto quella di Seneca. Ciò è vero senz’altro per le discipline preistoriche che, ormai, senza conoscenze di tipo naturalistico, siano esse climatiche, dendrologiche, geologiche, sarebbero molto impoverite. Ma vale ormai anche per il più fa-miliare e vicino mondo classico, come si è visto in certi episodi riguardanti la vita di Silvia. Il tracciare il percorso di un rigagnolo partendo dai sedimenti rinvenuti, per esempio, mediante carotag-gio; il dedurne, in conseguenza, le aree di più probabile insedia-mento, l’ipotizzare uno sviluppo urbanistico locale, sono esercizi che Silvia s’è trovata ad affrontare in pratica (nella fattispecie il rigagnolo era l’Almone, che un tempo scorreva nell’area dei Mer-cati Generali) e non avrebbe potuto farlo se non avesse, nel frat-tempo, esteso i suoi orizzonti culturali. Per non parlare dell’uso ormai abituale dell’informatica. Silvia aveva seguito corsi CAD, sia 2D che 3D, e le tecniche di rilevamento non possono ormai

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prescindere dall’uso di strumenti informatici più o meno com-plessi. Tavole e lucidi sono ancora là, ma i punti CAD avanzano inesorabili e sono ormai compagni fedeli e abituali. Tutto ciò non sono equazioni differenziali, ma presuppongono una mente se non matematica, quanto meno non refrattaria alla stessa. Tutti questi saperi non annullano i precedenti: sarà sempre necessario cono-scere (per il mondo classico) il greco e il latino e padroneggiare storia e fonti. Ma si aggiungono ad essi, e sarà ottimo archeologo colui che saprà armonizzarli in una sintesi.

L’archeologo di oggi non ha nell’Accademia il punto di ri-ferimento esclusivo. Nascono nuovi riferimenti culturali, nuove personalità che non hanno cattedre o incarichi in qualche Soprin-tendenza. Sono figure rispettate, con all’attivo numerose pub-blicazioni e collaborazioni, citate sovente in bibliografie inter-nazionali. Intellettuali liberi, potremmo dire. Accademici senza cattedra, luminari free lance. Il giovane archeologo potrà essere uno di questi: oggi non è indispensabile, per affermarsi nel cam-po, essere investiti di un incarico. E’ una condizione nuova, forse transitoria, forse il mondo accademico riuscirà a sanare questa frattura, ma oggi è la realtà.

Il giovane archeologo, infine, scaverà. Può essere, detta così, una tautologia, ma non lo è se si interrogano archeologi di altre generazioni e si domanda loro quanti mesi della loro vita hanno passato con elmetto e scarponcini su uno scavo, magari nel corso delle campagne estive delle quali si parlava all’inizio. Dalle ri-sposte che otterrà, il giovane archeologo presto scoprirà che dopo nemmeno dieci anni (ma forse ne basteranno cinque) di lavoro continuato qua e là per pozzi e trincee, cavi e cave, parcheggi e ferrovie, si sarà trovato in cantiere più tempo di qualunque ar-cheologo delle passate generazioni. Ciò conferirà un’esperienza pratica, diretta, che sarà un bagaglio culturale importante e un motivo di orgoglio professionale e umano.

Chiudo quindi questa nota introduttiva. Non sono certo io, che sono stato suo marito, colui che può tracciare un quadro obiettivo

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della donna Silvia: è evidente che il mio giudizio sconfinerebbe rapidamente nell’agiografia e nel rimpianto. Ciò che mi propo-nevo era però mostrare come, nel percorso individuale dell’ar-cheologa Silvia, si possano rinvenire alcuni tratti comuni ad una generazione intera di archeologi: il contatto col mondo del lavo-ro, l’esistenza di un’archeologia non accademica, l’irrompere di nuovi paradigmi scientifici di interpretazione. Ciascun archeologo della sua generazione s’è imbattuto in questi problemi e ciascuno ha elaborato la sua soluzione, più prossima o meno a quella data da Silvia. Di certo quello che mi pare di poter affermare è che, nel corso del decennio lavorativo di Silvia, il mondo dell’archeo-logia è mutato profondamente, perché sono mutate le condizioni esterne. E’ mutata la società e l’economia, infatti, (i rapporti tra impresa privata e Soprintendenza di cui ho parlato) e sono muta-ti, o si sono arricchiti, con la globalizzazione, i contesti culturali (l’irrompere di scienze e informatica). Ciò che però non è mutata è la passione per questo mestiere. E vorrei concludere con l’augu-rio che ogni giovane archeologo possa nutrire solo una parte della passione che animava Silvia. Una sola parte, nemmeno la totalità, sarà più che sufficiente per amare l’archeologia per tutta la vita.

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PUBBLICAZIONI DI VALERIA SILVIA MELLACE

V. S. Mellace, “Schede”, in Miscellanea greca e romana XFTII, 1994, pp. 195-196 n. 14; p. 237 n. 57; pp. 268-269 n. 90.

V. S. Mellace, “Schede”, in G.L. Gregori (a cura di), La collezio-ne epigrajca dell’Antiquarium comunale del Celio. Inventario generale - Inediti - Revisioni - Contributi al riordino (Tituli, 8), Roma 2001, p.157 n. 60; p. 295 n. 253; p. 304 n. 270; pp. 318-319 n. 301; pp. 320-321 n. 305.

M. C. Grossi, V.S. Mellace, “L’area necropolare di Vigna Pia” in Bul-lettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma CIII, 2002, pp. 349-353.

V. S. Mellace et al., Poster “Geoarchaeological Study of the Fu-cino basin (Abruzzo, Italy)” presentato nella 6th Conferente of Italian Archaeology, Gröningen, April, 13-17, 2003.

M. C. Grossi, V.S. Mellace, “Via Portuense. La necropoli di Vigna Pia: strutture e rituali funerari” in Histria Antiqua 13, 2005, pp. 397-406.

V. S. Mellace, S. Festuccia, “Nuovo Mercato Testaccio, scavi e ricerche”, in www.fastionline.com 2005

V. S. Mellace, “Vigna Pia (Municipio XV). Area necropolare” in M.A. Tomei (a cura di) Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritro-vamenti archeologici 1980-2006, Roma 2006, pp. 505-508.

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V. S. Mellace, G. Verde, “Rapporto preliminare sulle indagini ar-cheologiche condotte nell’area del Nuovo Mercato Testaccio”, in Analecta Romana Instituti Danici 32, 2007, pp.43-50.

V. S Mellace et al.,“I1 più grande scavo aperto a Roma” in Forma Urbis, anno XII, n.3, Marzo 2007, pp. 28-37.

M. C. Grossi, V.S. Mellace, “Roma, via Portuense: la necropoli di Vigna Pia”, in Körpergräber des 1. - 3. Jahrhunderts in der Römischen Welt (Internationales Colloquium Frankfurt am Main 19. - 20. November 2004), in Schriften des Archäologis-chen Museums Frankfurt, 21, Francoforte 2007, pp. 185-200.

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ATTI DELLA GIORNATA DI STUDI

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INTRODUZIONE:L’ARCHEOLOGIA CON GLI OCCHI DI SILVIA

renAto SebAStiAni

L’archeologia con gli occhi di Silvia è un omaggio collettivo a Valeria Silvia Mellace, nostra amica. Omaggio a un’amica e ad una studiosa che ci ha lasciato troppo presto e al suo lavoro così precocemente interrotto. Omaggio che si è concretizzato in una giornata di studi in suo onore tenutasi nella sala conferenze del Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo a Roma. Una sede dell’archeologia ‘istituzionale’, un riconoscimento che l’archeo-loga Silvia meritava; una sala conferenze piena, la testimonianza concreta dell’affetto che la circondava e del valore del suo lavoro. Il sentimento, lo studio, il lavoro, si sono espressi attraverso il racconto della nostra comune professione, dell’incontro di cia-scuno di noi con Silvia e con il modo con cui ha reso viva la sua archeologia.

Un giorno che ha ripercorso tramite voci e volti diversi la sto-ria di Silvia archeologa. Tanti pezzi per un insieme, per un unico sguardo, quello di Silvia. I passaggi chiave della sua formazio-ne universitaria: l’epigrafia, primo e mai abbandonato interesse come strumento di studio della storia del territorio, la specializza-zione in museologia e il rapporto fecondo con Giovanni Scichi-lone, lo studio della geoarcheologia e la ricerca interdisciplinare sul Fucino. Le prime esperienze a Roma di archeologa sul campo al Foro della Pace, la lunga e ricca attività di collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Roma nel territorio del XV Municipio dove la sua professionalità si è arricchita ed espressa

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in molti settori della disciplina archeologica. I lavori di geoarche-ologia alla Magliana e lungo il primo tratto della via Ostiense, in cui l’esperienza del master e dello studio del Fucino sono diven-tati ricerca applicata, elaborazione di nuovi strumenti di lavoro. Infine Testaccio, lo scavo del Nuovo Mercato che è stato parte così importante del suo percorso di archeologa.

Silvia amava l’archeologia, la praticava con grande passione; era una studiosa rigorosa e consapevole dell’importanza di unire l’analisi puntuale del dato archeologico allo sforzo di immaginare e raccontare esseri umani vivi e la loro esistenza in comunità, per capire qualcosa di più del nostro presente e aiutare un po’ il futuro di tutti. Rigore e sforzo d’immaginazione che si possono leggere attraverso le parole di chi con Silvia ha studiato e lavorato, di chi a Silvia ha insegnato e che, come ogni bravo insegnante, nel rap-porto con lei ha imparato.

Il lettore troverà anche l’immagine di una realtà oggi molto diffusa nel nostro paese, una realtà che accomuna Silvia con una generazione, ormai due, di donne e di uomini: la pratica dell’ar-cheologia come libera professione, fuori dall’amministrazione statale dei beni culturali, dagli enti territoriali, dall’università, fuori cioè dai luoghi istituzionali che erano, ancora trent’anni fa, quelli in cui si praticava l’archeologia in modo pressoché esclu-sivo. Silvia appartiene all’insieme di persone che sono etichettate in modo ormai un po’ surreale come ‘collaboratori esterni’ pur co-stituendo una parte fondamentale della struttura di ricerca e tutela dei beni archeologici del nostro paese.

Noi europei apparteniamo a una cultura che ha bisogno di no-minare, di attribuire nomi. Leggendo i diari di viaggio di Cristo-foro Colombo vi si ritrova l’ansia di assegnare subito un nome a ogni luogo, pianta, animale, gruppo umano. Senza un nome sem-plicemente non si esiste. Abbiamo tutti cucita addosso una de-finizione: collaboratore esterno, appunto, ma anche funzionario, ispettore, professore, ricercatore, tecnico, esperto…

In questo caso la definizione ‘collaboratore esterno’ è quanto mai povera, incapace di svolgere la sua funzione, appunto, di de-

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finire. Silvia è testimone di una generazione che ha fatto il mestie-re dell’archeologo fuori delle istituzioni tradizionali ma con una coscienza profondamente istituzionale. Archeologhe e archeologi nella posizione difficile e scomoda di chi affronta quotidianamen-te sul terreno interessi spesso contrapposti pur avendo ciascuno legittimità: la tutela dei resti archeologici, ovvero di una parte della nostra storia, e le opere di urbanizzazione, ‘lo sviluppo’, cercando di farli dialogare positivamente. Un modo di vivere la professione che nella pratica concreta è ricerca, azione di tute-la, sperimentazione di comunicazione, confronto continuo con la complessità della nostra società. Silvia e con lei tanti altri, l’ha fatto con ‘le mani nella terra’, con una fortissima coscienza ‘isti-tuzionale’ del proprio lavoro, del valore collettivo della cultura e di ciò che lei, anche senza un’etichetta istituzionale, era chiamata a fare in nome e per la collettività.

E’ il terreno su cui Silvia ha applicato le sue conoscenze, si è confrontata con i suoi limiti, ha sperimentato la sua capacità uma-na, la sua curiosità, la sua propensione a continuare a imparare. Silvia praticando la sua professione ha, infatti, portato avanti la sua formazione di archeologa. Anche in questo lei è rappresenta-tiva del percorso di tante e di tanti. L’epigrafista che dentro una cava si affaccia alla geoarcheologia e si dice: “M’interessa, mi aiuta a capire qualcosa di più che io non conoscevo”. L’archeo-loga da campo che si domanda: “Come si comunica quello che faccio?” e si rivolge alla museologia e alla museografia.

Ho conosciuto Silvia tanti anni fa, la nostra conoscenza è di-ventata amicizia proprio dentro una cava antica riemersa in mezzo ad una strada di Roma. Fu in quell’occasione che lei s’interessò alla geoarcheologia, venne nel laboratorio che con Renato Mat-teucci avevamo organizzato nella Soprintendenza Archeologica di Roma, e con noi cominciò un percorso di studio e di ricerca. Fu una cosa che mi colpì molto. Allora si trovavano con molta fatica archeologi classici disposti a considerare la geoarcheologia come uno strumento dell’indagine archeologica. Per una parte consi-stente dell’archeologia classica italiana eravamo ancora nel tempo

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delle “scienze sussidiarie dell’archeologia”, termine che metteva insieme le discipline più diverse (dalla paleobotanica all’arche-ozoologia, dall’archeometria alla geoarcheologia, ecc.) accomu-nandole appunto nel loro valore ‘sussidiario’ rispetto alla ricerca archeologica. I loro risultati finivano in genere come appendice nelle pubblicazioni di scavo. Silvia al contrario comprese subito l’importanza dell’indagine geoarcheologica, dei suoi metodi, in particolare nello spazio urbano, l’ambito in cui lei si trovava a operare quotidianamente. Silvia sperimentò l’utilità di strumenti d’indagine flessibili, le ‘carote’ come li sintetizzava, poco inva-sivi e relativamente economici, in contesti urbani dove lo scavo tradizionale era praticamente impossibile, e imparò a leggere i ri-sultati dei carotaggi, dell’analisi aerofotografica comparata, delle indagini geofisiche, come dati archeologicamente significativi.

Fu un percorso che dieci anni fa ci portò insieme a frequentare il primo corso di master in geoarcheologia all’Università Roma Tre. Eravamo cinque geologi e cinque archeologi e abbiamo stu-diato gomito a gomito per mesi. Tutti i pomeriggi, le escursioni il sabato, il campo in Abruzzo, le amicizie che nascevano, quelle che si rafforzavano. Un’esperienza importante, un’occasione di confronto unica, che diede vita ad uno studio geoarcheologico del Fucino e ad un GIS quando questo non era ancora uno strumento molto diffuso. Un lavoro che nacque multidisciplinare e si svilup-pò in un confronto interdisciplinare. Silvia partecipò con entusia-smo, arrivava spesso a lezione trafelata con le scarpe da cantiere infangate, e tante volte ci siamo incontrati nella salita, affannosa di ritardo, delle scale di Geologia a Valco S. Paolo.

Un lavoro che si sviluppò nelle discussioni durante lo scavo alle Paludi di Celano e nei pomeriggi a casa di Silvia a Roma, su quella grande carta intorno a cui ci trovava Maurizio quan-do tornava dal lavoro. La ‘carta’, il foglione con le tavolette del Fucino montate, su cui intrecciavamo linee di livello del lago, vici, superfici di ablazione, conoidi, grotte e depositi paleolitici e viabilità romana; cercavamo un bandolo, ci scontravamo e fatico-samente uscivamo dai limiti, che capivamo angusti, delle nostre

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rispettive discipline. Silvia, credo, non dimenticò più quell’espe-rienza, e volle continuare. Le ‘carote’ erano diventate per lei uno strumento d’indagine archeologica cui non rinunciare. E insieme continuammo, con Renato Matteucci e Carlo Rosa, sull’Ostiense, ai Mercati Generali. La scheda dei carotaggi che Silvia costruì con Carlo, rivista e unita a quella elaborata dal Laboratorio di ge-oarcheologia della Soprintendenza per il GIS del Progetto Urbano Marconi - Ostiense realizzato con il Comune di Roma, ha dato vita al database dei sondaggi che usiamo al Servizio di geoarche-ologia della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

Infine Testaccio. Il saggio di scavo sulle pendici del Monte dei Cocci fu la prima esperienza che facemmo insieme su quel territorio. Poi nella primavera del 2005 iniziammo con Silvia Fe-stuccia lo scavo del Nuovo Mercato, quello che Silvia sentiva come il ‘suo’ scavo. Il primo indimenticabile anno e mezzo in cui, ‘quattro gatti’, ci aggiravamo su quell’ettaro da indagare che appariva ed era immenso. Le discussioni intorno ai carotaggi, la prima sezione che schizzai su un pezzo di carta in mezzo alle auto ancora parcheggiate, con lei che commentava, valutava, suggeri-va ad ogni tratto di matita. Il muro toccato dal primo carotaggio, il successivo saggio di controllo, i primi ambienti dell’horreum (pensavamo potesse essere il secondo piano e invece erano le fondazioni!), i primi accumuli di frammenti di anfore, le prime tracce delle coltivazioni moderne. L’arrivo nell’estate di Lucilla e Alessia e la prima organizzazione del magazzino e della scheda-tura dei materiali e l’arrivo sulla scavo di Giovanna. Mi ricordo gli stati di avanzamento del lavoro che mi consegnava con ‘le Silvie’ (a Giovanna è toccato questo soprannome di gruppo), le riflessioni che facevamo insieme su quei dati iniziali, confluite nel primo articolo per ARID scritto da Silvia e Giovanna. Insieme facevamo i programmi su come andare avanti. Silvia è più volte venuta agli incontri iniziali al Gabinetto del Sindaco, non solo come ‘supporto tecnico’ ma perché le interessava, voleva entrare, capire la dimensione ‘politica’ e amministrativa che stava die-

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tro lo scavo, che ne condizionava non solo gli aspetti pratici ma la stessa esistenza. In quelle riunioni, fra l’altro, credo comprese come il progetto di valorizzazione che la Soprintendenza mise sul tavolo del confronto con il Comune, fece pendere il piatto della bilancia e rese possibile realizzare lo scavo.

E’ difficile far capire quanta gratitudine ho provato nei suoi confronti in quei pomeriggi in cui è venuta al Campidoglio. Quan-to era importante quell’interesse per una parte del lavoro istitu-zionale che il più delle volte resta ignorata e che chi ne è caricato vive in solitudine. Anche per questo Silvia mi resterà dentro.

Ricordo infine la preoccupazione per quel lavoro così grande che mi toglieva il sonno, e un incontro al bar, a largo di S. Susan-na, con Silvia Festuccia, in cui Silvia mi disse sicura: “Non preoc-cuparti, ce la faremo”. Così è stato. Grazie all’arrivo dei ‘nuovi’, come lei li chiamava nell’estate del 2006 in cui li aspettavamo. I ‘nuovi’ giunti a ottobre, sono diventati subito i colleghi e molto presto gli amici, sul cantiere e oltre il lavoro. Questa nuova realtà quotidiana ha preso vita mese dopo mese. Un insieme formato, per scelta di chi scrive, da tanti soggetti diversi, la SAF con le sue ‘ragazze’ come all’inizio venivano chiamate, singoli archeologi con formazioni differenti, studenti in tirocinio di varie università, alcuni dei quali sono rimasti a lavorare sullo scavo. Un gruppo di lavoro di cui, non è retorica, hanno fatto parte integrante gli operai come protagonisti in prima persona di quello che è sta-to definito, non so se con esattezza ma significativamente, il più grande scavo urbano degli ultimi anni. In questo microcosmo è nata l’idea e si è concretizzato anche il DAT. Altri ne scrivono in questo libro, vorrei solo dire che dà soddisfazione che lo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio abbia contribuito alla nascita di quest’associazione, segno dell’affiatamento creatosi fra gli arche-ologi che vi hanno operato e delle idee e potenzialità che ha su-scitato. Silvia ha contribuito anche a questo.

La giornata in onore di Silvia è stata anche altro. Gli oratori hanno parlato ad archeologi e non archeologi, un uditorio ‘misto’, e hanno dovuto sperimentare su quel campo come farsi capire.

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Per chi ascoltava e archeologo non era, spero che le lunghe ore a Palazzo Massimo abbiano restituito lo spaccato di una parte im-portante della vita di Silvia, la professione che amava e che, come spesso avviene nella vita di tutti noi, è sovente poco conosciuta da chi ci è vicino nell’amore familiare, nell’amicizia, negli affetti profondi. E’ un piccolo regalo, se si può dire così, che abbiamo voluto fare tutti in primo luogo ai suoi familiari, a Maurizio che pure il lavoro di Silvia ha sempre seguito con amore partecipe della sua passione, ai suoi amici.

Vorrei ringraziare senza una gerarchia che non saprei dove trovare, coloro che hanno reso possibile la realizzazione del con-vegno e di queste pagine. I relatori, amici di Silvia, che hanno saputo impastare insieme emozioni e dato scientifico, il gruppo del DAT che ha aderito subito all’idea del convegno e le ha dato le gambe, Rita Paris per l’affetto con cui, insieme ai suoi colla-boratori e ai tecnici, ci ha messo a disposizione le strutture di Palazzo Massimo. A Gianfranco Caporlingua e alla PMT, con Marta, Mimmo, Giuseppe, per aver affrontato positivamente un percorso difficile; ci siamo confrontati, insieme abbiamo com-preso le ragioni dell’altro, cercato e trovato le soluzioni. A loro il grazie anche per aver permesso materialmente la pubblicazione di questo volume. Un ringraziamento tutto particolare va agli operai che insieme a Silvia e a tutti noi hanno lavorato al Nuovo Merca-to di Testaccio, collaborando in modo attivo e fondamentale alla riuscita della ricerca. Con Silvia avevano un rapporto particolare e per lei hanno riempito la sala di Palazzo Massimo. Un grazie tutt’altro che formale va all’editore Pamprolini che ha ignorato a sue spese la nostra ‘povertà’ di mezzi. Infine Anna e Sabrina che hanno curato questo volume con immensa pazienza. Senza di loro semplicemente non sarebbe stato mai pubblicato.

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LA TESI DI LAUREA:“SCHIAVI E LIBERTI IMPERIALI

NELLA DOCUMENTAZIONE EPIGRAFICADEL MUSEO NAZIONALE ROMANO”

MichelA nocitA

Ho parlato con Silvia per la prima volta nell’estate del 1996. Eravamo studentesse all’università, entrambe impegnate nella ste-sura della tesi, e solo un lungo corridoio divideva le nostre fatiche dal momento che lei frequentava la biblioteca di Storia Romana ed io quella di Epigrafia e Storia Greca, situate alle estremità op-poste del medesimo piano. I problemi comuni che si dovevano affrontare per la composizione dei nostri primi lavori, l’amore insano per le iscrizioni, che solo chi decide di studiare epigrafia può comprendere, resero subito le nostre conversazioni piacevoli e sistematiche pause dei lunghi pomeriggi trascorsi in Diparti-mento. Non era facile resistere al fascino di Silvia: impegnata in mille progetti ma sempre disponibile, vivace ma discreta, dolce nel sorriso e nei modi, intelligente nelle sue osservazioni. C’era-vamo incontrate per caso, ma la nostra frequentazione successiva alla laurea non fu casuale: abbiamo studiato molto insieme per la preparazione all’esame d’ammissione alla Scuola di Specia-lizzazione e le intense giornate e serate di studio che abbiamo condiviso con fatica ma piacevolmente, rimangono un momento fondamentale per la mia formazione umana e professionale. La nostra collaborazione, che si estendeva anche alle numerose visi-te guidate (ad una delle quali Silvia mi fece la sorpresa d’invitare l’allora neofidanzato Maurizio) e la frequentazione praticamen-

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te quotidiana all’Università e non solo, sono proseguite fino agli inizi del 2001 quando, finita la Specializzazione, il Dottorato mi portò a Padova. Quando ho rincontrato Silvia nel 2004 il suo cor-po portava evidenti i segni della malattia contro la quale ancora lottava; mi volle raccontare tutta la sua esperienza, io l’aggiornai sulle novità della mia vita e da allora riprendemmo a sentirci e a frequentarci. Davvero si può dire che questi ultimi anni per Silvia siano stati felici, sia per la solidità degli affetti familiari, sia per i successi nel lavoro al quale si dedicava con la capacità, l’entu-siasmo e la tenacia necessari per quella sfida continua che è la ricerca. Rifiorita fisicamente, l’ultimo giorno trascorso con lei è stato su una spiaggia dello Ionio un anno e mezzo fa, non lontano dall’antica città di Scolacium presso la quale avevamo entrambe scavato: alla giornata di mare facemmo seguire una serata piace-volmente fresca in un pub, chiacchierando su esperienze fatte e progetti futuri.

Non avrei immaginato che l’argomento delle nostre prime conversazioni, la tesi in Epigrafia Latina, fosse anche la materia del mio ultimo, lungo dialogo con Silvia, perché più che leggere un lavoro scientificamente ineccepibile, con lei in questi giorni mi sono confrontata su una materia di studio continuando non solo spiritualmente ma effettivamente un’interessante riflessione storica dalla quale ho imparato molto.

Nella breve presentazione del suo lavoro Silvia evidenzia il fine della ricerca ed i criteri di cernita adottati per le iscrizioni: la tesi, intitolata Schiavi e liberti imperiali nella documentazione epigrafica del Museo Nazionale Romano, è uno studio sociologi-co, come spesso accade alle tesi epigrafiche grazie alla ricchezza d’informazioni storico/sociali desumibili da questo tipo di testi-monianze. L’obiettivo è quello di evidenziare il livello di mobilità sociale raggiunto dagli schiavi e dai liberti nell’ampio orizzonte cronologico del Principato; la documentazione, scelta dalla ric-chissima collezione del Museo Nazionale Romano, è quella che a detta di Silvia

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consente d’individuare gli spostamenti ‘orizzontali’ e ‘verticali’ che portano all’ascesa sociale di singole persone, e alla genesi di una nuova ‘aristocrazia’ talo-ra non meno ricca della classe senatoriale ed equestre e di loro non meno influente nella gestione degli af-fari pubblici;

sono le testimonianze, cioè, nelle quali è sempre evidenziata l’ap-partenenza alla domus imperiale, seppure in varie forme. Il rap-porto con l’imperatore, infatti, subisce un mutamento nel tempo come è evidente nell’onomastica: si passa dalla menzione detta-gliata dell’imperatore ricordato come dominus patronus del su-balterno, a forme sempre più impersonali come Augusti libertus o Caesaris servus fino alla scomparsa della qualifica di schiavo e liberto in circa tre secoli. Le testimonianze epigrafiche, lette spes-so alla luce di quelle giuridiche, svelano anche aspetti inconsueti delle strategie familiari per l’ascesa sociale: sarebbe paradossale che numerose donne d’estrazione libera accettassero di divenire liberte o schiave attraverso il matrimonio, se questo declassamen-to non avesse costituito l’unico modo certo per entrare nell’en-tourage dell’imperatore, la familia Caesaris. Quest’ultima era quindi formata da una classe subalterna molto spesso altamente specializzata, competente e devota all’imperatore più di quanto non fossero gli aristocratici, una classe d’individui per la quale il servizio nel Palatium era lo scopo di tutta la vita. Le iscrizioni, come ci si attende, rivelano che i rapporti consueti tra servo e padrone assumono in questo contesto forme particolari: l’atto di manomissione, ad esempio, varia in funzione delle diverse attivi-tà del liberto e dell’anzianità di servizio. Il raggiungimento delle posizioni della più alta burocrazia imperiale, tuttavia non cancel-lano le origini servili dell’individuo.

Adottando queste considerazioni come linee guida della ricer-ca, la tesi viene suddivisa in quattro capitoli: il primo è relativo alla nomenclatura degli schiavi e dei liberti imperiali; il secondo tratta delle unioni coniugali e dei figli degli schiavi e dei liberti;

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il terzo indaga sul legame individuale dello schiavo e del liberto con l’imperatore; nel quarto capitolo, infine, sono considerate le iscrizioni che registrano la mobilità sociale dei subalterni e con-servano i motivi dei loro avanzamenti. I capitoli, comprensivi delle schede epigrafiche, sono corredati da undici tabelle; chiudo-no la tesi le conclusioni, seguite dagli indici dei nomi e delle fonti e da undici tavole di foto ed apografi.

Chi ha necessità di basare la propria ricerca principalmente sull’onomastica, come spesso accade all’epigrafista, incorre in tutti i rischi d’incertezza legati ad una materia così dinamica, ori-ginale ed in evoluzione nel tempo: gli schiavi e i liberti imperia-li non omettono mai l’indicazione del loro status di ‘dipendenti’ dall’imperatore per motivi di prestigio, ma raramente è rispetta-to il criterio di uniformità e regolarità nelle loro espressioni. Gli elementi onomastici variamente combinati vengono utilizzati in maniera differente nelle attestazioni epigrafiche tanto che in nu-merose iscrizioni di liberti è insufficiente l’esame del nome per l’identificazione dell’imperatore di appartenenza. Altrettante dif-ficoltà sorgono per l’identificazione e la collocazione cronologica degli schiavi. Inoltre, dall’età flavia in poi, l’uso di nominare il principe in modo individuale cederà il posto all’adozione di una denominazione impersonale molto spesso costruita sugli appella-tivi di Caesar e Augustus: sull’impiego non casuale di questi due termini si è molto discusso. La tesi sostiene la lettura di Boulvert secondo il quale il termine Caesar, nel suo significato originale, caratterizza la posizione del padrone, del pater familias in riferi-mento al rapporto patrimoniale inteso come cassa privata dell’im-peratore; Augustus, invece, indica l’imperatore regnante nella sua grandezza divina, capo dello Stato e del fiscus. Questo spieghe-rebbe l’uso frequente delle distinte espressioni Caesaris servus e Augusti libertus: il rapporto che unisce lo schiavo all’imperatore è di tipo patrimoniale, cioè è un suo possedimento privato, mentre per il liberto l’imperatore è uno straordinario cittadino che guida lo Stato (Augustus).

Sebbene le iscrizioni esplicitamente relative a schiavi e liberti

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siano numerosissime, è evidente come dall’età severiana in poi esse diminuiscano drasticamente. Sulla scomparsa delle iscrizioni inerenti a schiavi e liberti dopo il III secolo il lavoro insiste in par-ticolar modo: il fenomeno potrebbe dipendere dal fatto che cambia il modo di nominare questi individui, tanto da diventare il loro ri-conoscimento molto difficile, o potrebbe essere conseguenza di un cambiamento all’interno della familia Caesaris. Nella tesi viene accolta quest’ultima ipotesi: a partire dal III secolo il ruolo di clas-se dirigente verrà assunto dall’ordine equestre, preferito ai liberti e agli schiavi, e sarebbe proprio il duro colpo subito dalla classe subalterna a determinare l’evidente silenzio epigrafico. Eloquenti per l’evoluzione della nomenclatura, come si è detto sintomatica delle sorti politiche di schiavi e liberti, sono l’iscrizione sepolcrale di Gaio Iulio Delpho Mecenatiano rinvenuta sulla via Latina, col-locabile dopo il 14 d.C. (inv. 983), e l’iscrizione su mensa podiale sempre dalla Via Latina per la quale è proposta in via ipotetica la datazione di fine II secolo (inv. 15589). Nella prima iscrizione (“Gaio Iulio Delpho Mecenatiano, liberto del divo Augusto, Iulia Chronia Liberta di Gaio, Iulia Secunda figlia di Gaio. Gaio Trophi-mas restaurò per sé, per i suoi liberti e liberte e per i suoi posteri”) la nomenclatura è dettagliata e corrisponde a quella di uno schiavo di Mecenate (Maecenatianus) ereditato come liberto dal defunto imperatore (Divus) secondo la disposizione testamentaria del ce-leberrimo braccio destro d’Augusto, come dimostrano prenome e gentilizio. Nell’altra iscrizione (“Agli Dei Mani. Ulpia Priscilla fece per sé, per il coniuge carissimo e benemerente Apheto, invita-tor, liberto imperiale e per i suoi discendenti”) l’unico elemento di datazione, a parte quella generica della fine del I/II sec. d.C. desu-mibile dal Dis Manibus, è il nomen imperiale usato dalla moglie, Ulpia, che porta il gentilizio dell’imperatore Traiano. Tuttavia, in assenza di più precisi elementi interni, non si può attribuire con certezza all’imperatore Traiano il liberto Aphetus, che in qualità di invitator aveva la funzione di redigere le liste degli ospiti, per-ché, come viene ricordato

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la manomissione del liberto imperiale coniugato è di solito posteriore di almeno un regno rispetto alla spo-sa che ha un gentilizio imperiale.

Proprio i rapporti tra coniugi e figli costituiscono un interes-sante campo d’indagine per comprendere le relazioni tra i membri della familia Caesaris. Sono diverse le combinazioni matrimonia-li presenti nell’entourage imperiale e comportano diverse riper-cussioni sullo status dei figli: le unioni tra gli schiavi, ad esempio, sono caratterizzate dall’eventuale concessione della manomissio-ne post eventum, cautela con la quale l’imperatore poteva arro-gare a sé dei diritti sui figli nati dall’unione. Nei matrimoni tra liberti, come già ricordato, non è infrequente che la donna porti il gentilizio di un imperatore precedente a quello che ha concesso la libertà al marito, oppure che si tratti di un’ingenua i genitori erano liberti imperiali. Se durante la prima metà del I secolo i matrimoni sono contratti in modo quasi esclusivo tra pari grado, dall’età di Claudio in poi si assiste ad un’importante novità: in virtù del raggiungimento di una posizione ufficiale di prestigio, le donne libere si uniscono spesso in nozze con i servi publici; an-che per questo l’onomastica d’età imperiale tende ulteriormente a complicarsi. Sono cinque le possibilità onomastiche messe in evidenza nella tesi come esito di questi ‘matrimoni misti’: 1. I figli aventi lo stesso gentilizio di uno dei due genitori porta-

no il nomen del padre se l’unione è legittima, della madre se illegittima;

2. se il figlio ha un nomen differente rispetto ai due genitori è pos-sibile che esso sia derivato o da un precedente matrimonio del padre o della madre o da un nome imperiale;

3. può accadere che il figlio nato da un genitore che ha il gentili-zio, non ne conservi uno proprio perché nato schiavo da una donna schiava;

4. il figlio nato da un’unione illegittima prende il gentilizio del padre e non della madre se nato dopo la manomissione del genitore;

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5. una precipua tipologia onomastica può essere ricondotta al Senatusconsultum Claudianum del 52 d.C. che permetteva le unioni tra libere e schiavi, ma rendeva il figlio della donna libera schiavo a sua volta, un Verna Caesaris.Nell’ottica utilitaristica della familia imperiale, un giovane nato

da madre libera ma padre schiavo sarà inserito più facilmente, se da subito riconosciuto come servus, nel meccanismo delle attività del palazzo per il quale è sempre necessario un rinnovamento. Alla luce di questo senatoconsulto, nella tesi viene data una nuova let-tura dell’iscrizione sepolcrale di Claudia Danae (inv. 52615). Si tratta di un’ara parallelepipeda di marmo rinvenuta a Veio, presso l’odierna Formello (“Agli Dei Mani. Claudia Danae, fece per sé, per il coniuge benemerente T. Flavio Demostene, liberto imperia-le e per i figli piissimi, Tiberio Claudio Mucrone e Marco Ulpio Romano, liberto imperiale e per i suoi liberti e liberte ed i suoi posteri”). Claudia, una liberta manomessa da Claudio o un’inge-nua figlia di un liberto di Claudio o di Nerone, pone una dedica al marito Tito Flavio Demostene, liberto imperiale. Complicata la situazione dei figli: Boulvert, dando per scontato che Claudia sia liberta imperiale, suppone che Marco Ulpio Romano sia il primo figlio nato quando la madre era schiava e che successivamente venne liberato, al contrario di Tiberio Claudio Mucrone il quale, libero dalla nascita, potrebbe essere venuto al mondo dopo l’af-francamento della madre. Prendendo le distanze da questa lettu-ra, nella scheda relativa all’iscrizione viene proposta una nuova esegesi del testo: Claudia ‘vittima’ del senatoconsulto di Claudio avrebbe avuto il suo figlio minore schiavo, perché figlio di un padre schiavo; il primo figlio Mucrone, che non conobbe la stessa sorte di schiavo prima e liberto poi, potrebbe essere il frutto di una precedente relazione della donna.

Affermata in modo evidente la necessità per l’imperatore di reclutare personale schiavile tramite un’oculata politica familia-re, nella ricerca di Silvia a questo punto viene dato un particolare rilievo alla tipologia dei rapporti individuali tra il princeps e i suoi dipendenti. La posizione giuridica di base degli schiavi imperiali

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è identica in linea di principio a quella degli schiavi dei privati, ma di fatto è di gran lunga migliore. Naturalmente questi privilegi sono pagati in termini di scarsa indipendenza dall’imperatore an-che dopo l’atto della manomissione: rispetto ai semplici cittadini privati, l’imperatore tende a conservare tutti i vantaggi del padro-ne tanto da pretendere dai liberti l’obsequium, i bona, e le operae cioè il rispetto, i beni e alcune prestazioni. Tuttavia, quanto queste pretese fossero ben ripagate è evidente da alcune possibili con-cessioni elargite agli ex-schiavi, quella dello ius aureorum anulo-rum, ovvero il diritto di portare l’anello d’oro altrimenti distinti-vo dell’ordine equestre. L’anello conferiva una ingenuitas fittizia, cioè una fittizia promozione a cittadino libero, e veniva attribuito su base censitaria a coloro che possedevano almeno 400000 se-sterzi e vantavano antenati liberi da almeno due generazioni. Il prestigioso riconoscimento ebbe lunga vita, dall’età augustea fino al II sec. d.C.: tra i liberti famosi detentori dell’anello vi furono Menodoros, liberto di Augusto; Pallas, l’invidiatissimo liberto di Claudio; Icelus, il preferito di Galba; Asiaticus, braccio destro di Vitellio. Vi sono poi liberti imperiali come Nicomedes, liberto di Antonino Pio, che pur non essendo insignito dell’anello d’oro en-trò addirittura a far parte dell’ordine equestre. Una storia a parte è quella del celeberrimo Epafrodito, liberto a libellis di Nerone. L’iscrizione incisa su un blocco pertinente all’architrave del suo monumento sepolcrale, conserva parzialmente la menzione delle numerose funzioni svolte in vita (inv. 10860): alla r.1 Epafrodito si qualifica a libellis, cioè referente per le petizioni e le lagnanze ed esaminatore dei casi che riguardano le controversie giuridiche tra privati e Stato; alla r.2 si ricorda che egli aveva il compito di convocare il senato e il popolo, cioè svolgeva le attività appari-torie di viator tribunicius e di apparitor Caesarum; alla r.3, nella lacuna a sinistra, viene proposta nella tesi l’integrazione di un riconoscimento militare, il vexillum che precederebbe la menzio-ne della corona aurea e della hasta pura, simbolo di ricchezza e potere. La sequela di onori potrebbe avere un significato che va ben oltre la vanteria, essendo questi onori una prova tangibi-

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le della fedeltà all’imperatore. E davvero Epafrodito fu legato a Nerone fino all’ultimo: non solo fu lui ad accompagnare Nerone fuori Roma nel suo ultimo tentativo di fuga verso la libertà, ma addirittura si assunse il compito di conficcargli il pugnale in gola, al fine di evitare all’amato patrono la morte per mano dei nemi-ci. Singolarmente proprio quest’atto di estrema devozione sarà utilizzato come capo d’accusa nei suoi confronti da Domiziano: come ricorda lo storico Cassio Dione (LXVII 14, 4), l’imperatore Flavio mise a morte il liberto per dimostrare alla sua familia che nessun servo può uccidere il proprio padrone, neppure se ha rice-vuto un’esplicita richiesta dal diretto interessato.

Non c’è dubbio che tra le informazioni emergenti dalle fon-ti antiche quelle relative alla tipologia dei servizi prestati dagli schiavi e dai liberti a corte siano quelle che più rendono la dina-micità, la varietà, la frammentazione e l’evoluzione di un mon-do ricco e parcellizzato, congestionato e organizzato a un tempo. Quest’universo eterogeneo e sempre in trasformazione, viene let-teralmente imbrigliato da Silvia in una serie di tabelle che, redatte a scopo semplificativo, si rivelano molto utili per la comprensione dei documenti: l’apparato burocratico imperiale è distinto tra ser-vizi e amministrazione domestica, servizi di cancelleria, ammini-strazione centrale e provinciale divisi a loro volta in servizi che concernono le tasse (spese ed entrate), dipartimenti di generale utilità e gestione del territorio. Nella tesi è pure ipotizzata la pos-sibile carriera di un liberto imperiale: nel primo livello (infimus) è possibile riconoscere tra gli altri i custodes (guardiani d’ufficio e d’archivio), i tabellarii (i fattorini imperiali); il secondo livello (inferior) è costituito dagli adiutores (aiutanti con diverse man-sioni), dai notarii e dai librarii (cioè gli scribi); il terzo (medius) è quello inclusivo degli a commentariis, dei proximi tabulariorum e dei proximi commentariorum cioè degli impiegati della contabi-lità. Nel livello più alto (superior) rientrano i proximi ovvero gli aiutanti del procurator impiegati nella cancelleria come dipen-denti dell’amministrazione centrale di Roma; il livello supremus è naturalmente quello del procurator. Per quanto concerne gli

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schiavi ricostruire la gerarchia è quasi impossibile, tanto numero-se e diverse sono le attività svolte: c’è un livello infimus costituito da personale tecnico o domestico come gli actores, i vilici (ammi-nistratori di fondi), gli exactores (controllori dell’esazione del tri-buto); il livello medio è quello dei conscriptores (controllori del portorium) e quello superiore è impersonificato dai dispensatores e dagli arcarii, i cassieri. Tradizionalmente relegate alle attività domestiche e di piccolo artigianato sono le serve, le quali nella società romana non hanno speranza di avanzamento sociale ed occupano soltanto il livello infimus: sono le numerose ornatrices, unctrices, pedìsequae che spesso facevano abbellire le proprie stele sepolcrali con semplici rappresentazioni dei loro strumenti di lavoro; proprio in virtù delle attività di queste donne reiterate nei secoli in modo immutevole, le raffigurazioni funerarie ricor-date sono tra quelle che offrono maggiormente un’immagine vi-vida del lontano mondo romano.

A più di dieci anni dalla compilazione e dalla discussione di questa tesi, rimangono molti i punti stimolanti che sarebbe ne-cessario aggiornare e approfondire (non ultimo dei quali quel-lo relativo a una riflessione sulla inattesa mobilità di una società considerata invece stratificata e immobilista); particolarmente persuasivo rimane il quadro generale che si delinea dallo studio diacronico dei fenomeni sociali attraverso le iscrizioni. Lascio le conclusioni alle parole dell’autrice:

I moralisti e gli storici raccontano spesso della corte imperiale come di una zona d’ombra, dove la progressiva decadenza dei costumi ed il dilagare del-la corruzione e del malaffare spesso sfociano nelle cospirazioni più violente, in un gioco delle parti nel quale, fatalmente, appena si affievolisce il carisma dell’imperatore, di contro acquisisce forza e splendo-re la figura dei consiglieri più vicini, sovente liberti di fiducia. Sottraendo l’intento moralistico e i pregiudi-zi che si avvertono nelle pagine degli storici antichi,

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spesso ostili in quanto essi stessi aristocratici, è pos-sibile rilevare dai documenti letterari una relazione sufficientemente verosimile tra l’autorevolezza della figura imperiale e il potere dei liberti [---]. Le carriere di alcuni liberti, così come si evince dalle iscrizioni, mostrano un percorso di acquisizione di competenze che via via giunge al vertice e alla massima capaci-tà di influenza nel settore amministrativo di compe-tenza. Ciò che suscita sdegno e riprovazione nella classe aristocratica non è la ricchezza che schiavi e liberti possono accumulare [---] è l’arricchimento as-sociato al poter politico che preoccupa [---]. Nel III secolo l’influenza dei liberti imperiali s’impoverisce gradualmente della sua sostanza politica, cioè non è più diretta emanazione della carica che ricoprono ma semplice risultato della relazione di vicinanza con l’imperatore [---]. Tra il II e il III secolo, dunque, l’assetto istituzionale di un Impero indebolito nella sua integrità geografica, risente dell’intensa militariz-zazione e viene ridisegnato consegnando il potere alla classe equestre. La macchina burocratica diventa un ingranaggio della macchina militare e il ceto dei di-gnitari di origine servile che prima ne guidava le sorti è cancellato.

Grazie, Silvia.

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IL PROGETTO PER IL MUSEODELLA PREISTORIA D’ABRUZZO A CELANO

GioVAnni Scichilone

Nel raccogliere le riflessioni che dividerò oggi con voi, ho sem-pre sentita la responsabilità di essere depositario quasi esclusivo di una parte dell’esperienza formativa di Silvia: il suo rapporto con la Museologia. E’ stato inizialmente un rapporto occasiona-le, visto che in Italia (a parte gli ottimismi di maniera) il museo non riceve attenzioni approfondite nei percorsi professionali di Archeologi e Storici dell’Arte. Dopo l’incontro nell’ambito del corso da me tenuto per la Scuola di Specializzazione di Roma-La Sapienza, una crescente curiosità culturale la spinse a mostrarmi una delle tante sue qualità che noi tutti abbiamo testimoniato: la capacità di andare facilmente al di là dell’alveo di una formazione ‘monoculturale’.

Questa dote, arricchita da una rara onestà intellettuale e da pari intransigenza, ha fatto di Silvia ai miei occhi un esempio perfetto del ricercatore che sa come navigare senza rotta, capace di supe-rare quella linea che i geografi antichi segnavano sulle loro mappe con hic sunt leones. Lei è stata capace di esplorare molte di queste linee di confine che, di fatto, imprigionano per molti la nostra disciplina. Come molti degli interventi di oggi dimostrano chia-ramente, Silvia ha superato con straordinario successo sia il con-fine tra Archeologia e Geologia sia quelli con altre Scienze. Nello stesso modo, ha sentito poi il bisogno di misurarsi attraverso la Museologia con la dimensione più alta del museo, intendendolo subito come ben più che semplice contenitore. Attraverso letture

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specialistiche e contatti con la realtà internazionale, lei ha visto sempre più chiaramente nel museo la natura di linguaggio, il ruolo sociale di servizio e la dimensione professionale di creazione di gruppo; in nessun momento ha approvata l’idea del museo ridotto a fabbrica o contenitore di non precisati ‘eventi’. In questa chiave, la sua predilezione per il museo di Celano è comprensibile: esso è il frutto di un’utopia che non si sarebbe realizzata se altri studio-si, allora giovani come Silvia, non avessero condiviso il sogno di lavorare insieme, al di là delle loro specifiche professioni, ad una comune idea di museo, parte di un comune progetto di Società.

Con Silvia io ho lavorato dal 2001 alla fine di marzo del 2004. Abbiamo condiviso la stessa utopia e gli stessi libri da quando lei ha deciso, con mia grande gioia, di coronare il suo interesse per la Museologia diplomandosi in questa disciplina. Come riportare in sintesi a voi questo suo sforzo? Il lavoro che Silvia ha fatto è molto più importante e più complesso di un progetto: esso è consistito in un approfondimento che parte dalla teoria del museo in generale per applicarsi poi a un territorio specifico, prenden-done in esame tutte le possibili variabili degne di presentazione. In ogni momento le è stata presente la necessità che il visitatore, attraverso la forma visibile del museo, percepisca quest’ultimo come linguaggio e non come contenitore. Detto ciò, l’ultima cosa che avrei voluto fare per questo incontro di oggi, sarebbe stato il tradurre lo sforzo di Silvia in una mia recensione di un con-tributo di Museologia. Se lo avessi fatto avrei chiuso gli occhi di fronte al fatto che il suo contributo migliore sarebbe arrivato nel momento in cui -a tesi compiuta e licenziata- lo straordinario sforzo fatto per produrre questo lavoro si fosse potuto tradurre in una realtà tangibile nell’ambito dell’allestimento. Così, essendo il depositario non solo di questa responsabilità, ma anche di una delle tre o quattro copie esistenti del suo lavoro, ho deciso che la cosa più giusta, la più intransigente (Silvia era una donna di straordinaria intransigenza) sarebbe stata il presentarvi proprio la ‘traccia’ di Silvia, leggendone le parole, sempre usandole con amorevole rispetto. Sostanzialmente io leggerò le cose scritte da

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lei, o citazioni che lei ha fatto, cercando fra le tante, per nostra co-mune consolazione, quelle che mi sembravano meglio conservare un’impressione, un’orma del suo percorso intellettuale e delle sue straordinarie qualità umane.

Silvia apre il suo lavoro ripercorrendo i metodi ed i risulta-ti nell’evoluzione degli studi archeologici, avendo giustamente scelto di mostrare come il museo oggi, ben al di là del gelido deposito di frammenti e di cose, sia innanzitutto e soprattutto un luogo di ‘sinergia tra conoscenze’.

Quindi il museo non come sede di oggetti, ma anche sede di sforzi intellettuali, in modo che dal museo non vengano esclusi i risultati del lavoro di chi al museo, come Silvia ha fatto, finisce per dedicare, o la parte più bella o quasi tutta la propria vita.

Nel capitolo “Metodi e risultati dell’evoluzione degli studi”, Silvia espone un percorso di avvicinamento che serve a presenta-re quanto l’Archeologia negli ultimi decenni si sia fortunatamen-te allontanata, soprattutto per merito dei giovani, dall’immagine scomoda e mortificante, che talvolta vedo purtroppo ancora viva, dell’archeologo come ‘cane da tartufi’ che usa i sensi più che l’in-telligenza: immagine esattamente opposta rispetto a ciò che Silvia è stata per tutti quelli che l’hanno conosciuta ed amata. Anche grazie alle sue esperienze in Geologia, Silvia è stata sin dall’ini-zio del suo lavoro particolarmente attenta a considerare obbligo primario del museo la presentazione di un ‘patrimonio comples-so’. Ecco cosa scrive.

La formula che più si adatta al recupero del pa-trimonio territoriale è senz’altro l’eco-museo, che ha come oggetto l’ambiente storico di un dato territorio. Esso è un museo che si occupa dell’ecologia totale, ambientale, naturale ed umana di una data località. George Henri Rivière, parlando dell’eco-museo, lo descrive quale “specchio nel quale la popolazione si guarda per riconoscersi, nel quale cerca i valori fon-danti del territorio al quale è legata, unitamente alle

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popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinu-ità o continuità delle generazioni; uno specchio che questa popolazione porge ai suoi ospiti per farsi me-glio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità”.

Nello svolgimento del lavoro, ho sempre considerato mio do-vere il non mediare le sue letture; era infatti mia responsabilità deontologica l’evitare che lei mi ‘restituisse’ idee mie. Le ho pre-stato o suggerito così decine di libri ma mai ne ho segnalate parti più o meno significative: volevo infatti che lei lasciasse la sua orma in ciò che leggeva. E’ accaduto così che io, leggendo le sue citazioni da questi libri, nei vari passi di elaborazione del lavoro, abbia avuto decine di occasioni per verificare la sua capacità di cogliere sempre gli elementi essenziali del pensiero altrui, anche in un campo meno vicino al suo percorso precedente. Alla citazio-ne da Rivière lei poi aggiunge:

il museo quindi rappresenta almeno potenzial-mente il punto d’incontro fra persone e luoghi e tem-pi diversi. Questa tipologia museale, l’eco-museo, consiste di due sistemi correlati: un museo spaziale, rappresentativo di una porzione di mondo, una unità ecologica significativa di un ambiente regionale, pa-esaggi reali di natura selvatica e umanizzata, ed un museo temporale, rappresentativo dell’evoluzione di una data regione, ordinata per periodi dai tempi geologici e scandita secondo le tappe preistoriche e storiche, per sfociare nella modernità. Il museo, visto in quest’ottica, diventa espressione dell’uomo e della natura: da una parte vi è l’uomo interpretato entro il suo ambiente naturale, dall’altra la natura nella sua primordialità, ma anche il modo in cui i gruppi uma-ni di sono avvicendati nel tempo l’hanno plasmata a propria immagine.

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Quando lavoravo con Silvia, io ero vicino a concludere la mia esperienza di lavoro nel Ministero per i Beni Culturali, che ho lasciato nel 2004. Allora rimasi piacevolmente sorpreso del fat-to che Silvia mi chiedesse qual’era l’assetto che questa Europa (che continua a nascere e a crescere) stava dando a problematiche quali, ad esempio, la tutela dell’ambiente. Le passai allora tutti i documenti relativi a quella che poi divenne la Convenzione Eu-ropea per il Paesaggio, aperta alla firma nel 2002 a Firenze. Lei lesse pazientemente centinaia di pagine scritte in ‘burocratese’, pur se di altissimo livello, e colse pienamente l’essenza di ciò che i ‘padri fondatori’ volevano dare con questo documento. A tal proposito Silvia dice infatti, lucidamente:

due idee profondamente congiunte muovono que-sto proposito: il paesaggio appartiene alla vita di ogni giorno, come parte della cultura, del patrimonio, dell’ambiente di ogni cittadino e deve subire un pro-cesso di democratizzazione sia in termini di identifica-zione sia decidendo come esso va usato. Il paesaggio è un costrutto culturale caratterizzato da molti modi di comprensione e di apprezzamento, non tutti questi modi sono scientifici, obiettivi o materiali. Molti sono personali, individuali e soggettivi o riflettono aspetti intangibili dell’ambiente. Entrambe queste idee lan-ciano una sfida agli archeologi che intendano valo-rizzare il patrimonio culturale. Esprimere il signifi-cato archeologico di un paesaggio culturale significa scoprire e spiegare i cambiamenti di lungo termine, la continuità e la profondità del tempo. I tre concetti che la maggior parte degli archeologi posso valutare nell’analisi del paesaggio sono: comprendere i cam-biamenti accaduti nel tempo per un arco cronologi-co piuttosto esteso, riconoscere il ruolo dell’azione umana nella creazione del territorio, interpretandolo

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attraverso processi sociali a livello collettivo piut-tosto che individuale. Formulare modelli e relazioni spaziali, vale a dire la totale connessione spesso in modi inattesi di ogni evidenza presente all’interno del paesaggio, includendovi la connessione tra naturale e culturale. L’archeologia diventa scienza diretta che interpreta e ricostruisce la vita dell’uomo nella sua globalità dando uno spaccato delle molteplici realtà che sono state espressione dell’uomo e dell’ambiente nel quale esso è vissuto. Da qui l’esigenza di valoriz-zare non solo gli oggetti, che indipendentemente dal loro valore intrinseco possono riflettere, se collegati in modo puntuale alla loro originari collocazione, la realtà all’interno della quale e per la quale sono stati creati, ma anche le relazioni tra gli elementi immate-riali presenti nel sistema.

Ecco un altro passaggio che è in relazione e strettamente cor-relato alle idee appena esposte.

La percezione del paesaggio archeologico è inter-pretabile attraverso una mappa mentale. Dal canto loro gli elementi connettivi simbolici, naturali, so-ciali ed antropici del territorio costruiscono la visio-ne del paesaggio ed il nostro orizzonte cognitivo. La comprensione del passato può essere incrementata significativamente attraverso tutte le forme della per-cezione: tatto, gusto, olfatto, visione, udito. La to-pologia di un paesaggio antico si deve integrare con altri fattori percettivi per arrivare ad una ricostruzio-ne delle mappe mentali e cognitive del passato. La percezione organizzata in mappe cognitive significa esplorazione, ricerca, scoperta, comunicazione, che oltre a mettere in rilievo le principali caratteristiche e le relazioni formali tra le parti che costituiscono il

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paesaggio antico, evidenziano le ragioni funzionali, simboliche, architettoniche e culturali, così come si sono definite e trasformate nel corso del tempo. Ri-capitolando dunque, (e questa è una parte bellissima del suo lavoro perché, come chiunque ami il museo, lei perfino nello scrivere fa un continuo sforzo di ri-capitolare, dato che non si è mai sufficientemente certi che coloro che leggono il tuo linguaggio nel museo possano veramente aver compreso in pieno quello che vuoi dire) un paesaggio antico può essere analizzato secondo cinque filoni: scienze della terra, biodiversità, realtà visibile e sensibile, storia e arche-ologia, culture.

Spazio e tempo sono stati per Silvia lo scoglio filosoficamente più alto contro il quale ha dovuto misurare la sua ricerca. Sap-piamo benissimo che nell’inevitabile routine della professione dell’archeologo il tempo è una astrazione lineare, che viene affet-tata, con fette tutte uguali (come quelle che si ottengono da quel-le mostruose macchine che distruggono il piacere di mangiare il pane proprio perché danno tante fette tutte tra loro uguali): questo è il tempo nella accezione quotidiana e rassicurante della nostra pratica professionale. Lei ha capito che spazio e tempo sono delle convenzioni e ha ampliato le sue letture dalla filosofia della Ge-stalt a vari aspetti della Museologia come linguaggio, da Einstein a Koffka a una varietà di altre letture. Questo capitolo sullo spazio e sul tempo, le deve essere costato uno sforzo non lieve, anche in termini di lettura di opere che, vi assicuro, sono già difficilmente reperibili e, una volta reperite, sono di difficile digestione.

Il tempo è percepito solamente attraverso l’osser-vazione dei processi che possono servire come misure approssimative del tempo trascorso. Nella nostra vita possiamo accorgerci del tempo attraverso l’alternan-za del giorno e della notte e attraverso il succedersi

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delle stagioni durante l’anno. Come il linguaggio e la musica, il tempo percepito è lineare, ma è speri-mentabile solamente momento per momento, mai in modo globale o unitario. Il nostro senso del tempo spesso viene definito attraverso metafore come la di-stanza, tornare indietro nel tempo, e movimento, il tempo vola. Ma raramente riflettiamo che tali meta-fore sono reciprocamente contraddittorie: il concetto della linearità del tempo è supportato dalla teoria del caos e della contingenza, così come dal decadimento radioattivo, nel senso che ciò che è anteriore non può essere invertito e i contesti degli eventi non possono essere cambiati senza cambiare gli eventi stessi. Tut-te le espressioni di tempo, passato, presente, futuro, sono percepite e utilizzate da noi, entro una griglia comprensionale socialmente accettata. Per costruire una cronologia occorre stabilire un’unità di misura del tempo: la maggior parte dei sistemi di misura-zione usa l’anno, per questo motivo le unità di mi-sura che sono indipendenti dai cicli annuali, come il conteggio delle barbe e degli anelli di accrescimento degli alberi, come quelle ottenute con metodi radio-attivi, debbono essere convertiti per l’archeologia. La preferenza degli archeologi per le date e le età sembra derivare dalla generale familiarità con gli anni side-rali come sono riportati dai calendari, contrariamente ad una terminologia frequentemente accettata nei ma-nuali di archeologia, a proposito della distinzione tra tempo assoluto e tempo relativo, oggi gli scienziati tendono ad escludere che vi siano misurazioni asso-lute: ogni tempo è relativo. La stessa teoria della rela-tività ha mostrato che anche orologi e calendari sono convenzioni e concetti culturali, il tempo esiste sola-mente come durata che noi possiamo misurare grazie ad alcuni processi. E poi inserita nel tempo e nello

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spazio l’esperienza cognitiva che nel museo è altrove e che noi iniziamo attraverso il vedere. A livello co-gnitivo, vedere un oggetto significa crearsene un’im-magine, una mappa interna a noi che non è invece l’oggetto che rimane esterno. Per comunicare usiamo dei segni che indicano qualcos’altro, sono astrazio-ni, finzioni. I fatti, i fenomeni sono ‘apparenze’, in quanto elaborazioni cognitive che nella comunicazio-ne subiscono un’ulteriore elaborazione. Un museo di nuova generazione dovrebbe riuscire a decodificare le mappe, sottolineando ad esempio l’abitabilità so-ciale, culturale e storica di un determinato territorio. Vi è un ampio dibattito museologico sullo sviluppo di adeguate mappe cognitive che riescano ad oggettiva-re la rappresentazione spaziale e temporale, cercando di spezzare quell’interpretazione lineare del progres-so che rende statica la narrativa in una esposizione museale tradizionale. Nel museo tradizionale troppo spesso troviamo infatti una rigida rete nella quale spazio e tempo sono considerati come l’esposizione di un testo scritto, una sorta di trattato disciplinare, o troppo enciclopedico o concentrato sullo sviluppo delle singole discipline, dei singoli manufatti, del-le singole scoperte o ricerche. La tendenza, finora, è sempre stata quella di rappresentare gli oggetti in contesti ordinati, quindi a congelare il tempo come una struttura di referenze monolineari.

Il quarto capitolo è il risultato della elaborazione che Silvia ha compiuto dentro di sé nel corso di quel fruttuosissimo master nel quale ha messo insieme Geologia ed Archeologia della piana del Fucino. Qui Silvia ci mostra ancora una volta con quale e quanto rigore lei avesse concepito il disegno di questa ricerca (si veda il contributo di M. Civitillo, B.M. Greco, V.S. Mallace in questo volume) che poi si è conclusa nell’elaborazione della magnifica

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mappa, che - ulteriormente revisionata - fu poi allegata alle tavole della sua tesi diploma.

Arriviamo ora al quinto ed ultimo capitolo del lavoro di Silvia, “Il Museo di Preistoria ‘Paludi’ di Celano”. Io non ho voluto che Silvia si impegnasse in una semplice definizione grafica di cosa dire, dove e come dirlo, e con quali strumenti di comunicazio-ne. Mi sembrava straordinariamente importante che Silvia avesse capito fino all’ultimo, e al tempo stesso nel modo più alto e pro-fondo, come e, soprattutto, perché si fa un museo, come va strut-turato il linguaggio del museo stesso e come, attraverso questo linguaggio il museo può fuggire alla condanna di essere un luogo nel quale invano si cerca di intrappolare il tempo e lo spazio. Lei ha dedicato grande attenzione tuttavia, a descrivere il Museo di Celano, perché esso, già nato da un’utopia, era e sarebbe ancora particolarmente pronto a diventare sede elettiva per questo tipo di presentazione multidisciplinare (non semplicemente interdisci-plinare) della quale abbiamo sognato insieme. In questo ultimo capitolo del suo lavoro, alcuni passaggi sono fortemente signifi-cativi.

Catturare, trasportare segmenti di natura all’in-terno di un museo significa utilizzare degli elementi interattivi alternativi per facilitare e rendere più frut-tuosa e meno pesante la visita. Nello stesso tempo vi è il vantaggio di far capire immediatamente ai visitatori il funzionamento di un ecosistema lacustre al quale si correlano i cicli della vita umana. Si possono così spiegare anche più facilmente i cambiamenti realiz-zati dalle popolazioni antiche che vivevano intorno alla piana, descrivendo il loro adattamento, le risorse e le strategie di sussistenza adottate nei secoli, dal-la caccia, alla pesca, all’agricoltura. Si cerca così di offrire una dimostrazione di cosa accade quando in un ecosistema bilanciato l’uomo interviene, interrom-pendo e distruggendo alcuni cicli naturali, creando un

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effetto domino per cui egli stesso diventa vittima di questi squilibri. Occorre far trapelare quel messaggio fortemente educativo, perché si promuova un’etica ambientale. Le civiltà che hanno distrutto il paesag-gio, superandone la soglia di tollerabilità ecologica, hanno distrutto se stesse.

Io vedo una continuità tra questa frase e un passaggio che prendo dalle sue conclusioni.

Il museo rappresenta una Gestalt, vale a dire una struttura nella quale si realizza uno studio percettivo dei luoghi, che sappia cogliere attraverso la dimensio-ne temporale i cambiamenti di lungo termine, la con-tinuità e la profondità del tempo, mentre attraverso la rappresentazione e l’immagine di una specifica realtà territoriale, riesca ad esprimere il significato archeo-ecologico di un paesaggio culturale. Il museo è quindi l’istituzione in grado di ricomporre la relazione sen-sibile tra l’uomo, la natura, lo spazio e il tempo. La ricostruzione di un paleo-ambiente, attraverso il mu-seo, non è un’addizione di singoli elementi giustap-posti, ma un sistema che soprattutto è proiezione di singoli valori, significati, sentimenti. Si tratta di quel-le mappe mentali che costituiscono il nostro orizzonte cognitivo, che distingue il paesaggio reale da ciò che è il paesaggio descritto, ossia la sua rappresentazione, la sua mappa. Per non cancellare il senso irripetibile e singolare del contesto, ogni processo culturale deve essere sempre specificamente connesso ad un dato territorio, che diventa incomprensibile se analizzato al di fuori di un determinato paesaggio simbolico, rappresentato da uno specifico ambiente. I processi che compongono un paleo-ambiente sono insomma il risultato di una serie di eventi concatenati, ognuno

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unico nel tempo e nello spazio. Ma il museo è inoltre un eterotopo, un luogo altro ove si possa realizzare (e qui Silvia cita da Foucault un passo che l’ha enor-memente impressionata) “l’idea di accumulare tutto, l’idea di costituire una sorta di archivio generale, la volontà di racchiudere in un luogo tutti i tempi, tutte le epoche, tutte le forme, tutti i gusti; l’idea di costi-tuire un luogo di tutti i tempi che sia a sua volta fuori dal tempo”. Secondo questa affermazione di Michel Foucault anche la storia nell’allestimento museale, non deve essere rappresentata necessariamente per successioni di periodi, ma è tempo altro, eterocro-no. Secondo questa visione non vi è più l’esigenza di rintracciare una tradizione compatta e lineare, una unitarietà che descriva la molteplicità degli eventi, piuttosto di grande interesse sarà la comprensione di quelle trasformazioni negli avvenimenti dei quali ri-usciamo a definire di volta in volta gli elementi e le relazioni significative che chiariscono i cambiamenti. Il passato ha un proprio tempo che è trasversale, ciò che noi ereditiamo è invece frammentario. Il museo può elaborare quindi una conoscenza del passato nel-la rappresentazione di vari mondi possibili, offren-do al visitatore non una ma una serie di traiettorie o scelte interpretative. Il tempo museale evidentemente non è la progressione lineare che rispecchia l’ordine in cui si succedono gli eventi, ma può essere un tem-po frammentario e asimmetrico, rivolto sia al passato, sia al presente, sia proiettato verso il futuro. Il museo preistorico Le Paludi di Celano è un felice esempio che racchiude molti degli elementi fino ad ora anno-verati; in questo lavoro è stato spesso designato con il neologismo di museo archeo-ecologico. Il termine è sembrato appropriato proprio per le caratteristiche che questa struttura presenta dal punto di vista architetto-

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nico e per la storia che esporrà all’interno. Nell’am-bito del territorio abruzzese esso riveste un ruolo di primo piano in quanto dedicato ad una delle aree, il lago del Fucino, che più hanno concorso a caratteriz-zare la storia e la geografia dell’intera regione.

Potrei a questo punto aver concluso, ma lo farò citando un ul-timo brano che ci mostra ancora un’altra Silvia: una persona di raffinato umorismo, con un senso della misura istintivo e diffi-cilmente avvicinabile. E’ un passaggio che lei dedica ad uno dei tanti sforzi, tra confessionali e pseudo-scientifici, compiuti in va-rie occasioni per utilizzare le Scritture come base cronologica per leggere l’origine del mondo.

Il compito di fissare la data (scilicet la data della creazione) con assoluta precisione, fu lasciato a Ja-mes Ussher, vissuto a metà del XVII secolo, erudito di chiara fama ed esponente della chiesa Anglicana di Inghilterra e di Irlanda. Egli calcolò l’esatta età della terra e stabilì che essa era stata creata nel 4004 a.C. Tale conclusione era frutto di uno studio accurato e dell’interpretazione puntuale delle genealogie dei pa-triarchi riportate nella Bibbia. Secondo i risultati delle sue ricerche, Dio aveva creato il mondo e tutti gli es-seri viventi grazie ad un unico, rapido ed ininterrot-to procedimento tecnico divino, iniziato alle nove in punto di lunedì 23 ottobre 4004 a.C. Non si ponevano discussioni: per l’intero procedimento della creazione Dio aveva impiegato i canonici sei giorni.

Al principio di quella settimana di fine ottobre, nell’anno che un calendario cristiano moderno desi-gnerebbe come il 4004 a.C., il Signore stabilì i concet-ti fondamentali di luce ed ombra, sole e luna, bagnato e asciutto. Poi creò tutti gli oceani, le insenature, i fiumi, le spiagge, le praterie, i deserti, le montagne, le

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calotte polari ed i fiordi: la struttura della terra, la sua topografia e la geologia del globo che costituisce il nucleo di questa storia vennero così completate. En-tro la mattinata di giovedì 26, Dio aveva provveduto a dare inizio alla vita e prima di sera ogni capostipite delle future stirpi di microbi, tritoni, ragni, serpenti, aquile, gatti, cavalli e scimmie, si trovava nel proprio habitat, intento a strisciare, brulicare, nuotare, volare, saltare, balzare ed impiegare i pollici opponibili per arrampicarsi. Il giorno successivo le specie vegetali erano già diffuse ovunque, foreste pluviali, pascoli, savane, peonie, orchidee, rose, palme, meli, marghe-rite e pini, avevano tutti trovato la loro sede sulla ter-ra dove prosperavano soddisfatti. “Caverne, rocce, laghi, paludi, stagni, grotte” citati da Milton nel Para-diso Perduto erano stati realizzati: il paradiso terrestre stava al proprio posto, pronto per essere perduto.

E sabato si verificò l’evento più importante: nac-quero le creature che l’avrebbero perduto. I primi due esemplari del primigenio genere umano, nelle sem-bianze bipedi ed erette, ma leggermente diverse una dall’altra, di Adamo ed Eva furono collocati nel giar-dino dell’Eden. In quella situazione vivevano serena-mente inconsapevoli della caduta che si sarebbe veri-ficata più avanti, grazie all’intervento del serpente e della mela, entrambe già parte della creazione.

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LA GEOARCHEOLOGIA: IL FUCINO*

MAtilde ciVitillo, biAncAMAriA Greco,VAleriA SilViA MellAce

SilviaQuesto nostro ricordare Silvia vuole essere un portarla al cuo-

re, se re-cordor, letteralmente, significa ‘portare al cuore’ -ai sen-timenti, alle emozioni- più che alla mente che, sola, potrebbe con fatica elaborare un didascalico elenco di giorni, di studi, di viaggi, di lezioni. Di occasioni ormai perse, diversamente da Silvia, della cui vita e del cui affetto siamo i privilegiati depositari: per motivi

* I risultati presentati in questo contributo, di cui daremo un sommario e corsivo resoconto, derivano dagli studi condotti in équipe da Matil-de Civitillo, Biancamaria Greco, Valeria Silvia Mellace, Annamaria Paiella, Renato Sebastiani, Marta Sereni e Gloria Sgrigna. Questi, confluiti nella redazione della Tesi (Il Fucino. Proposta di analisi ge-oarcheologica) per il conseguimento del Diploma di Master in “Tec-niche geoarcheologiche per la gestione del territorio e la tutela del patrimonio culturale” erogato dall’Università degli Studi di Roma Tre (Dipartimento di Scienze Geologiche), sono stati presentati in for-ma di Poster (Geoarchaeological study of the Fucino basin (Abruzzo, Italy)) alla 6th Conference of Italian Archaeology (Communities and Settlements from the Neolithic Age to the Early Medieval Period), University of Gröningen (the Netherlands), 15–17 Aprile 2003. Una parte importate del lavoro si basa sulla bibliografia esistente che, per la scelta di rendere la lettura di queste pagine più corsiva, è indicata alla fine del contributo.

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diversi, in stagioni diverse, sotto alterne fortune, ma tali da poter instaurare quella “celeste corrispondenza di amorosi sensi” per la quale “si vive con l’amico estinto e l’amico con noi”. Il luogo della memoria di Silvia - della sua grazia, dei suoi sorrisi, della sua gioia di vivere - è ciascuno di noi che, insieme, possiamo rap-presentare nel ricordo l’orma che ha impresso nei nostri cuori.

Ci siamo chieste per giorni cosa avremmo potuto scrivere per ricordare Silvia, per ricomporre alcuni momenti della sua vita. Abbiamo cercato di ricostruire avvenimenti, di ricordare aneddo-ti, di trovare qualche traccia di una data, di un giorno condiviso per un appuntamento o riunione a Largo Leonardo Murialdo con i colleghi del Master o a casa sua, dopo che la condivisione di un percorso di studi aveva assunto solo la forma dell’occasio-ne fortuita del nostro esserci incontrate. Abbiamo aperto files e faldoni per cercare traccia dei periodi in cui seguimmo i corsi di geoarcheologia insieme, per ricostruire il suo percorso in quegli anni; abbiamo ritrovato appunti nostri e suoi, articoli sui quali studiammo insieme, fitti dei suoi commenti in margine, ben ordi-nati in raccoglitori trasparenti ad evocare ricordi, a costruirne la trama. In una vertigine, abbiamo visto riemergere come dalle pro-fondità di un lago contributi su Scurcola Marsicana, Ortucchio, Celano Paludi e Cerchio, per imbatterci nei depliant del Museo di Preistoria di Celano Paludi e del Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo. Abbiamo così cercato di individuare quale fosse stata la data precisa in cui Silvia è entrata nella nostra vita; quale fosse il giorno esatto di quel gennaio del 2001 in cui, mentre eravamo già tutti seduti, guardandoci intorno per scrutare con discrezione i nuovi colleghi di corso, entrò un po’ trafelata una bella ragaz-za con i capelli scurissimi, un sorriso disarmante e gli scarponi anti-infortunistica sedimentati di polveri e terra di numerosi scavi archeologici.

A questa ricerca febbrile è poi subentrata, d’un tratto, la con-sapevolezza, netta e precisa, che Silvia è entrata, congiunta alla certezza che dentro di noi è rimasta, eleggendoci, come tutti colo-ro ai quali ha lasciato il suo discreto e generoso affetto, a sua urna,

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luogo ubiquo e vivo dentro il quale rimane teneramente accolto, come cullato, il suo luminoso ricordo. L’unicità di qualcuno che è stato così importante da essere rimpianto non può essere annul-lata dalla morte; l’impronta cava che lascia nel cuore ha la sua forma e nessun altro può colmarla del tutto. Nessuno, se non il suo stesso ricordo, che può rendere meno tormentoso il vuoto e far subentrare, accanto al dolore e alla confusione, la folgore della riconoscenza.

Così, seguendo metaforicamente le tracce di terriccio che Sil-via si lasciava dietro nei corridoi del Dipartimento di Geologia dell’Università di Roma Tre e che formava piccoli tell sotto il suo banco, abbiamo cercato di riportare il calendario del nostro cuore a quel periodo, sentendo riesplodere confidenze, aspettative, ti-mori, gioie, sorrisi e risate che rappresentano un po’ dell’humus che Silvia ha donato alla nostra anima, fertile delle foglie del suo albero, dai colori vividi e schietti, che ci si sono sedimentate den-tro cadendo durante il sommesso autunno seguito allo splendore di una, seppur brevissima, lussureggiante stagione primaverile. Da quella sua prima apparizione in aula e da quando ci si pre-sentò, sorridente, la prima volta, ci hanno subito legate non solo la condivisione di un obiettivo, di un interesse e di una forma-zione, ma anche l’intuizione di una possibile comprensione ed accoglienza profonde. Accoglienza che Silvia ha sempre donato generosamente a tutti coloro che aveva intorno, rassicurandoli con la sua consapevolezza, la sua saggezza, l’integrità d’animo di chi non è mai stato evasivo nei confronti della sua anima; la sua ospitalità intesa nel senso più pieno del termine; il suo affetto, la sua dedizione. In ciò che Silvia ha voluto donarci (e che noi, quasi archeologhe dell’urna che gelosamente conserviamo dentro noi stesse, scendiamo a rivelare), ci sono momenti di condivisio-ne perfetta, che galleggiano ancora sospesi nel suo studio. Nella sua stanza edificata di libri lavoravamo un po’ angustiate ad un compito che ci accomunava e cementava i nostri reciproci gior-ni, assumendo quasi un aspetto eccitante per quanta forza stesse liberando nell’accomunare i nostri animi. Ne uscivamo a tratti

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liete, quando lo lasciavamo per una pausa densa di ben altre con-fidenze, profonde più di quanto possa esserlo mai stato il bacino di nessun lago. Quei giorni -e quelle sere- hanno ora per noi una limpidezza cristallina; riflettono una luce intensa, che ci illumina dell’amore di Silvia.

Oltre alla grazia, all’accoglienza, alla saggezza e alla gene-rosità, ciò che contraddistingueva maggiormente Silvia era la determinazione e l’entusiasmo nel perseguire la sua vocazione e nello svolgere il suo lavoro, la passione per il quale è cresciu-ta progressivamente da quando, approdata nella città eterna, ha intrapreso gli studi di Archeologia all’Università La Sapienza di-scutendo una tesi di laurea in Epigrafia Romana. È stata Silvia ad insegnarci cosa vuol dire amare veramente l’archeologia, il lavoro sul campo, il contatto con la terra e con le storie che essa sa raccontare a chi è pronto ad ascoltarle; ci ha insegnato che fare archeologia sul campo significa reggere a ritmi di lavoro usuranti, resistere a qualsiasi condizione atmosferica, accontentarsi talvol-ta di una retribuzione modesta e spesso procrastinata a tal punto da dover fare un altro mestiere per potersi permettere il lusso di fare gli archeologi. Eppure, la sua passione per l’archeologia era tale da indurla a continuare anche quando sapeva che il contatto con la terra poteva essere estremamente pericoloso, anche quando avrebbe potuto trovare strade alternative. Silvia, però, non voleva l’alternativa: tutte le volte che il suo stato precario di salute non le permetteva di fare l’archeologa a tempo pieno e la costringe-va in casa, a lavorare esclusivamente alla documentazione, lei si sentiva in gabbia; le mancava la sua trowel, le mancavano le sue scarpe antinfortunistica, la sua squadra di operai, la sua terra.

La scelta del Corso di Master in Geoarcheologia si iscriveva in maniera del tutto coerente nel suo percorso di formazione ed era motivata dalla volontà e dal bisogno di integrare le compe-tenze propriamente storico-archeologiche con conoscenze scien-tifiche e tecnologiche di ampio respiro, che le permettessero di interagire e di interloquire in maniera consapevole e costruttiva con gli specialisti delle numerose discipline affini all’archeo-

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logia, nell’ottica di una ricostruzione globale e completa delle dinamiche culturali ed ambientali del passato. Nel suo percor-so l’idea stessa di geoarcheologia ha acquistato quindi un senso forte e convincente: l’attenzione ad ogni aspetto della ricerca sul campo nella ferma convinzione che ogni operazione di scavo è al tempo stesso un’operazione di distruzione e che l’archeologo sia responsabile della prima e più difficile lettura del ‘testo’ della cultura materiale, un testo multidimensionato e multistratificato, che va decodificato attraverso una adeguata contestualizzazione. È soltanto attraverso l’analisi del contesto che si può attribuire un contenuto di significato alla cultura materiale. Di qui la necessità per l’archeologo di acquisire, all’atto dello scavo, il maggior nu-mero di informazioni possibile e di dotarsi degli strumenti teorici necessari a rivolgere il maggior numero di domande alla docu-mentazione archeologica.

Dalla nostra iscrizione al corso di Master, all’alba del 2001, Silvia fu immediatamente animata da questo sforzo di perfezio-namento ed integrazione delle sue competenze: le sconosciute di-scipline che le si presentavano e le recenti nozioni apprese erano nuovo humus per la sua passione e nuova linfa per la sua vo-cazione, costantemente tesa ad arricchirsi per poter svolgere al meglio i propri compiti, per poter dare un contributo sempre più significativo agli studi ai quali era devota. Così Silvia ha sempre assorbito con grande passione le nozioni di geologia, palinolo-gia, archeozoologia, archeobotanica, ecologia preistorica, e tante altre, in una costante e proficua dialettica culturale in cui le sue competenze incontravano quelle dei nostri colleghi geologi. In-fatti Silvia incanalava la sua passione e la gioia che le dava anche nell’insegnare, nel condividere, nel rendere accessibile ad altri il suo sapere, come quando, durante la settimana di scavo a Cer-chio, si prodigava ad illustrare ai colleghi geologi, da archeologa professionista, il modo in cui agire nella nostra trincea, oltre a commentare ed illustrare i reperti archeologici conservati nel Mu-seo di Celano Paludi, nella cui foresteria fummo ospitati.

Così ci riappare Silvia vagante -con quella sua speciale luce

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negli occhi- per il Museo e i magazzini di Celano Paludi, ricolmi del materiale archeologico proveniente dall’insediamento pala-fitticolo e dalla necropoli lì portata alla luce, profondamente at-tratta dalla mostra allora in corso Amore e Morte nell’Abruzzo antico, dal fascino del suo allestimento e dalla sua ricchezza in termini di comprensione storica di quelle antiche fasi di popola-mento, letteralmente riemerse dal lago. In quel Museo, dall’ar-chitettura futuristica e dalle modalità espositive e museali molto innovative, Silvia ebbe modo di stabilire contatti con numerosi studiosi, maturando anche ciò che, in nuce, avrebbe poi rappre-sentato l’oggetto della sua tesi di specializzazione in Archeologia Classica. Durante quella settimana di permanenza cominciammo così a conoscere quel territorio le cui dinamiche insediamentali avremmo studiato e cercato di ricostruire in un quadro coerente e dettagliato per la nostra tesi di Master, nello svolgere la quale fummo tutti chiamati ad un grosso sforzo di sintesi che ci permet-tesse di condurre un lavoro genuinamente interdisciplinare. Così, le diversissime competenze di tutti noi -Silvia, Renato, Marta, Annamaria, Gloria e noi due scriventi- furono massicciamente raccolte nell’ingaggiare quest’impresa, ovvero nello studiare i siti archeologici come archivi per la storia dell’ambiente e delle co-munità antropiche, nell’intento di indagare l’interazione esistente tra dati ‘ambientali’ in senso lato e ‘culturali’ e la loro incidenza reciproca sullo sviluppo delle società umane.

Ricerche geoarcheologiche nell’area Fucense:premesse, finalità e metodologia di indagine

La scelta dell’area sulla quale sperimentare il nostro progetto di ricerca geoarcheologica ricadde sulla conca del Fucino per due motivi principali: in primo luogo, la continuità abitativa ininter-rotta, a partire dal Paleolitico Superiore fino ad oggi, che l’ha caratterizzata e, in seconda ma non meno significativa istanza, il suo contesto geomorfologico, prepotentemente determinato dalle vicende di ingressione, regressione e bonifica del lago attorno al

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quale gravitavano e gravitano gli insediamenti umani. La conca del Fucino, infatti, dal punto di vista geomorfologico, è forma-ta dalla depressione tettonica costituita dalla piana emersa dalla bonifica (avvenuta nel 1875 ad opera dei Torlonia), bordata da terrazzi e depositi di varia origine, formatisi nel Pleistocene Su-periore e nell’Olocene, che si estendono fino alle falde dei rilievi montuosi che la circondano. La piana è costituita da sedimenti fini, limo-sabbiosi e limo-argillosi ed è posta a quote comprese tra 655 e 667 m s.l.m. Essa è delimitata sia da forme di accumu-lo (sedimenti lacustri, conoidi fluviali e fluvioglaciali e fasce de-tritiche) che da forme di erosione, determinate dall’attività delle acque del lago. Quest’ultima, determinando frequenti e sensibili cambiamenti delle linee di riva, ha condizionato fortemente l’ubi-cazione degli insediamenti e le dinamiche di popolamento.

Tali prerequisiti facevano quindi di quest’area un luogo privi-legiato per potervi svolgere uno studio di archeologia ambientale che si proponesse di correlare le dinamiche insediamentali che interessarono le popolazioni che nelle diverse epoche abitarono la piana e i suoi dintorni con l’ubicazione geomorfologica degli insediamenti stessi, ponendosi come scopo principale quello di dimostrare come l’intreccio di cause naturali e antropiche avesse creato un dinamico rapporto ‘uomo-territorio’. In una prospettiva di questo tipo, l’obiettivo che ci eravamo proposti era cercare di leggere i dati archeologici -che permettono una caratterizzazione ‘culturale’ degli insediamenti, ne forniscono datazioni e ne chiari-scono le attitudini e la funzionalità- sulla base della distribuzione geomorfologica di questi ultimi. Tale prospettiva di analisi inter-disciplinare ha infatti dimostrato che l’occupazione delle rive la-custri e perilacustri e lo sfruttamento dei versanti e degli altipiani montani sono stati fortemente legati sia alla presenza del lago, con le sue molteplici oscillazioni e la forte influenza esercitata sul microclima della regione, sia a ragioni di tipo socio-economico. Di conseguenza, accanto all’analisi della peculiare situazione climatica ed ambientale del comprensorio fucense, l’analisi cul-turale, sociale ed economica delle popolazioni che lo abitarono,

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condotta in una prospettiva diacronica, ci ha permesso di indivi-duare anche i fattori ‘umani’ che, di volta in volta, determinarono la scelta di specifici modelli insediamentali, dimostrando quanto profondamente le dinamiche ambientali e culturali fossero reci-procamente dipendenti. Tale impostazione, dopo più di un anno di lavoro, ci ha permesso di individuare le specifiche strategie di popolamento adottate nella regione fucense durante le fasi prei-storiche, protostoriche e storiche e di tratteggiare modelli insedia-mentali piuttosto differenziati per ciascuna epoca.

La prima, lunga fase del nostro lavoro è consistita nell’ubi-care con precisione i siti risalenti ai periodi da noi indagati - dal Paleolitico al Medioevo - sulla carta IGM al 25:000 del Fucino, sulla base di un materiale spesso frammentario e contraddittorio, cui correlammo una serie dettagliata di informazioni aggiuntive che costituirono lo scheletro del nostro GIS di quest’area e la pre-messa per l’elaborazione di una completa carta geoarcheologica del bacino fucense. I siti ubicati in carta ammontano a 234 e per ciascuno sono stati specificati i seguenti parametri, resi da codi-ci convenzionali necessari per l’elaborazione del GIS: il numero progressivo (NUM), il comune di appartenenza, il toponimo IGM (TOPO_IGM), il toponimo (alcune volte diverso, perché ricavato dalla bibliografia, da quello segnato sull’IGM, v. Aielli/Agellum), la quota, l’elemento fisiografico (COD_EL_FISIO), la datazione1 e la funzione (COD_FUNZ. ARCHEO)2.

In base alle notizie reperibili in letteratura, dalle ricognizioni di scavo effettuate e dai pochissimi lavori già condotti in mate-

1 Paleolitico Superiore, Paleolitico Medio, Epipaleolitico/Mesolitico, Neoliti-co, Eneolitico, Bronzo Antico, Bronzo Medio 1-2, Bronzo Medio 3, Bronzo Recente, Bronzo Finale, Bronzo finale/I età del Ferro, I età del Ferrro 1-2, I età del Ferro 3, I età del Ferro 4, Arcaismo, periodo Italico-Romano, periodo Romano, periodo Medievale.

2 Grotta, sito di superficie, area di frammenti fittili, fossato, abitato, necropo-li, colonia, vicus, villa, fundus, residenza comitale, municipium, corte, cella, area cultuale, rocca, castrum, monastero, chiesa, torre, sconosciuto.

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ria, abbiamo acquisito faticosamente il materiale sul quale fu ba-sata la nostra analisi, condotta operando, quindi, una dettagliata classificazione fisiografica della posizione degli insediamenti, raggruppati in sei classi suddivise in sottoclassi rigidamente di-stinte in base alla loro geomorfologia, seguendo sostanzialmente le pubblicazioni di Irti (1991) e Ialongo (2003, 2005 in collabo-razione, 2007). In base agli studi del primo, per ogni sito è stata verificata l’ubicazione: 1) Sulla piana: questa classe comprende genericamente tutta la zona pianeggiante, costituita per lo più da sedimenti fini limoso-sabbiosi e limoso-argillosi, corrispondente alla depressione del lago storico e ai glacis d’erosione contigui, che non presentano soluzione di continuità dal punto di vista alti-metrico. 1a) Sulla piana a ridosso del versante: è una sottoclasse della precedente, in cui viene specificata un’ulteriore informa-zione, quella della posizione rispetto ai versanti. 1b) Sulla piana su cordone litorale: anche questa categoria riguarda i siti ubica-ti nell’area della piana, ma su depositi diversi rispetto a quelli prevalenti; i cordoni litorali infatti sono costituiti da ghiaie o co-munque da sedimenti più grossolani rispetto ai limi lacustri, con migliori capacità drenanti. 2) Sulla fascia compresa tra 670-720 m: questa zona altimetrica corrisponde genericamente a superfi-ci blandamente ondulate sospese sulla piana, di origine lacustre o alluvionale. 2a) Su terrazzo situato nella fascia compresa tra 670-720 m: si tratta di superfici sub orizzontali sospese rispetto alla piana, formate da depositi medio-fini. 2b) Su conoide situato nella fascia compresa tra 670-720 m: questo tipo di deposito è caratterizzato da una debole pendenza e da materiali di origine colluviale, prevalentemente ghiaiosi. 3) Su versante acclive: que-sta classe morfologica riguarda solo il settore meridionale della conca del Fucino, occupato da rilievi carbonatici che danno ori-gine a versanti particolarmente ripidi, su cui si sono impostate di-verse grotte. 4) Sulla fascia di rilievi oltre i 720 m: questo settore è costituito da rilievi blandamente ondulati, di origine prevalente-mente lacustre, da cui si può avere un’ampia visibilità sulla piana; riguarda essenzialmente i settori settentrionale ed orientale. 4a)

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Sulla fascia di rilievi oltre i 720 m in posizione dominante: alcuni dei suddetti rilievi presentano delle morfologie particolarmente favorevoli al controllo sulle zone circostanti (sommità di rilievi, spianate a quote più elevate rispetto alle colline intorno, ecc.) 4b) In prossimità di corso d’acqua sulla fascia di rilievi oltre i 720 m: vedi classe 2c. 5) Su falde e coni detritici di versante: questi depositi, con pendenza spesso elevata, sono costituiti da materiale spigoloso situato ai piedi dei versanti. 6) Altro: questa classe com-prende le zone situate in posizione periferica o addirittura esterna rispetto alla piana, che non possono pertanto rientrare nella pre-sente classificazione, creata in base alle caratteristiche geomor-fologiche proprie di questo particolare settore dell’Appennino centrale.

I siti censiti (Fig. 1), poi, sono stati a loro volta classificati per datazione e funzione, almeno quando i dati archeologici hanno permesso di fornirne una interpretazione certa, segnalando altresì le diverse funzioni assunte nel tempo dagli stessi.

Infatti, la conoscenza archeologica dell’area del Fucino è ad oggi abbastanza frammentaria. Solo la porzione sud-orientale del bacino è stata oggetto di scavi sistematici ed estensivi, che attestano una continuità abitativa ininterrotta a partire almeno dall’età del Bronzo. I dati relativi al popolamento del resto del-la piana e soprattutto dell’areale nord-occidentale sono piuttosto scarsi, essendo frutto spesso di sole ricognizioni di superficie ed essendo concentrati sulle fasi più recenti, segnatamente a par-tire dall’epoca romana in poi. La conoscenza del popolamento di questa zona nelle fasi precedenti si limita, spesso, alle notizie del ritrovamento di frammenti ceramici nei pressi degli abitati delle epoche successive che, essendo spesso in continuità abita-tiva, hanno obliterato i livelli preistorici. Siti importanti per la comprensione delle dinamiche territoriali ed umane, come Or-tucchio, Trasacco, Luco dei Marsi, presentano una stratificazione antropica pressoché continua, in cui ai castelli medievali o ai vici romani corrispondono labili testimonianze delle età precedenti, che consistono per lo più in acciottolati e in quantità variabili di

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Fig. 1 - Carta di distribuzione dei siti nella Piana del Fucino e nelle aree limitrofe rielaborata da Irti 1991. Legenda: 1. Avezzano-Le Mole 3. 2. Avezzano- Strada 6. 3. Paterno-La Chiusa. 4. Paterno-Strada 10. 5. Venere-Strada 26. 6. Ortucchio-La Ma-donnella 1. 7. Ortucchio-Strada 28. 8. Ortucchio- Strada 29. 9. Ortucchio-La Punta. 10. Ortucchio-Balzone1. 11. Trasacco-S.Rufino 1. 12. Trasacco1. 13. Trasacco-Il Molino. 14. Luco dei Marsi-Strada 45. 15. Avezzano-Le Mole 2. 16. S. Pelino-Caruscino. 17. S. Pelino-S. Martino. 18. Celano-Paludi. 19. Celano-Cave di ghiaia. 20. Cerchio-La Ripa. 21. S. Benedetto dei Marsi-S. Maria. 22. S. Benedetto dei Marsi-La Moletta. 23. Venere-Restina. 24. Venere- Laghetto Canbise. 25. Venere-Le Coste. 26. Lecce nei Marsi. 27. Ortucchio-Balzone2. 28. Ortucchio-Arciprete. 29. Trasacco-S. Rufino2. 30. Trasacco-Volpare. 31. Luco-Passarano. 32. Luco-Pozzo S. Angelo. 33. Ortucchio-Le Coste. 34. Ortucchio-Satrano di sopra. 35. Trasacco 2. 36. Luco-Angitia. 37. Aielli Alto. 38. Collarmele. 39. Aschi-Piano S. Nicola. 40. Aschi-S. Nicola Valle Fredda 41. Amplero2. 42. Collelongo-Paretella. 43. Collelongo-Fondijò. 44. Civitella Roveto. 45. Scurcola Marsicana. 46. Magliano dei Marsi. 47. Alba Fucens. 48. Antrosano. 49. Ce-soli. 50. Rivoli. 51. Ortona dei Marsi.

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materiale ceramico. Tra l’altro, la stessa estensione territoriale di questi abitati, che dovrebbero essere i meglio conosciuti, non è sempre chiara, poiché spesso sono stati indagati attraverso una serie di sondaggi puntuali che non permettono di chiarire defini-tivamente la loro pertinenza ad insediamenti di vaste proporzioni o piuttosto ad insediamenti di dimensioni esigue e posti a poca distanza gli uni dagli altri. A questo proposito è esemplare il caso di Ortucchio-Strada 28, che nell’età del Bronzo sembrerebbe aver raggiunto un’estensione complessiva di ben 30 ha. In realtà la stratigrafia di questo sito si presta a svariate interpretazioni, qua-le quella che prevede un sito ‘migrante’ a causa delle frequenti e sensibili oscillazioni del livello lacustre, quella che postula la presenza di siti gemini, in cui ad un sito più prossimo ai terrazzi retrostanti la piana sarebbe corrisposto un sito che invece insi-steva su questa contrassegnato da funzioni, morfologia e tempi diversi, e quella per cui questo insediamento doveva essere il più importante dell’areale sud-orientale fin da questa fase protostori-ca. La mancanza di dati certi, però, rende impossibile scegliere tra le varie ipotesi anche per un sito come quest’ultimo che, come si diceva, ha avuto sempre grande importanza nella storia del popo-lamento fucense, soprattutto per le sue caratteristiche geologiche. Infatti, l’insediamento si trova sulla sommità di un blocco calca-reo che lo proteggeva dalle oscillazioni del livello lacustre e lo rendeva un’isola in mezzo al lago; ciò deve essersi verificato di frequente se, ancora nel ‘700, si ricorda il castello medievale di Ortucchio come posto su un’isola.

Quindi si è cercato, quando possibile, di isolare solo i dati che presentavano una maggiore verosimiglianza, ma che soprattutto erano stati raccolti secondo procedimenti della cui affidabilità si poteva esser certi. Ciò ha significato che sono stati decisamente scartati gli insediamenti ubicati e attribuiti ad una specifica fase storica solo in base al ritrovamento di pochi (meno di una de-cina) di frammenti ceramici che, seppure danno un’indicazione topografica, non permettono di capire quale fosse la tipologia, la vocazione e la funzione degli insediamenti stessi. Tuttavia, pur

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considerando le carenze della documentazione e la mancanza di dati certi per alcune fasi storiche, si è riusciti a ricostruire un qua-dro di massima dello sviluppo delle modalità di adattamento al territorio delle popolazioni fucensi nella storia e ad intrecciare i dati relativi alla loro specifica distribuzione sul territorio con i dati derivanti dall’analisi del clima, dell’ambiente e dello sfrut-tamento economico del territorio. L’elemento determinante e ca-talizzante nell’organizzazione territoriale ed urbanistica è stato, come si diceva, il lago, con le sue frequenti e sensibili oscillazio-ni. Quindi, la fascia perilacustre in senso stretto ed in particolare la piana, ovvero la zona più critica dell’intera area fucense, è sta-ta l’area indagata più attentamente, nel tentativo di verificare se e quanto le popolazioni che la abitavano venivano condizionate dall’oscillazione del livello lacustre. Tenendo presente l’ulteriore distinzione tra siti di nuova fondazione e in continuità abitativa, appare evidente, per i primi, un trend evolutivo che percorre tutta la storia delle popolazioni fucensi fino al Medioevo, in cui alla predominanza assoluta di siti sulla piana documentata per l’età del Bronzo (2300-1020 a.C.) con una percentuale del 72% contro il 28% di insediamenti al di fuori dell’area perilacustre, corrispon-de una decisa inversione di tendenza nell’età del Ferro (1020-525 a.C.), quando i siti sulla piana si riducono al 27%, contro il 73% di insediamenti al di fuori di essa. L’occupazione della piana ri-prende, poi, nel periodo romano, con il 32% degli insediamenti contro il 68% dei siti posti in posizioni periferiche. Nel Medio-evo, infine, la percentuale degli abitati sulla piana diminuisce di nuovo di qualche punto percentuale (25%), a fronte del 41% degli insediamenti che occupano posizioni alternative (Fig. 2).

Sulla base di questi dati propriamente territoriali si potran-no indagare le motivazioni delle scelte umane, senza incorrere nell’errore metodologico di lasciarsi influenzare da un puro de-terminismo ambientale. È chiaro che certe scelte insediative sono state dettate anche da motivi genericamente culturali, quali lo sfruttamento economico del territorio o le necessità di difesa. Il brusco cambiamento del modello insediativo tra età del Bronzo

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ed età del Ferro è un significativo esempio di questo tipo di inter-relazioni di cause. A partire dal Bronzo, infatti, comincia un pe-riodo piuttosto arido e secco che subisce una mitigazione proprio alla fine di questa fase storica. Inoltre, le società dell’età del Ferro erano notevolmente più strutturate ed organizzate di quelle delle epoche precedenti ed è documentata la nascita di comunità cul-turalmente distinte (quella equa e quella marsa) nei due versanti nord-occidentale e sud-orientale del bacino fucense. Il ritrova-mento di armi e l’esistenza di rituali funerari tipici di una società abbastanza gerarchizzata ed in cui un valore imprescindibile della classe dominante era il valore in battaglia, hanno lasciato presagi-re, per quest’epoca, il verificarsi di tensioni e conflitti tra i gruppi. Questo stato di cose potrebbe spiegare l’arroccamento e l’inca-stellamento abbastanza generalizzato al quale si assiste in tutto il bacino fucense, che prevede l’abbandono di un grandissimo nu-mero di insediamenti in posizione pianeggiante occupati non solo nell’età del Bronzo ma, in alcuni casi, a partire dall’Eneolitico.

Evoluzione diacronica del trend di popolamentodell’area fucense dal Paleolitico al Medioevo

Ripercorrendo la letteratura esistente sull’argomento, si evince che i più antichi dati archeologici relativi al popolamento del Fu-cino risalgono al Paleolitico. Come per le successive fasi proto-storiche le informazioni derivano prevalentemente dalla scoperta di manufatti sporadici o sono frutto di ricognizioni di superficie che, nella maggioranza dei casi, forniscono indicazioni meramen-te topografiche, dimostrando una distribuzione degli insediamenti (soprattutto in grotta) sui versanti acclivi o sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m.

Nel Neolitico e nell’Eneolitico, poi, il passaggio da un’econo-mia di caccia e raccolta ad una basata sulla coltivazione dei cere-ali determina la necessità di ricercare terre leggere e pianeggianti in prossimità di una fonte idrica che potesse consentire l’irriga-zione dei campi. Queste esigenze furono soddisfatte dalle piccole

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valli fluviali, che confluivano nell’alveo del lago. Alla fine del quarto millennio, poi, con l’introduzione di una economia basata anche sull’allevamento transumante, furono occupati anche i ri-lievi montuosi, raggiungibili attraverso le strette vallate fluviali sfocianti direttamente nei pressi del bacino lacustre. È evidente, quindi, che la particolare conformazione geomorfologia del Fu-cino si prestasse in modo eccellente ad un’economia integrata fra agricoltura di fondovalle e allevamento con la tecnica dell’alpeg-gio.

Tra la fine del III e l’inizio del II millennio si assiste ad un fenomeno di maggiore differenziazione e complessità, quanto a tipologia e a scelta insediamentale, delle comunità fucensi, corri-spondente ad un probabile incremento demografico e al passag-gio ad entità maggiormente differenziate articolate su più vasti territori, con insediamenti diversificati in base alla funzione, di-mensione, morfologia e con luoghi deputati al seppellimento. I siti dell’età del Bronzo sono localizzati in decisa prevalenza sulla piana, laddove tale ubicazione non solo resta preferenziale, ma subisce un progressivo e costante incremento; per il Bronzo Anti-co (2300-1700 a.C.) i siti indagati ammontano a 10, di cui 8 sono ubicati sulla piana e solo 2 al di fuori di essa, rispettivamente su versante acclive (Trasacco 2) e sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m (Massa d’Albe). Solo in tre casi certi sono ubicati in corrispon-denza di abitati risalenti alle fasi precedenti (Trasacco-il Molino e Ortucchio-Balzone 1 hanno fornito materiali antecedenti per l’Eneolitico; Ortucchio-Strada 20 per il Mesolitico e il Neolitico). Il dato che appare interessante è che tutti gli altri insediamenti fondati in questa fase siano ubicati sulla piana o sulla piana a ri-dosso del versante. Tale dato assume una particolare importanza se confrontato con quelli derivanti dall’analisi del modello inse-diativo documentato per le epoche precedenti, in cui l’ubicazione preferenziale era su versante acclive e sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m. Nella fase seguente (BM 1-2, 1700-1500 a.C.) l’ammon-tare degli insediamenti sale a 11, di cui solo due (di datazione af-fidabile) ubicati in prossimità di abitati preistorici (Celano-Paludi

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aveva avuto una occupazione nel Neolitico, e Venere-Le Coste nell’Eneolitico). Anche per questo periodo, la pressoché totalità degli abitati si trova sulla piana, continuando ad aumentare pro-gressivamente. Nel BM 3 (1500-1365 a.C.) si raggiungono i 13 insediamenti, di cui 3 nuove fondazioni. Nel BR (1365-1200 a.C.) si conoscono 18 insediamenti (di cui 4 sono nuove fondazioni), mentre nel BF-IFE (1200-1020 a.C.) si raggiunge la massima den-sità abitativa, con un numero di abitati che ormai raggiunge le 28 unità. Di altri 11 siti non è stato possibile specificare la datazione precisa, o perché se ne conosce la sola posizione topografica sen-za possedere materiale archeologico sufficiente a datarli, o per il cattivo stato di conservazione del materiale stesso.

Ciò che appare chiaro, dunque, è che il modello insediativo non solo preferenziale ma pressoché esclusivo, adottato dalle po-polazioni fucensi nell’età del Bronzo prevedeva una ubicazione sulla piana (72% degli insediamenti) e in percentuale decisamen-te inferiore (28%) in posizioni periferiche rispetto ad essa. Se si includono i siti di datazione meno certa o frutto di sole ricognizio-ni superficiali e, alcune volte, ubicati solo in base al ritrovamento di un numero anche irrisorio di frammenti ceramici, le percen-tuali relative di distribuzione fisiografica rimangono simili. Alla posizione preferenziale sulla piana segue quella sulla piana ma a ridosso del versante (14%), quella su terrazzo sulla fascia pia-neggiante sospesa sulla piana (14%) e quella su versante acclive (7%) ove, tuttavia, sono documentate quasi esclusivamente grot-te abitate dalle precedenti fasi preistoriche e riutilizzate, proba-bilmente, come ripari temporanei. Se tra i siti abitati in questa fase si isolano quelli di nuova fondazione e si escludono quelli riutilizzati e rifrequentati, il ventaglio delle scelte insediative, in parte, si restringe, mantenendo sempre e comunque una marcata preferenza per l’ambiente immediatamente perilacustre. Inoltre, dall’analisi dei siti di nuova fondazione effettuata in senso dia-cronico, percorrendo le diverse fasi dell’età del Bronzo, appare chiaro che le scelte di posizioni periferiche rispetto alla piana si moltiplichino a partire dal Bronzo Recente. Infatti, se la scelta dei

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versanti acclivi o della fascia lacustre a ridosso dei versanti re-sta costante, sebbene in progressivo aumento, durante tutto l’arco dell’età del Bronzo, a partire dal Bronzo Medio 3 (periodo ap-penninico, 1500-1365 a.C.) vengono fondati nuovi insediamenti sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m, sui terrazzi ubicati sulla fascia tra i 670 e i 720 m. Ciononostante, gli insediamenti sulla piana continuano ad essere fondati in numero sempre maggiore e con un trend di aumento progressivo più significativo. Tra l’altro, i siti fondati a quote elevate e lontani dalla piana sono ubicati nella loro pressoché totalità presso valli fluviali o conche intramontane che ne permettevano il collegamento diretto con il bacino lacu-stre. Questa osservazione dimostra che l’ubicazione degli inse-diamenti sui terrazzi pedemontani o sui rilievi non fu una rispo-sta alle variazioni del livello lacustre (che, oltre che nel lungo periodo, devono essere avvenute pressoché stagionalmente), ma nacque da nuove esigenze (economiche, strategiche, ecc.), legate probabilmente alla maggiore densità abitativa, all’incremento de-mografico e alla probabile nascita di insiemi territoriali più vasti con siti differenziati in quanto a vocazione, morfologia e funzio-ne. Inoltre, la vicinanza a valichi che potevano collegare il bacino fucense alle regioni limitrofe (utilizzati anche durante i periodi successivi) può essere stata una scelta strategica per il controllo di vie di commercio e di scambio con le popolazioni dell’Italia centrale. Gli insediamenti dell’interno sono infatti posti lungo percorsi vallivi o di montagna che saranno utilizzati anche in età storica come vie di collegamento con le aree limitrofe (Valle del Salto, Conca Peligna, Alto Sangro, Valle Roveto). Queste diret-trici talvolta coincidono con quelle che in età storica saranno le grandi vie pastorali e commerciali. Gli insediamenti di Scurcola Marsicana e di Magliano dei Marsi si trovano nelle vicinanze del fiume Imele, in corrispondenza della diramazione che, sul ver-sante ovest porta alla valle dell’Aniene e all’area laziale, verso nord alla valle del Salto e quindi nel reatino. Collelongo-Fondjò e Collelongo-Paretella sorgono su lieve declivio pedemontano, in prossimità del torrente che solca la Vallelonga e, quindi, sulla

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principale via di penetrazione dal lago verso i monti del Parco Nazionale d’Abruzzo.

È inoltre utile sottolineare che pressoché tutti gli insediamenti sono prossimi a fonti di approvvigionamento idrico (lago, corsi fluviali e torrentizi, sorgive). Tra gli insediamenti perilacustri ubi-cati nella piana, Avezzano-Le Mole, Venere-Strada 26, Ortucchio-Strada 28, Ortucchio-La Punta, Ortucchio-Balzone, Trasacco-S. Rufino, Trasacco 1 e Trasacco-Il Molino si trovano in luoghi ove ancor oggi sono presenti ricche sorgive. Tra quelli ubicati fuori dalla piana, anche molti insediamenti posti sui terrazzi si trovano in corrispondenza dello sbocco di piccoli corsi fluviali o torrentizi che si riversano nel lago; essi sono: S. Pelino-Caruscino, Celano-Paludi, Celano-Cave di ghiaia, Cerchio, Venere-Restina, Venere-Laghetto Cambise, Lecce nei Marsi, Luco-Pozzo S. Angelo.

Le linee di riva del lago, per l’età del Bronzo, potrebbero esse-re individuate, in base all’ubicazione degli insediamenti, intorno alle quote di 656-663 m s.l.m., ma con possibili temporanee va-riazioni. In assoluto, è verosimile che il lago abbia potuto avere oscillazioni temporanee (v. siti di Ortucchio-Strada 28, Ortucchio-Balzone, Trasacco-S. Rufino, Trasacco e Celano e loro disloca-zione), ma il fatto che nell’età del Bronzo gli insediamenti sulla piana continuino ad essere abitati e, anzi, che ne vengano fondati sempre in maggior numero fino alle soglie della successiva età del Ferro dimostra che le popolazioni umane si erano ben adattate all’ambiente in cui vivevano. Infatti, il periodo di passaggio tra il Bronzo Antico e il Bronzo Medio corrisponde all’inizio di un periodo più arido e freddo, in cui la vicinanza ai corsi d’acqua e al lago doveva essere diventata una necessità imprescindibile. Dal punto di vista culturale ed economico, in particolare, il mo-dello insediativo che emerge dall’analisi della disposizione degli abitati dell’età del Bronzo, nonché le analisi condotte su questi ultimi, dimostrano che le popolazioni fucensi di questa fase stori-ca dovevano essere fondate su un’economia di sussistenza mista, basata sulla coltivazione -in piana e sulla superficie sospesa su di essa, pianeggiante e comunque facile da arare anche con il solo

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aratro leggero-, sull’allevamento -che comportava la necessità di pascoli nelle conche intramontane o ad alte quote- e sulla caccia e pesca (sebbene quest’ultima non sia sufficientemente documen-tata). Accanto alla semplice osservazione del modello insediati-vo, infatti, le analisi specialistiche (condotte esclusivamente per il sito del BF di Celano/Paludi) sulla flora e sulla fauna risalenti a questo periodo hanno dimostrato l’esistenza di coltivazioni miste di cereali sulla piana, tipiche di una società stanziale e con una economia di sussistenza basata sull’agricoltura. Accanto a queste coltivazioni, i diagrammi pollinici ed i macroresti vegetali hanno dimostrato l’esistenza, sempre sulla piana, di piante infestanti ti-piche delle colture agricole, di erbe e piante tipiche di zone adibi-te a pascolo e di bacche o semi di piante frutto di raccolta. Quanto all’allevamento del bestiame, il ritrovamento di resti di animali quali bue, pecora/capra, pecora, capra e maiale, dimostrano l’al-levamento di queste specie, anch’esse basilari per l’economia di queste popolazioni. Il ritrovamento di resti di cervo, capriolo e cinghiale, infine, testimonia dell’attività di caccia. La pesca, poi, è documentata solo dal ritrovamento di alcuni pesi da rete, ma la sua pratica è altamente probabile.

L’età del Ferro comprende un arco cronologico che va dalla fine dell’età del Bronzo (Bronzo Finale 3 – fine dell’XI sec. a.C. – 1020 a.C. circa) alla conquista romana dell’Italia centrale (IV sec. a.C.). Se non è ancora possibile effettuare una distinzione netta tra gli insediamenti del Bronzo Finale e quelli della prima età del Ferro, poiché mancano contesti archeologici in cui queste due fasi possano esse individuate con precisione, la fase di passaggio tra la prima età del Ferro ed il Ferro recente, ovvero l’Orientaliz-zante antico, è ancora meno documentata sia delle fasi più anti-che che di quelle più recenti, poiché la maggior parte dei dati di cui disponiamo sono frutto di ricerche di superficie, di archivio e di segnalazioni cui solo in pochi casi hanno fatto seguito scavi sistematici. Il tentativo di tracciare una linea di evoluzione nelle dinamiche insediamentali del comprensorio fucense è, di conse-guenza, fortemente inficiato da questa carenza di dati stratigrafici

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puntuali. Anche per l’età del Ferro i siti sono stati distinti su base geomorfologica in siti perilacustri ed in siti lontani dalla piana. Sulla base di questo schema è stato possibile effettuare una perio-dizzazione degli abitati in due fasi cronologiche principali: (1) la prima età del Ferro (I FE 1-2) e (2) l’età del Ferro recente (inqua-drabile in un orizzonte culturale orientalizzante ed arcaico).

Dal punto di vista della ubicazione geomorfologica degli abi-tati, appare chiaro come tra Bronzo Finale e prima età del Ferro vi sia una sostanziale continuità: tutte le rive del lago sembrano an-cora interessate da una distribuzione relativamente omogenea de-gli insediamenti con una ubicazione preferenziale sulla piana (il 46%), seguita da una su ampio terrazzo (il 25%). Sembra dunque prevalere l’interesse per lo sfruttamento delle risorse perispondali e della piana circostante rispetto a quelle delle zone collinari e montuose poste ai margini della conca stessa. Permane inoltre, in linea con una tendenza già evidenziata per l’età del Bronzo, una maggiore concentrazione di siti nell’area di Ortucchio, di Trasac-co e di Avezzano. Si tratta di aree a lunga continuità di vita: nel caso di Ortucchio il sito di Strada 28 era già in uso nel Mesolitico, nel Neolitico e nell’Eneolitico, il sito di La Punta ha restituito evidenze archeologiche che attestano una frequentazione durante il Paleolitico superiore, il Neolitico e l’Eneolitico, con una cesura durante le fasi più antiche del Bronzo ed una rioccupazione nel Bronzo Recente e Finale, nella prima età del Ferro ed infine in età romana, quando cambierà la destinazione d’uso da abitativa a sa-crale con l’installazione di un’area dedicata al culto degli antenati. Nell’area di Trasacco, il sito di Trasacco I dimostra una continuità abitativa che copre tutto l’arco dell’età del Bronzo fino alla prima età del Ferro. In località Madonnella, nelle immediate vicinanze e ad una quota di poco più alta (670 vs 660 m s.l.m) sarà ubicato un vicus in età romana ed un’area cultuale dedicata ad Apollo. Ciononostante, esiste un problema metodologico non trascurabile che costringe alla cautela nella valutazione delle evidenze fornite almeno dalla porzione sud-est del bacino e che non autorizza con-clusioni definitive. È vero, infatti, che gli insediamenti sorti nella

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porzione perilacustre compresa tra Trasacco ed Ortucchio hanno avuto una continuità di vita molto lunga, ma è altrettanto vero che solo in quest’area sono state effettuate le indagini più accurate.

Alla continuità insediativa tra Bronzo Finale e prima età del Ferro corrisponde anche una sostanziale continuità culturale. Nell’ambito delle attività artigianali, la metallurgia, già sviluppa-ta nell’età del Bronzo -ed in particolare nelle fasi finali di esso- conosce un eccezionale incremento nella prima età del Ferro. Dall’analisi dei manufatti metallici, rinvenuti in quantità rilevante nei dintorni del Fucino, sembra che, se in un momento piutto-sto antico del Bronzo Finale, databile tra il XII e l’XI sec. a.C., l’area del Fucino gravitava nella cerchia metallurgica dell’Etruria meridionale, importandone oltre che manufatti finiti anche la ma-teria prima che alimentava una produzione locale capace di ela-borazioni originali, all’inizio dell’età del Ferro (XI-X sec. a.C.) la gravitazione tirrenica diviene partecipazione attiva alla nuova koiné metallurgica che compare in questo momento sull’intero territorio dell’Etruria, con un’ampia circolazione di manufatti e di modelli in molte regioni.

Per quanto concerne gli usi funerari della prima età del Ferro e l’esistenza o meno di una continuità con il periodo precedente, le uniche informazioni archeologiche provengono dalla necropoli di Celano Paludi, dalla tomba in località Agguacchiata a Luco dei Marsi e dalle deposizioni più antiche della necropoli dei Piani Palentini a Scurcola Marsicana. Non si conoscono, fino a questo momento, necropoli dell’età del Bronzo e, anzi, l’impianto della necropoli di Celano, che si data circa al X secolo, viene ad oblite-rare proprio l’abitato preesistente. Si deve evidenziare, in questo caso, un fenomeno di discontinuità rispetto al periodo precedente: è solo con l’inizio dell’età del Ferro che la necropoli acquisisce un’autonomia ‘topografica’ rispetto all’abitato, divenendo punto di riferimento della comunità stessa cui fa capo. Nel caso di Ce-lano, il numero assai limitato di sepolture (7), la peculiarità e la forte valenza simbolica degli oggetti di corredo funebre, unita alla considerevole forza lavoro necessaria all’edificazione dei tumu-

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li, inducono ad ipotizzare che tali sepolture fossero appannaggio esclusivo delle classi sociali emergenti. Ma, se la vita della necro-poli di Celano sembra essere circoscritta ad un periodo di tempo molto limitato, la necropoli dei piani Palentini, abbastanza lonta-na dal lago, mostra una continuità d’uso così ampia (dal IX fino al V sec. a.C.) da assurgere al ruolo di vero e proprio ‘indicatore territoriale’, punto centrale di aggregazione collettiva in cui ogni specifica comunità potesse riconoscersi.

La vera cesura nella dinamica insediamentale nel bacino del Fucino si verifica con il passaggio alla fase recente dell’età del Ferro. Gli insediamenti sulla piana vengono nella stragrande maggioranza dei casi abbandonati, mentre la maggior parte de-gli insediamenti di nuovo impianto sorgono lontani dalle rive del lago, prediligendo l’ubicazione su rilievo isolato (76%) a quote comprese tra gli 800 e i 1400 m s.l.m. Si registra, quindi, nel com-prensorio del Fucino, con notevole ritardo rispetto alle situazioni dell’Italia centromeridionale, un aumento di importanza delle po-tenzialità tattico strategiche degli abitati, con la chiara tendenza a localizzare gli insediamenti in posizione naturalmente fortificata e dominante sul territorio circostante e a rafforzare tale posizione con opere difensive artificiali, quali muraglioni di pietra e fossati, talvolta anche plurimi.

L’individuazione dei valori della quota minima e massima dei siti dell’età del Ferro ci consente altresì di proporre qualche considerazione sulla variazione del livello lacustre nel corso di questa fase storica. Per quanto concerne la prima età del Ferro, la constatazione che la piana sia stata abitata in maniera omogenea e continua dalla fine dell’XI a tutto il IX secolo potrebbe indurre a pensare che la linea di riva del lago, in questo periodo come du-rante il Bronzo, si sia mantenuta piuttosto stabile. In particolare, l’insediamento a quota inferiore abitato continuativamente è quel-lo di Ortucchio-Strada 28, ubicato a 656-659 m s.l.m. Ciò verreb-be ad avvalorare l’ipotesi già avanzata per l’età del Bronzo e cioè che, dal 2300 all’ 800 a.C. ca., il livello del lago sia stato inferiore a 656-659 m s.l.m., perfezionando le linee di riva ricostruite su

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base geologica (Cordone litorale di Trasacco, < 667, e spianata di Luco, Trasacco e Ruscella, < 662); bisogna tener conto, però, che la situazione stratigrafica dello scavo è abbastanza confusa e che, comunque, il sito è ubicato in una fascia tettonicamente ribassata del bacino, il che potrebbe averne falsato l’altitudine. Per quanto riguarda il Ferro recente, la situazione si complica in quanto non è stata ricostruita su base idrogeologica nessuna linea di riva e in più non abbiamo insediamenti sulla piana, ossia nelle immediate vicinanze del lago. Il valore della quota minima di 670 m s.l.m. si riferisce al sito di La Petogna presso Luco dei Marsi che sorge su terrazzo pedemontano. Nell’area di Ortucchio l’unico sito più vicino, in linea d’aria, alla sponda del lago, è quello di Colle di S. Orante che si trova però ad una quota elevata (681 m s.l.m.). Per quanto concerne poi le necropoli, solo una delle 25 topografica-mente individuate è ubicata sulla piana perilacustre: si tratta di S. Antonio Abate nella zona di Luco dei Marsi, ad una quota di 670 m s.l.m.

Risulta evidente come le aree cimiteriali si dispongano, a quo-te abbastanza elevate nelle zone interne, lungo le tre principali valli fluviali del comprensorio del Fucino, quella del Giovenco, del Rio Tana e del Fossato di Rosa. Ciò è chiaramente visibile nella Vallelonga, ai bordi della valle di Ortucchio ma soprattut-to nella piana fra il Giovenco e il torrente la Foce. L’ubicazione preferenziale è quella su ampio terrazzo (28%), seguita da quella alle pendici dei rilievi (22%) e poi da quella a mezzacosta (16%). Anche per le necropoli si tratta, purtroppo, nella maggior parte dei casi, di dati frutto di ricognizioni di superficie, poiché i con-testi archeologici indagati relativamente alle fasi orientalizzante ed arcaica sono solo tre: oltre alla già citata necropoli dei Piani Palentini di Scurcola Marsicana, a lunga continuità di vita (IX- VIII- VII sec. a.C.), i corredi funerari scientificamente acquisiti sono quello di Pescina-Le Pergole, riferibile all’VIII sec. a.C. e i due recuperati dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruz-zo in località Camerino a Lecce dei Marsi, databili all’VIII-VII secolo. La distribuzione geomorfologica delle necropoli, quindi,

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poco può dirci sulla eventuale linea di riva dell’età del Ferro re-cente. Sembra invece eloquente, oltre al fenomeno generalizzato dell’abbandono dei siti collocati in posizione pianeggiante intor-no al lago, proprio la totale mancanza di insediamenti come di necropoli nell’area in questione e la preferenziale ubicazione dei primi in posizione arroccata su alto rilievo e delle seconde a quo-te inferiori ma in stretta connessione con gli abitati d’altura. Ciò potrebbe essere spiegato con un aumento del livello lacustre (da 655 a 662-663 m s.l.m.) in coincidenza di un cambiamento clima-tico globale corrispondente al passaggio tra i periodi sub-boreale e sub-atlantico nel nord Europa. Il clima freddo ed umido e le abbondanti precipitazioni locali avrebbero potuto rendere impra-ticabili le pianure perispondali, almeno in certi periodi dell’anno, rendendo necessaria l’ubicazione dei nuovi insediamenti e delle necropoli in aree non direttamente prospicienti il lago. Purtroppo questa ipotesi non è, allo stato attuale delle ricerche, suffragata da precisi dati paleoclimatici, idrogeologici o palinologici, né di conseguenza in alcun modo verificabile. Oltre all’ipotesi dell’im-paludamento dei piani a seguito dell’innalzamento del livello la-custre, il fenomeno di una così consistente diffusione della strut-tura insediamentale incastellata è stato spiegato anche chiamando in causa un secondo fattore concomitante al primo, vale a dire uno sconvolgimento economico-sociale che portò al moltiplicarsi di piccole realtà sociopolitiche non confluenti in un potere centra-le. Ciò avrebbe determinato un alto livello di conflittualità interna e reso prioritari nella scelta della ubicazione dell’insediamento fattori quali la difendibilità, l’ampia visibilità ed il controllo sul territorio circostante. Inoltre, sulla base delle dinamiche inse-diative e degli usi funerari, Roberta Cairoli e Vincenzo d’Ercole hanno messo in evidenza nel 1998 due modi differenti di occupa-zione ed utilizzazione del territorio che gravita attorno all’alveo del Fucino, avanzando la suggestiva ipotesi che possano riferirsi a due diversi ambiti culturali distinti: il primo, riferibile ad un ambito culturale protoequo, si colloca nell’area nord-occidentale del bacino lacustre ed è caratterizzato dalla totale assenza di in-

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sediamenti perilacustri, a fronte di un articolato sistema di siti d’altura gravitanti intorno ad un central place individuabile nel sito di Alba Fucens (1020 m s.l.m.). Nell’ambito dei rituali fu-nerari quest’area sembra essere caratterizzata dall’uso di tombe a tumulo, di stele funerarie e dall’assenza di vasellame ceramico nelle sepolture. Il secondo, attribuibile ad una matrice culturale protomarsa, riguarda la maggior parte del comprensorio fucense ed è contraddistinto dalla presenza di plausibili siti egemoni (ad es. il sito di Colle Sant’Orante ad Ortucchio e quello di Colle Penna a Luco dei Marsi) che sorgono in posizione arroccata ed elevata e sono inseriti in un sistema di insediamenti in interazione con il lago stesso. Per quanto riguarda le costumanze funerarie, quest’area si discosta dalla precedente per l’assenza dei tumuli inscritti in circoli di pietre. Concludendo, il modello insediativo emerso dall’analisi degli insediamenti dell’età del Ferro dimostra un cambiamento radicale rispetto alla fase protostorica preceden-te, delle strategie e delle esigenze delle popolazioni, dovuto al probabile cambiamento delle strategie di sussistenza e a nuove esigenze difensive, in concomitanza con l’adattamento ad una nuova situazione climatica.

La complessità del rapporto tra le comunità antropiche e l’am-biente è apparsa evidente altresì per i periodi romano e medieva-le, che hanno costituito l’oggetto degli studi di Silvia.

Di seguito si riportano le pagine scritte da lei su questo argo-mento.

I periodi seguenti, Italico-Romano, Romano e Medievale, sono stati analizzati in relazione a due macro-fasi: quella compresa tra il III sec. a.C. (prime attestazioni dei vici) e il VI sec. d.C. (tarda età impe-riale) e quella che va dall’VIII sec. d.C. fino all’XI sec. d.C. per il periodo Medievale. A partire dalla metà del IV sec. a.C. i Romani, volendo ottenere il possesso territoriale della Valle del Liri e della Cam-pania, scatenarono una serie di guerre contro i Sanni-

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ti e le varie etnie di origine sabellica loro alleati. La vittoria romana diede inizio all’annessione dell’area sabellica settentrionale, che si compì per mezzo di campagne di sterminio (ad esempio contro gli Equi), le fondazioni delle colonie latine di Alba Fucens e di Carsioli, annessioni dirette oppure trattati di alle-anza con le popolazioni dei Vestini, Marsi, Peligni e Marrucini. Il bacino fucense diventa, in questa fase, un punto di passaggio obbligatorio della dorsale ap-penninica. A partire dal IV sec. a.C. la distribuzione geopolitica intorno al lago è così divisa: la popolazio-ne degli Equi era stanziata lungo la riva nord, mentre quella dei Marsi si attestava sulla riva meridionale. L’emergere di nuove aristocrazie italiche decise ad ottenere la cittadinanza romana per poter ottenere gli stessi diritti dei cittadini appartenenti al governo cen-trale provocò la guerra sociale (91-89 a.C.), dagli sto-rici antichi definita bellum Marsicum dato il ruolo di primo piano avuto dalla popolazione dei Marsi. No-nostante la dura sconfitta della popolazione locale, gli Italici ebbero la concessione della cittadinanza; tutto il territorio venne riorganizzato per municipi ai quali si correla la struttura dei vici, piccoli abitati sparsi. Il processo di urbanizzazione e di monumentalizzazio-ne dei centri più importanti, l’ampliamento della rete stradale e quindi dei traffici commerciali, innescano un veloce processo di latinizzazione e di inserimento della regione nel più ampio tessuto della conquista romana.

L’epoca imperiale è poi segnata dal prosciuga-mento del lago, iniziato dall’imperatore Claudio e completato definitivamente tra Traiano e Adriano. L’acquisizione e la distribuzione di nuove terre a di-scapito del lago aggiunse un cambiamento nel qua-dro insediativo dell’area con l’introduzione di villae

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e fundi. La disponibilità di terreni abbastanza pianeg-gianti attraversati da una fitta rete stradale consentì uno sfruttamento intensivo del territorio. Durante il III sec. d.C., tuttavia, l’area fucense non uscì indenne dalla crisi che investì tutto l’Impero. Alla crisi econo-mica e sociale si aggiunsero anche elementi locali di origine naturale come ad esempio il terremoto del 346 d.C. o l’innalzamento del livello lacustre determina-to sia dalla mancata manutenzione dell’emissario sia dalla dislocazione del canale collettore causata da ri-petuti fenomeni sismici. Questi fattori, associati alle invasioni barbariche, produrranno una contrazione degli abitati e il riemergere dell’insediamento sparso dei vici e dei pagi. Tale sistema durerà fino all’VIII sec. d.C., quando le grandi abbazie di Montecassino, Farfa e S. Vincenzo al Volturno, inglobando l’intero patrimonio fondiario del comprensorio fucense, sot-toporranno il territorio ad un nuovo tipo di organizza-zione insediamentale.

Anche per i siti fondati o abitati in questo periodo storico sono state eseguite le analisi di distribuzione condotte per i periodi precedenti. La suddivisione de-gli insediamenti è stata effettuata principalmente per tipologia, mentre per quanto riguarda la cronologia è stata considerata quella massima del periodo oggetto di studio, come si è detto dal III sec. a.C. fino al VI sec. d.C. La ragione di una scansione cronologica così ampia è giustificata sia dalla mancanza di dati puntua-li sulle datazioni dei singoli siti sia dalla continuità nell’occupazione territoriale di essi tra un periodo e l’altro. Essendo documentata una grande varietà ti-pologica e funzionale degli insediamenti datati a que-sto periodo, è parso utile analizzare la disposizione fisiografica relativa delle diverse categorie di siti. Da questa analisi tipologica si è desunto che l’ubicazione

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sui rilievi, o comunque in zone periferiche rispetto a quella perilacustre, è rimasta sostanzialmente pre-ferenziale. Solo le villae e i fundi, a confronto con i vici, le aree cultuali, i municipi e le colonie, sembrano seguire una tendenza leggermente diversa. La spiega-zione a questo fenomeno è data dall’osservazione che questi insediamenti sorgono nella maggior parte dopo la bonifica del lago, effettuata tra il I e il II sec. d.C. La struttura dei vici, invece, è rappresentata da piccoli abitati sparsi collegati in entità amministrative di tipo federale, non accorpati in nuclei urbani consistenti. In una prima fase di transizione i centri fortificati di altura (gli oppida o castella o ocres) convivono con questo nuovo modello insediamentale, ma lentamen-te i vici sostituiranno gli oppida. Un forte impulso al cambiamento viene sicuramente determinato dalla presenza dei Romani che, non diversamente da ciò che accade in altre zone dell’Impero, cercarono di sta-bilire con le popolazioni locali un rapporto pacifico, concedendo una certa autonomia interna, agevolando forme urbane di diversa entità e di diverso significato politico.

Molto interessante come punto di passaggio tra l’età del Ferro, col suo modello insediativo prevalen-temente orientato ai siti d’altura e l’età romana, in cui il ventaglio delle scelte insediamentali si moltiplica e la piana viene, sebbene in piccola parte, rioccupata, è il periodo cosiddetto italico-romano, che mostra una situazione molto simile a quella dell’ultima fase del Ferro (Arcaismo). Mentre i siti fondati nell’Arcaismo erano al 74% sui rilievi oltre i 720 m s.l.m. e solo al 13% sulla piana, quelli fondati in questo momento sono ubicati nel 56% dei casi sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m s.l.m. e nel 31% sulla piana. Oltre a quelli di nuova fondazione, i siti posti sulla fascia dei

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rilievi oltre i 720 m s.l.m. in parte riutilizzarono alcu-ni ocres impiantandovi le aree cultuali sull’acropoli e situando il centro dell’abitato alla base (cfr. vicus di Cerchio in loc. S. Monica-Li Cantoni) ed in parte destinarono i vecchi abitati ad uso funerario, come documentato dai ritrovamenti di sepolture nei centri fortificati di Aielli, di Mesula e Arciprete ad Ortuc-chio, Colle S. Angelo di Lecce dei Marsi o lungo la valle Solegara e la conca di Amplero presso Colle-longo. Dal punto di vista strategico, la scelta di rilie-vi ha il vantaggio di offrire un’ottima visibilità della piana e il controllo delle colline circostanti. Dal punto di vista economico, si mantiene la vocazione spicca-tamente agro-pastorale di queste popolazioni che si basava su un’agricoltura di sussistenza e sull’alleva-mento del bestiame. I Romani incentivarono questo tipo di economia anche per ragioni di stabilità sociale e culturale, poiché legava saldamente al proprio terri-torio e alle tradizioni il ceto di piccoli e medi produt-tori. La posizione fisiografica dei vici è stata correlata con quella delle aree cultuali in quanto strettamente legate agli abitati inglobati nelle strutture degli an-tichi ocres (come summenzionato) o, in alcuni casi, situati al di fuori degli abitati, costituendo un punto di riferimento per più vici posti nelle vicinanze. In man-canza di centri urbani ben definiti da infrastrutture po-litiche e amministrative, i santuari rappresentavano il punto centrale di aggregazione non solo religiosa ma anche economico-sociale. Nonostante la dispersio-ne insediativa, la fitta rete di strade documentata per quest’epoca non si limitava a porre in comunicazione tra loro gli insediamenti dispersi nella conca fucense, ma li collegava anche alla Campania e all’Etruria. Il ritrovamento, nella maggior parte delle aree cultuali, di depositi votivi con monete appartenenti a zecche

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campane e magno-greche con emissioni a partire dal IV sec. a.C. testimonia la vivacità di contatti tra il ter-ritorio in questione e altre aree anche geograficamen-te lontane.

La deduzione della colonia di Alba Fucens nel 303 a.C. e la creazione dei municipia di Marruvium e di Anxa comportò una poderosa riorganizzazione del ter-ritorio fucense. I siti menzionati non vengono creati ex novo: Alba Fucens risulta frequentata sin dall’età eneolitica; Anxa esisteva già dall’età del Ferro e in epoca italico-romana; Marruvium, che era occupato da un insediamento dell’età del bronzo, viene consi-derato dagli studiosi uno spostamento in pianura del villaggio fortificato di Rocca Vecchia di Pescina. Nel-la pianificazione urbanistica voluta dai Romani que-sti centri vengono scelti innanzitutto come avamposti militari lungo le più importanti traiettorie di comuni-cazione extraregionale: Alba Fucens era situata tra il tratto terminale della Valle del Liri e la Valle del Salto e Marruvium diventò il nodo obbligato di transito per i centri posti ad oriente del Fucino. Anxa-Angitia, già importante punto di riferimento cultuale per le popola-zioni locali, vide consolidato questo ruolo e fu elevato al rango di ‘città’. Il sito si distinse anche per essere un luogo produttivo, come testimonia il ritrovamento di fornaci già attive sin dalla fine del IV sec. a.C., e di traffico lacustre, come attestato dalla presenza di strut-ture portuali databili all’età repubblicana.

Per il periodo che va dal III sec. a.C. fino all’epo-ca adrianea (II sec. d.C., periodo della perfetta fun-zionalità dell’emissario) è difficile stabilire quanto le oscillazioni del livello del lago abbiano condizionato la disposizione fisiografica dei siti perilacustri. Cer-tamente l’esistenza di tre porti, rispettivamente nel territorio di Angitia, di Marruvio e di Ortucchio, in

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uso prima della bonifica parziale del lago avvenuta tra il I ed il II sec. d.C., indica che il lago in quel punto fosse sufficientemente profondo da essere navigabile. Inoltre, soffermandosi sulla disposizione degli abitati e delle aree cultuali situate a ridosso della piana, è ragionevole pensare che vi fosse un’originaria via di collegamento circumlacustre, poi sistemata definiti-vamente dai Romani con il distaccamento della Via Valeria circonfucense. La presenza della strada può essere un indizio che le oscillazioni del lago in quel periodo non influenzavano la disposizione degli abi-tati e delle aree cultuali disposte in prossimità della piana. In base alle evidenze archeologiche, per il pe-riodo italico-romano si è ipotizzato che la linea di riva si attestasse intorno alla quota di 660 m s.l.m., come sembrerebbero dimostrare i siti disposti sulla piana compresi tra le quote 661 e 725 m s.l.m. e le strutture portuali di Angitia, comprese tra le quote 658-659 m s.l.m. Inoltre, in epoca repubblicana il lago deve aver avuto delle oscillazioni in positivo, come ha dimo-strato il recente ritrovamento di alcuni canali antichi di cui uno pre-romano, alloggiato su sedimenti sab-biosi misti a ceramica appenninica e colmato da limi misti a ceramica di epoca repubblicana. Tuttavia, per l’intero periodo romano non sembra che vi siano state forti oscillazioni del livello lacustre, data l’assenza di sedimenti lacustri sulla base dei versanti e la presenza di depositi detritico-colluviali databili tra il II ed il III sec. d.C. Per quanto concerne lo studio del polline fos-sile del lago del Fucino emerge che, a partire dall’età del Ferro fino all’epoca Romana, il cambio climatico in senso umido ebbe come conseguenza l’espansione della copertura vegetale. Si registra, inoltre, la colti-vazione di varie specie di frumento che attesta una tendenza alla diversificazione dei coltivi.

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Al sistema italico costituito dalla successione op-pidum - vicus - santuario si affianca l’impianto di villae e fundi, senza che vi sia l’obliterazione della tipologia insediativa precedente, a partire dalla prima età repubblicana. Questi nuovi insediamenti vengo-no impiantati prevalentemente sulla piana e in zone semipianeggianti. Le villae rappresentano un nuovo elemento di sfruttamento del territorio, determinando il passaggio da un’agricoltura di sussistenza ad una destinata a colture intensive quali cereali, vite e oli-vo. La bonifica del lago e la divisione agraria che ne seguì, a giudicare dalle fonti storiche, ebbe una forte ricaduta economica, laddove l’acquisizione di ampi terreni di fondovalle a spese del lago rappresentò per le popolazioni locali una preziosa risorsa. La distri-buzione in classi fisiografiche degli insediamenti ri-salenti alla fase storica ora in esame è più o meno omogenea ovunque; senz’altro per la prima volta, in questo periodo, il ventaglio delle scelte insediative si fa molto più vario ed articolato, per ragioni prevalen-temente ‘culturali’ in senso lato. Oltre al 37% di inse-diamenti posti sulla piana, quelli ubicati in posizione periferica rispetto ad essa risultano per il 17% in po-sizione dominante sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m s.l.m., per il 16% su questa stessa fascia montana -ma non in posizioni particolarmente adatte al controllo del territorio- e per il 5% in prossimità di corso d’ac-qua. Su conoide nella fascia altimetrica tra i 670 e i 720 m s.l.m. è ubicato l’11% degli insediamenti e su versante acclive il 5%. I siti compresi in quest’ultima classe fisiografica sono per lo più, come in tutte le fasi storiche precedenti, grotte, che venivano riutilizzate a scopo culturale o come ripari durante la transuman-za. Le villae rusticae diventano delle grandi aziende a colture specializzate arboree (uliveti, frutteti e vi-

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gneti) e cerealicole (grano). Contemporaneamente si intensifica anche l’uso di terra a pascolo, vista anche la disponibilità di una fitta rete tratturale adatta alla transumanza.

Le nuove terre recuperate vengono suddivise tra i tre centri più importanti: i territori di Alba Fucens, Marruvium e Lucus Angitiae. Dal Liber Coloniarum (I, p. 244, 13 L; Nomina agri mensorum; II, p. 253,5 L) è noto che la centuriazione di Alba fu realizzata nel 149 d.C. come diretta conseguenza della bonifi-ca del lago ad opera di Adriano, anche se gli studio-si sono concordi nel ritenere che doveva esistere già una partizione del territorio risalente all’epoca del primo impianto della colonia. La suddivisione è per assi paralleli (i decumani), tagliati saltuariamente da alcuni limites (i cardini) disposti perpendicolarmente, che dividono il territorio in particelle rettangolari per strigatio e scamnatio. Questo sistema sembra ascri-vibile alla fase più antica della colonia. Tuttavia, la sopravvivenza nella topografia attuale degli antichi limites della centuriazione si pone in modo problema-tico. Da una parte, infatti, l’analisi autoptica effettua-ta sulle fotografie aeree (volo del 1954) non permette la ricostruzione di un quadro attendibile e, dall’altra, è stato verificato che alcune tracce ritenute dagli stu-diosi residui degli antichi limiti centuriali in realtà sono resti delle faglie del terremoto del 1915. Infine, bisogna considerare che le forti oscillazioni del lago documentate dopo il periodo medievale hanno pro-vocato un grande accumulo di limi e di detriti che hanno sicuramente obliterato gran parte delle tracce della divisione agraria.

Se si escludono i siti in continuità abitativa con le epoche precedenti e si analizza la distribuzione dei soli siti di nuova fondazione si evince con maggiore

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chiarezza la scelta per un modello preferenzialmente incentrato sui rilievi (36% degli insediamenti), oltre che sulla fascia pianeggiante tra i 670 e i 720 m s.l.m. (27%) e sulla piana (25%). Caratteristico dell’area del Fucino, rispetto al territorio abruzzese, è l’utilizzo massiccio di strutture in opera poligonale quali so-struzioni di pendii, di declivi e di rilievi in prossimità di corsi d’acqua; questi terrazzi si sovrapponevano ad elementi geomorfologici naturali ed erano utilizzati sia per evitare che fenomeni di erosione dei pendii più scoscesi potessero danneggiare gli abitati, le aree cultuali o le colture, sia all’interno dei siti per opere di urbanizzazione come cinte murarie, edifici pubbli-ci, strade. Queste opere costruttive interessano anche alcuni siti posti sulla piana come risulta per Angitia (quota 850), per il vicus a Luco dei Marsi in loc. Ag-guacchiata (quota 670), per il santuario di S. Manno/ Fonte del Paradiso (quota 661) e per il vicus di Arci-prete (quota 669) ad Ortucchio. Si può ipotizzare che gli abitati avessero bisogno di sostruzioni oltre che per evitare imprevedibili cedimenti del terreno anche per consolidare il terreno paludoso su cui erano col-locati. Significativa, a tal proposito, la presenza di siti terrazzati posti in prossimità di corso d’acqua sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m s.l.m.

Si è già messo in evidenza che la fitta rete di trat-turi costruiti in epoca pre-romana è collegata al mo-vimento di uomini e di animali ed ai contatti con le popolazioni limitrofe. Tra le ‘vie’ di comunicazione, nel periodo repubblicano vi sono da menzionare quel-le acquatiche che si dipartivano dai porti di Angitia, Marruvium e Ortucchio. I tre porti mettevano in con-tatto la sponda sud-occidentale, quella nord-orientale e quella sud-orientale. Si conosce, inoltre, anche il tipo di imbarcazioni utilizzato, grazie ad un’analisi

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dettagliata effettuata sul rilievo storico dei Torlonia che ritrae la città e i dintorni di Marruvio. In piena età imperiale, l’arteria più importante era costituita dal-la via Tiburtina Valeria, che inizialmente metteva in comunicazione la madrepatria con le colonie di Car-seoli e di Alba Fucens, giungendo sin dalla prima età repubblicana fino a Corfinio. Probabilmente parte del tracciato originario ricalcava un percorso più antico che, seguendo le direttrici naturali attraverso la Valle del Salto, giungeva sulla collina di Alba Fucens per poi discendere in direzione SE verso l’attuale SS Ti-burtina Valeria. La via, immediatamente dopo il Rio S. Potito, presso Fonte della Battaglia, si biforcava in un secondo tracciato, definito via Valeria Circonfu-cense, che raggiungeva Marruvio e da lì proseguiva circondando il lago (in quel periodo non ancora pro-sciugato). Da Alba Fucens partiva un’altra importante arteria che, passando da Lucus Angitiae, sulla sponda occidentale e meridionale del lago, raggiungeva la Valle del Sangro. Anche il municipio di Marruvium ebbe un ruolo di primo piano per i traffici commer-ciali, possedendo una rete viaria che la collegava con tutti i centri del Fucino.

La crisi generalizzata che investe tutto l’Impero, a partire dal III sec. d.C., in parte si riflette anche nell’area del Fucino. In epoca tardo-antica si assi-ste ad alcuni interventi sul territorio sia per quanto riguarda le infrastrutture, sia per quanto concerne l’arredo urbano. Durante il IV sec. d.C., infatti, sono documentati restauri alla via Valeria ad opera dell’im-peratore Magnenzio. La via Tiburtina Valeria, insie-me con la via Claudia Valeria, sua prosecuzione, era considerata uno dei principali sbocchi sull’Adriatico e quindi verso l’Illiria, sede della nuova corte impe-riale. La mancata manutenzione dell’emissario ro-

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mano, irrimediabilmente danneggiato dal terremoto del 346 d.C. e l’instaurarsi di un clima freddo e pio-voso causarono la risalita del lago. Nonostante tutto ciò una continuità di vita è testimoniata per gli inse-diamenti del Fucino. I restauri di alcune strutture di Alba Fucens danneggiate dal terremoto, la presenza di commerci testimoniati dalla circolazione monetale e dalle ceramiche evidenziano che non vi sia stato un abbandono totale dell’area, dove probabilmente però alcuni centri urbani si svuotano favorendo la ripresa del sistema oppido-vicanico.

Quanto alla fase storica collocabile tra la fine dell’Impero e gli inizi dell’epoca medievale, la man-canza di fonti documentarie e di scavi archeologici sistematici per il periodo che va dal VI fino all’VIII sec. d.C. ne rende difficile la comprensione delle di-namiche insediative. Notizie frammentarie informa-no che nella seconda metà del VI sec. d.C. la Marsica, conquistata dai Longobardi, diviene gastaldato dipen-dente dal duca di Spoleto. Marruvium, nei documenti altomedievali, viene denominata Civitas Marsicana, diventa centro fiscale e sede vescovile. Alba Fucens, dopo i restauri del terremoto del 346 d.C, ritorna ad essere un centro urbano importante, grazie alla sua posizione strategica. Gli unici dati certi per l’ubi-cazione e l’identificazione degli insediamenti sono quelli riferibili all’impianto delle residenze comitali e alle aree di culto, delle quali si tramandano in linea di massima le date di fondazione. Per gli abitati, in-vece, non possedendo datazioni precise, si è preferita la scansione di massimo periodo (VIII-XI sec. d.C.). Per comodità di esposizione, il periodo medievale è stato suddiviso in altri sottoperiodi: (1) Medioevo (genericamente), dall’VIII all’XI sec. d.C.; (2) Alto-medioevo 1, dall’VIII al IX sec. d.C.; (3) Altomedio-

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evo 2, dal IX al X sec. d.C.; (4) Altomedioevo 3, dal X all’XI sec. d.C.

Nel periodo Medievale il modello insediamentale individuato per l’età romana rimane pressoché stabi-le, poiché a fronte del 32% dei siti sulla piana d’età romana risulta in questa posizione il 25% degli inse-diamenti medievali e al 68% dei siti romani al di fuori di quest’area corrisponde, per l’epoca successiva, il 75%. Gran parte dei siti di questa fase sorge in cor-rispondenza di insediamenti abitati nella precedente fase storica. Tale sovrapposizione si può spiegare sia per l’esigenza di rimanere in posizioni prossimali alle principali vie di comunicazione, sia per ragioni ambientali derivate dall’innalzamento del livello del lago. Infatti, dopo il IV e fino ad oltre il IX sec. d.C, il lago risale rispetto all’epoca romana, pur se con oscillazioni negative intermedie (ad esempio, nel X secolo). Dalla seconda metà dell’VIII sec. d.C. il ter-ritorio del Fucino viene inglobato nei possedimenti dei tre grandi monasteri benedittini dell’Italia centro-meridionale: Farfa, Montecassino e S. Vincenzo al Volturno. La Tiburtina Valeria, la via Circonfucense e tutti gli altri assi viari anche secondari di epoca ro-mana sopravvivono per tutto il periodo Medievale. È evidente una grande continuità tra gli insediamen-ti di epoca romana e le strutture ecclesiastiche, così suddivise in base alla loro funzione ed importanza: il monastero, la cella -che è il piccolo insediamento a carattere rurale all’interno di un podere con funzione di gestione del patrimonio fondiario dei monasteri-, l’ecclesia, che rappresenta il luogo di culto vero e proprio e la curtis, che è l’azienda agricola di pro-prietà esclusiva dei monasteri.

A partire dal X sec. d.C. il potere ecclesiastico vie-ne ridimensionato a favore del potere laico: l’afferma-

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zione di importanti famiglie comitali cambia l’assetto insediativo intorno al lago, dove vengono scelti siti in posizione strategica in prossimità dei principali nodi viari. Dall’esame dei dati in nostro possesso, infatti, appare chiaro come nel X-XI si verificò un picco nel-la distribuzione degli insediamenti sulla piana, deci-samente in controtendenza rispetto ad un’ubicazione preferenziale sulla superficie sospesa sulla piana tra 670 e 720 m s.l.m. e sui rilievi oltre i 720 m s.l.m. documentata per i secoli VIII-IX d.C. Nella scansio-ne di massimo periodo, comunque, la distribuzione fisiografica degli insediamenti sembra piuttosto varia ed omogenea. Il 46% di questi è ubicato sulla fascia dei rilievi oltre i 720 m s.l.m., in gran parte in posizio-ne dominante secondo la tendenza generale di questa fase storica, e il 26% è ubicato sulla piana. Quest’ulti-mo dato, tuttavia, non è particolarmente significativo, poiché non solo quasi tutti gli insediamenti posti in questa fascia sono stati fondati contemporaneamente tra X e XI secolo, ma le notizie sui siti frequentati tra VI e VIII secolo sono pressoché completamente assenti. Infine, l’8% degli insediamenti medievali si colloca su falde e coni detritici di versante. Dal punto di vista climatico, la presenza del lago sembra aver mitigato notevolmente il clima, poiché nelle fonti è frequente la menzione di vigneti e di uliveti coltivati nei monasteri. Le fasce montuose dovevano essere fit-tamente coperte da boschi, sfruttati per il legname, la raccolta di frutti stagionali e la possibilità di allevare suini. Importante per l’epoca è lo sfruttamento delle risorse ittiche, attestato anche dalle fonti storiche.

Dopo la conquista normanna, avvenuta nel XII sec. d.C., aumenta il numero di castra sul territorio, che viene suddiviso tra le contee di Alba e Celano. I centri fortificati sulle alture divennero luoghi di pote-

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re militare e civile mentre gli abitati si concentrarono in borghi fortificati sparsi intorno al lago. Tale tipolo-gia insediativa sopravvive ancora oggi, nonostante il definitivo prosciugamento del lago avvenuta alla fine dell’800 ad opera dei Torlonia.

Concludendo, l’analisi geoarcheologica che è stata condotta ha dimostrato quanto profondamente le di-namiche ‘ambientali’ in senso lato e culturali ed uma-ne siano intrecciate. Quanto peculiarità culturali delle società possano esser state condizionate e, a volte, provocate dai fattori ambientali e quanto le scelte e le necessità umane abbiano, in altri casi, modificato, in parte, l’ambiente circostante. Il caso del Fucino ne è stato un esempio molto efficace, essendo un’area decisamente varia e complessa dal punto di vista geomorfologico, climatico ed ambientale, occupata dall’uomo a partire dalla preistoria senza soluzione di continuità.

ConclusioniFiglia dello sforzo di sintesi tanto ingloriosamente qui rias-

sunto, oltre al suo risultato confluito nella tesi, è stata una sorta di oggetto-feticcio che accompagnò, per tutta la sua durata, il no-stro lavoro. Infatti nel regno di Silvia, dove ogni fotocopia, ogni articolo, ogni pianta e ogni bustina di cocci degli scavi in corso o in fase di studio trovava l’armonia perfetta della disposizione che lei aveva dato loro, per molti mesi tra il 2001 e il 2002 ha trovato posto, tra cataste di ogni materiale cartaceo immaginabile, una sorta di lenzuolo bianco sul quale ci affannavamo ad inserire variopinti ‘pallocchi’ -come li chiamava lei-, necessari a ricostru-ire la mappatura geomorfologica del bacino del Fucino e dedurre trend di popolamento antichi. Quella carta, più volte lacerata e ripetutamente riassemblata con lo scotch, macchiata in più punti da mezzelune scure, ricordo dell’avvicendamento delle innume-

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revoli tazzine di caffè che vi furono appoggiate, resa ancor più colta dalle osservazioni e dalle note in calce che ne istoriavano la cornice, racconta di sere e giorni, e notti, in cui il nostro stu-dio si alternava al racconto delle nostre aspirazioni, gioie, paure, inquietudini, per gelarsi per lo sbigottimento della scoperta della malattia e, dopo il silenzio, lasciare spazio alla battaglia contro di essa.

Nella sua più grande battaglia Silvia non si è mai arresa: ha combattuto silenziosamente e pudicamente ogni giorno, mentre continuava a nutrire e a seguire la passione per il suo lavoro, a visitare i luoghi principali dell’archeologia mondiale con gioia e soddisfazione, a lavorare alla pubblicazione dei suoi scavi e ad avere un animo accogliente. Ora è come sospesa nel luogo della memoria, nel suono ovattato di un acquario, sospeso nel tempo e incessantemente in fluire. Da lì, attutita dalla massa acquea, ri-suona la sua voce dolce, il suo sguardo accogliente, le sue risate schiette; senza fare troppo rumore, senza suscitare clamori, ma col contegno pudico di sempre sta, accoccolata in quella notte dai suoni ottusi, rischiarata, finché saremo in vita a fare da segnacolo del suo passaggio, dal bagliore del nostro ricordo e dal fulgore della nostra riconoscenza verso di lei.

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VALERIA SILVIA MELLACE NEGLI SCAVIDEL TEMPLUM PACIS

(23 OTTOBRE 1998 – 31 DICEMBRE 2000)MArGheritA cApponi

Ho conosciuto Silvia durante la campagna di scavo nel Tem-plum Pacis o Foro della Pace, a Roma. Esattamente in occasione della campagna di scavo iniziata il 21 aprile 1998 e conclusa-si ufficialmente il 31 dicembre del 2000. Dalle fonti antiche il monumento è noto come Aedes, ma soprattutto come Templum Pacis, e solo in età tardo-antica Forum e tali denominazioni ne riflettono, non a caso, la diversità planimetrica, tipologica e fun-zionale rispetto agli altri Fori e ne sottolineano il carattere sacro. Il Templum Pacis è stato inaugurato da Vespasiano nel 75 d.C. in seguito alla vittoria sui Giudei riportata nel 71 d.C. e dedicato alla Pax, personificazione della Pace che l’imperatore si augurava regnasse in tutto l’impero. Pur riproducendo nelle grandi linee le architetture delle piazze forensi, si distingue per un serie di parti-colarità che vedremo in seguito, alla definizione delle quali anche Silvia, con il suo lavoro, ha contribuito non poco.

Lo scavo del Templum Pacis è stato condotto nell’ambito del grande progetto di scavo, di studio e di musealizzazione dei Fori Im-periali, resosi indispensabile in quanto mancava un’edizione com-plessiva degli scavi, delle demolizioni e dei ritrovamenti operati tra il 1929 e il 1932, in occasione dell’apertura di quella che allora veni-va chiamata via dell’Impero e che adesso è via dei Fori Imperiali.

Il progetto è stato inserito dalla Sovraintendenza ai Beni Cul-turali del Comune di Roma nel piano di interventi previsti per

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il Giubileo del 2000 ed era articolato per fasi successive di sca-vo, musealizzazione e creazione di nuovi percorsi all’interno dei Fori stessi. Il progetto è stato coordinato da Silvana Rizzo sotto la direzione scientifica di Eugenio La Rocca, mentre lo scavo è stato diretto da Roberto Meneghini e da Riccardo Santangeli Va-lenzani. Silvana Rizzo ha definito il nostro “Il più importante ed impegnativo scavo urbano mai realizzato in Italia” per il quale sono stati in totale spesi 19 miliardi di lire. Per la porzione del Templum Pacis il progetto prevedeva lo scavo di 5550 mq, del quale all’epoca erano in luce solo 800 mq, rispetto ad un’esten-sione totale di 24000 mq. Il progetto prevedeva anche la nuova musealizzazione dei Mercati Traianei.

La planimetria del Templum Pacis fino al momento degli sca-vi era nota solo attraverso quattro frammenti della Forma Urbis Severiana e da pochi resti murari visibili nella Torre dei Conti e nell’area della chiesa dei SS. Cosma e Damiano. Si riteneva che la piazza, circondata su tre lati da portici e sul quarto lato, al confine con il Foro di Nerva, da un ordine di colonne aggettanti, fosse occupata da sei strutture parallele interpretate tradizional-mente come aiuole. Gli scavi giubilari hanno in parte confermato la planimetria nota della piazza, ma hanno anche rivelato diversi dati importanti. Prima di tutto è emerso che le sei strutture in re-altà erano euripi, cioè canali su cui scorreva l’acqua che veniva raccolta da canalette marmoree che fiancheggiavano le strutture. Inoltre si è scoperto che la piazza era sistemata a giardino e che l’unica parte pavimentata in lastre di marmo bianco era una fascia a ridosso del muro di confine con il Foro di Nerva. Questo giar-dino monumentale era adornato da rose galliche piantate lungo i lati delle vasche all’interno di vasetti posti a circa un metro l’uno dall’altro. L’intero complesso, come era noto dalle fonti conforta-te anche dai nuovi dati archeologici, ospitava un’importantissima collezione di opere d’arte greca, e rappresentava uno straordina-rio esempio di ‘museo’ all’aperto, caratteristica che lo distingue-va dagli altri Fori, luoghi deputati soprattutto all’amministrazione della giustizia e all’attività politica e religiosa.

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Con Silvia ed un folto gruppo di amici e di colleghi abbiamo lavorato alle dipendenze della Società Arkaia di Torino che si è aggiudicata la gara d’appalto per l’esecuzione dei lavori di scavo. Gli archeologi sono stati affiancati nelle operazioni di rimozione della terra di risulta delle scavo e nei lavori propriamente edili che uno scavo urbano della portata del nostro comporta, dall’impresa Edilatellana di Caserta.

Silvia ha cominciato a lavorare nel cantiere del Templum Pacis il 23 ottobre 1998 ed ha continuato fino al 31 dicembre del 2000. La sua esperienza nel Templum Pacis è stata la sua prima espe-rienza lavorativa dopo il periodo di formazione. All’inizio l’im-patto è stato difficile, perché il nostro lavoro era molto concitato e a volte faticoso, soprattutto per le condizioni atmosferiche. I lavori sono durati più di un anno, perciò siamo passati dal freddo più intenso (addirittura un giorno è anche nevicato, e ricordo la reazione di sorpresa di Silvia) al caldo torrido dell’estate. Silvia affrontava il lavoro sempre con gioia e con passione. Il cantiere di scavo era diviso in due aree e Silvia ha lavorato in tutte e due, sempre curiosa, attenta e disponibile. Come ho ricordato prima, nello scavo siamo stati affiancati dal personale dell’Edilatellana che svolgeva le attività più faticose. Ed in questa sede vorrei ri-cordare anche uno degli operai, Michele Santillo, ottimo amico di Silvia che ci ha lasciato anche lui, nel 2001. Spesso lavorava-no insieme, con grande costanza ed impegno, infaticabili, sempre sorridenti. Per superare la fatica Silvia talvolta faceva qualche commento scherzoso perché tra le altre doti aveva anche un for-midabile senso dell’umorismo.

Silvia ha partecipato alla scoperta di molte evidenze archeolo-giche importanti contribuendo alla definizione dell’antico assetto dell’area oggetto delle indagini e alla ricostruzione delle vicende subite dal monumento nel tempo. Ricordo alcuni frammenti della Forma Urbis, la grande pianta marmorea di Roma, trovati riutiliz-zati in parte in strutture medievali, in parte in strati di accumulo. Mi sovviene la sorpresa di Silvia e nostra, quando pulendo i resti della gradinata del portico emersa nell’area sud-occidentale, ha

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cominciato ad intravedere la figura di un auriga incisa rozzamen-te da un qualche antico bighellone su uno dei gradini, con tanto di berretto e corpetto con le stringhe. Ricordo la pazienza con la quale Silvia ha scavato i resti degli scheletri pertinenti alla necro-poli che si è insediata nel VI sec. d.C. nella zona del Templum Pa-cis più vicina alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano, ritrovamento di grande importanza perché è la prima testimonianza dell’esten-sione delle sepolture in uno spazio pubblico urbano quale è l’area dei Fori Imperiali. Silvia ha contribuito inoltre al ritrovamento di pregevoli opere d’arte quali sono quelle pertinenti al Templum Pacis che tutti possiamo ammirare nel Museo dei Fori Imperiali, inaugurato il mese di ottobre 2008, a compimento dell’ambizioso progetto cui ho fatto cenno sopra e brillantemente portato a termi-ne dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma. In uno degli ambienti che si affacciano sulla Grande Aula dei Mercati di Traiano si può ammirare il busto-ritratto in bronzo del filosofo Crisippo, vissuto tra il 281 e il 208 o 204 a.C., datato tra il 75 e l’80 d.C. che Silvia ha contribuito a trovare in uno strato di età medievale sul pavimento del portico che circondava la piazza. Nello stresso ambiente si trovano i resti di un labrum, una grande vasca di porfido rosso dal diametro di 3,5 m, in parte ricostruita da 52 frammenti, individuati tra gli altri anche da Silvia pulendo un muretto altomedievale ancora in situ. Scavando nella zona di confine tra il Templum Pacis e il Foro di Nerva, Silvia ha portato alla luce i frammenti marmorei ora visibili in un altro ambiente adiacente alla Grande Aula dei Mercati di Traiano, appartenenti ad un rilievo che rappresentava una provincia sottomessa e che originariamente adornava il lato anteriore dell’attico del Foro di Nerva, in corrispondenza degli intercolumni, in una posizione analoga a quella della figura tradizionalmente interpretata come Minerva, visibile presso le cosiddette ‘Colonnacce’.

Grazie alla sua esperienza di epigrafista Silvia, insieme alla collega e amica Marzia Piccininno, ha compilato un elenco delle iscrizioni e dei bolli rilevanti rinvenuti nell’aera di scavo, contri-buendo ad una rapida e precisa datazione di alcune delle strutture

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e degli strati ad esse correlati. Tra le altre ha schedato le iscrizioni rinvenute su alcuni frammenti di basi che dovevano sostenere le statue relative all’opera di tre artisti greci di nota fama, come Par-tenocle, Prassitele e Cefisodoto, attualmente anch’esse esposte nel Museo dei Fori Imperiali. La loro schedatura e stata e sarà un punto di partenza per l’edizione generale degli scavi in corso di preparazione in un volume curato dall’Ufficio Fori Imperiali della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma.

La campagna di scavo a cui noi abbiamo partecipato non è sta-ta l’ultima, perché le indagini archeologiche sono proseguite fino agli anni 2004-2008 ed è in corso di elaborazione la definitiva sistemazione dell’intera aera dei Fori Imperiali per un’adeguata fruizione da parte del pubblico.

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RICERCHE NEL XV MUNICIPIO, ROMAlAurA ciAnfriGliA

La mia collaborazione con Silvia è cominciata nel 1999 con l’apertura del cantiere di via Ricci Curbastro, quartiere portuense, dove sono stati eseguiti sondaggi archeologici preventivi per la realizzazione di box interrati. Il lavoro in quella occasione era stato affidato alla cooperativa Gea, alla quale Silvia faceva riferi-mento. La professionalità ma anche la simpatia, e possiamo dire il feeling che sono nati da questo primo incontro hanno portato a proseguire questa collaborazione anche su altri cantieri; collabo-razione che è andata oltre il semplice rapporto di lavoro. E’ stato in questa occasione che Silvia è entrata a far parte della micro comunità archeologica che si occupa del XV municipio.

A via Ricci Curbastro gli sbancamenti erano estesi ed interes-savano quasi tutta la strada; vi era un gran movimento di mezzi, ruspe e camion, ma Silvia sembrava essere perfettamente a suo agio (Fig. 1). Quando io e Marina Clementini passavamo per i nostri sopralluoghi, la vedevamo puntualmente emergere in mez-zo al caos con il sorriso sulle labbra ed era sempre un piacere in-contrarla non solo per sentire come andava lo scavo ma anche per scambiare quattro chiacchiere. Durante gli sterri non sono emerse strutture archeologiche ma solo i resti delle antiche cave di tufo di Monteverde, con il quale i Romani hanno costruito gran parte della città. A contatto con le stratificazione geologiche, spinta dal desiderio di nuove conoscenze è iniziata la passione di Silvia per la geologia, cosa che le ha fatto intraprendere il cammino della formazione geoarcheologica. Ai geologi che facevano con me i

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sopralluoghi domandava, guardando i vari colori degli strati di tufo: “Ma qual’è il tufo di Monteverde?”.

Nel 2001-2002 nel corso dei sondaggi preventivi realizzati in località Vigna Pia, dove si conserva un lembo residuo della gran-de necropoli di via Portuense (Figg. 2 e 3), i rapporti di stima e simpatia con Silvia si sono rinsaldati; in più sul cantiere era arri-vata Maria Cristina Grossi. Da quel momento abbiamo comincia-

Fig. 1 - Via Ricci Curba-stro, resti di cave di tufo.

Fig. 2 - Vigna Pia, colombario.

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to a vederle sempre insieme, dove c’era Silvia c’era sempre anche Maria Cristina. Anche a Vigna Pia era in ballo la costruzione di box interrati, ma a differenza di Via Ricci Curbastro i resti arche-ologici erano già stati individuati. Lo scavo qui è andato avanti in diverse campagne (per una diffusa descrizione dello scavo si ri-manda all’intervento di M.C. Grossi in questo volume), ma quel-lo che voglio qui aggiungere è che grazie allo sforzo del nostro gruppo di lavoro e al coinvolgimento di vari enti, siamo riusciti a restaurare e a musealizzare il sepolcreto. Una prima notizia dello scavo è stata pubblicata nel Bollettino Comunale e sul catalogo della mostra Memorie dal Sottosuolo1, in cui sono stati presentati alcuni dei materiali rinvenuti ed in particolare alcune epigrafi del-le quali Silvia si era occupata2.

1 Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980 /2006, a cura di M. A. Tomei, Roma 2006.

2 Attualmente è in corso di pubblicazione un libro sulla necropoli di Vigna Pia, nel quale stanno confluendo tutti gli studi relativi all’area, dalla topografia alla geologia, dall’antropologia ai restauri, oltre a quelli più strettamente ar-cheologici.

Fig. 3 - Vigna Pia, sepolcro degli Atilii.

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Ma la nostra collaborazione sul territorio nel frattempo con-tinuava. Nel 2001 si è aperto il cantiere della Muratella, tra via della Magliana e il GRA, dove sono venute alla luce una tomba di età eneolitica e un sepolcreto di età arcaica (Fig. 4). Lo studio dei ritrovamenti archeologici è stato completato con l’analisi dei livelli geologici. Questo ha portato ad acquisire una visione più ampia e una migliore comprensione di tutto l’insediamento; i ri-sultati di questo lavoro sono stati presentati in un poster al conve-gno di Preistoria e Protostoria del novembre 2008.

Nel 2005, nel cantiere di Via Idrovore della Magliana (a tal proposito si rimanda all’intervento di R. Matteucci, V.S. Mellace, C. Rosa in questo stesso volume), dove era prevista la realizzazio-ne di un grande centro commerciale, è stato portato avanti un si-stema diverso di analisi preventive non più basato esclusivamente sulle consuete trincee. Queste ultime, infatti, sono state precedute da una campagna di carotaggi geognostici la cui lettura andava effettuata da una figura esperta in geoarcheologia. Tale lavoro, eseguito con estrema perizia da Silvia, anche poi in collaborazio-ne con Carlo Rosa, ha permesso di programmare i sondaggi nel terreno tramite trincee solo nei punti a più alta criticità. Proprio in questi punti sono venuti poi alla luce, infatti, alcune struttu-re romane: la prima probabilmente appartenuta a una villa di età

Fig. 4 - Loc. Mu-ratella, fianco della collina con tombe di età eneolitica e arcaica.

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repubblicana ed un’altra di età imperiale, ambedue non ancora studiate in maniera compiuta.

Come spesso accade nel nostro lavoro, i rapporti con i costrut-tori sono molto problematici: è molto difficile infatti far capire loro che devono ‘spendere’ per l’archeologia. Silvia ha assistito spesso alle riunioni che ci sono state per discutere dei lavori da eseguirsi su questo cantiere, riunioni non sempre troppo tranquil-le, ma la sua competenza mi è sempre stata di grande conforto e soprattutto la sua onestà intellettuale e professionale mi ha aiutato a raggiungere i risultati che qui possiamo presentare.

Grazie Silvia.

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GLI SCAVI DI VIGNA PIA E MURATELLA(2001-2002)

MAriA criStinA GroSSi

L’opportunità offerta in questa sede di parlare di Silvia in un ambito ben circoscritto quale è quello dell’archeologia, consente di soffermarmi su contenuti ben precisi da esprimere, che riguar-dano un aspetto così peculiare della sua formazione e della sua persona. Del resto, per me che non amo esternare le sensazioni più profonde e le reazioni più autentiche davanti agli eventi do-lorosi della vita, non è facile spiegare cosa comporta affrontare quotidianamente la mancanza di Silvia, dei suoi gesti, delle sue frasi e degli oggetti che erano il suo ‘io’ di contorno, di speciale definizione. E ciò soprattutto considerato che alcuni lavori iniziati con lei anche parecchi anni or sono hanno ancora un prosieguo, continuano la loro gestazione, necessitano di ritorni e revisioni, come spesso succede nel nostro campo, e mi ritrovo ad affrontar-li, con difficoltà soprattutto emotiva, da sola.

Devo ammettere che non ho raccolto negli anni molte foto-grafie che ci ritraggono insieme nel lavoro di cantiere, e questo è imputabile al fatto che le mie immagini con Silvia sono riferibili più che altro agli ambiti più vari della vita, dai nostri matrimo-ni e compleanni, alla vacanza a Capo Vaticano in Calabria, alla marcia della pace Perugia-Assisi, ai concerti serali in giro per la capitale.

Per me, che ho condiviso con Silvia la quotidianità e la con-cretezza di tutti i giorni, cosa che avviene con gli amici veri e non con gli occasionali compagni di viaggio, non si può prescindere

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dall’accarezzare con la mente senza riuscire ad esternare con faci-lità tutta una serie di episodi, di istantanee mai sbiadite che hanno tessuto ed arricchito per anni la nostra frequentazione. Il rischio è quello di perdersi in mille rivoli di frammenti disparati, ma il compianto conclamato non appartiene né a me né a Silvia, l’ami-ca con la quale le confidenze non si esaurivano, i piccoli dissapori si chiarivano, le gioie si condividevano.

Ho conosciuto Silvia all’inizio del 2001, durante la seconda campagna di scavo vero e proprio nell’area di Vigna Pia, fascia di necropoli lungo la via Portuense, individuata precedentemente nel corso di una serie di trincee e poi indagata a più tranche. Non posso considerare vero incontro la fugace visione per i corridoi di Epigrafia Latina all’Università, quando ci limitavamo a scambi di brevi appunti e di informazioni. L’incontro vero, che ci ha mes-se l’una accanto all’altra a condividere l’archeologia da campo, quella che tutte e due abbiamo sempre amato, lei forse anche più di me, è stato l’aver a che fare con Vigna Pia e con i suoi dati da raccordare, avendoci lavorato in tre anni, dal 1998 al 2000, tre gruppi diversi. Lei sul campo confidava molto in me, archeologa ‘carandiniana’, che si è fatta le ossa al Palatino, ma io ho impara-to molto, a mia volta, dalla sua pazienza certosina di studiosa di scritti lacunosi, da integrare, nel raccogliere dati e spunti da testi e tomi.

Era, inoltre, il periodo del patentino da guida turistica con il famigerato difficile orale da preparare in materie più disparate e con Silvia abbiamo iniziato a trascorrere le giornate a Vigna Pia a lavorare e i pomeriggi a studiare sugli appunti raccolti, in partico-lare sulla legislazione turistica, che ci spaventava per il ricorso ad una memoria non molto ferrea per entrambe. Condividere aiuta, le difficoltà sembrano meno accentuate se c’è qualcuno accanto che riesce a farcele vedere superabili e in questo Silvia è sem-pre riuscita a trasmettere una tranquillità a me estranea davanti a troppe cose da fare. Così, in questa prima fase del nostro lavorare insieme a Vigna Pia, tra chiacchiere e studio, ci siamo concentrate nello scavo dell’area posta tra i due settori principali, denominati

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A e B, e il risultato principale è stato quello di raccordare l’edifi-cio denominato successivamente di Atilia e il colombario utiliz-zato dalla fine del I fino al IV sec. d.C. con un’area di sepolture cosiddette più povere in fosse terragne, recinti semplici e tombe alla cappuccina con scheletri piuttosto ben conservati (Fig. 1).

Fig. 1 - Veduta generale del colombario.

A partire da qui ho percepito che lo scavo, inteso come attività di paziente ricerca e analisi, è stato sempre conforme alla perso-nalità di Silvia, volta in ogni caso all’inquadratura migliore per una foto, alla posizione migliore della lavagnetta e della freccia del nord o del metro nel disegno delle evidenze. Incurante del passare del tempo, non esistevano pause se non si terminava la scheda US, non si puliva una superficie completamente per la foto o non si rappresentava al meglio la posizione di un reperto in un disegno al dettaglio.

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Per questo, pur nascendo come epigrafista, Silvia non poteva che approdare nei vari cantieri, perché in questo per lei consisteva il vero mestiere dell’archeologo. E Vigna Pia e Muratella sono stati due veri campi di apprendimento e costante miglioramento. Nel primo caso, tornando a scavare gli edifici di Vigna Pia nel 2002, il lavoro, con tempi ristretti e risorse limitate dalla com-mittenza, è stato finalizzato a mettere a punto una serie di infor-mazioni, suffragate da dati epigrafici, dati stratigrafici e materiali, che hanno portato a pubblicare la necropoli sul Bollettino della Commissione Archeologica Comunale nel 2002 e a presentare l’intervento nel Convegno a Pola e sulla rivista Histria Antiqua nel 2004. Nel Bollettino è stata resa nota la pianta dell’intera area di scavo con la caratterizzazione delle creste murarie, i piani pavi-mentali a mosaico bianco e nero, le fosse in arcosolii e le nicchie con ollette per incinerati. Nel secondo intervento, il cui tema era la presenza di rituali nella necropoli, ci si è concentrate sull’iden-tificazione di costumi funerari, partendo dai dati materiali raccol-ti. Il compito di Silvia è stato principalmente quello di mettere in luce, attraverso le relazioni fornite dalle epigrafi, l’insieme dei riti riconoscibili nella necropoli. Sono emerse pertanto informazioni di rilievo riguardo i destinatari, i dedicanti, gli associati, e hanno preso forma e spessore strati e strutture, una volta capito che i principali fruitori della necropoli furono modesti schiavi e liberti. In particolare, il cosiddetto edificio Alfa è stato denominato il se-polcro degli Atilii, visto che ben tre iscrizioni attestano la presen-za di questa famiglia. Un’iscrizione è su mosaico pavimentale: entro una cornice a tessere nere, su fondo bianco, vi è la dedica di un Cn(eus) Atilius Agathio per Atilia, che è ritratta anche in un busto stilizzato, nel tentativo di riproporre un ritratto realistico, una rappresentazione soggettiva e familiare voluta dal marito in qualità di dedicante.

La seconda iscrizione studiata è una lastra marmorea alloggia-ta sempre nello stesso mosaico; si tratta della dedica di un Atilius Abascantus per la coniuge Atilia Romana, appellata come san-ctissima e virginia.

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Un formulario altrettanto convenzionale è presente nella terza iscrizione: Atilia, nel rispetto delle norme, compra a proprie spese il locus religiosus al suo coniuge e conliberto. Il coinvolgimento emotivo della donna viene espresso dalla diffusissima formula de se benemerenti e dall’orgoglio di sottolineare nell’epigrafe che essa è riuscita anche a dedicare il titulus in aggiunta all’acquisto del terreno.

Un elemento senz’altro interessante è la divisione program-matica degli spazi definita dalla formula in fronte pedes, in agro pedes, in questo contesto esplicitata non solo nell’iscrizione di Atilia, che ha comprato una modesta area lunga sette piedi e larga cinque, ma anche definito da altri cippi, posti sui lati esterni delle strutture che circondavano l’intero edificio sepolcrale apparte-nente agli Atilii.

Questa consacrazione ribadita nelle iscrizioni, garantiva l’in-violabilità del locus religiosus, ossia della porzione di terreno di-rettamente a contatto con il defunto. La realtà, tuttavia, dimostra che l’unità originaria del sepolcro poteva essere stravolta da varie cause, non tutte imputabili a violazioni, ma alla natura del luogo, sfruttato in origine come cava di tufo e quindi oggetto di scavi di grotte e cunicoli.

Buona parte delle tombe di Vigna Pia appare, infatti, ‘rimaneg-giata’ in antico, probabilmente con l’intento da parte dei succes-sori dei defunti di perpetuarne l’utilizzo, sia nel caso di sepulchra familiaria (discendenti diretti) sia di sepulchra hereditaria (di-scendenti non necessariamente appartenenti alla famiglia titolare del sepolcro originario).

D’altra parte, la formula “sibi et suis libertis libertabusque po-sterisque eorum”, è una generica indicazione delle persone che il titolare del sepolcro intendeva ammettere al suo monumento fu-nerario, soprattutto perché garantissero la sopravvivenza del culto familiare (Fig. 2).

In un altro ambiente della necropoli è stato ritrovato il titu-lus maior di una camera sepolcrale destinata alla famiglia degli Hosidii. L’iscrizione commemora Hosidius Paramythianus, sua

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moglie Tryphaena e i figli Paramythius e Quinta, con dedica effettuata dalle due sorelle Hosidia Domnina e Hosidia Tertulla e dal fra-tello Mindius Rufus. Que-sta dedica collettiva induce a pensare che i membri si erano costituiti in un’asso-ciazione funeraria probabil-mente per poter affrontare adeguatamente le spese per i riti e mantenere il più a lungo possibile il culto del numen familiae.

Completano il quadro del sito di Vigna Pia le raf-

figurazioni su affresco delle pareti e i numerosi oggetti che, grazie all’estrema cortesia e disponibilità di Laura Cianfriglia, sono stati studiati con una schedatura di materiali RA e TMA, portata avanti da me e Silvia un anno fa, e presentati alla mostra Memorie dal sottosuolo, con relativo catalogo.

Nel caso di Muratella, invece, l’indagine ha portato ad indaga-re estensivamente una porzione di collina con depositi sabbiosi e alluvionali stratificati, in una fascia adiacente al Fosso della Lu-para. Quello che oggi è un poggio edificato “con vista sul Rac-cordo Anulare”, come scherzosamente chiosava Silvia del luogo, è stato un sito frequentato, in cui si collocano tombe di diversa cronologia e piani di frequentazione.

L’indagine ha restituito otto tombe ascrivibili a tipologie at-testate tra l’età del Bronzo e l’età arcaica, come testimoniano i piccoli corredi rinvenuti accanto alle deposizioni.

La pubblicazione di questo sito si è concretizzata nella stesu-ra del poster al recente convegno Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria della fine del 2008, in cui si è presentata la tomba di

Fig. 2 - Iscrizione di Valeria Primigenia.

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epoca eneolitica con i suoi oggetti1. Pur essendo un ambito cro-nologico distante da noi archeologhe classiche, Silvia, studiando con impegno i contesti culturali del periodo, è riuscita a seguire in prima persona il problema dell’attribuzione delle sepolture, piuttosto complesse per la mancanza di puntuali elementi di data-zione, quali corredi per ogni sepoltura. Personalmente, è riuscita a farmi trovare interessante la sequenza geologico-stratigrafica delle sabbie di diversa matrice, lei neo geo-archeologa, mentre nel contempo avevamo a che fare con grandi immobiliaristi e fa-coltosi imprenditori, ai quali far accettare che le indagini archeo-logiche, anche se non danno soldi anzi li fanno spendere, posso-no arricchire la comunità con la conoscenza di un territorio che perde le sue originarie caratteristiche nel momento in cui diviene oggetto di massicce edificazioni.

Silvia ha sempre creduto in questo aspetto non monetizzabile dell’archeologia e, pur amando stare a contatto con la terra ‘da leggere’, è riuscita ad andare oltre il semplice lavoro materiale e si è impegnata in approfondimenti coscienziosi e personali, in coinvolgimenti non didattici, ma complici nelle operazioni di sca-vo con gli operai più semplici, in contatti mai scontati e sottova-lutati che la potessero arricchire e completare.

Con coraggioso ottimismo, ha sempre continuato ad avere fidu-cia nel riconoscimento della nostra professione e si è concretamen-te impegnata nel non demordere, credendo nella passione vera e non nella pacificante visione dell’archeologo riverso sui suoi testi in biblioteca, perché questo aspetto non può che affiancare lo stare sul cantiere e arricchire di storicità il rinvenimento sul campo.

Una volta un ingegnere, parlando del lavoro degli archeolo-gi, ci disse “Voi siete gli ultimi dei puri”, alludendo al fatto che siamo un po’ fuori dal mondo per come guardiamo il presente, ancorati al passato, e per i valori nei quali crediamo, ignari di un

1 Uno studio preliminare di tale contesto è in corso di stampa sul Bollettino della Commissione Archeologica Comunale del 2008.

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abbigliamento approssimativo e spesso alquanto originale. Silvia, nel suo buttarsi a capo fitto in ogni nuovo scavo, nel suo procurar-si repertori per approfondire, articoli per non tralasciare partico-lari, è stata veramente una degli ultimi dei puri. Riordinare le sue cose ha avuto il significato di scavare nel suo percorso formativo e nel suo strutturarsi sempre più consapevolmente come archeo-loga competente, ma ha consentito anche di cogliere la sua inte-grità di guardare ogni nuovo lavoro senza farsi trovare sprovvista di supporti per affrontare la poliedricità degli argomenti. Ogni archeologo si specializza solo in pochi degli infiniti aspetti che si incontrano nel guardare ai resti del passato e Silvia, con grande onestà intellettuale e modestia, è sempre stata pronta a partire da ciò che non conosceva per aggiungere contenuti al suo sapere.

Le altre emozioni, silenziose, raccolte, che non riesco ad ester-nare, sono quelle personali, mie e di Silvia, perché lei riguardano, dal giorno in cui ho scoperto della sua malattia fino al giorno in cui ho saputo che non c’era più. Non riesco ancora a gestirle interamente, perché mi sento ancora sospesa, senza poter fare a meno di rivivere gli aspetti peculiari della nostra amicizia. L’im-pegno che si potrà continuare a riversare nel progetto Vigna Pia, con nuove visite guidate dell’area ormai musealizzata, pannelli, percorsi, restauri sempre più puntuali e pubblicazioni aggiornate, resterà tessuto del ricordo di Silvia. Mi spiace immensamente che il raccoglierne i risultati più completi non potrà essere condiviso con lei, ma la concretizzazione del programma a lungo caldeggia-to mi aiuta a credere, come Silvia ha sempre creduto, che le cose belle, nonostante tutto, si realizzano, avendo fiducia nelle risorse del lavoro autentico dell’archeologia, perché è così che la comu-nità si arricchisce di contenuti non economici, ma culturali, che solo possono rendere l’uomo più saldo e veramente cosciente di ciò che merita di essere tramandato.

Bibliografia essenzialeM.C. Grossi, V.S. Mellace, “Località Vigna Pia. Area necropolare (municipio

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XV)”, in Bollettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma CIII, 2002, pp. 349-353.

M.C. Grossi, V.S. Mellace, “Roma, Via Portuense: la necropoli di Vigna Pia, strutture e rituali”, in Histria Antiqua 13, 2005, pp. 397-406.

M.A. Tomei (a cura di), Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980-2006, Roma 2006.

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SCAVI ARCHEOLOGICIIN VIA IDROVORE DELLA MAGLIANA

lAurA ciAnfriGliA

Si presentano qui brevemente i risultati degli scavi archeologi condotti in Via Idrovore della Magliana, ex area degli impianti sportivi Italgas, ai quali Silvia non ha partecipato direttamente, ma che non sarebbero stati possibili senza il suo grande lavoro di preparazione1.

Nel corso del 2006, visti i risultati delle precedenti indagini geognostiche, sono stati eseguiti sondaggi archeologici mirati, a mezzo trincea, che hanno portato al rinvenimento di alcune strut-ture di epoche diverse. Le prime (Fig. 1), in scapoli di tufo ros-so messi in opera a secco, sono orientate grossomodo secondo i punti cardinali e proseguono oltre i limiti di scavo sia a sud che a est, dove è probabile che si trovi una più ampia porzione dell’edi-ficio che al momento non si è ancora terminato di scavare. Il set-tore occidentale del saggio ha restituito, inoltre, un allestimento costituito da quattro blocchi lapidei (Fig. 2), a forma approssi-mativamente di parallelepipedo, disposti con le facce lisciate a delimitare uno spazio di forma quadrata: tale spazio era forse ori-ginariamente occupato da una trave in legno, non più esistente, del quale i blocchi potevano costituire la base ed il sostegno. La cresta di questa sistemazione è in quota con quella, rasata, delle

1 Gli scavi sono stati condotti, sotto la direzione scientifica della scrivente, da Stella Falzone e Alessia Scordia.

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strutture e la superficie dei blocchi è erosa e dilavata; la faccia superiore del blocco meridionale presenta un incasso irregolare intagliato a scalpello. Il dato induce a ritenere che l’incasso fosse destinato ad accogliere una parte mobile dell’allestimento e che questa producesse una sollecitazione a leva tale da determinare il cedimento strutturale del blocco stesso. Potrebbe dunque trat-tarsi di una sistemazione di carattere produttivo o estrattivo che l’approfondimento delle indagini contribuirà a chiarire. A nord di

Fig. 1 - Via Idrovore della Magliana, am-bienti con murature in scapoli di tufo a secco.

Fig. 2 - Via Idrovore della Magliana, strut-tura con blocchi a for-ma parallelepipeda di tufo.

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questa evidenza si trova un’area caratterizzata da una notevole concentrazioni di reperti ceramici (frammenti di dolia, cerami-ca di impasto, ceramica depurata da mensa e ceramica a vernice nera) disposti in piano: si tratta probabilmente di uno strato di abbandono e la tipologia dei frammenti denuncia una cronologia di età medio repubblicana. La parzialità dell’indagine allo stato attuale non permette di esprimere una valutazione attendibile ri-guardo alla originaria estensione ed imponenza del complesso re-sidenziale o produttivo cui le evidenze descritte sono pertinenti.

Accanto a questo edifico è stata messa in luce un’altra struttu-ra, sempre in scapoli di tufo rosso e frammenti di rivestimento in cocciopesto messi in opera a secco, o comunque attualmente privi di legante e compattati dalla terra limosa di obliterazione che si è infiltrata nel nucleo. Si tratta di un muro messo in luce per una lunghezza di quasi un centinaio di metri. Lungo i due lati, per tutta l’estensione verificata, si trovano due serie alternate di con-trafforti ciascuno di essi a pianta rettangolare (Fig. 3), realizzati con il medesimo materiale utilizzato per la struttura principale, e disposti in senso ortogonale alle sue pareti: soltanto tre dei con-trafforti rinvenuti conservano resti di rivestimento in cocciopesto fine sulle pareti lunghe. La presenza del sistema di contrafforti e la rasatura irregolare di tutte le strutture, certamente dovuta ad un crollo, rivelano le notevoli sollecitazioni alle quali la lunga strut-tura principale deve essere stata sottoposta. Considerata la natura alluvionale della stratigrafia connessa, non vi è dubbio che l’al-lestimento dovesse resistere sui due fianchi a potenti e frequenti spinte provenienti sia dal Tevere, che scorre a est, sia dai fossati e dagli alvei presenti nel territorio circostante. Si rileva tuttavia che nel momento della demolizione, certamente da attribuirsi a un evento di carattere alluvionale, la spinta decisiva deve essere arrivata da est perché gli strati di crollo e di scivolamento dei ma-teriali si trovano quasi esclusivamente sul versante occidentale. I materiali rinvenuti negli strati di obliterazione sono quantita-tivamente scarsi rispetto al volume di terra scavata, e sono co-stituiti prevalentemente da frammenti ceramici (anfore, ceramica

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comune, ceramica africana da cucina, sigillata italica, ceramica da mensa a pareti sottili, lucerne), associati ad alcune monete bronzee, frammenti vitrei, frammenti metallici, frammenti ossei, alcuni rarissimi frammenti di laterizi, tra i quali una tegola con bollo semilunato. Ad una prima analisi superficiale l’arco crono-logico delineato sembra compreso tra il I sec. d.C. e la metà del II sec. d.C., dal che si deduce che in questa epoca la struttura doveva essere già in disuso. Quanto alla funzione svolta da una struttura con una estensione tanto rilevante, purtroppo la conservazione limitata non offre molti elementi di valutazione. La presenza dei rivestimenti in cocciopesto fine induce comunque a ritenere che si tratti di un allestimento finalizzato in qualche modo alla pre-senza di acqua, ma non è stato rinvenuto alcun dispositivo che ne dia certezza. Non si può comunque escludere che le prosecuzioni della struttura oltre i limiti di scavo conservino qualche elemento in più; si ricorda infatti che è stato possibile verificare soltanto un segmento dell’intera struttura della quale non si conosce tuttora né l’origine né la destinazione. Va segnalato inoltre che i cementa utilizzati per la realizzazione delle strutture sono in gran parte frammenti di un potente rivestimento in malta grigia friabile, fini-

Fig. 3 - Via Idrovore della Magliana, struttura con contrafforti (a sinistra)e particolare dei contrafforti (a destra).

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to con uno strato di ottimo cocciopesto, e devono essere pertinen-ti a una sistemazione idraulica precedente della quale purtroppo non è rimasta traccia.

Una fase più recente, la cui cronologia relativa si colloca dopo la totale obliterazione della struttura descritta e della stratigrafia ad essa connessa, si caratterizza come utilizzo agricolo del territorio. Sono stati infatti rinvenuti in tutta l’area indagata numerosi tagli operati nello strato argilloso di obliterazione e spesso anche nelle strutture sottostanti (Fig. 4). Si tratta di tagli simili a canalette, a sezione rettangolare, paralleli e distanti tra loro circa 0,9 m, orien-tati in senso nord-est sud-ovest, coerentemente in tutta l’area edi-ficata. I tagli sono riempiti di terra di colore rosso mattone scuro, con schegge di tufo rosso, nonché con rari frammenti di laterizi e anfore. Essi sono da interpretare con ogni probabilità come intagli nella terra argillosa destinati alla coltivazione della vite. Il mate-riale rinvenuto nei riempimenti non è tale da suggerire una chiara collocazione cronologica dell’attività agricola, si segnala soltanto l’assen-za di reperti di età tardo antica, medievale e mo-derna dal che si deduce il probabile abbandono del territorio in questi perio-di, certamente anche a causa delle frequenti al-luvioni testimoniate dal-lo spesso strato di terra limosa che ha obliterato questa fase.

Fig. 4 - Via Idrovore della Ma-gliana, fosse di coltivazione.

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COMPRENSORIO ITALGASVIA DELLE IDROVORE DELLA MAGLIANA, N. 121XV MUNICIPIO: INDAGINE GEOARCHEOLOGICA

renAto MAtteucci, VAleriA SilViA MellAce, cArlo roSA

L’area è ubicata tra via delle Idrovore della Magliana in cor-rispondenza del civico n. 121 (Comprensorio Italgas) e la riva destra del Tevere. Il toponimo di riferimento dell’area è Casale Gauttieri (Fig. 1).

La zona pianeggiante è situata lungo la valle alluvionale del Tevere, circondata a nord dai rilievi collinari dell’Infernaccio e dei Monti del Trullo e a sud da quelli di Spinaceto; l’area, inoltre, è in prossimità del fondovalle del fosso di Affoga l’Asino e del fosso della Magliana (Contrada dell’Infernaccio) e si attesta su quote comprese tra gli 11 e i 9 m s.l.m.

Dalle fonti d’archivio e da alcuni articoli pubblicati sui ritrova-menti della zona, risultano numerose evidenze archeologiche, che possono essere così sintetizzate:

1. A poche decine di metri dal Ponte della Magliana è stato localizzato un pilone antico costituito da blocchi squadrati di tufo di Grotta Oscura disposti in filari.

2. Nell’area golenale della riva destra ritrovati muri in ope-ra reticolata semi-interrati e resti dell’antica via Campana in lastricato di selce, parallela al corso del fiume, demolita dalle draghe. Nelle vicinanze un sepolcro.

3. Resti del Tetrastylum, posto vicino alla riva del fiume da mettere in relazione con il tempio rotondo della Dea Dia sul monte delle Piche.

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4. Ponte a tre arcate, localizzato all’imbocco del fosso di Val-lerano, emissario del lago Albano.

5. Grosso ammasso di blocchi in marmo e tufo (carico som-merso?).

6. Serie di murature in fondazione pertinenti ad una struttura portuale.

7. In località Magliana Vecchia, ritrovamento di un’area ba-solata e serie di ambienti, alcuni adibiti alla lavorazione del vino e dell’olio. Possibile funzione di scalo o deposito flu-viale.

8. Chiusa di epoca romana che si trova circa 1000 m a sud-ovest dello sbocco del fosso della Magliana nel fiume Te-vere, lungo la cosiddetta ‘ansa di Spinaceto’ la quale venne eliminata dopo la costruzione del drizzagno nella valle.

9. A circa 300 m a sud della chiusa, resti di due ponti affian-cati di epoca romana che scavalcavano il fosso della Maglia-na. Questi ultimi ritrovamenti hanno permesso di ricostruire l’andamento del “paleo fosso della Magliana”, che correndo per circa 1500 m parallelo al Tevere, sfociava in esso più a sud dell’attuale, passando sotto la chiusa ed il ponte.

All’inizio del 2005 nell’area furono eseguiti sondaggi archeo-logici che evidenziarono una geostratigrafia abbastanza uniforme fino a 4-6 m dal p.d.c. (costituita, dopo circa 2 m di terreno di riporto moderno, da limi argillosi, debolmente sabbiosi di colo-re dal verdastro all’avana talora tendenti al marrone, abbastanza compatti) e la mancanza di reperti archeologici significativi.

La difficoltà di individuare con precisione la quota del livello di frequentazione archeologica, poiché inoltre la profondità delle trincee creava problemi di movimenti di terra e di messa in sicu-rezza dell’area, si programmò l’esecuzione dei 6 sondaggi geo-gnostici, preventivati dalla Proprietà per la valutazione delle spe-cifiche geotecniche, prescrivendone le specifiche tecniche di ese-cuzione, per una analisi del materiale carotato finalizzata all’in-dagine geoarcheologica. Questa indagine risultò troppo parziale

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e puntiforme per offrire un’interpre-tazione di merito: considerata l’esten-sione dell’area, i dati risultarono in-sufficienti sia per escludere la pre-senza di piani di frequentazione an-tichi, soprattutto in considerazione dei numerosi ritrova-menti archeologici segnalati nella zona, che per definirne in maniera puntuale la quota.

Venne quindi pro-grammata, ad inte-grazione di questa analisi geoarcheolo-gica, una successiva campagna di caro-taggi statisticamen-te sufficienti per in-

dividuare il livello di frequentazione dell’area e per definire aree a potenziale rischio archeologico, consentendo quindi una program-mazione mirata nell’esecuzione di saggi archeologici, da effettuarsi all’interno delle aree interessate da costruzioni (Fig. 2).

L’analisi sul campo si è svolta tra luglio ed agosto 2005. Du-rante l’esecuzione dei lavori è stata effettuata la lettura speditiva e di dettaglio della stratigrafia geoarcheologica di 77 carotaggi, perforazioni a carotaggio continuo, che raggiungono la profondi-tà di 10-15 m.

Fig. 1 – Foto satellitare (da Google) con l’ubicazione dell’area di indagine (limite a tratteggio bianco); a nord (in alto) è visibile la superstrada per Fiumicino, a sud (in basso) il Fiume Tevere.

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Al di sotto dell’at-tuale piano di cal-pestio è stato indi-viduato un riporto moderno con uno spessore che va dai 3 m dei sondaggi più a nord fino a ridursi a 1,50 - 1,60 m a sud, verso il Tevere, per poi scomparire del tutto.

Nell’area dei son-daggi il materiale edilizio moderno è talora misto a nume-rosi frammenti anti-chi (laterizi, malta, ceramica). Questi ul-timi non sono in situ, ma lasciano suppor-re che la porzione di terreno indagata sia stata utilizzata come discarica di materiali provenienti da altre zone di Roma. Nei sondaggi al limite meri-dionale dell’area il riporto moderno scompare ed è sostituito da semplice terreno vegetale. Sotto lo strato di accumulo dei riporti moderni inizia la sequenza dei sedimenti limo-argillosi e sabbiosi di chiara natura alluvionale.

L’analisi complessiva dei dati, valutando la concentrazione e la quantità (in alcuni casi esigua) e qualità dei frammenti più ma-croscopici presenti all’interno degli strati naturali alluvionali, ha individuato due aree a potenziale rischio archeologico, denomi-nate rispettivamente α e β.

Fig. 2 – Ubicazione dei carotaggi effettuati ed indivi-duazione delle aree a rischio archeologico.

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Per la fascia α, orientata N-S, si evidenzia che una buona per-centuale dei carotaggi oltre a materiale archeologico ha anche un esiguo livello di materiale piroclastico eterogeneo formato da tufi centimetrici dispersi nella matrice limosa avana marroncina (LST), forse residuo di erosione della formazione SI³ (tufo strati-ficato di Sacrofano) presente lungo i rilievi collinari circostanti e trasportati lungo il fosso Affoga l’Asino.

La fascia β, orientamento E-W e più vicina all’attuale corso del Tevere, con una sensibile concentrazione verso ovest, si carat-terizza per una discreta omogeneità nei sedimenti che contengono il materiale archeologico. La maggior parte si trova nel terreno a matrice limo-argillosa di colore avana o verdastro; le uniche ano-malie sono costituite dall’S13 ove il livello archeologico è nella sabbia giallastra e alla profondità di -1,05 / -0,75 s.l.m. La pro-fondità del materiale archeologico presente nei sondaggi si attesta tra i gli 8 e i 6 m s.l.m.; fanno eccezione l’S13, già menzionato e l’S33 che è alla quota più bassa tra i 4,88 e i 4 m s.l.m.

Dall’analisi autoptica risulta che i materiali che sono stati pre-levati e analizzati (i più macroscopici) sono per la maggior parte costituiti da frammenti ceramici e laterizi a spigoli vivi. Tali ma-teriali potrebbero essere stati soggetti a deposizione in seguito a breve trasporto in ambiente fluviale e successiva sedimentazione o potrebbero essere legati ad una frequentazione non meglio pre-cisabile dell’area in età antica. Nel sondaggio S50 l’abbondante presenza di frustoli di carbone e la loro estensione verticale nel livello archeologico, che supera il metro e cinquanta, fa propen-dere per una frequentazione.

Utilizzando i dati dei sondaggi effettuati è stato possibile rico-struire due sezioni stratigrafiche che evidenziano lo spostamen-to dell’alveo del Tevere in epoca pre-protostorica da nord verso sud-sudovest (Fig. 3). Le presenze archeologiche sono localizzate prevalentemente nei sedimenti limoso argillosi avana-verdastri, successivi allo spostamento dell’alveo fluviale. Le modalità de-posizionali di questi sono probabilmente connesse a fasi di piena nelle quali sedimenti più grossolani del fosso di Affoga l’Asino si

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depongono lungo la linea di corrente N-S (area α) per poi mesco-larsi in parte con i sedimenti del Tevere che hanno una direzione E-W (area β).

Tale indagine geoarcheologica ha consentito una programma-zione mirata per l’esecuzione dei saggi archeologici, che sono stati eseguiti nell’ambito delle due aree definite a rischio arche-ologico, interessando nello specifico le zone dei carotaggi che avevano individuato i livelli archeologici. Ne ha inoltre definito quantità, ubicazione e dimensioni della larghezza e della profon-dità da raggiungere, e la conseguente valutazione delle problema-tiche di cantiere e di sicurezza in fase di esecuzione.

Fig. 3 – Sezioni geologiche con evidenziati i progressivi spostamenti del Tevere verso sud.

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LE INDAGINI GEOARCHEOLOGICHENEL QUADRANTE SUD-OVEST DI ROMA:

L’ITALGAS E GLI EX MERCATI GENARALIVAleriA SilViA MellAce, cArlo roSA,renAto MAtteucci, renAto SebAStiAni

Inquadramento dell’area in esameLe aree dell’Italgas e dei Mercati Generali sono localizzate

nel quartiere Ostiense, nel settore sud di Roma, poco a sud del-le Mura Aureliane e comprese tra il Tevere ad ovest e il corso dell’Almone a sud. Il percorso della via Ostiense divide le due aree che si fronteggiano ai due lati della strada (Fig. 1). I progetti di riconversione delle aree dell’Italgas e dei Mercati Generali, nell’ambito della riqualificazione del quartiere Ostiense, e l’in-serimento nei “Programmi di riqualificazione urbana” dell’area Italgas di via delle Idrovore della Magliana, hanno permesso un dettagliato studio geoarcheologico, preliminare ai successivi sca-vi archeologici preventivi.

Silvia Mellace è stata subito interessata a questo nuovo modo di fare archeologia, diventando nel tempo con la costanza, la de-dizione e la passione che le erano propri, la figura trainante e di stimolo per questi studi. Studi che oltre ai significativi risultati ottenuti che qui si espongono sinteticamente, hanno trovato la loro concretizzazione ed organizzazione nella formulazione della Scheda Geoarcheologica, ostinatamente voluta da Silvia e molto spesso altrettanto ostinatamente discussa con lei.

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Il complesso dei mercati generaliIl lavoro è stato svolto dalla Dott.ssa V.S.Mellace, e dalla co-

operativa Archeologia su incarico di Risorse per Roma S.p.A., e dal Dott. C. Rosa, sotto la direzione scientifica della Soprinten-denza Archeologica di Roma: Dott.ssa R. Paris, Dott. R. Seba-stiani e Dott. R. Matteucci.

L’area oggetto d’indagine ha un’estensione di circa 72900 mq ed è stata sondata con 50 carotaggi (25 archeologici e 25 geogno-stici) spinti ad una profondità variabile dai 10 ai 60 m. La maglia dei carotaggi era relativamente irregolare e prevedeva una distan-za tra i punti di perforazione dai 20 ai 50 m (Fig. 2).

Lo studio aveva come scopo quello di fornire un’interpretazio-ne dei livelli archeologici presenti al fine di contribuire agli stu-di di fattibilità dell’area. L’esame di una griglia di carotaggi può consentire importanti inferenze sulla natura e sulla profondità dei depositi archeologici; tali carotaggi si rivelano di grande utilità

Fig. 1 - Foto satellitare con l’ubicazione delle due aree in esame (limiti eviden-ziati da linee in bianco; da Google, 2009).

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per un inquadramento preliminare ed in particolare per verificare la presenza di eventuali piani di frequentazione antica.

In primo luogo va segnalata la presenza nell’area, al di sotto dell’attuale piano di calpestio, di un riporto moderno abbastanza omogeneo con uno spessore di circa 4 m messo in posto per il li-vellamento dell’area in esame, probabilmente di poco precedente all’edificazione dei Mercati Generali (1914-1924).

Al di sotto della coltre dei riporti moderni sono state indivi-duate tre fasce rappresentative delle quote del livello di frequen-tazione archeologica: una prima fascia tra 13,80 e12,98 m s.l.m.; una seconda tra 11,65 e 10,11m s.l.m.; infine una terza tra 10,94 e 9,00 m s.l.m. (Fig. 3).

La ceramica comune, le anfore e la ceramica comune da fuoco costituiscono il 65,8% del totale; globalmente sono le più fre-quenti come in quasi tutti i contesti archeologici di età romana. Le classi di ceramica di importazione, ossia la terra sigillata africana e la ceramica africana da cucina, insieme rappresentano il 3,8 % del totale. La terra sigillata di produzione italica rappresenta il 5,8 %. Le lucerne sia in ceramica comune acroma sia dipinta sono il 4,7 %. La ceramica a pareti sottili è il 6,8 %. Residuale, invece, la ceramica a vernice nera che rappresenta soltanto lo 0,2 %. Tra-scurabile, vista la percentuale dello 0,2 % la ceramica a vetrina sparsa.

La maggior parte dei frammenti di interesse archeologico si-gnificativi è stata trovata in giacitura primaria. Tutti i frammenti si presentano a spigoli vivi e solo in un paio di carotaggi alcuni reperti sono stati trovati fluitati. Tra i ritrovamenti si segnalano un piccolo chiodo in ferro, un vago di collana in pasta vitrea e un osso lavorato.

Indicativamente l’analisi dei materiali ci offre un arco cronolo-gico che va dalla piena età imperiale fino al basso impero, con una concentrazione significativa tra la prima e la media età imperiale. L’assenza quasi totale di frammenti di epoca medievale e la scar-sa rappresentatività di quelli di età successive, induce a ipotizzare una scarsa frequentazione dell’area per questi periodi.

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L’area dell’ItalgasLa realizzazione di una serie di perforazioni a carotaggio con-

tinuo, finalizzate al progetto di bonifica ambientale dell’area, con-dotte dalla società Ambiente per conto dell’Italgas, ha consentito di accedere direttamente ad una notevole quantità di dati strati-grafici del sottosuolo dell’area, che hanno permesso di ricostruire l’evoluzione morfologica dell’area ostiense in corrispondenza del corso del Tevere a partire dall’età romana imperiale (Fig. 2).

L’area indagata si trova localizzata in corrispondenza della at-tuale sponda di sinistra del Tevere, circa 200 m più a nord dei resti di edifici romani di età imperiale rinvenuti negli anni 1915 (Fornari, 1916) e 1939-43 (Jacopi, 1939, 1940, 1943) sulla spon-da destra. Accanto ad essi venne in quegli anni rinvenuto l’argine di età imperiale in opus mixtum, con scale di accesso in travertino,

Fig. 2 - Pianta dell’area ostiense con l’ubicazione dei carotaggie delle aree di interesse archeologico.

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che testimoniava una posizione del corso del fiume leggermente spostata verso ovest rispetto all’attuale. Nel 1976 Moccheggiani sottolineava come l’attuale tratto del Tevere dagli scavi di Pietra Papa al Ponte Marconi fosse spostato verso est rispetto all’età romana imperiale, con una evidente sedimentazione di depositi sabbiosi nella sponda destra che avevano ricoperto gli antichi ar-gini romani presenti.

La dinamica dei processi fluviali del Tevere, con le frequenti alluvioni che spesso, prima della costruzione degli argini, arriva-vano ad allagare l’intera valle, si concretizzava fino alla fine del XIX secolo nei seguenti fenomeni:

1. aggradazione dell’alveo, con conseguente crescita in quota assoluta del letto del fiume;

2. sedimentazione, con cicli stagionali annuali o pluriannuali, sulla piana alluvionale in seguito ad episodi alluvionali nor-mali od eccezionali; tale fenomeno favoriva un continuo au-mento di quota assoluta della pianura alluvionale, con quote di 6-8 m s.l.m. per l’età romana repubblicana fino ad arriva-re ai 10-11 m della pianura alluvionale a sud di Roma prima della sua trasformazione in area industriale o abitativa (vedi Piano Topografico di Roma e Suburbio, 1908-1924);

3. evoluzione delle sponde del fiume nell’ambito dei processi dinamici dei meandri, con spostamento sia repentino (come nel caso delle ‘rotte’ di meandro) che graduale dell’alveo del fiume.

Ovviamente tali processi si manifestavano con maggiore evi-denza là dove ad una urbanizzazione di età romana imperiale era succeduta una trasformazione in aree di campagna non diretta-mente soggette a regimazione spinta delle sponde, come nella zona ostiense in esame.

I dati altimetrici presenti nella carta di progetto dell’impianto industriale dell’area Italgas, databile intorno al 1908-1910, per-mettono di evidenziare come l’area in esame avesse allora quote intorno ai 10,50 – 11,50 m s.l.m. Un’nomalia morfologica è evi-dente in basso a destra, con una direzione allungata circa NE-SW

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e quote che raggiungono e superano i 12 m s.l.m. Ricordando la segnalazione di una strada romana rinvenuta all’interno dell’area Italgas con medesimo andamento, si potrebbe ipotizzare per que-sta anomalia un’origine legata a strutture sepolte che potrebbero essere connesse con il suaccennato tratto stradale (ad esempio se-polcri), ma la cosa interessante è che tale anomalia si trova loca-lizzata in corrispondenza dell’area che doveva contenere il San-tuario della dea Cibele, posto in vicinanza con la foce del fiume Almone.

Dati di sondaggioNel periodo che va dal 2 al 30 novembre 2001 sono state realiz-

zate, a cura della società Ambiente, 28 perforazioni meccaniche a carotaggio continuo, delle quali 13 realizzate appositamente fino alla profondità di 25 m per venire incontro a specifiche richieste della Soprintendenza, ed indicate con la sigla SA. Le altre, indica-te rispettivamente con le sigle S e Pz sono state condotte fino alla profondità di 15 m tranne le prime 5 (S1, S2, S3, S4, S5) che arri-

Fig. 3 - Sezione geologica circa N-S attraverso l’area degli Ex Mercati Generali.

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vano ad 8 m di profondità dal piano campagna. A queste si devo-no aggiungere 6 perforazioni, eseguite dalla società Ambiente nel marzo del 2001, che raggiungono profondità di 15 m (Pz1, Pz2, Pz3, Pz4, Pz5, Pz6) e 8 perforazioni archeologiche preliminari, concordate con la Soprintendenza, eseguite dalla società Golden Associates Geoanalysis per conto dell’Italgas nel Settembre del 1998, indicate con la sigla SG, che raggiungono profondità varia-bili tra i 9 ed i 23 m dal piano campagna.

Sono inoltre disponibili le stratigrafie di perforazione di tre dei quattro pozzi per acqua realizzati dall’Italgas all’interno della stabilimento rispettivamente a 63, 65, e 70 m di profondità.

L’analisi delle carote prelevate nei sondaggi ha consentito di suddividere l’area indagata in due settori (Figg. 2 e 4):

1. un settore ad est, nel quale sono frequenti i ritrovamenti di resti archeologici fino ad una profondità di circa 7-8 m; si tratta di evidenze di frequentazione dell’area, con sovraim-posta una sedimentazione alluvionale periodica. Questo settore ha rappresentato la piana alluvionale inondabile del Tevere dall’età romana imperiale fino all’inizio del secolo scorso.

2. un settore ad ovest, nel quale sono presenti depositi alluvio-nali recenti, che scandiscono uno spostamento del corso del Tevere da est ad ovest sino alla sua attuale posizione; sedi-menti ghiaiosi e sabbiosi grossolani ricchi in frammenti di malta, tufi, laterizi e ceramica evidenziano una aggradazio-ne del letto del Tevere che da quote di -2 ÷ -7 m s.l.m. passa a quote di -5 ÷ 0 e poi di -2 ÷ 4 m s.l.m. Questo settore è stato coinvolto nella dinamica fluviale di spostamento del corso del Tevere ed i resti rinvenuti in sondaggio sono non in situ ma sono stati trasportati dal fiume in un’epoca posteriore alla loro produzione. Alcuni frammenti ceramici presenti nei sedimenti di alveo, possono suggerire una datazione che va dall’età romana imperiale al medioevo e al rinascimento via via che ci si sposta da destra verso sinistra. Le ipotizzabili presenze archeologiche sulla sponda destra sono state quindi

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in questo settore del Tevere completamente o in parte erose. Alcuni resti sono visibili tutt’oggi nelle fasi di magra nelle acque del fiume poco a sud del ponte di ferro, e testimoniano anch’esse lo spostamento del suo corso.

Una fascia al confine tra questi due settori, larga alcuni me-tri, rappresenta il settore che all’epoca romana imperiale doveva costituire la sponda sinistra del fiume, con probabile presenza di strutture di arginatura o altra natura.

Bibliografia essenzialeF. Fornari, “Scoperte di Antichità nel Suburbio. La via Portuense”, Notizie de-

gli Scavi di Antichità XIII, 1916, pp. 311-320.

Fig. 4 - Sezione litologica SW-NE attraverso l’area dell’Italgas con evidenziatolo spostamento del corso del fiume Tevere verso SW.

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G. Jacopi, “Antichi frammenti scoperti al porto fluviale di Roma”, Le Arti I, 1939, p. 513 e ss.

G. Jacopi, “Scavi e scoperte presso il porto fluviale di S. Paolo”, in Bullettino Commissione Archeologica Comunale di Roma LXVIII, 1940, p. 97 e ss.

G. Jacopi, “Scavi in prossimità del porto fluviale di S. Paolo. Località Pie-tra Papa” in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Monumenti Antichi XXXIX,1, 1943, pp. 1-178.

C. Moccheggiani Carpano, “Rapporto preliminare delle indagini nel tratto ur-bano del Tevere”, in Rendiconti Pontificia Accademia di Archeologia 48, 1975-76, pp. 239-262.

V.S. Mellace, C. Rosa, “Scheda geoarcheologica” in Jolivet et al., Suburbium II: il suburbio di Roma dalla fine dell’età monarchica alla nascita del siste-ma delle ville, V-II secolo a.C., Roma 2009, pp. 118-119.

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NUOVO MERCATO DI TESTACCIO:STORIE DA UN CANTIERESilViA feStucciA, GioVAnnA Verde1

La ricerca archeologica nell’area individuata dal Comune di Roma per il nuovo mercato destinato a servire il Rione Testaccio ha inizio nel 2004. Il rione si presenta come un’area pianeggian-te, in cui emerge visibilmente il Monte Testaccio da cui prende il nome, delimitata dal tracciato delle Mura Aureliane, dalla sponda sinistra del Tevere e dalle pendici sud-occidentali dell’Aventino.

Lo studio preliminare, che ha preceduto i sondaggi archeologi-ci e ha riguardato in primo luogo l’esame dei dati di archivio, era volto principalmente a ricercare notizie e segnalazioni riferibili alle possibili preesistenze rinvenute nel corso dei pregressi inter-venti urbanistici e di indagine scientifica mirata.

Inquadramento topograficoLe ricerche sul Monte Testaccio ebbero inizio nel 1872 con

A. Dressel che in seguito ai numerosi dati ottenuti grazie alle iscrizioni dipinte sulle anfore (tituli picti) diede vita ad un vero e proprio archivio, suggerendo la provenienza delle anfore dalla Spagna e raggruppandole tipologicamente. Importanti indagini hanno poi avuto luogo dal 1989, sotto l’egida delle Università di

1 Il paragrafo riguardante l’inquadramento topografico dell’area è stato redatto da S. Festuccia, quello relativo al cantiere archeologico è stato scritto da G. Verde.

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Madrid e Barcellona, condotte da J. M. Blàsquez Martinez e da J. Remesal. Nel 1877 L. Bruzza segnalava invece la presenza di un porto situato sulla riva sinistra del Tevere poi, in seguito ad un lungo periodo di stasi, ad eccezione di alcuni ‘sterri’ avvenuti sul Lungotevere Testaccio seguiti da G. Cressedi, l’area venne nuovamente indagata tra il 1970 e il 1990 da C. Mocchegiani Car-pano.

Di sostanziale supporto alla contestualizzazione dell’area di in-dagine è stata l’analisi della cartografia storica. Il progetto edilizio del Nuovo Mercato è stato pertanto sovrapposto alla Forma Urbis del Lanciani, alla pianta del Nolli del 1748 (Fig. 1) e ai frammenti della pianta marmorea severiana riferibili a questa zona. E’ risul-tato, inoltre, essere di particolare interesse un dettagliato plastico della città di Roma (realizzato nel 1849 dal comando delle truppe francesi e conservato nel Musèe des plans-reliefs di Parigi) in cui è presente un monumento denominato piccolo Testaccio, simile al Monte Testaccio ma di minori dimensioni (lungo ca. 65 m e largo 45 m con una altezza stimabile attorno ai 10 m) di cui Dressel non trovò traccia 25 anni dopo la realizzazione del plastico.

Fig. 1 - Particolare della Forma Urbis del Lanciani (a sinistra) e particolare piantadel Nolli (a destra) con in evidenza l’area occupata dal Nuovo Mercato di Testaccio.

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Dalla documentazione raccolta in fase di studio dell’area si evidenziava la presenza dall’epoca tardo-repubblicana, di un complesso portuale e commerciale costituito da molteplici ma-gazzini privati tra i quali gli Horrea Sulpicia o Galbana, gli Hor-rea Lolliana, e gli Horrea Seiana.

I primi erano destinati allo stoccaggio di olio, vino e di altri prodotti, costruiti probabilmente da Sergio Sulpicio Galba alla fine del II sec. a.C. e utilizzati fino alla fine dell’epoca imperiale, sono citati da Orazio durante l’epoca di Augusto quando entrano a far parte del patrimonio imperiale. Alcuni restauri sono attribuiti a Galba e successivamente all’imperatore Adriano. Il complesso settentrionale era organizzato intorno a tre grandi cortili rettan-golari porticati, sui quali si aprivano lunghi ambienti (tabernae) probabilmente destinati ad abitazione (ergastula) dei membri del-le cohortes III horriorum Galbanorum, unità in cui si suddivideva il personale che lavorava nei magazzini. I magazzini veri e propri erano più ad E, tra gli ergastula e la collina del Testaccio, forma-tasi appunto con gli scarichi dei vicini horrea. Il monumento era già stato identificato nel XVIII secolo dai Vedutisti nei resti anco-ra visibili in via Ribattino ma venne poi dimenticato e confuso nel corso del tempo. Gli Horrea Lolliana, probabilmente edificati da M. Lollius o dall’omonimo figlio o da M. Lollius Palicanus nella metà del I sec. a.C., sono citati in tre iscrizioni dell’età di Claudio, periodo durante il quale vengono inclusi nelle proprietà imperia-li e subirono delle parziali ricostruzioni e restauri. Il complesso di forma rettangolare di ca. 77,5 per 120 m, comprendeva una superficie calcolabile in 9300 mq. L’area era divisa in due parti uguali da un muro orientato nord-sud, nel quale si apriva, a nord, un corridoio di comunicazione di grandi dimensioni. I due nuclei degli horrea veri e propri erano costituiti da due cortili porticati delimitati da ambienti sui quattro lati, di minori dimensioni quel-lo orientale (6 per 7 colonne), visibilmente di più ampia metratura quello occidentale (8 per 11 colonne). Sulla facciata settentrionale si individuano alcune differenze: il cortile più ridotto presentava su questo lato una serie di ambienti molto allungati, aperti alle

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due estremità, mentre il cortile più ampio era chiuso da una dop-pia fila di tabernae, aperte sia all’esterno che all’interno con gli ingressi in corrispondenza degli angoli ma non comunicanti fra loro. Nella parte occidentale adiacente al Tevere si trovava una banchina con due scale, della stessa larghezza dell’edificio: con ogni probabilità era un’area di attracco e di scarico per gli horrea. Da una scala, visibile a sinistra, si deduce che potesse esservi un altro piano. La fase originaria di questo edificio è probabilmente da attribuirsi al periodo repubblicano per la planimetria dell’edi-ficio, ma i muri in reticolato e laterizio mostrano restauri e rico-struzioni durante il periodo imperiale.

Gli Horrea Seiana edificati dalla gens Seia e la cui documen-tazione epigrafica di riferimento è databile alla fine del I sec. d.C. Le fonti storiche di Cicerone e Plinio riportano il nome di M. Seius edile curule del 74 a.C.; noti sono anche i nomi di L. Seius Strabo, prefetto d’Egitto tra l’imperatore Augusto e Tiberio e Se-iano alla cui morte vennero confiscati i beni. Gli Horrea Seiana sono stati localizzati tra la Porticus Aemilia, gli Horrea Galbana e gli Horrea Lolliana. Non è stato rinvenuto alcun frammento della Forma Urbis che permetta di capire la planimetria o l’esten-sione del complesso ma i ritrovamenti attinenti ad alcune strutture murarie in opera mista su via Franklin sono stati ad esso collegati. Questi ultimi magazzini erano localizzati tra le maggiori strutture individuabili nel Rione Testaccio:- la Porticus Aemilia, complesso perfettamente individuabile nel-

la Forma Urbis, posta tra Piazza dell’Emporio e Via B. Franklin. Edificio monumentale che si estendeva per ca. 467 x 60 m, era suddiviso da 294 pilastri in 7 navate parallele digradanti verso la riva del fiume e in 50 navate perpendicolari al fiume costruita a seguito delle nuove esigenze di ampliamento dell’area portua-le lungo il Tevere (Emporium);

- l’Emporium, scoperto lungo il Tevere negli anni 1868-1870, nel corso dei lavori sugli argini del fiume, e riesplorato nel 1952; al-cuni tratti, restaurati recentemente, sono ancora visibili, inseriti nel muraglione di Lungotevere Testaccio. Si trattava di una ban-

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china lunga circa 500 m, per una profondità di 90, con gradinate e rampe che scendevano al fiume. Sul fronte della banchina era-no murati grandi blocchi di travertino sporgenti, muniti di fori per ormeggiare le navi. Le strutture, per lo più in opera mista, appartengono al rifacimento di periodo Traianeo;

- la collina artificiale detta Testaccio (Monte Testaccio), alta ca. 54 m s.l.m. (ca. 30 m al di sopra della zona circostante), con una circonferenza di 1 km e una superficie di ca. 22000 mq. E’ di forma grosso modo triangolare e occupa parte dell’angolo compreso tra le Mura Aureliane e il fiume Tevere. Essa si andò formando tra il I e il III sec. d.C. con gli scarichi delle anfo-re, che contenevano i prodotti importati nel porto di Roma, gli ultimi frammenti ceramici risalgono all’epoca di Gallieno. La parte superficiale dei depositi, l’unica sufficientemente nota, è composta quasi esclusivamente da anfore olearie di provenien-za betica e in minore quantità, africana. Il Monte Testaccio è costituito da due piattaforme sovrapposte con le pareti esterne costituite da anfore disposte a formare una scarpata, la più bassa datata tra l’età di Augusto e la metà del II sec. d.C., quella più alta tra la seconda metà del II sec. d.C. e l’epoca di Alessandro Severo.Il Rione Testaccio era parte della XIII regione augustea, che

includeva oltre all’Aventinus la pianura sud-occidentale che si estendeva dalle pendici del colle fino al fiume Tevere; l’area risul-ta essere esterna al pomerio durante il periodo repubblicano per due chiare evidenze archeologiche: il monumento funebre della gens rusticelia localizzato a sud delle pendici del Monte Testac-cio e il sepolcro di Sergio Sulpicio Galba a sud della Porticus Aemilia. L’area, compresa tra l’Aventino, il Tevere e il perimetro esterno del Monte Testaccio, venne sicuramente inclusa nel po-merio dall’età di Claudio (ne dà testimonianza il rinvenimento di un cippo, con la dedica all’imperatore del 49 d.C., rinvenuto a via di Monte Testaccio) fino alla fine dell’epoca imperiale quando era stata delimitata dalle Mura Aureliane costruite nel 271 d.C.

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Il cantiere archeologicoA partire dal marzo 2005 sotto la direzione scientifica del dott.

R. Sebastiani (Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma), si intraprendono i lavori d’indagine archeologica che nel-la prima fase furono condotti da Silvia Mellace e da chi scrive. Lo scavo diviene poi estensivo dalla primavera del 2006 con la co-direzione scientifica della dott.ssa M. Serlorenzi (Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma).

L’area, di ca. 8000 mq (Fig. 2) situata sulla sponda sinistra del Tevere, è a nord del limitrofo Monte Testaccio e di via A. Galva-ni, ad est del complesso dell’ex Mattatoio e di via B. Franklin, a sud di via A. Manuzio e ad ovest di via L. Ghiberti. Divisa da via A. Volta in due lotti occupati dall’ex Scuola Calcio dell’Associa-zione Sportiva Testaccio (Lotto A) divenuta poi un parcheggio; dal Teatro dei Cocci, dal teatro Spazio Zero (Lotto B) e da alcuni

Fig. 2 - Localizzazione dell’area di indagine (rilievo Studio Gabrielli).

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depositi di materiale edilizio ad uso privato che furono progressi-vamente demoliti (Fig. 3).

Considerata fin da subito la rilevanza archeologica dell’area si rese necessario adottare una metodologia di ricerca preventiva, articolata attraverso indagini geoarcheologiche, saggi di verifica sui carotaggi che mostravano chiare evidenze strutturali antiche, prospezioni geoelettriche, scavo stratigrafico in trincee e da ulti-mo lo scavo estensivo. Le ricerche preliminari avevano mostrato una sicura stratificazione archeologica di 8 m dall’attuale piano di calpestio (15-16,50 m s.l.m.). La scelta della geoelettrica come metodologia è stata dettata sia dal tipo di terreno limo-argilloso presente nell’area, adatto a questo tipo di metodo perché otti-mo conduttore di elettricità, sia dal tipo di rinvenimenti che ci si aspettava fossero perlopiù di tipo murario a seguito delle indagini effettuate precedentemente.

Fig. 3 - Panoramica sulle demolizioni nel lotto B;sullo sfondo la facciata dell’ ex Mattatoio.

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Le indagini geoarcheologiche consistite in due campagne di carotaggi e varie prospezioni geoelettriche evidenziarono anoma-lie continue e perpendicolari riferibili alla presenza di strutture modulari, permettendo di definire il quadro d’insieme delle pree-sistenze antiche e di individuare le aree da indagare mediante lo scavo archeologico. Tali metodi ‘non invasivi’ furono applicati in entrambi i lotti seguendo i tempi dettati dalle operazioni di can-tiere per sgomberi e demolizioni che permisero il progressivo am-pliamento del campo di indagine e della équipe degli archeologi.

Inizialmente lo scavo fu condotto in due settori limitati, le Trincee I e II. Nel primo settore, prospiciente Via B. Franklin, furono individuate fin da subito alcune strutture che presentavano un paramento in opera mista. In particolare già nella prima trin-cea, a ca. 3,20 m dal piano di campagna, erano state riconosciute

Fig. 4 - Particolare della Trincea I dopo lo scavo dell’ambiente I.

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parti delle mura perimetrali dell’Ambiente I, delle dimensioni di 8,75 x 4,25 m.

L’Ambiente I, del cui scavo si era occupata in maniera parti-colare Silvia portandolo a conclusione (si veda il contributo di C. Tempesta in questo volume) (Fig. 4) è inserito sul lato nord-occidentale del vasto complesso horreario trapezoidale databile all’età adrianea o alla prima età antonina; è delimitato da muri in opera mista, costituita da opera reticolata e opera laterizia, del-lo spessore di 0,45 m (1,5 piedi romani) tranne per il muro di divisione fra i magazzini a sud e quelli a nord che presenta uno spessore di 0,60 m (2 piedi); i muri risultano fra loro ammorsati con blocchetti di tufo a forma di parallelepipedo. I cubilia, come venne subito osservato da Silvia, sono in tufo di Monteverde e dell’Aniene, e misurano mediamente 0,11 x 0,10 m, il modulo dei mattoni e delle tegole fratte è invece in media di 0,25 x 0,27 x 0,04-0,045 m.

Nella fase successiva si è effettuato lo scavo estensivo dei pri-mi due metri di riporto antropico che hanno permesso di identifi-care i livelli appartenenti ai cosiddetti ‘villinetti’, gli edifici legati alla prima urbanizzazione, contemporanea all’area del Mattato-io. A seguito dell’approvazione del Piano Regolatore del 1882 e alla seguente legge del 1883, nell’area occupata dalle proprietà

Fig. 5 - Planimetria di sintesi degli scavi archeologici aggior-nata a Giugno 2006.

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Torlonia, si avvia infatti la costruzione del quartiere Testaccio, destinato a stabilimenti, depositi industriali e abitazioni per gli operai; nei primi anni ’20 del Novecento, l’Istituto Case Popolari (ex ICP), dopo un iniziale assetto progettuale (ad opera di Giulio Magni e Quadrio Pirani) edificò ogni lotto con quattro corpi di fabbrica a tre piani che, dopo essere caduti in disuso, furono de-moliti alla fine degli anni ’60.

Tra le fondazioni moderne emersero fin da subito numerosi materiali ceramici ed edilizi antichi che coprivano un ampio arco cronologico, dall’età augustea al XIX secolo.

Gli approfondimenti effettuati sulla vasta zona di intervento permisero l’individuazione di tre diverse realtà archeologiche (Fig. 5) su diverse quote che si configurarono in tre settori: la già citata Area A, l’Area B e l’Area C.

L’Area A posta a nord-ovest, è mancante di frequentazioni medioevali e presenta stratigrafie riferibili al periodo moderno e rinascimentale, a cui si attribuivano i solchi paralleli ad uso agri-colo che avevano intaccato le strutture relative ai primi ambien-ti degli horrea medio-imperiali. La datazione degli horrea risa-le probabilmente al secondo quarto del II sec. d.C. e si basa sui bolli conservati sui mattoni delle murature, sulla tecnica edilizia e sui materiali ceramici delle colmate e degli strati relativi alla costruzione degli horrea. Gli strati superiori alla metà orientale del grande complesso trapezoidale degli horrea, restituirono una grande quantità di pipe moderne (di cui Silvia era stata partico-larmente contenta per la grande passione di Maurizio per le pipe) mentre quelli inferiori, specialmente in corrispondenza dell’Am-biente I, un consistente lotto di monete di bronzo e d’argento, tra cui alcune di Vespasiano, Antonino Pio, Traiano, Caracalla, Giulia Domna, databili tra il I e il III sec. d.C. (Fig. 6).

L’Area B con i primi resti messi in luce di un casale rinasci-mentale orientato nord-sud, di forma rettangolare, composto da due vani originariamente pavimentati in mattoni e delimitati da strutture murarie poco spesse (si veda il contributo di F. Pagano, C. Romano in questo volume). Un tracciato stradale coevo (Fig.

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7) orientato in direzione nord-sud datato al XV sec. d.C., con fre-quentazione fino al XVIII secolo, noto dalle fonti (il Rufini e il Delli) come Vicolo della Serpe, toponimo attribuitogli o perché situato in un luogo disabitato occupato da vigne e orti dove si potevano rinvenire con facilità delle serpi, o perché tortuoso “a guisa di serpe”, oppure in relazione ad una insegna di osteria o farmacia.

Nel terzo settore, denominato Area C, a nord-est, si individua-rono resti di impianti agricoli (Fig. 8), mentre gli approfondimen-ti effettuati fino ad una profondità massima di ca. 9,50 m s.l.m., mostravano l’esistenza di una fase di frequentazione precedente al complesso degli horrea. La presenza di una struttura muraria in opera reticolata con orientamento est-ovest relata ad alcuni ambienti delimitati da anfore e pilastrini angolari e iniziali alline-amenti di anfore, spesso appartenenti alla stessa tipologia, della fase più antica di occupazione dell’area, che hanno rivelato una situazione particolarmente complessa risalente agli inizi dell’età augustea (si veda il contributo di A. Gallone in questo volume).

Poco dopo lo smantellamento sia di un tratto della via A. Volta che tagliava lo scavo da est ad ovest, sia dell’ufficio di una coo-perativa di grafici utilizzato come stanza di lavoro, dall’ottobre

Fig. 6 - Esempi di ritrovamenti: una pipa in terracotta moderna (a sinitra)e monete in bronzo e argento antiche (a destra).

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Fig. 7 - Particolare del primo tratto del Vicolo della Serpemesso in luce presso il limite nord del lotto A.

Fig. 8 - Area C. Panoramica sugli impianti agricoli.

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del 2006 si amplia l’organico degli archeologi. Infatti la necessità di raccordare i settori di scavo distanti tra loro e quella di deline-are l’estensione topografica delle diverse fasi di frequentazione dell’area, senza trascurare i tempi di realizzazione del progetto per la costruzione del Nuovo Mercato del Rione Testaccio, porta-rono al graduale coinvolgimento dell’équipe che seguirà lo scavo fino alla conclusione delle indagini archeologiche.

Lo scavo dell’Area B venne affidato a Fabio Pagano, Cristina Romano, Claudio La Rocca e Simone Ruggeri; quello dell’Area C a Federica Andreacchio, Emanuela Mariani, Roberta Tozzo e Daniele Putortì; Anna Gallone, Sabrina Zottis e Donatella Ma-strosilvestri, aprirono un nuovo fronte di scavo mettendo in luce il limite meridionale del complesso degli horrea, mentre noi pro-seguimmo lo scavo nell’area A (Fig. 9).

Per l’organizzazione del magazzino e lo studio dei materiali al

Fig. 9 - Silvia durante uno dei momenti dello scavo dell’Ambiente I.

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nucleo iniziale, composto da Alessia Contino e Lucilla D’Ales-sandro, si aggiunsero Fulvio Coletti, Elena Lorenzetti, Claudia Tempesta, Gloria Zanchetti, Sara Della Ricca, Alba Casaramona, Valentina Mastrodonato, Federica Luccerini, Simona Sclocchi e molti altri ancora, senza trascurare i folti gruppi di studenti che si sono alternati anche sullo scavo proseguito fino al 2009.

Con Silvia, sempre propositiva ed entusiasta, abbiamo condi-viso molte esperienze di carattere scientifico nel confronto co-stante e nello scambio di opinioni sullo scavo, di tipo progettuale, tra gli altri nella creazione di una associazione culturale (il DAT) che rispecchiasse le nostre idee e ludico in tutti gli indimenticabili momenti divertenti passati insieme.

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NUOVO MERCATO DI TESTACCIO:LO SVILUPPO DI UN QUARTIERECOMMERCIALE TRA LA TARDA

REPUBBLICA E L’IMPERO*AnnA GAllone

Lo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio ha interessato un’area di circa un ettaro mettendo in luce evidenze archeolo-giche fondamentali per la nostra conoscenza e comprensione del quartiere commerciale di Roma antica. Come si sa, infatti, la pianura alluvionale del Tevere, compresa tra il fiume stesso e la pendice orientale del colle Aventino, a partire dalla media età repubblicana cominciò ad essere occupata da edifici e strutture che potessero soddisfare le necessità commerciali ed economi-che della città, che stava per diventare la potenza maggiore del mondo antico. Le fonti documentarie e i ritrovamenti archeologi-ci del passato hanno permesso una ricostruzione dell’intero quar-tiere commerciale (per un inquadramento generale si rimanda al contributo di S.Festuccia e G. Verde in questo volume), anche se molte rimangono le zone d’ombra su aspetti specifici e sulla evo-luzione topografica, architettonica e gestionale di quest’area di Roma. In questo panorama, lo scavo del Nuovo Mercato ha per-messo di colmare alcune di queste lacune e soprattutto ha dato la

* Questo contributo è il frutto del lavoro di tutta l’équipe di scavo del Nuovo Mercato di Testaccio ed è scaturito da continui confronti avuti con tutti i col-leghi, che qui si desidera ringraziare.

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possibilità di indagare per la prima volta una porzione così estesa dell’antica zona commerciale, portando alla luce evidenze arche-ologiche delle quali si sconosceva l’esistenza, aprendo dunque nuove prospettive per la ricerca storica, archeologica e economi-ca del mondo antico. E’ stato infatti possibile seguire lo sviluppo diacronico dell’area oggetto d’indagine per l’età tardo repubbli-cana e imperiale (per le fasi successive si rimanda al contributo di F. Pagano e M.C. Romano in questo volume).

Le prime testimonianze che abbiamo portato alla luce si rife-riscono ad un periodo inquadrabile nel I sec. a.C. In questo mo-mento l’area, ancora marginale rispetto al quartiere commerciale, era occupata da una serie di recinti, più o meno regolari, realizzati con anfore intere disposte verticalmente nel terreno. Lo spazio di-sponibile è sfruttato estensivamente ed è possibile cogliere delle differenze tra la zona orientale e quella occidentale dello scavo. In quest’ultima le anfore (il tipo più rappresentato è la Dressel 2-4), vuotate del loro contenuto hanno i puntali e la parte inferiore delle pance infissi verticalmente nel terreno, in modo da creare spazi ab-bastanza ampi rifiniti con battuti di terra molto consistenti (Fig. 1). E’ possibile che le aree così determinate avessero delle coperture

in materiale deperibile e servissero come aree di stoccaggio tempo-raneo per merci non deteriorabili; purtrop-po non è stato possibi-le identificare alcuna evidenza che potesse dare indicazioni de-terminanti sul tipo di merci qui depositate.

Fig. 1 - Recinti di anfore nel-la zona occidentale dell’area di scavo.

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Nella zona sud-orientale dello scavo, ritroviamo i recinti re-alizzati con anfore (tipi più rappresentati: Dressel 6A, Dressel 7/11, Dressel 2-4) anche se in questo caso la tecnica utilizzata è leggermente differente. Qui infatti vengono integrati gli spazi che rimangono vuoti, a causa della forma stessa dei contenitori, tra le spalle delle anfore impilando in modo regolare frammenti di altre anfore: principalmente pance e bocche; il risultato finale e’ un vero e proprio muretto alto più o meno un metro (Fig. 2). Lo spa-zio interno così definito era usato per scaricare non solo tutto ciò che l’area commerciale produceva e che era necessario smaltire, ma anche materiale edilizio proveniente da sterri e riorganizza-zioni urbanistiche di altre zone della città. E’ stato anche possibile distinguere, talvolta, diverse tipologie di scarichi all’interno di spazi diversi (zone per lo scarico di anfore intere, frammenti di anfore, materiale edilizio, stucchi, ecc.). Tra i recinti vengono la-sciati appositi spazi utilizzati come veri e propri stradelli dagli ad-detti allo scarico, per raggiungere con piccoli carretti e con secchi le diverse aree di discarica. Quando le aree suddivise con i recinti venivano colmate con gli scarichi, se ne realizzavano di nuovi a un livello superiore; lo stesso vale per i passaggi tanto è vero che sono stati identificati svariati livelli di piani di calpestio. E’ quindi possibile interpretare positivamente quest’area dello scavo come una vera e propria discarica organizzata le cui strutture crescono e si trasformano man mano che si procede allo smaltimento dei ‘rifiuti’. Tra i recinti sono degni di nota due ambienti, affiancati l’uno all’altro, realizzati con veri e propri muri fatti di anfore a loro volta appoggiati ad angoli costruiti in muratura (Fig. 3). In questo caso, vennero probabilmente realizzati prima i sostegni angolari, costruiti con tufelli squadrati e malta e poi le pareti con le anfore (tipo Dresel 1b) sempre infisse nel terreno ma legate con argilla pura. E’ probabile che almeno in questi casi le anfore fossero impilate l’una sull’altra in modo da raggiungere la giusta altezza per il soffitto. L’interno è intonacato con registri forse di diverso colore. La copertura era realizzata con tegole e per acce-dere a queste due stanze si dispongono soglie di riutilizzo in tufo

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e travertino. Questa tipologia di costruzioni e’ eccezionale sotto molti aspetti e testimonia ancora una volta l’inventiva romana nell’adattamento a forme e modi particolari a seconda delle ne-cessità e del materiale disponibile. Alla luce della notevole orga-nizzazione riscontrata negli scarichi, è forse possibile interpretare questi due vani come sorta di uffici nei quali venivano registrati gli ingressi in discarica.

A nord della discarica appena descritta, è stato rinvenuto un lungo muro in reticolato che definisce uno spazio delimitato da pilastrini in laterizi e peperino. Anche quest’area doveva essere utilizzata per il deposito di anfore vuote, come testimoniato da

Fig. 2 - Particolare di un recinto di an-fore nell’area orien-tale dello scavo.

Fig. 3 - Ambienti realizzati con muri di anfore.

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ben 149 esemplari del tipo Dressel 20 che sono state trovate in situ (Fig. 4). Queste anfore sono sistemate in linee parallele, a partire dal muro in reticolato, e sono tutte in posizione obliqua e adagiate sulla pancia; è altamente probabile dunque che fossero già state vuotate e che attendessero di essere registrate per poi essere smaltite.

Intorno all’ultimo ventennio del I sec. d.C., tutta l’area inte-ressato dallo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio, subisce una radicale trasformazione sia funzionale che strutturale. Tutto ciò che esisteva prima viene distrutto e ricoperto da potenti colmate di terra di risulta che ne alzano sensibilmente i piani di calpestio. Insomma anche per questa zona marginale del quartiere com-merciale era arrivato il momento di essere occupata da nuovi e moderni horrea. Ciò avviene quasi contemporaneamente con la creazione poco più a sud della più grande discarica di frammenti di anfore, il Monte dei Cocci.

Da questo momento in poi l’area dello scavo è chiaramente suddivisa in due grandi complessi horreari separati da uno stretto

Fig. 4 - Deposito di anfore Dressel 20.

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corridoio percorribi-le a piedi; una sorta di vicolo che porta-va verso la viabilità maggiore a nord e sud dei due com-plessi commerciali (Fig. 5).

Il complesso orientale è di diffici-le lettura e ricostru-zione in quanto se ne sono conservate solo labili tracce. E’ stato infatti possibi-le attribuire a questa fase soltanto alcune strutture murarie in cementizio, conser-vate a livello di fondazione, di forma quadrangolare, nonché la fondazione di un lungo muro, sempre in cementizio con anda-mento N-S. Malgrado lo scarso livello di conservazione è forse possibile ricostruire la struttura alla quale pertinevano le evidenze rinvenute come un grande magazzino suddiviso internamente da pilastri ai quali erano appoggiati tramezzi, tipologia ben nota per gli horrea di età imperiale.

Il complesso occidentale, ancora una volta un horreum, si è conservato molto bene e ci restituisce una immagine nitida e po-derosa della originaria struttura trapezoidale, organizzata intorno a una grande corte scoperta, che è stata portata alla luce per circa la metà dell’originaria estensione (l’altra metà si trova al di sotto di via B. Franklin e del Mattatoio).

La costruzione del magazzino orientale parte direttamente dai livelli utilizzati nella fase precedente, sui quali vengono scavate le fosse per le fondazioni in cementizio del nuovo edificio e del

Fig. 5 - Planimetria ricostruttiva degli horrea imperiali del Nuovo Mercato di Testacciio divisi dal corridoio.

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porticato della corte. Al di sopra delle fondazioni vengono realiz-zati muri in reticolato, alti ca. 1,7 m, che hanno ancora una volta funzione portante e disposti i grandi dadi in peperino per i pilastri del cortile. Tutto il materiale di risulta della costruzione viene am-massato al centro dell’area, andando così a ricoprire i vecchi re-cinti di anfore. Terminati i muri in reticolato, si procede a colmare tutta l’area con poderosi scarichi di materiale eterogeneo fino a raggiungere il colmo dei muri stessi: questa fase di cantiere è par-ticolarmente ben leggibile e permette di vedere i singoli momenti di costruzione e scarico e di identificare passaggi, rampe (Fig. 6) e piani di battuto utilizzati durante la costruzione dell’horreum. Raggiunto il nuovo piano di calpestio, viene creato un ulteriore livello di cantiere che serve per la costruzione dei veri alzati re-alizzati in opera mista (Fig. 7); intorno ai muri perimetrali della corte viene costruito un porticato, del quale si conservano solo le fondazioni dei pilastri. Il magazzino così completato aveva, come detto, una forma trapezoidale con vani disposti su un’unica fila (tranne che nord dove i vani sono giustapposti su due file) che si aprivano sul grande cortile centrale. Uno degli ambienti posto sul lato orientale ha i muri di spessore maggiore (2 piedi) rispetto

Fig. 6 - Colmata con rampa per la costruzione dell’horreum occidentale.

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agli altri (1,5 piedi), caratteristica riscon-trata solo nei muri perimetrali che ave-vano una funzione portante; proprio a causa di ciò è forse possibile probabile interpretare questo ambiente come un vano scala che porta-va a un livello supe-riore del quale nulla si è conservato. E’ stato identificato uno degli ingressi all’hor-reum sull’angolo NE, ma è probabile che quello principale si trovasse nella parte dell’edifico che non è stata scavata. Non è possibile fornire in-dicazioni sul tipo di merci che venivano immagazzinate in questo complesso a causa della costante non conservazione dei livelli pavimentali, capillar-mente spoliati nelle fasi successive (si veda in proposito il contri-buto di F. Pagano, M. C. Romano in questo volume).

I magazzini imperiali rinvenuti nello scavo del Nuovo Merca-to di Testaccio costruiti dalla fine del I alla metà del II sec. d.C., sono utilizzati fino a III sec. d.C. quando, contemporaneamente alla disgregazione del quartiere commerciale e all’abbandono dello scarico del Monte dei Cocci, vengono dismessi e trasfor-mati in ‘cave’ di materiale da costruzione. Prima della totale distruzione però uno dei muri perimetrali del corridoio crolla a

Fig. 7 - Particolare di un muro dell’Ambiente I dell’horreum occidentale.

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causa probabilmente di un terremoto sancendo così il definitivo abbandono degli edifici (Fig. 8).

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Antica, Roma 1960F. Coarelli, Roma [Guide Archeologiche Laterza], Bari 1997, pp. 401-403.S. Festuccia, V. S. Mellace, “Nuovo Mercato Testaccio, Scavi e ricerche”, in

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Fig. 8 - Muro crollato del corridoio.

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NUOVO MERCATO DI TESTACCIO:DALL’EMPORIO AL TESTACCIO.

LA RURALIZZAZIONEDI UN PAESAGGIO URBANO

f. pAGAno, M.c. roMAno

Le informazioni raccolte durante le indagini archeologiche nel cantiere del Nuovo Mercato Testaccio, hanno consentito di leg-gere abbastanza attentamente le fasi di costruzione dei complessi architettonici e la loro imponente vitalità durante i decenni ‘rug-genti’ della prima e media età imperiale. Altre informazioni, più sfuggenti e nascoste permettono di analizzare il loro abbandono e di tentare di fornire qualche risposta su come, quando e perché tale processo si sia manifestato.

In un palinsesto di tracce minime si distingue un indizio parti-colarmente evidente e lampante che, fin dal principio, ha attirato la nostra attenzione: la sistematica spoliazione delle murature e dei piani pavimentali. L’intero edificio occidentale testimonia la presenza di un rasatura degli alzati murari assolutamente omoge-nea, tutte le strutture sono state oggetto di un intervento capillare di asportazione di materiale edile che ha prodotto nuove superfici particolarmente regolari. La lettura dei dati raccolti nelle strati-grafie di questa fase ha consentito di appurare l’estrema precocità di questo intervento; la grande devastazione del complesso non può essere imputata, seguendo un modello diffuso, alle genera-zioni di uomini della Roma medievale, ma sembra dover essere confinata tra la fine del III e la metà del IV sec. d.C.

Sebbene la lettura delle fasi di transizione (tanto più quanto

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essa si manifesta come spoliazione e abbandono) sia uno dei com-piti più ardui nel lavoro dell’archeologo, nello scavo del Testaccio le informazioni raccolte hanno permesso di avanzare qualche ipo-tesi interpretativa. All’inizio fu probabilmente avviata la ruberia dei piani pavimentali e solo in un secondo momento fu dato av-vio alla vera e propria ‘caccia al mattone’, che ha determinato lo smontaggio quasi integrale del complesso e la captazione capillare del materiale da costruzione. Ad eccezione dei brani di muratura collassati in connessione in momenti successivi, probabilmente per fenomeni naturali (a tal proposito si vede il contributo di A. Gallone in questo volume), non sono stati in nessun caso indaga-ti depositi pertinenti al cedimento delle strutture, evidentemente mai crollate ma completamente smontate pezzo per pezzo.

Dietro il capillare smontaggio di un vasto complesso pubblico si nascondono una serie di problematiche importanti, come l’ov-via necessità di materiale, i procedimenti giuridici attraverso i quali viene condotta l’operazione o le motivazioni che hanno por-tato un edificio o un complesso di edifici ad essere ritenuto non più utile. Nel dettaglio i magazzini imperiali si denotano come un edificio pubblico, volto a soddisfare le esigenze economiche dell’apparato statale. A nostro giudizio l’inadeguatezza del com-plesso e la sua riconversione a cava di materiale, non può che essere stata gestita dal potere pubblico, l’unico che tra la fine del III e la metà del IV sec. d.C. poteva arrogarsi una simile preroga-tiva. Parimenti è possibile immaginare che anche il risultato ma-teriale del processo (il recupero dei laterizi) sia stato finalizzato a un precipuo interesse pubblico. Si tratta dunque di rintracciare l’elemento (o l’accadimento) chiave del processo. Alla fine del III secolo l’unico intervento verificatosi nella pianura dell’Emporio che sia compatibile con queste premesse è la costruzione delle mura aureliane. Si tratta di una delle più importanti imprese co-struttive mai portate a termine nel mondo antico. Sotto l’impero di Aureliano (270-275) per rispondere alla pressione sempre più forte delle popolazioni barbariche, che avevano portato la guer-ra fin nell’Italia padana, si decise di dotare Roma di un nuovo

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apparato difensivo. Dal 271 si avviò la costruzione del circuito, lungo circa 19 km, tentando di sfruttare il più possibile strutture preesistenti che potessero facilitare e velocizzare l’opera. Le nuo-ve mura invasero anche la pianura dell’Emporium, inglobando la Piramide Cestia, includendo al loro interno la grande discarica, giungendo fino al Tevere che veniva poi risalito fino all’altezza di via Marmorata, dove le mura abbandonavano la riva sinistra per proseguire nel Transtiberim. La piana sub-aventina si ritrovava quindi recintata su tre lati e soprattutto vedeva interrotto il suo simbiotico rapporto con il fiume.

Le conseguenze urbanistiche di una tale situazione sono eviden-ti: gli equilibri urbani dell’area, consolidati in secoli di evoluzione, venivano pesantemente alterati. Si può dunque immaginare il sor-

gere di un rapporto dop-pio: la costruzione delle mura aureliane (la causa) potrebbe aver decretato la perdita di funzionalità dell’area (la conseguen-za) determinando l’ab-bandono e la spoliazione del complesso per fornire di materiale la stessa fab-brica delle mura; sostan-zialmente un fattore ini-ziale che innesca un pro-cesso che si conclude de-terminando conseguenze per esso stesso. L’analisi delle fonti archeologiche e documentarie sembra comprovare che qualco-sa di importante sia av-

Fig. 1 - Sepoltura (T4).

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venuto a modificare il paesaggio urbano in quei decenni. Lo sca-vo ha dimostrato che all’indomani dell’avvenuta demolizione di gran parte del complesso, qualcuno abbia continuato a frequen-tare l’area, e che lungo ed a ridosso del vicus, siano state allestite alcune deposizioni funerarie (Fig. 1). La sequenza stratigrafica indagata permette in maniera chiara di porre questi contesti in una fase successiva alle prime attività di spoliazione: in detta-glio i piani tagliati dalle sepolture, obliterano i riempimenti delle fosse di spoliazione. Sono state rinvenute 6 sepolture di cui 5 prevedevano una deposizione all’interno di anfore, seguendo una pratica particolarmente perseguita in quegli anni1. L’ambiente nel quale si dovettero svolgere queste semplici operazioni funerarie (da collocare tra la metà metà del IV ed il V sec. d.C.) va proba-bilmente immaginato come un paesaggio scolpito dalla demoli-zione e caratterizzato dai resti di qualche rudere fatiscente ancora in piedi. Una conferma di questo processo si può cogliere in una importante fonte documentaria per la conoscenza della topografia romana: i cataloghi regionari (Codex Urbis Romae Topographi-cus, ed. C.L. Urlichs, Wirceburgi, 1871, p. 18), una fonte della metà del IV secolo nella quale vengono elencati i principali edi-fici presenti in ogni quartiere romano. Nell’elenco relativo alla XIII regio (Adventinus), non compaiono più i nomi di alcuni ma-gazzini come gli horrea Seiana o i Lolliana; una assenza che non può essere imputata ad una improbabile distrazione del redattore, ma alla precedente scomparsa dei complessi.

Da questo punto in poi, almeno per qualche secolo, la rico-struzione delle vicende diviene decisamente più complicata, e in assenza di indizi provenienti dallo scavo (che potrebbero testi-moniare un scarsa frequentazione dell’area), è opportuno allar-

1 Riguardo la caratterizzazione degli individui deposti, le analisi preliminari, condotte alla dott.ssa L. Carboni, hanno permesso di determinare la presenza di 3 individui maschili e di uno femminile (età 40/49 – 20/29 – 16/19 – 0/3 mesi).

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gare lo sguardo all’intero quartiere per tentare di intuire l’evo-luzione dell’area. Si è dunque osservato come il ‘mondo antico’ abbia lasciato in eredità alla nuova Roma medievale, la pianura sub-aventina gravemente destrutturata nelle sue entità materiali e nelle sue funzionalità. Sulla base di un preziosissimo documento epigrafico conservato nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin (A. Silvagni, Monumenta Epigraphica Christiana, vol. I, tav. XXXVII, 4,5), possiamo affermare che qualche frammento di questo paesaggio alla metà del VIII secolo sia giunto in mano a un importante personaggio della Roma bizantina che per ottenere il perdono dei peccati offre “in usu istius sanctae diaconiae pro sustentatione christi pauperum et omnium hic deservientium dia-conitarum” diversi suoi beni fondiari, tra cui alcune tavole di vi-gna “qui sunt in testacio”. Nonostante il documento non consenta di collocare puntualmente l’appezzamento agricolo oltre ad una generica posizione ‘testaccina’, da esso si possono enucleare due certi assunti: intorno alla metà del VIII secolo, l’area del Testac-cio (almeno in parte) era in mano a proprietari privati, e alcuni spazi dovevano aver assunto un connotato tipicamente rurale.

È probabile che processi simili abbiano accompagnato anche la nostra area nella fase di transizione tra l’età tardo-antica e l’al-tomedievo, senza lasciare evidenti tracce archeologiche. Gli ul-timi resti del complesso imperiale vennero sommersi dalle loro stesse macerie, e l’immagine dell’area iniziò ad acquisire una ve-ste diversa, priva degli ingombri degli edifici, che per diversi se-coli avevano segnato il suo sviluppo, e protesa verso quella lenta evoluzione che l’avrebbe portata ad assumere connotati sempre più rurali.

La già ricordata epigrafe di Santa Maria in Cosmedin, ci con-cede anche una ulteriore preziosa informazione (oltre a ricordarci i peccati di cui si dovevano macchiare le elités romane nell’al-tomedioevo!): l’avvio del processo di acquisizione di terreni da parte del potere religioso, una presenza che caratterizzerà l’area per tutta l’età medievale. Dal XIII secolo sono numerosi i docu-menti che descrivono cessioni di terreni tra enfiteuti, permute,

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pagamenti di un canone annuo e che consentono di individuare nell’area del Testaccio la presenza di possedimenti ecclesiastici. Nel 1363, il comune pagava un affitto annuo al monastero di San-ta Maria in Cosmedin, per lo sfruttamento di un pascolo comune. La presenza religiosa nell’area assumeva connotati spettacolari durante la processione della settimana santa che partiva dall’area capitolina e che si concludeva sul Monte dei Cocci.

All’interno dei palinsesti stratigrafici dello scavo del Nuovo Mercato, l’evanescente periodo medievale è da cercare negli stra-ti (spesso poco sviluppati in spessore) che separano le fasi di ab-bandono del complesso imperiale dai livelli pertinenti alle nuove occupazioni. Questi strati sono caratterizzati da una alta presenza di materiale di natura edile (grumi di malta, cubilia e scaglie in tufo) ed hanno restituito un quadro dominato da una forte ete-rogeneità, con alte incidenze di materia-le residuale. Sembra possibile interpretare questi depositi come il prodotto della di-sgregazione fisiolo-gica di quelle strut-ture murarie che an-cora emergevano in un contesto di totale abbandono: un pro-cesso deposizionale naturale di lunga du-rata che ha determi-nato la copertura ge-nerale delle strutture romane.

Fig. 2 - Il vicolo della Serpe.

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Su questi strati, quasi un anello di congiunzione tra l’Empo-rium ed il Testaccio, si sono impostati altri livelli con tracce di vissuto più evidente che hanno raccontato ‘egregiamente’ le sto-rie del quartiere in età moderna.

Tra la tarda età medievale e il primo rinascimento, l’area as-sume dunque una veste nuova, o forse meglio, formalizza ciò che si era manifestato già precedentemente. Il paesaggio completa-mente rurale, viene tagliato da un piccolo percorso viario, che le fonti più tarde ricorderanno con il suggestivo nome di vicolo del-la Serpe e che avrà una fortuna duratura fino al riassetto urbano di età contemporanea (Fig. 2). Il manto stradale viene realizzato mediante una articolata stratificazione prodotta dall’accumulo di migliaia di frammenti ceramici di piccole dimensioni (ovviamen-te quasi completamente residui di età romana), garanzia di un buona tenuta drenante del tracciato, e si conclude con una super-

Fig. 3 - Il casale.

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ficie ricca di tracce di esposizione e di usura dovute alla percor-renza di carri. Lo scavo ha dimostrato come, nello stesso periodo, sia sorto un nuovo contesto edilizio, direttamente affacciato sul vicolo. Prende forma infatti un casale rurale (Fig. 3), che verrà sottoposto a diversi interventi di restauro e di modifica strutturale durante i secoli successivi. Il primo nucleo architettonico (dotato di due ambienti, e probabilmente sviluppato su di un unico livel-lo), nel corso del XVII secolo verrà ampliato, tamponando gli ac-cessi originari, rinforzando il limite verso la strada, per consentire la costruzione di un piano superiore. La creazione di nuovi spazi consentì probabilmente la riconversione ad ambiente di lavoro (magazzino o stalla) del volume posto a fianco della strada, che viene ora dotato di un ampio e comodo ingresso verso nord. La trasformazione funzionale dell’ambiente sembra essere provata dalla rimozione di un pavimento in mattoni per la messa in opera di una nuova e più robusta pavimentazione in selci e frammen-ti di marmo. Negli stessi interventi si definisce l’allestimento di un piano rialzato e pavimentato in scaglie di basalto all’interno dell’ambiente est, che potrebbe essere messo in relazione con attività produttive, forse legate alla trasformazione delle risorse agricole (Fig. 4).

Le informazioni raccolte nello scavo hanno permesso di appu-rare che gran parte del materiale utilizzato per questi importanti interventi costruttivi sia stato reperito in loco. Sono state rintrac-ciate infatti numerose fosse scavate nella vicina area agricola, la loro distribuzione presenta un disegno ben preciso che sembra concentrarsi in relazione agli originari piloni in peperino posti a sostegno del portico dell’horreum occidentale, quel peperino che sotto forma di scaglie si riscontra negli interventi apportati al ca-sale. Contemporaneamente il tracciato stradale viene interessato dalla stesura di nuovi strati composti di nuovo essenzialmente da materiale ceramico, che portano il livello stradale a crescere di circa 40 cm. L’ambiente intorno alla strada ed al casale doveva presentare un immagine schiettamente rurale. Numerose trincee parallele avevano inciso il terreno, fino ad intaccare le ormai se-

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polte creste delle murature degli horrea, lasciando la memoria di coltivazioni intensive, perfettamente compatibili con le descri-zioni delle fonti documentarie e con le immagini che numerose mappe e vedute hanno tramandato.

Il paesaggio che gli scavi hanno restituito riguardo alle forme di occupazione tra il ‘600 e l’800, è dunque pianamente coeren-te con l’idea storica dell’ambiente del Testaccio rurale. Anche in questo caso i resti rin-venuti possiedono un potere rappresentativo che li proietta al di là della dimensione di area archeologica e gli attribuisce la dimen-sione di museo territo-riale. Nelle tracce ar-cheologiche si ritrova l’ambientazione agri-cola, fatta di vicoli di campagna, di casali, e di campi coltivati, si percepisce la vocazio-ne vinicola della zona, si intuisce lo sfrutta-mento delle risorse na-scoste nel sottosuolo e di quella caccia alla statua ed al capitello, che ha animato per se-coli i campi e le vigne del quartiere.

Fig. 4 - Foto da pallone fre-nato dell’area del casale (foto Akhet s.r.l.).

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Lo scavo ha permesso di annotare ulteriori evoluzioni del com-plesso, come la messa in opera di un lavatoio a ridosso del muro nord del complesso, l’allestimento di una nuova strada in terra battuta e la protezione dell’accesso carrabile al casale mediante alcuni paracarri. Attraverso queste lente forme evolutive il pae-saggio rimase immutato fin alle soglie dell’età contemporanea, quando le esigenze delle modernità si impossessarono dell’area.

Dopo il 1870 la storia del quartiere, alla stregua di molti altri quartiere romani, subisce una forte accelerata. L’area dello scavo, in quegli anni occupata dagli orti e dai vigneti della famiglia Tor-lonia, rientra all’interno di una serie di provvedimenti che tendo-no a trasformare la piana del Testaccio in quartiere industriale, e che vengono sintetizzati nell’approvazione del Piano Regolatore del 1882. Si avvia dunque la costruzione del grande complesso del Mattatoio, progettato da Gioacchino Ersoch, e parallelamente si progettano le residenze per i lavoratori. L’Istituto Case Popolari coordina la fase esecutiva e gestionale delle residenze e nell’area interessata dal cantiere promuove la costruzione di otto edifici chiamati popolarmente ‘villinetti’2. Durante i primi interventi di scavo, durante quella fase di attesa e di interrogativi su cosa si nasconde sotto il terreno, la competenza e la passione di Silvia hanno permesso di raccogliere e documentare le tracce di queste storie recenti. Memorie minime (dai flaconi di profumo di chissà quale avvenente signora, al cartellino di un giovane calciatore in erba), segni lasciati dai penultimi protagonisti della storia di un ettaro di Roma. Penultimi e non ultimi perché confidiamo che an-che le storie ed il ricordo di chi ha contribuito a riscoprire queste memorie si siano stratificate sul suolo.

2 L’ambientazione popolare ha proiettato i villinetti nella dimensione di set ci-nematografico, durante la stagione del neo-realismo italiano. In particolare il complesso edilizio costituisce l’ambientazione delle scene finali di Accattone di Pier Paolo Pasolini del 1961. I c.d. ‘villinetti’ verranno demoliti intorno agli anni ‘60.

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NUOVO MERCATO DI TESTACCIO:DALLO SCAVO ARCHEOLOGICO ALLO

STUDIO DEI MATERIALI. I REPERTI CERAMICI DELL’AMBIENTE I DEGLI HORREA

clAudiA teMpeStA

Lo scavo archeologico è stato definito da Andrea Carandini come un “Giano bifronte, di cui un volto è l’attività sul campo e un altro l’attività in laboratorio per lo studio dei reperti”. Benché lo scavo e lo studio dei materiali siano due attività ben distinte -l’uno inizia infatti dove finisce l’altro- essi appaiono strettamente interdipendenti: se l’accuratezza delle procedure di scavo e docu-mentazione è infatti condizione indispensabile per l’interpretazio-ne dei dati che emergono dall’analisi dei materiali, la correttezza delle metodologie impiegate nello studio dei reperti è a sua volta un requisito necessario alla piena comprensione della funzione, dei modi e, soprattutto, dei tempi di formazione dei depositi ar-cheologici. Perché l’analisi integrata dei contesti archeologici e dei contesti ceramici possa risultare realmente efficace in termini di conoscenza, tuttavia, il rigore metodologico e la correttezza delle procedure adottate non sono sufficienti: assolutamente in-dispensabile è la costante collaborazione e comunicazione tra chi scava e chi studia la ceramica. Questo spirito di collaborazione ha improntato lo studio dell’ambiente I degli horrea, primo -e finora unico- bacino stratigrafico del Nuovo Mercato di Testaccio di cui siano stati esaminati integralmente i materiali: se questo studio è stato portato a termine e ha prodotto qualche risultato, è in gran parte merito di Silvia, che non soltanto ha condotto con gran-

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de sensibilità e rigore lo scavo dell’ambiente I, ma ha mostrato anche una straordinaria attenzione e disponibilità verso chi si è occupato dello studio della ceramica.

L’ambiente I è situato nella fila più interna delle due che chiu-dono il complesso degli horrea del Nuovo Mercato sul lato nord-occidentale (si veda il contributo e la Fig. 4 di S. Festuccia, G. Verde in questo volume): orientato in senso nord-ovest/sud-est ed originariamente accessibile dal piazzale, misura 8,75 x 4,25 m ed è delimitato su tutti i lati da muri in opera mista. I muri si impo-stano su sostruzioni in reticolato, costruite a vista, che poggiano a loro volta su un’ulteriore fondazione in calcestruzzo, tagliata in una serie di strati preesistenti alla costruzione degli horrea fino allo strato sterile (si veda Fig. 7 del contributo di A. Gallone in questo volume).

Gli strati scavati all’interno dell’ambiente hanno restituito co-spicue quantità di materiale ceramico. Per quanto in sé piuttosto ampio (si tratta infatti di ben 31841 frammenti), questo materiale è in ogni caso di un campione estremamente esiguo rispetto al totale della ceramica recuperata nello scavo del Nuovo Mercato: per dare un’idea anche solo approssimativa della sua (scarsa) rap-presentatività, basti dire che il materiale dell’ambiente I riempie appena 72 delle oltre 2000 cassette finora inventariate. L’esigui-tà del campione analizzato non consente di sviluppare in questa sede un autentico studio tipologico: ci si concentrerà pertanto sul contributo che lo studio della ceramica ha fornito all’interpreta-zione cronologica e funzionale del contesto stratigrafico. Sono stati presi in esame i frammenti ceramici provenienti da 29 unità stratigrafiche, che è stato possibile suddividere in tre fasi princi-pali, corrispondenti al periodo precedente alla fondazione degli horrea (fase I, distinta in due sottofasi), alla costruzione del com-plesso (fase II) e all’abbandono e all’obliterazione dell’ambiente (fase III, anch’essa distinta in due sottofasi).

I materiali provenienti dagli strati della fase I, tagliati dalle fondazioni degli horrea, si distinguono nettamente da quelli rin-venuti negli strati appartenenti alle fasi successive: mentre infatti

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in queste ultime oltre il 90% del materiale ceramico è costituito da anfore, nella fase I la percentuale della ceramica fine e comu-ne oscilla tra l’85 e il 92% (Fig. 1). Sulla base dell’analisi dei materiali la fase I è stata divisa in due sottofasi, databili all’età augustea e all’età giulio-claudia.

La cronologia della fase Ia si ricava principalmente dai fram-menti di sigillata italica (uno dei quali presenta un bollo noto su piatti databili entro il 10 a.C.) e di ceramica a pareti sottili, riferi-bili in parte a tipi che appartengono ad un repertorio di tradizione repubblicana (Marabini VII e Marabini VIII/Ricci 1985, 2/279), in parte a forme introdotte a partire dall’età augustea (Marabini XXXII, Marabini XXXVI, Marabini LXI). I frammenti appar-tenenti alle altre classi confermano la datazione suggerita dalle ceramiche fini: la ceramica comune da mensa e da fuoco trova confronto soprattutto con i tipi attestati in area romana e laziale tra l’epoca tardo-repubblicana e la prima età imperiale, così come il frammento di lucerna (attribuibile al tipo Dressel 4, prodotto tra il 50 a.C. e il 15 d.C.), e il frammento di tegame in ceramica a vernice rossa interna (Goudineau 1970, tav. II, n. 17, databile tra il 9 a.C. e il 16 d.C.). Sebbene non offrano elementi di datazione determinanti, le anfore non contraddicono la cronologia suggerita

Fig. 1. Fasi I-III: distribuzione delle classi ceramiche.

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dalla ceramica fine e comune. I due soli frammenti significativi sono infatti pertinenti ad una Dressel 2-4 di produzione italica e ad una Dressel 7-11 betica: tali anfore, pur presentando una no-tevole continuità di produzione e circolazione, sono in ogni caso ben rappresentate nei contesti italici di epoca augustea, come ad esempio il deposito della Longarina.

La datazione della fase Ib all’età giulio-claudia o neronia-na poggia principalmente sulla presenza di un tipo di coppa di ceramica sigillata italica introdotta a partire dall’età tiberiana (Conspectus 36) e sulla ceramica comune da mensa e da fuoco, confrontabile con tipi attestati prevalentemente in contesti roma-ni ed ostiensi della prima metà del I sec. d.C. Tale cronologia è confermata dalle anfore (Fig. 2), tra le quali predominano tipi di produzione italica (Dressel 1, Dressel 2-4 italiche, Dressel 6): questa distribuzione suggerisce una datazione entro il terzo quar-to del I sec. d.C., anteriore all’incremento che si registra in età flavia nelle importazioni di vino dalle province, conseguenza del-la crisi dei tradizionali centri di produzione italici (cui concorse anche l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.) e del parallelo sviluppo dell’economia provinciale.

L’assoluta prevalenza della ceramica fine e comune sulle an-

Fig. 2. Fase I: anfore italiche.

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fore porta a ritenere che i materiali provengano da un contesto di tipo domestico (forse una villa situata nelle vicinanze), piuttosto che di tipo horreario; tale impressione è rafforzata dalla presenza, negli stessi strati, di cospicue quantità di intonaco dipinto e stucco modanato.

Costituiti in massima parte da riporti destinati a colmare lo

Fig. 3. Fase II: distribuzione delle anforeper contenuto.

Fig. 4. Fase II: distribuzione delle anforeper provenienza geografica.

spazio tra le sostruzioni in reticolato, gli strati della fase II possono essere con-siderati parte di un’unica attività collegata all’edi-ficazione dell’ambiente I degli horrea. La cronolo-gia di questi strati si ricava dall’analisi congiunta dei tipi anforici e della cerami-ca fine -in particolare della sigillata, all’interno della quale dominano le produ-zioni tardo-italiche non de-corate (quattro coppe del tipo Conspectus 34 e una coppa Conspectus 37.5)- ma anche da alcuni elemen-ti esterni, quali i rapporti stratigrafici, la tecnica edi-lizia e l’apparato epigrafico delle strutture murarie: tali dati consentono di datare la formazione del contesto ceramico tra la fine del I e la metà del II sec. d.C. e di collocare la chiusura del deposito intorno al secondo quarto del II sec. d.C.

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Gli strati della fase II hanno restituito un elevatissimo numero di frammenti ceramici, tra cui predominano largamente le anfo-re, che costituiscono circa il 92% del totale (Fig. 3): tra le anfo-re prevalgono nettamente i contenitori vinari (91,5%), mentre i contenitori oleari e da garum raggiungono complessivamente un indice inferiore del 2% (il 6,4% è costituito infatti da anfore di contenuto incerto).

La distribuzione percentuale dei contenitori vinari appare del tutto singolare se rapportata ai contesti contemporanei (Fig. 4). Le anfore italiche, che in questo periodo hanno a Roma indici pari a circa il 40%, rappresentano nel contesto esaminato appena il 7,8% del totale: tra le anfore italiche appaiono molto ben rappre-sentate le Dressel 2-4, nonostante la loro produzione fosse ormai in fase declinante, a fronte della scarsa attestazione delle anfore a fondo piatto dell’Italia centrale interna e dell’Emilia, che pure a partire dalla tarda età flavia conquistano un peso crescente sul mercato di Roma e di Ostia. Altrettanto insolita è la geografia del-le importazioni provinciali: contrariamente a quanto accade nei contesti contemporanei, che registrano un notevole incremento

Fig. 5. Fase II: anfore italiche e anfore galliche.

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soprattutto nelle importazioni di vino dalle province occidentali (ed in particolare galliche), nel contesto preso in esame le anfore galliche, iberiche ed africane si attestano complessivamente su un indice di appena il 3%, mentre le anfore galliche, considerate singolarmente, non raggiungono l’1% (Fig. 5).

Il dato più inte-ressante è tuttavia la netta prevalenza delle anfore orien-tali (88,4%), che non trova alcun ri-scontro nei luoghi di consumo inda-gati a Roma e ad Ostia, dove nel II sec. d.C. l’inciden-za delle importa-zioni dall’Oriente non supera gene-ralmente il 30% dei contenitori vinari. L’anomalia appare ancora più evidente se si esamina la compo-sizione del campione delle anfore orientali: mentre nei contesti adrianei ed antonini di Roma e di Ostia, le orientali sono più o meno equamente suddivise tra le anfore egee, microasiatiche e cretesi, nell’ambiente I degli horrea le anfore di produzione cre-tese (Cretese 1, Cretese 2, Cretese 3 e Cretese 4) costituiscono quasi il 95% del campione, contro il 3,5% delle anfore egee e l’1,7% delle anfore dell’Asia Minore (Figg. 6 e 7).

L’anomalia che caratterizza il contesto dell’ambiente I in re-lazione alla presenza delle anfore orientali, e delle anfore cretesi in particolare, deve essere certamente imputata ad una fortissima selezione del materiale precedente alla formazione del deposito archeologico. Si può, in altre parole, ipotizzare che negli stra-ti di fondazione dell’horreum siano stati riutilizzati -allo scopo

Fig. 6. Fase II: distribuzione per provenienzadelle anfore vinarie orientali.

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precipuo di creare un vespaio- materiali anforici provenienti da uno scarico specializzato, destinato allo smaltimento delle anfore cretesi ed ubicato presumibilmente nelle vicinanze. L’esistenza di scarichi di questo tipo -certo meno organizzati e controllati, ma nella sostanza non dissimili dallo scarico di anfore olearie del Te-staccio- trova ora un’importante conferma nella situazione messa in luce nei livelli pre-horreum di altri settori dello scavo (si veda il contributo di A. Gallone in questo volume). Tale spiegazione non deve tuttavia mettere in ombra il fatto che l’eccezionale quanti-tà di contenitori cretesi (Fig. 8) rinvenuti nello scavo del Nuovo Mercato di Testaccio (un numero minimo di oltre 240 esemplari nel solo ambiente I) non ha eguali al di fuori dell’isola di Creta: tale quantità testimonia la prosperità del commercio vinario cre-tese in epoca medio-imperiale, e deve indurre a rivalutare seria-mente le stime correnti relative alla circolazione del vino di Creta sul mercato di Roma.

Fig. 7. Fase II: anfore orientalih. Fig. 8. Fase II: anfore cretesi.

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Gli strati della fase III corrispondono all’abbandono e alla de-finitiva obliterazione dell’horreum. Sulla base dei materiali, è sta-to possibile distinguere due sottofasi, la cui datazione è stata resa particolarmente ardua dalla scarsissima presenza di reperti conte-stuali, a fronte di un indice di residualità che tocca il 95%. La fase IIIa è stata datata nel corso del III sec. d.C. grazie alla presenza di alcune anfore vinarie (Dressel 30 e Kapitän II) ed olearie (Afri-cana II) che non sono documentate a Roma prima dell’età tardo-antonina o severiana (Fig. 9). Nella fase IIIb, tra i pochi materiali contestuali alla chiusura del deposito archeologico devono essere segnalati in particolare alcuni frammenti riconducibili ai tipi lu-sitani Almagro 50 e 51, al tipo africano Keay XXV, e, soprattut-to, alle anfore Keay LII e Ostia IV,166 (prodotte probabilmente nell’Italia meridionale o in Sicilia), ben attestate a Roma tra la metà del IV e il V secolo (Fig. 10). Il resto del materiale anforico, così come la totalità della ceramica fine e comune, appare residua ed è nel complesso databile tra il I e il II sec. d.C.: tra i residui, particolarmente degni di nota sono alcuni frammenti di calamaio in ceramica invetriata romana che non presentano tracce d’uso e possono essere probabilmente interpretati come scarti di produ-

zione di una fornace ubicata nelle vici-nanze e messa forse fuori uso al momen-to della costruzione dell’horreum.

L’altissimo tas-so di residualità, l’estrema varietà ti-pologica, l’elevato indice di frammen-tarietà -come anche la presenza di mate-riali residui ben do-cumentati non negli Fig. 9. Fase IIIa: anfore africane ed orientali.

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strati immediatamen-te sottostanti bensì negli strati medio-imperiali degli am-bienti adiacenti- por-tano a ritenere che la formazione degli strati della fase III sia non soltanto conte-stuale all’obliterazio-ne dell’horreum, ma anche direttamente legata alle attività di scavo e di spoglio che interessarono l’edifi-cio in seguito al suo definitivo abbandono.

Per concludere, occorre sottolineare che, data la limitatezza del campione analizzato, i risultati presentati devono intendersi come assolutamente parziali e preliminari rispetto allo studio comples-sivo e sistematico che è stato avviato dall’équipe di ricerca sui reperti provenienti dallo scavo. In ogni caso, attraverso lo studio tipologico e quantitativo dei reperti e il loro inquadramento nel relativo contesto stratigrafico si è cercato di dar conto, seppure brevemente, della straordinaria ricchezza del contesto del Nuovo Mercato di Testaccio, nonché della sua eccezionale importanza ai fini della ricostruzione delle dinamiche produttive, commerciali e di consumo di Roma dall’epoca tardo-repubblicana all’epoca tardo-antica.

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EPIGRAFIA E TOPOGRAFIA: LO SVILUPPODELLA PIANURA AVENTINA IN ETÀ ROMANA

MirellA SerlorenZi

Ho incontrato Silvia per la prima volta nell’estate 2006 quan-do mi fu proposto di lavorare insieme al collega R. Sebastiani allo scavo del Nuovo Mercato di Testaccio. All’inizio il dialogo non fu sempre facile in quanto la riorganizzazione del cantiere per un ampliamento di scala con l’impiego di nuovi archeologi determinò qualche malumore; ma Silvia come Giovanna Verde e Silvia Festuccia compresero presto il motivo delle scelte effet-tuate contribuendo ad istaurare un clima di fattiva collaborazione. Lo scavo di Testaccio è stato infatti per tutti noi il luogo dove tante persone diverse e sconosciute si sono ritrovate, incontrate e amalgamate fino a dare vita ad un gruppo di studiosi che hanno avuto anche la fortuna di diventare amici. Il futuro della ricerca che io iniziavo a condividere con Silvia beneficiava proprio di questa particolare situazione. Credo fermamente che sia compito di un direttore dello scavo percepire le potenzialità di ognuno e catalizzare le specifiche inclinazione e gli interessi per dar vita ad un ampio e articolato progetto di ricerca.

Silvia era arrivata più tardi di molti di noi, alla ricerca arche-ologica pura e alla scavo stratigrafico. La sua formazione origi-naria era stata invece storica, occupandosi di epigrafia, ma ad un certo punto anche lei era stata rapita, come la maggior parte degli archeologi di questa generazione, pionieri dell’archeologia urba-na, dalla sirena di Ulisse dello scavo, il cui canto ti inebria e ti immobilizza. L’archeologia però non è solo ricerca sul campo, e

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la traduzione del dato materiale in storia, è soltanto uno dei tanti documenti che occorre tenere in considerazione nel lavoro ben più complesso finalizzato alla ricostruzione del passato.

Per questa ragione vedevo in Silvia una fortunata coinciden-za di esperienze che avrebbero giovato particolarmente all’ap-profondimento di alcuni temi. Lei, amava l’interdisciplinarietà e aveva voluto attraversare dall’interno alcune discipline come la geoarcheologia o la conoscenza delle più moderne tecniche di scavo, ma era una storica e proprio perchè aveva intrapreso en-trambi i percorsi la invitavo a riabbracciare l’epigrafia per ricom-prenderla in un discorso più ampio che tenesse conto dei prezio-

sissimi dati prove-nienti dalle nostre ricerche sul cam-po. Più volte ab-biamo discusso di un’idea che si era formata in quegli ultimi mesi, legata alla studio della to-pografia della pia-nura aventina e in particolare alla ri-costruzione dei va-ri cambiamenti di proprietà partendo dal riesame critico di tutte le iscrizio-ni, comprese quel-le dei bolli lateri-

Fig. 1 - Foto del corridoio tra i due edifici di età im-periale del Nuovo Merca-to di Testaccio.

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zi. L’idea nasceva dalla necessità di identificare in maniera più circostanziata gli edifici di età imperiale rinvenuti nello scavo del Nuovo Mercato di Testaccio (si vedano i vari contributi sul Nuovo Mercato di Testaccio in questo volume). Come si è visto si tratta di due magazzini distinti (si veda Fig. 5 in A. Gallone in questo volume), quello ad ovest di forma trapezoidale con corte centrale porticata, quello ad est contrassegnato da navate longi-tudinali scandite da pilastri. I due complessi, mai comunicanti fra di loro, sono separati da uno stretto corridoio (Fig. 1) il cui muro ovest è caratterizzato da più fasi costruttive che dimostra-no come esso abbia da sempre costituito un limite di proprietà tra le due aree.

Prima di inoltrarci su problemi di identificazione è bene vol-gere un rapido sguardo a quelle che sono le nostre conoscenze topografiche dell’area quando a partire dal II sec. a. C. fu scelta dallo Stato romano come luogo dove collocare il porto fluviale. Il progetto urbanistico di ampio respiro interessò l’edificazione del grandioso complesso della Porticus Aemilia (Fig. 2), che aveva verso il fiume, come afferma lo storico Livio, uno spazio destina-to all’Emporio, fornito di approdi, scale e moli lungo il Tevere, che successivamente venne pavimentato e delimitato.

Sebbene i frammenti della Forma Urbis severiana coprano una superficie limitata rispetto all’ampiezza dell’area, essi per-mettono in ogni caso di ricostruire a grandi linee la struttura to-pografica portante e di delineare in via d’ipotesi gli assi viari più rappresentativi della zona (Fig. 3).

Prima dell’edificazione della Porticus Aemilia, come testimo-niano le fonti, l’area aveva un carattere privato ed era occupa-ta per la maggior parte da horti appartenenti ad alcune famiglie aristocratiche che tanta parte avranno nella storia repubblicana e primo-imperiale della città. L’area all’inizio del II sec. a.C. era esterna al pomerio e, ad eccezione di alcuni edifici funerari e di eventuali apprestamenti di scarsa rilevanza architettonica, verosi-milmente doveva ancora conservare un carattere periferico e dalla probabile vocazione agraria.

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La scelta di co-struire un grande magazzino statale prospiciente il fiu-me per accogliere e conservare le merci, sempre più abbondanti visto il continuo incre-mento della popo-lazione, porterà in brevissimo tempo ad una trasfor-mazione radicale della zona. Que-sto processo non fu esente da con-seguenti specula-zioni economiche sul nuovo valore dei terreni dispo-nibili, che fecero la fortuna di molte famiglie aristocra-tiche i cui investi-menti si concentreranno, a partire da questo momento, nell’edifi-cazione di nuove strutture commerciali sui fondi di loro proprietà. Tale situazione deve aver determinato una crescita costante ma casuale di edifici, come si può ancora leggere nella trama irrego-lare degli isolati rappresentati nella Forma Urbis, che denota la mancanza di una progettazione omogenea e contemporanea.

Sostanzialmente sono presenti nell’area alcune importanti fa-miglie aristocratiche i Sulpici, i Lolli i Seii, ma vengono citati dalle fonti anche gli Anici, i Petroni e forse i Semproni. Sicura-mente tra i complessi commerciali citati il più imponente è quel-

Fig. 2 - Ricostruzione della Forma Urbisdi Carettoni con il frammento 24a.

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lo degli Horrea Galbana che si estende su una superficie molto ampia. Il complesso principale è caratterizzato da ambienti aperti su tre grandi corti porticate interpretate da alcuni studiosi come ergastula, cioè gli ambienti dove vivevano gli schiavi addetti ai lavori di stoccaggio delle merci, e da un edificio più vasto a sud di esso costituito da navate scompartite da pilastri da identificarsi come il magazzino vero e proprio. Non è noto chi sia il perso-naggio che diede inizio alla costruzione degli Horrea Galbana: conosciamo da Cicerone un Servius Sulpicius Galba che nel 180 a.C. possedeva dei giardini sull’Aventino e sui quali amava pas-seggere con il suo amico Ennius; ci è noto inoltre il figlio che nel 151 a.C. si macchiò del massacro di 30000 lusitani nell’Hispania Ulterior e poi divenne console nel 144 a.C.; e infine il nipote omonimo propretore della Hispania Ulterior nel 111 e 110 a.C., console nel 108 a.C., a cui si deve con più probabilità attribuire l’inizio dell’opera. La sua fortuna infatti lo autorizza a un atto di evergetismo nella sua città natale di Terracina, dove restaura il tempio di Giove Anxur, e forse costruisce nello stesso periodo anche il complesso degli horrea a Roma all’interno dei quali in-serirà il suo grande edificio funerario.

Nella metà del I sec. a. C. vengono eretti da un’altra famiglia aristocratica gli Horrea Lolliana (Fig. 4), che godono di una po-sizione privilegiata sul fiume e sono caratterizzati da due corti contornate da tabernae. Si ritiene in genere che il realizzatore degli horrea sia da identificarsi con il padre di Lollia Paullina o con il nonno console nel 21 a.C. anche se secondo F. Coarelli i magazzini dovrebbero essere più antichi forse costruiti proprio dal celebre M. Lollius Palicanus partigiano di Pompeo.

Erano presenti infine, tra i due edifici, gli Horrea Seiana i meno conosciuti, in quanto non sopravvivono strutture, e sono noti dal-le fonti epigrafiche , in particolare da due dediche al conductor e al genio horreorum Seianorum oltre che a cinque iscrizioni a carattere sacro che riportano il nome degli Horrea Seiana. Dif-ficile è stabilire chi sia il costruttore dei magazzini, le iscrizioni menzionate si riferiscono al I secolo d.C., ma se vogliamo far ri-

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salire il nome dell’edificio ad uno degli esponenti della gens Seia si potrebbe pensare M. Seius, edile nel 74 a.C. amico di Cicerone, oppure a L. Seius Strabo prefetto dell’Egitto, la cui eredità passò in parte a Tiberio.

Le famiglie dei Lolli, dei Galba, e dei Seii attraversarono in-denni il complesso periodo delle guerre civili, e i loro membri con abilità e lungimiranza non furono coinvolti nella tempesta del-la fine della Repubblica anzi riuscirono a rinsaldare il loro ruolo sulla scena politica ed economica. Li ritroviamo infatti tutti dalla parte di Ottaviano Augusto a sostenere il nuovo regime con la messa a disposizione della loro competenza e dei loro patrimoni. Patrimoni che, va sottolineato, furono rinsaldati dai contatti com-merciali che tali famiglie si erano costruiti in seguito alla loro

Fig. 3 - Ricostruzione topografica della pianura aventina in età imperiale(le parti contornate rappresentano i frammenti della Forma Urbis;

i resti archeologici sono desunti da Lanciani).

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attività politica in Spagna e in Egitto e che riguardava essenzial-mente l’importazione di vino, olio e cereali. Negli anni successivi la fortuna di queste tre famiglie raggiunge la massima afferma-zione e questi aristocratici entrano in contatto diretto con la casa imperiale attraverso matrimoni ed adozioni: i Galba arrivano con Servius Sulpicius addirittura ad indossare la porpora imperiale grazie anche al fortunato matrimonio del padre, nei primi anni dell’Impero, con Livia Ocellina parente dell’imperatrice Livia. I Lolli giungono alla corte imperiale grazie a Lollia Paullina che diventa sposa di Caligola anche se in seguito verrà ripudiata; i Seii infine rivestono uno dei ruoli politici più influenti con Seia-no, prefetto del pretorio di Tiberio.

La massima ascesa di queste aristocrazie e il collegamento di-retto con l’Impero, nella prima metà del I sec. d.C., coincide con la loro altrettanto rapida caduta e la conseguente confisca dei beni che segnò il passaggio degli horrea dell’Emporio alla proprietà pubblica: Lollia Paullina subisce la confisca di tutti i suoi beni da parte di Claudio; il patrimonio di Seiano dopo la sua morte viene requisito dallo Stato; gli Horrea Galbana sotto Galba diventano prima res privata dell’imperatore e successivamente con i Flavi verranno annessi alla proprietà pubblica.

Tutte le notizie finora riportate sono riferibili all’età repub-blicana o ai primissimi anni dell’Impero, malgrado ciò è forse possibile utilizzarle come linea guida per lo studio dei periodi successivi della pianura aventina.

Se rivolgiamo nuovamente lo sguardo alla pianta ricostruttiva di età imperiale, e esaminiamo in dettaglio il frammento 24a del-la Forma Urbis Severiana, purtroppo non più conservato e noto da un disegno cinquecentesco (Fig. 2), notiamo come i pilastri rinvenuti nel magazzino est dello scavo sembrino abbastanza coerenti con quelli della Forma Urbis, suggerendo che entrambi possano far parte dello stesso isolato. Se ciò si rivelasse vero, e va sottolineato che allo stato attuale della ricerca si tratta più che di un’ipotesi di una suggestione, il corridoio che separa i due edifici rinvenuti nello scavo potrebbe costituire il confine ovest

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dell’estesa proprietà dei Galba la cui presenza nell’area è accerta-ta già dall’inizio del II secolo a. C.

La sostenibilità di questa suggestione animava il dibattito con Silvia, con la quale ci riproponevamo di riesaminare criticamen-te le fonti epigrafiche, risalendo al loro posizionamento puntuale e cercando quindi di ricostruire le relazioni familiari e politiche dei proprietari dei diversi fondi. L’integrazione di questi dati nel contesto dei resti archeologici degli edifici noti e dei risultati delle ricerche svolte da tutta l’équipe dello scavo del Nuovo Mercato di Testaccio avrebbe portato ad una lettura diacronica della topogra-fia della pianura aventina in età romana.

Fig. 4 - Frammento della Forma Urbis con gli Horrea Lolliana.

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Prefazione DAT .......................................................................................... Pag. 5Storia di un’archeologa Maurizio Vitale ......................................................................... “ 9Pubblicazioni di Valeria Silvia Mellace ........................................... “ 23

Introduzione: L’archeologia con gli occhi di Silvia Renato Sebastiani ..................................................................... “ 27La tesi di laurea: “Schiavi e liberti imperialinella documentazione epigrafica del museo nazionale romano” Michela Nocita ......................................................................... “ 35Il progetto per il museo della preistoria d’Abruzzo a Celano Giovanni Scichilone ................................................................. “ 47La geoarcheologia: Il Fucino Matilde Civitillo, Biancamaria Greco, Valeria Silvia Mellace .............................................................. “ 61Valeria Silvia Mellace negli scavi del Templum Pacis(23 ottobre 1998 – 31 dicembre 2000) Margherita Capponi ................................................................ “ 109Ricerche nel XV Municipio, Roma.................................................. “ 115 Laura CianfrigliaGli scavi di Vigna Pia e Muratella (2001-2002) Maria Cristina Grossi .............................................................. “ 121Gli scavi archeologici a via Idrovore della Magliana Laura Cianfriglia ..................................................................... “ 131Comprensorio Italgas - via delle Idrovore della Magliana,n. 121- XV Municipio: indagine geoarcheologica Renato Matteucci, Valeria Silvia Mellace, Carlo Rosa ........... “ 137Le indagini geoarcheologiche nel quadrante Sud-Ovestdi Roma: L’italgas e gli ex Mercati Genarali Valeria Silvia Mellace, Carlo Rosa, Renato Matteucci, Renato Sebastiani ...................................... “ 143

INDICE

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Nuovo Mercato di Testaccio: Storie da un cantiere Silvia Festuccia, Giovanna Verde ............................................ “ 153Nuovo Mercato di Testaccio: Lo sviluppo di un quartierecommerciale tra la tarda Repubblica e l’Impero Anna Gallone ........................................................................... “ 169Nuovo Mercato di Testaccio: Dall’ Emporio al Testaccio.La Ruralizzazione di un paesaggio urbano Fabio Pagano, Maria Cristina Romano .................................. “ 179Nuovo Mercato di Testaccio: Dallo scavo archeologicoallo studio dei materiali. I reperti dell’ambiente I degli Horrea Claudia Tempesta ..................................................................... “ 189Epigrafia e Topografia: lo sviluppo della pianura aventinain età romana Mirella Serlorenzi .................................................................... “ 201

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