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ARIMINUM Periodico bimestrale fondato dal Rotary Club Rimini Storia, arte e cultura della Provincia di Rimini 1921. Le onoranze al Milite Ignoto Roberto Rossi: Il trombone di Viserbella “L’isola e le rose” di Walter Veltroni Borgo Marina Il Porto antico e medievale Anno XIX - N. 5 - Settembre/Ottobre 2012
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Storia, arte e cultura della Provincia di Rimini

1921. Le onoranze al Milite Ignoto

Roberto Rossi: Il trombone di Viserbella

“L’isola e le rose” di Walter Veltroni

Borgo MarinaIl Porto antico e medievale

Anno XIX - N. 5 - Settembre/Ottobre 2012

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 5

EDITORIALE

Fuori onda

VELTRONI E LE ROSE …

Ho letto “L’isola e le rose” di Walter Veltroni e mi è piaciuto. Un bel romanzo. Brioso e vero. Vero anche nelle parti di pura fan-tasia. Non pensavo mai che un “esterno” riuscisse a penetrare così bene nel genius loci di questa città e cogliere quel sentimento di orgogliosa leggerezza che si annida nell’animo del riminese, sem-pre pronto a rincorrere i propri sogni con quella sana incoscien-za che lo spinge a credere di cambiare il mondo stando seduto al bar. Non pensavo mai, insomma, che un “forestiero”, per quanto scrittore talentuoso, fosse in grado di intingere l’ispirazione negli effetti sorprendenti del nostro Garbino. Ma non sono qui a parla-re del libro – il compito, su queste colonne, spetta a Nando Piccari –, bensì dell’autore. E lo faccio tornando con la mente a lunedì 16 gennaio, quando mi trovai a tu per tu con Walter Veltroni al Grand Hotel.

Dei politici ho un’opinione pessima; l’ho scritta chiaramente nel precedente “Fuori onda”, e Veltroni è un politico. Quel pomerig-gio, tuttavia, non aveva indosso quel genere di casacca. Nella grande hall del fascinoso albergo, sprofondati su due comodis-sime poltrone, abbiamo fatto una passeggiata nel tempo per più di un’ora come due vecchi amici; una chiacchierata a ritroso su Rimini, centro di gravità dei suoi pensieri, dagli anni del secondo dopoguerra a quelli della Bella époque. Lo avevo al mio fianco con carta e penna, come uno studentello voglioso di arricchire la propria preparazione. Mi pressava di domande; collezionava aneddoti, date, umori, stranezze, tuffandosi tra le onde di quel sogno di libertà che è nel dna di questo borgo gratificato dal sole e dalla nebbia. Ed io che tenevo le briglie di quel colloquio esau-dendo richieste e colmando dubbi, mi stupivo di volta in volta della sua brama di ricerca e di approfondimento.

Beh, quella disponibilità all’ascolto, addolcita di gentilezza e garbata semplicità, mi ha lasciato un piacevolissimo ricordo. Di quella conversazione al Grand Hotel avrei voluto serbare il silenzio; se lo infrango, rendendo note queste impressioni, è per-ché Walter Veltroni, ringraziandomi pubblicamente sul libro, ha voluto divulgare il nostro incontro. E di questo gliene sono grato.

M. M.

… A PESCA DI LETTORI La cartolina di Giuma

SOMMARIO

IN COPERTINA“Ombre sul Porto di Rimini”di Gianluca Casoni

TRA CRONACA E STORIAAnni Venti/4 novembre 1921: le onoranze al “Milite ignoto”pag. 6-8

Novecento riccionese1929. La Cucina economicapag. 11

PAGINE DI VITACorrado GhiniIl calvario della prigioniapag. 12-14

DENTRO LA STORIAAlle origini del traffico cittadinopag. 16-17

VISERBALa cronaca in pillolepag. 18-19

STORIA DELL’ARCHITETTURABorgo Marinapag. 20-23

ARTELe piccole Madonne della Ghiarapag. 24-25

“L’adorazione dei Magi”, di Giorgio Vasari pag. 26

FOTOGRAFIARiccardo Varinipag. 31

MOSTREEnzo Maneglia a Fighillepag. 32-33

Luciano Filippi a Villa Verucchiopag. 34-35

MUSICARoberto RossiTrombonista jazz”pag. 34-35

ALBUMA spasso per la cittàI fornaipag. 41

LIBRI“L’Isola e le rose”pag. 42-43

“John Lindsay Opie”pag. 44-45

“Partigiane”pag. 46-47

DIALETTALECompagnie e personaggi della ribalta riminese.Valeria Parripag. 48

NUMISMATICALa medaglia del Rotary Club Rimini Rivierapag. 51

ARIMINUMLe bagnanti di Manegliapag. 52

Anni Venti / 4 novembre 1921

Il Tricolore torna a sventolare in città e fin dalle prime ore del mattino una folla enorme invade il corso d’Augusto e le due piazze

Le solenni onoranze Al “Milite Ignoto”

Venerdì 4 novembre 1921, San Borromeo, «tempo

discreto, ma nebbioso» (1): la nostra città vive alcune ore di insolita commozione per le programmate solenni onoran-ze alla salma del Milite Ignoto

la quale, nelle stesse ore, sta giungendo a Roma per essere tumula-ta nell’Altare della Patria.Fin dalle prime ore del mattino Rimini assume un aspetto speciale: quello dei gran-di avvenimenti. Ovunque sventola il tricolore. Dalle finestre delle vie principali pendono i più caratteristici e variopinti addob-bi inneggianti alla Patria. La cerimo-nia d’apertura è prevista in Duomo

per le 9,30.Il Tempio è gremito di gente, di ufficiali del Regio Esercito, di autorità e di rappresentan-ze. Il colpo d’occhio è magnifi-co. Al centro rifulge il Catafal-co artisticamente addobbato con ai lati bandiere e corone: vegliano su di esso, tutt’intor-

no in cerchio, le truppe del 27° Reggimento Fanteria, un plotone dei Regi Carabinieri in alta uniforme, un plotone di Guardie Regie, un altro della Guardia di Finanza ed i Giovani Esploratori (sia quelli di terra che di mare).Alle 10 circa ha inizio la funzione religiosa. La messa è celebrata da S.E. il Vescovo Scozzoli assistito dal Capito-lo e dal Collegio dei Parroci. Una valente schola cantorum, egregiamente diretta da don Angelo Renzi, col concorso della società corale “Amin-tore Galli” e di aggregati forestieri, fra i quali il tenore Rossi di Bologna ed il baritono Grotti di Urbino, esegue, con accompagnamento di organo ed archi, la Messa da Requiem di Perosi.Alle 10,30 uno squillo di tromba annunzia l’Elevazione. Si forma un silenzio assoluto, rotto appena dai rintocchi della campana e «dal sincro-nico e caratteristico rumore delle armi manovrate per il Present’arm. La commozione è intensa e generale: è l’attimo della Consacrazione, del rac-coglimento, della preghiera ardente» (2).Terminata la funzione religio-sa, un gruppo di ragazze, sotto

l’egida del maestro Savioli, in-tona la toccante “Canzone del Piave”, mentre la fiumana di gente, uscendo dal Tempio, si compone in corteo per recarsi a piedi al Cimitero. È un corteo di proporzioni gi-gantesche, lungo almeno due chilometri (numerosissime le corone di fiori).L’ordine del corteo è, annota il cronista del settimanale cattolico “L’Ausa”, il seguente: «precedeva una lunga rappre-sentanza dell’Associazione Madri e Vedove dei Caduti in Guerra; seguivano: gli Orfani di guerra ricoverati nell’Isti-tuto Salesiano, gli Orfani di guerra del Ricreatorio Asilo, il gonfalone del Comune portato e scortato da due donzelli comunali, Associazione Com-battenti e Mutilati, Giovani Esploratori, Fascio Riminese di Combattimento, operaie

Scrive il cronista de “L’Ausa” il 5 novembre 1921: «Dove sono i socialisti? Boh?!… Se i socialisti non parteciparono alle solenni

manifestazioni di ieri, bisogna dire che a Rimini di socialisti non ce ne siano più o che siano ben molto pochi, perché noi abbiamo riportato l’impressione che tutta Rimini, come un sol uomo, abbia vibrata nella stessa commozione, nello stesso atto di fede e di pie-tà. Il contegno dell’Amministrazione Comunale socialista fu poi semplicemente assurdo, ridicolo, illogico, incoerente, per non dir di peggio. Il Comune lanciava un manifesto (nel riquadro, n.d.r.) dichiarando di non poter partecipare alle onoranze del Milite Ignoto, riservandosi di ammanirgli una manifestazione popolare

di Alessandro Catrani

Volantino del Comitato riminese

per le Onoranze al Soldato Ignoto

del 28 ottobre 1921

«Commemorando il “soldato

sconosciuto”, la Patria ha

commemorato un autentico figlio del popolo…

6 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

TRA CRONACA E STORIA

DAL SETTIMANALE CATTOLICO “L’AUSA”

«DOVE SONO I SOCIALISTI?»

per il giorno 13 corr. (più popolare, più democratica, più proletaria di quella di ieri non sarà possibile!) e poi, con sublime incoerenza, mandava al Corteo il suo Gonfalone portato da due valletti comunali… Chi ci capisce qualco-sa è bravo! È il caso di dire ai signori Amministratori del Comune che si decidano una buona volta: o per la Patria o contro la Patria! O si voleva da loro onorare la memoria del soldato sconosciuto e allora non vi era occasione mi-gliore per far ciò di quella che ieri presentava il grandio-so Corteo di popolo, in cui uomini di tutti i partiti erano presenti. O non si voleva partecipare alla glorificazione

del Milite Ignoto e, in questo caso, era perfettamente inu-tile pubblicare dei manifesti commemorativi e mandare al Corteo il Gonfalone del Comune. Perché così facendo, i socialisti di Rimini hanno dimostrato ancora una volta che essi antepongono il sentimento della disciplina del Partito al sentimento dell’amor Patrio. Tale bassezza di sentimento fa semplicemente schifo!». (Per ulteriori ap-profondimenti sulla querelle si veda la risposta polemica apparsa sul settimanale socialista “Germinal” nel nume-ro del 12 novembre 1921)

4 novembre 1921. Il corteo in corso d’Augusto verso il ponte di Tiberio e, sotto, all’imbocco della piazza Cavour.

della manifattura tabacchi aderenti al sindacato cristiano, Opera Biasini Belisardi, uffi-ciali ed autorità, Istituto Tecni-co Valturio, Scuole Elementari Tonini, Tiro a Segno, Regia Scuola Tecnica, Regia Scuola Arti e Mestieri, Regio Ginna-sio, Collegio San Luigi, asso-ciazioni liberali, Croce Verde, Società Sportiva Libertas, Circolo della Filodrammatica, Regie Scuole Magistrali, Regia Scuola di Tirocinio, rappre-sentanza del Capitolo e del Collegio Parrocchiale, banda del Circolo Giovanile Cattolico dal Maestro Cavalier Parmeg-giani con rappresentanza del Circolo, Unione Nazionale dei Reduci di Guerra, Parti-to Popolare Italiano, Società Cattolica di Mutuo Soccorso, Circolo Salesiano, Circolo Don Bosco, Istituto Fanciulle Abbandonate» (3).

Attraversando le vie princi-pali della città (via Serpieri, corso d’Augusto), in composto ordine e al suono della banda del Circolo Giovanile Cattolico e della musica del 27° Reggi-mento, il corteo interminabile raggiunge a piedi il civico cimitero.Lì, fra le croci e le tombe, la sfilata si snoda silenziosa-mente e i partecipanti vanno a deporre fiori e corone sul monumento ai caduti riminesi eretto a cura dei fanti del 27° Reggimento. Chiosa il cronista de “L’Ausa”: «Le onoranze al Milite Ignoto costi-tuirono a Rimini, come del resto anche altrove, una manifestazione squisitamente popolare, demo-cratica. Questa, secondo noi, fu la loro principale caratteristica, la loro impronta, la loro fisionomia. E non poteva essere altrimenti. Perché commemorando il soldato scono-sciuto, la Patria ha commemorato un autentico figlio del popolo, una crea-

tura di popolo, di quel popolo che nel silenzio dei veri eroi, seppe sopportare enormi disa-gi, incalcolabili sacrifici per la salvezza del Paese» (4).

… di quel popolo che nel silenzio

seppe sopportare enormi disagi, incalcolabili

sacrifici per la salvezza del Paese»

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 7

Note1) Cfr. Diario del generale Ferrucci, sub 4 novembre 1921, Archivio dell’Autore.2) “L’Ausa” del 5 novembre 1921.3) “L’Ausa”, cit.4) “L’Ausa”, cit.

Municipio di Rimini. Cittadini. Da ogni parte

d’Italia, dai più umili borghi alle cospicue città, per ogni casa, per ogni via, per l’ampia solitudine dei campi, oggi si ripercuotono mille echi di tri-sti ricordi, di strazi infiniti, di sacrifizi inauditi, e nella palli-da luce di questo melanconico inizio di Novembre s’inchina riverente l’omaggio di tutto un popolo, alla memoria di quanti nell’immane tragedia della guerra fecero olocausto della loro vita per l’adempimento di un supremo dovere.I nostri cuori di uomini e di socialisti non possono rima-nere indifferenti in questo coro di universale compianto e non sentirsi profondamente commossi al ricordo di tante vittime che hanno incontrato una morte gloriosa ma oscura, e giacciono senza nemmeno il conforto di una lacrima e di

un fiore sulla loro tomba.Quest’Amministrazione Comunale ha votato per la circostanza un fondo in favore delle vedove e degli orfani di guerra; ma ha deciso di non partecipare alla dimostrazio-ne ufficiale di oggi, per non confondersi con coloro che dalla unanime vibrazione di cordoglio traggono ancora motivo di rinnovati osanna al terribile massacro di cui piangiamo le vittime: vittime ignote che sdegnano l’incom-posta coreografia degli sban-dieramenti e delle fanfare, per placarsi soltanto nell’austero silenzio espressione del loro vero dolore.La Giunta ha stabilito inoltre di indire per il giorno 13 corr. un corteo, senza carattere di parte, ma schiettamente popolare, il quale in un tacito solenne raccoglimento si rechi al Cimitero per rendere il

dovuto omaggio ai caduti e co-spargere di fiori le loro tombe e la loro memoria.Tra quei tumuli sorga dal-la grandiosità del dolore, la visione ammonitrice della mostruosità del male che non abbiamo saputo evitare, e ciascuno di noi, ritraendosi da quel rito di morte, giuri a se stesso che nessun sacrificio gli sarà grave, nessuno sforzo impossibile pur d’impedire che altri lutti, altre stragi, altre devastazioni trattengano più oltre l’ascesa dell’Umanità verso i suoi nuovi destini di pace, di amore, di fratellanza universale. Rimini 4 novembre 1921.

La Giunta Municipale: A. Clari, Sindaco, B. Pedrizzi, A. Porcellini, M. Macina, G. Bordoni, C. Giannoni, V. Belli, U. Lugli, B. Montefameglio».

Tempo fa, mentre stava coraggiosamente com-

battendo contro un nemico invincibile, proprio come quei soldati che spesso ricordava, per incoraggiarlo gli dissi che tanto lui era un duro e da duro doveva reagire. Mi disse: “Sa-pessi quanto mi costa farlo!”. Questo era Ettore: Una scorza da burbero, ma in realtà un uomo fondamentalmente buono di cuore e di animo, che però non voleva che altri scoprissero il lato “tenero” del suo carattere. Ma nono-

stante quella sorta di barriera difensiva che s’era costruito intorno, lo stimavamo e gli volevamo bene. Ettore era un Italiano che amava l’Italia e si era sempre adoperato, nelle mostre e nel-le manifestazioni storiche, ad esaltare il valore del soldato italiano. E noi di ARIES, che lo abbiamo avuto accanto come un fratello, lo abbiamo voluto onorare come un Caduto della Grande Guerra, una pagina di storia che tanto lo appassiona-va e lo coinvolgeva.

A me viene a mancare una colonna portante, un insostitu-ibile supporto.Ciao Ettore ti ricorderemo sempre con stima ed affetto.

Il tuo amico GAIO

Ettore Tosi Brandi, morto il 14 settembre 2012 (nato nel 1943), era sabotatore parà del IX Col Moschin e decano della rievo-cazione storica 1a e 2a guerra mondiale italiana e dei suoi materiali.

8 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

TRA CRONACA E STORIA

IL MANIFESTO DEI SOCIALISTI

Un invito a non partecipare alle onoranze

NEL RICORDO DI ETTORE TOSI BRANDI

L’ultimo caduto della grande guerra

Novecento Riccionese / 1929. La “Cucina Economica”.

«Nell’“elenco dei poveri”, vale a dire di coloro che ricevono il sussidio pubblico e l’assistenza gratuita, 245 famiglie per un totale di 750 persone»

La fascia della miseria

di Manlio Masini

La stazione ferroviaria di Riccione.

Nei primi mesi del 1929 è operativa su tutto il

comune di Riccione la “Cucina economica”. Promossa dalla Congregazione di carità e dal Fascio questa istituzione, dal 15 gennaio al 10 marzo, distribuisce ai poveri e alla «categoria dei braccianti, costretti alla disoccupazione a causa della terribile stagione invernale», 25.363 pasti caldi: 22.400 elargiti direttamente sul posto (400 al giorno), men-tre gli altri 2.963 a 22 famiglie dimoranti in campagna. Queste ultime, «data la distan-za e l’imperversare del cattivo tempo non poterono ritirare le minestre», di modo che, al posto dei pasti, beneficiarono di alimenti per un valore equi-pollente (1).Tra i benemeriti della “Cucina economica” figurano i seguen-ti riccionesi: Amati Amato (L. 10), Amati Lucio (L. 25), Bagli Attilio (L. 10), Bagli Gio-vanni (L. 20), Basigli Michele (L. 50), Bedeschi Roberto (L. 20), Bernardini Guglielmo (L. 10), Bianchini Gaetano (L. 50), Bonazzi Alberto (L. 20), Campana Cesare (L. 5), Campanini Erminio (L. 20), Casali Elviro (L. 100), Casali Nicola (L. 20), Ceccarelli Giu-seppe (L. 15), Cecchini Gio-vanni (L. 25), Cesarini Battista (L. 10), Ceschina Gaetano (L. 500), Cicchetti Vittorio (L. 10), Conti Lucio (L. 20), Co-pioli Giuseppe (L. 20), Corazza Maria (L. 3), Del Bianco Erne-sto (L. 10), Del Bianco Romeo (L. 25), Del Bianco Serafino (L. 25), Fabbri Girolamo (L. 40), Fabbri Matteo (L. 5), Fabbri Vittorio (L. 10), Fascioli Mario (L. 20), Franciosi Elio (L. 15), Galavotti Ribelle (L. 100), Geminiani Giuseppe (L.

15), Graziani Alessandrina (L. 25), Graziosi Pier Giacomo (L. 50), Leardini Antonio e figli (L. 10), Maioli Adamo (L. 5), Mancini Adolfo (L. 10), Man-cini Lorenzo (L. 100), Mancini Silvio (L. 15), Manzi Martino (L. 25), Marchetti Alessandro (L. 20), Massani Archimede (L. 10), Matteoni Giuseppe (L. 5), Metalli Francesco (L. 10), Mignanelli Giorgetti Guido (L. 10), Montali don Giovanni (L. 50), Mordacchini Annibale (L. 100), Nandi Guido (L. 50), Nicolini Sisto (L. 10), Panigali Nicola (L. 5), Papini Giuseppe (L. 20), Pari Ferdinando (L. 30), Pari Giovanni (L. 20), Pasolini Guglielmo (L. 25), Passerini Arnaldo (L. 40), Pe-trucci Giuseppe (L. 15), Pullè Felice (L. 50), Raspi Ester (L. 10), Riccioni Federico (L. 50), Rinaldi Giuseppe (L. 15), Rinaldi Luigi (L. 10), Rinaldi Mauro (L. 10), Romagnoli Arturo (L. 10), Romussi Carlo (L. 50), Semprini Paolo (L. 50), Serafini Sanzio (L. 100), Siroc-chi Francesco (L. 20), Sorci Lazzaro (L. 20), Tirincanti Armando (L. 15), Tonini Attilio (L. 10), Tontini Pietro (L. 100), Uneddu Gian Francesco (L. 2), Zanni Carlo (L. 100), Zanno-ni Mariano (L. 25); inoltre: Cassa di Risparmio di Rimini (L. 500), Comitato di cura (L. 500), Cooperativa birocciai (L. 50), Direttorio del fascio (L. 500), Ditta Calza e Manzi (L. 50), Ditta Cesare e Ugo Villa (L. 100), Pensione Maz-

zoni (L. 25). A favore della “Cucina economica” offrono generi alimentari: Bar Sport di Cesare Del Bianco: kg. 10 di pasta alimentare; Canducci Giovanni: kg. 1,900 di lardo; Cicchetti Oreste: kg. 20 di fagioli; Clementoni Igino: due fiaschi di olio d’oliva; Fabbri Alfonso: kg. 14 di olio d’oliva; Papini Dario: kg. 50 di fagioli;

Patrignani Guerrino: kg. 15 di fagioli; Saponi Aldo: kg. 24 di pasta alimentare (2).Per completare l’argomen-to della indigenza, ancora due parole sull’ “elenco dei poveri”, ovvero il “registro dei derelitti” ai quali è concesso un sussidio pubblico e l’assi-stenza gratuita. All’inizio del 1929 in questa lista, approvata dal comune di Riccione, figurano 245 fami-glie per un totale di 750 per-sone; nell’anno precedente le famiglie bisognose erano 209 per un totale di 672 persone (3). Il dato accerta l’aumento della fascia della miseria.

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 11

TRA CRONACA E STORIA

Note1) Cfr. “Il Popolo di Romagna”, 19 marzo 1929.2) Ibidem.3) Cfr. “Il Popolo di Romagna”, 16 marzo 1929 e VDP, in data 20 gennaio 1928, in ASCRC.L’articolo, qui riprodotto, è tratto dal mio libro Dall’Internazionale a Giovinezza. Riccione 1919-1929. Gli anni della svolta, uscito nel 2009 per i tipi della Panozzo Editore.

«Tutti i Riccionesi benemeriti

della “Cucina economica”»

Corrado Ghini / Il calvario della prigionia

«Non firmai la lettera di adesione alla Repubblica Sociale Italiana pur sapendo che quell’atto mi avrebbe permesso di tornare in libertà»

Nei lager ho imparato a conoscere gli uomini

Nel tempo in cui mi trovavo prigioniero dei

tedeschi, i miei genitori si adoperarono in ogni maniera, presso il Comando Tedesco e la Direzione Compartimenta-

le delle ferrovie dello Stato a Bologna, per ottenere il mio rientro in Italia, essendo le ferrovie militarizzate. Proprio su loro pressione, sul finire del 1944, mentre ero al campo di Sandbostel, fui chiamato al Comando Tedesco per firmare la formula di adesione al lavo-ro che mi avrebbe permesso di essere posto subito in libertà. Il documento da sottoscrivere era così formulato: “Aderisco all’idea repubblicana fascista e mi dichiaro pronto a presta-re la mia opera di lavoratore, senza riserve nella lotta contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del Grande Reich Germanico fino alla vittoria”. Non condividendo le premesse della liberazione, rifiutai di fir-mare e ai miei genitori scrissi

queste testuali parole (ho recuperato la lettera al mio ritorno): «Vi ringrazio molto per il vostro interessamento presso il mio ufficio, ma non ne ho accettato le condizioni.

Cercate di comprendermi e state tran-quilli».Negli ultimi sei mesi di prigio-nia, nel campo di Wietzen-dorf, fummo tormentati dalla tragedia del lavoro obbligatorio. Sempre più frequentemen-te impresari e contadini veni-vano a palpar-ci i muscoli: ci guardavano in bocca e, come fossimo

degli schiavi, sceglievano i più idonei alle varie faccende. In tal caso i malcapitati passava-no alla condizione di civili e portati via a forza.Il fatto di essere ritenuto di scarso rendimento è stato per me la salvezza. Altri momenti angosciosi si verificarono a Sandbostel e a Wietzendorf quando più volte le sentinelle dalla torrette,

senza motivi evidenti, mira-rono ad ufficiali singoli o a gruppi ferendone ed ucciden-done alcuni.La notte dal 6 al 7 aprile 1944, dopo averlo convocato con un inganno, venne vigliaccamen-te ucciso da una sentinella a Sandbostel il Cap. Thun Von Hohenstein trentino di origine boema, che aveva decisamen-te rifiutato di optare per la Germania.I tedeschi ci consideravano dei traditori e come tali, eravamo trattati con disprezzo. Essi non tennero mai in considerazione la Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e ci declassarono ad “Interna-ti” escludendoci in tal modo da qualsiasi aiuto materiale e morale della Croce Rossa Internazionale ed anche di quella Italiana.Più volte fummo radunati per ascoltare gerarchi fascisti che venivano a proporci di aderire al nuovo esercito della R.S.I. o in alternativa, a collaborare come lavoratori volontari per

di Corrado Ghini

Attestato di permanenza

al campo di Corrado Ghini

Particolare della lettera ai genitori di Corrado

Ghini dal campo di concentramento

«I tedeschi ci consideravano

dei traditori e come tali eravamo tratta-

ti con disprezzo»

12 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

PAGINE DI VITA

il Grande Reich.Dopo la liberazione, da ele-menti raccolti tra il personale germanico già in servizio al campo, risultò con fondatez-za, che nella prima decade di aprile era arrivato l’ordine tassativo di Hitler di uccidere gli ufficiali italiani mediante azione di mitragliamento o bombardamento del campo. Le predisposizioni necessarie per l’attuazione erano già in corso ma il piano non venne attuato probabilmente perché gli avvenimenti precipitarono ed i tedeschi si trovarono di fronte alla certezza di dover rispondere di tale infame

crimine.In occasione del Natale 1944 nel Lager di Wietzendorf rea-lizzammo un magnifico prese-pe. I personaggi furono creati con mezzi di fortuna, ad esem-pio il manto azzurro della Ma-

donna venne confezionato con la fascia di un ufficiale. Una volta ritornato in Italia appresi che quest’opera natalizia fu trasportato a Milano, nella ba-silica di Sant’Ambrogio. Solo il bue con un grande collare ed una grossa campana rimase nel campo per tenere compa-gnia a quanti lo hanno visto e non sono più tornati.Degli oggetti personali son riuscito a salvare l’orologio da tasca, che mi fu compagno per tutta la prigionia. Durante le perquisizioni poche volte mi fecero togliere le scarpe e quando lo fecero non si accorsero che nella punta di uno scarponcino del N° 43 (io ho sempre portato il 40) era nascosto il mio Zenith. Durante uno spostamento in treno, appena risaliti dopo una sosta, avevo trovato il modo di appisolarmi nel carro con uno scarponcino appoggiato alla stufetta spenta. Di notte la stu-fa venne accesa senza che me ne accorgessi e svegliandomi mi trovai con la punta della scarpa tutta bruciata. Meno male che il piede non arrivava fino in fondo e l’oro-logio era nascosto nella punta dell’altra calzatura.Nei vari Lager ho incontra-to diversi riminesi. Ricordo con viva simpatia: Leopoldo Bellagamba, Nicola De Nittis,

Renato Brioli, Vittorio Vol-tolini, Guido Giorgi, Pietro Foschi, Edmondo Della Casa, Pietro Para, Manuel De Sarno e tanti altri di cui conservo gli indirizzi che ci scambiammo.A distanza di oltre 65 anni, ripensando alla mia prigionia provo un sentimento di vivissi-mo, continuo ringraziamento al Signore per il sostegno, i benefici e le tante grazie ricevute.Nei lager tedeschi ho impa-rato a conoscere gli uomini nelle loro manifestazioni più ignobili e più sublimi ed a considerare le idee ed i valori che riuscivano ad esprimere indipendentemente dal grado, dal titolo di studio e dal ruolo rivestito. Più che le sofferenze, ricordo i frutti che ne sono de-rivati che hanno fatto crescere in me la disponibilità, la gene-rosità, una più limpida lealtà, il senso dell’onore, dell’onestà e della verità.Oggi che il tempo ha fatto giu-stizia di tante cose malfatte, mi viene sempre più il fatto di pensare al periodo trascorso in prigionia come a un auste-ro, intenso periodo di esercizi spirituali, dove l’anima si è forgiata al bene non virtuale, ma secondo coscienza dopo una catarsi che, superato il mezzo secolo, non posso che ritenere provvidenziale.

Caro Corrado grazie delle notizie e del tuo ricordo per noi e per Lello. Anche noi ti ricordiamo spesso e rimpiangiamo la tua assenza. Carlo non scrive dal 4 novembre, ma dovrebbe star bene. Noi siamo a Vergiano, Villa Ugolini; è Fornasari a S. Mama (Arezzo) essendo la loro casa crollata completamente. An-che a Rimini poche sono rimaste in piedi. Tutti i nostri giova-ni di A. C. sono sfollati. Saluti dalla mamma e fratelli. Da me un abbraccio. Alberto

(Cartolina spedita il 26 febbraio 1944)

«In occasione del Natale 1944

nel lager di Wietzendorf realizzammo un magnifico

presepe»

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 13

PAGINE DI VITA

La cartolina di Alberto Marvelli

14 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

PAGINE DI VITA

Corrado Ghini, al ritorno dalla prigionia, ha ripreso

il suo lavoro presso le Ferro-vie dello Stato a Bologna. Si é sposato nel 1948 a Rimini nella Parrocchia di San Gio-vanni Battista con Giovanna Fabbri, maestra elementare, insegnante presso la Scuo-la Comunale di Passano di

Coriano. Nel 1950 la sua nuova famiglia si é trasferita a Bologna ove abita tuttora. È stato alle dipendenze delle Ferrovie dello Stato sino al 1978. La famiglia di Corrado attualmente é composta, oltre che dalla moglie, da tre figlie con i rispettivi coniugi, 7 nipoti e 6 bisnipoti.

Don Luigi Francesco Pasa, instancabile e indimen-

ticabile cappellano salesia-no, condivise la sorte degli internati Militari nei lager di Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf, finì suoi giorni a Rimini, ospite di una parente, il 27 agosto 1977. Dal 1994 i suoi resti mortali sono custo-diti nella Cappella Votiva del Cimitero dedicata ai Caduti di tutte le guerre, a fianco della lapide a muro che ricorda i tre martiri riminesi caduti

per la libertà. Il mio «buon compagno di prigionia» (opera di Don Pasa per gli Internati Militari Italiani nei lager del Terzo Reich) era nato ad Agor-do di Cadore il 17 marzo 1899, aveva combattuto nella Gran-de Guerra tra i «ragazzi del ‘99» ed era stato poi legionario con D’Annunzio a Fiume. Il 7 luglio 1929 fu ordinato sacerdote salesiano. Divenne Cappellano Militare nella Re-gia Aeronautica e in tale ruolo prestò la sua attività all’Aero-

porto di Aviano. Nel settembre 1943, in seguito alla violenta reazione dei tede-schi dopo l’annuncio dell’ar-mistizio, per non abbandonare i suoi avieri subì la depor-tazione nei lager del terzo Reich, dove rimase internato per oltre due anni nei campi di Benjaminowo, Sandbostel e Wietzendorf. Il nome di don Pasa per migliaia e migliaia di inter-nati nei lager fu sinonimo di speranza e di coraggio.

Corrado Ghini

Don Luigi Francesco Pasa

«Quando penso al periodo trascorso

in prigionia lo avverto come a un

austero, intenso periodo di esercizi

spirituali»

| SETTEMBRE OTTOBRE 2012

La chiesa di San Girolamo

dopo i bombardamenti del 1944.

Le prime norme del traffico cittadino

Le regole del 1865 fissano i parcheggi, impongono i divieti e stabiliscono le contravvenzioni

Dal senso unico ai semafori

Con l’arrivo degli anni Sessanta dell’Ottocento,

Rimini avverte l’esigenza di regolamentare il traffico della via Principe Umberto (oggi Giovanni XXIII). L’arteria,

pur essendo grande e rettili-nea, nella stagione dei bagni comincia a non reggere più il viavai di persone, veicoli e merci che procede in direzio-ne dello Stabilimento balneare e della Stazione ferroviaria(1). Soprattutto nei giorni di mercato il movimento delle vetture, che fanno la spola dal centro storico ai due luoghi di riferimento, crea notevoli ostacoli alla circolazione e provoca non pochi incidenti: cavalli imbizzarriti che se ne vanno a briglie sciolte per la carreggiata, derrate ali-mentari che stramazzano a terra, litigi tra vetturali, urla, imprecazioni... . Proprio per queste scene di ordinario quotidiano, nell’estate del 1865 il municipio istituisce su quel tratto di strada il transito a senso unico. Tutte le vetture e i mezzi di trasporto che mar-ciano in direzione del mare e

della ferrovia sono obbligati a «battere», specifica l’ordinanza del sindaco, il corso Umberto, mentre quelli che ritornano in città devono procedere per le vie Clodia e Gambalunga (2).

Contemporaneamente all’isti-tuzione del senso unico lungo la via Principe Umberto, il primo in assoluto nella storia di Rimini, si dettano le disposi-zioni anche per i parcheggi dei mezzi di locomozione che, da tempo, nei giorni

di mercato creano notevoli inconvenienti ai cittadini. Gli esercenti, infatti, in assenza di precise norme, sono soliti abbandonare i carri e le bestie dove capita, per poi andarli a riprendere a mercato conclu-so. Le nuove regole del ’65 fissano i parcheggi, impon-gono i divieti e stabiliscono le contravvenzioni. Dal quell’an-no nessuno potrà più fare il proprio comodo: qualsiasi veicolo, con o senza anima-li, dovrà essere lasciato sul piazzale della Rocca (piazza Malatesta) e nei piazzali delle chiese dei Teatini e di Santa Innocenza. I mezzi di traspor-to che occuperanno altri spazi saranno multati (3).Nei giorni di mercato la viabi-lità cittadina è completamente stravolta. La folla che cala a Rimini in quelle canoniche giornate crea un susseguirsi di ingorghi, ostruzioni e infor-tuni. La strada che risente maggiormente di questa baraonda è il corso d’Augusto e precisamente quel segmento compreso tra le due piazze: un «budello» sempre intasato

di Manlio Masini

Comunicazioni del sindaco di Rimini,

Pietro Fagnani, del 16 giugno 1865

sui luoghi di parcheggio dei carri e delle bestie

e sulle prime norme che regolamentano il traffico cittadino

(Cart. Gen. in ASCR-ASR.).

16 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

DENTRO LA STORIA

Via Principe Umberto con transito a senso

unico, dalla città al mare.

Il mercato di piazza Giulio Cesare ingolfato di traffico e attraversato dal tram elettrico su rotaie.

Il binario del tram in Corso d’Augusto.

di veicoli, che impediscono il normale cammino dei passan-ti. Tanto che in alcuni mo-menti della giornata attraver-sare quella strettoia diventa un’impresa. Col tempo, inoltre, ai carri, ai barrocci e alle carrozze si aggiungono le biciclette, le motociclette e le automobili. Intorno alla fine degli anni Dieci il disordine su quella strada è talmente indescri-vibile che qualcuno avanza l’ipotesi di istituire addirittura un’ “isola pedonale”; in man-canza di questa, c’è chi invoca più rigore nell’applicazione delle norme di circolazione ed in particolare di quelle che impongono l’utilizzo della circonvallazione per carri e carrette di passaggio. Norme, queste, che – a detta dei gior-nali – nessuno rispetta, perché

manca chi, codice alla mano, provveda a stilare contravven-zioni (4). Scrive “Germinal” il 23 agosto 1919: «Il transito di quel tratto del corso d’Augusto che va da piazza Giulio Cesare a piazza Cavour è davvero impossibile sia per l’eccessivo agglomerato di persone, che specialmente nei giorni di mercato ostacolano il passag-gio, sia per l’andirivieni conti-nuo di veicoli d’ogni genere».Negli anni Venti su quel caoti-co tragitto si insediano addirit-tura i binari del tram elettrico e il mastodontico mezzo di trasporto pubblico, che dalla piazza Cavour raggiungerà l’affollata piazza Giulio Cesare e viceversa, non farà che aumentarne di gran lunga l’intasamento (5). Un po’ di respiro, si avrà a partire dagli anni Trenta, quando il merca-

to traslocherà nell’ex caserma di San Francesco. Ma poi, con l’aumento sempre più freneti-co del traffico motorizzato, tut-to tornerà come prima, se non peggio, e s’imporranno nuove regole. E tra queste, le innova-tive «segnalazione di viabilità elettrica», cioè i semafori. Il primo rivoluzionario aggeggio a tre luminosità viene instal-lato nell’incrocio di via Tripoli con le vie Flaminia e XX Settembre. È il “Diario Cat-tolico” del 23 settembre 1933 che ne dà l’annuncio: «dal 3 corr. in avanti (nei crocevia …) la circolazione dei veicoli e dei pedoni è disciplinata da semafori a tre colori: verde, giallo, rosso. Il vede è segnale di via libera; il giallo è segnale di avvertimento e di sgombro; il rosso è segnale di arresto».

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 17

DENTRO LA STORIA

Note 1) Lo Stabilimento bal-neare viene inaugurato nel 1843, mentre la linea ferrata Bologna-Ancona è del 1861/622) La vigilanza della normativa spetta alle guardie municipali. Si veda il “Regolamento di Polizia Urbana” del 9 settembre 1864 e l’articolo 101 della Legge municipale 23 ottobre 1859. Questa norma è la prima regolamentazione del traffico cittadino. C’è da dire, tuttavia, che alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento una «di-sposizione» indirizzava il traffico esterno o extra urbano, sulla nuova circonvallazione proprio per evitargli la strettoia della strada Maestra (corso d’Augusto).3) Cfr. Avviso n° 2151 - Regno d’Italia / Municipio di Rimini - del sindaco Cav. P. Fagnani (segretario capo munici-pale Francesco Turchi) datato 16 giugno 1865, in Carteggio Generale 1865 B. 900, presso ASCR-ASR.4) Cfr. Elia Testa, “Re-lazione sui vari servizi dipendenti dall’Ufficio di Polizia Municipale”, Tipografia Artigianelli, Rimini 1908, Allegato n°64, in ACCR,.5) Il passaggio del tram in piazza Giulio Cesare è motivato dall’esigenza di “servire” la stazione. Il mezzo pubblico, dopo aver attraversato la stret-toia del corso d’Augusto prosegue lungo la via IV Novembre. I lavori di sistemazione dei binari tranviari lungo il corso iniziano nell’aprile del 1926 e nel giugno di quell’anno è inaugurata la linea. Il primo luglio 1939 con l’arrivo della filovia il capolinea urba-no verrà trasportato in piazza Giulio Cesare (cfr. Manlio Masini, “Rimini in tram”, Maggioli, Rimi-ni, 1985).

Dalla stampa (1893-1915)

1913 / Mariuoli da spiaggia«Viserba, 16 luglio. La scor-sa settimana diversissimi capanni vennero visitati dai ladri che asportarono lenzuo-li, accappatoi e costumi. Uno solo dei mariuoli venne tratto in arresto.

È bene si sappia che non è di qui. Quanto sarebbe neces-saria una stabile stazione di carabinieri!».Il Momento, 17 luglio 1913.

1913 / I soliti ignoti«Furti. - A Viserba nella Villa Maccaferri di notte ad ora im-precisata ignoti involarono in un comò L. 4.000 appartenenti ad una signora forastiera che trovasi colà ai bagni. Dei lestofanti si fa attiva ricerca».Corriere Riminese, 20 agosto 1913.

1913 / Un crescendo impres-sionante di furti«Viserba, 21 sett. Furti. È impressionante il crescendo dei furti che si commettono lungo la spiaggia tra Viserba e Viserbella. Dopo il furto patito

dal Sig. Maccaferri abbiamo avuto altri tre furtarelli. L’altra notte a Viserba, forzando una finestra verso il mare, pene-trarono nella calzoleria di Melandri Archimede asportan-do scarpe e sandali e arrecan-do un danno di circa 200 lire. S’intende che i cavalieri di destrezza possono commettere a loro bell’agio le loro gesta, perché la spiaggia di giorno e di notte è lasciata in un deplorevole abbandono. Una stazione di carabinieri è una necessità urgente. Speriamo che il Comitato Pro Viserba sa-prà comprendere tra i bisogni del paese anche questo, della presenza della forza pubblica».Il Momento, 25 settembre 1913.

1913 / Eroi delle tenebre«Viserba, 8 ottobre. Vandali-smo - Domenica notte alcuni eroi delle tenebre fracas-sarono parecchie lampadi-ne elettriche di quelle che illuminano il viale. Questi atti teppistici si vanno moltiplican-do e impressionano. E ancora non ci si accorda una stazione di RR. Carabinieri!».Il Momento, 9 ottobre 1913.

1913 / La notte senza medico

“Viserba, 8 ottobre. Condotta medica - Il nostro medico è in permesso regolare ed è stato sostituito da un altro sanitario che disimpegna con premura il suo interinato, ma è doloro-so che per esigenze professio-nali egli non possa pernottare in paese. Così gli abitanti, in caso di bisogno si troveranno senza medico. Non è il caso di provvedere, signor R. Com-missario?».Il Momento, 9 ottobre 1913.

1914 / Hanno rubato un cavallo“Viserba, 2.14. Furto. La notte scorsa è stato rubato dalle stalle del vetturale Enrico Bernardi un cavallo del valore di circa L. 350. La frequenza dei furti impressiona questa popolazione che reclama una stazione di RR. Carabinieri”.Il Momento, 1 gennaio 1914.

1914 / I soliti impuniti“Viserba, 13 gennaio. Furto. I soliti ignoti, hanno rubato da un terreno del sig. Gam-berini un palo appartenente alla Società dei telefoni. Come gli autori dei precedenti furti sono rimasti sconosciuti, così rimarranno anche questi ultimi. Il Comitato Pro Vi-

a cura di Manlio Masini

18 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

VISERBA

«Tra le richieste del Comitato: la stazione dei carabinieri, il serviziomedico notturno, la strada litoranea e le stufe negli ambienti scolastici»

La cronaca in pillole

serba intanto inizia pratiche direttamente a Roma presso il Ministero dell’Interno per ottenere una stazione di RR. Carabinieri”.Il Momento, 15 gennaio 1914.

1914 / Una strada per dare lavoro ai disoccupati“Viserba, 8 settembre. Per provvedere alla disoccupazio-ne, giovedì il Sindaco ricevette il Comitato Pro Viserba al qua-le fece promessa formale che per dare lavoro agli operai si sarebbe provveduto alla com-pleta esecuzione del progetto, da tempo preparato e appro-vato, della strada litoranea che deve unire Viserba a Viser-bella, non solo ma anche del ponte. Così il desiderio degli abitanti e dei forestieri sarà, speriamo, un fatto compiuto”.Il Momento, 13 settembre 1914.

1914 / Scolari che marinano la scuola“Viserba. Istruzione pubbli-ca. - Se esiste una legge sulla istruzione obbligatoria; vi saranno anche delle pene per i trasgressori. Perché non si esercita, da chi ne ha l’obbli-go, una maggiore sorveglianza sui genitori che trascurano di far frequentare le scuole ai loro figli? Si vedrebbero per le strade meno monelli e si regi-strerebbero meno atti vanda-lici, perché la scuola istruisce, educa e ingentilisce l’animo”.Il Momento, 31 dicembre 1914.

1915 / Sia imparziale, per l’avvenire!“Al Capo Stazione. - È vero che l’Art. 320 della legge sui lavori pubblici vieta agli estra-nei alla ferrovia di introdursi, di circolare e fermarsi nel re-

cinto di essa, ma è anche vero che tale divieto è generale e non secondo il capriccio di chi avrebbe il dovere di far osser-vare a tutti indistintamente tale divieto. Ora si domanda al nostro Sig. Capo Stazione per-ché solo a qualcuno richiede il rispetto della legge, men-tre alla maggior parte, non esclusi i bimbi, lascia libero il passaggio? Lungo il binario è un continuo transito persino di biciclette! Sia imparziale, per l’avvenire”.Il Momento, 13 febbraio 1915.

1915 / Imparziale sì, ma solo con quelli che “hanno più criterio”!“Il Capostazione di Viserba ci scrive a proposito della corrispondenza pubblicata nell’ultimo numero, avverten-do che gli è spesso impossibile impedire il transito in luoghi vietati e che, perciò, redargui-sce a preferenza coloro che ‘hanno più criterio’.Prendiamo atto delle sue dichiarazioni, notando però che il sistema da lui adottato si presta agli equivoci; meglio sarebbe chiedere alla Direzio-ne Compartimentale – se non una guardia fissa – un cancel-lo; in ogni caso far procedere per tutti alle contravvenzioni del caso”.Il Momento, 27 febbraio 1915.

1915 / Arrestato un bruto“Atti di libidine a Viserba: la chiusura delle scuole. Lunedì scorso è stato tratto in arresto e deferito all’autorità giudi-ziaria V. M. per atti di libidine consumati su una diecina di bambine, alunne delle scuole elementari. Il V. -che è pro-prietario dello stabile e in esso ha la sua abitazione- approfit-

tava di tale circostanza per i suoi scopi immondi. Il fermento della popolazione perdurò vivissimo anche dopo l’arresto, tanto che si credette opportuno chiudere senz’altro le scuole. Ci auguriamo che possano essere quanto prima riaperte in più... sicura sede”.Il Momento, 1 maggio 1915.

1915 / In piazza a reclamare lavoro“Viserba. Disoccupazione. - Martedì una numerosa schiera di lavoratori disoccupati si recarono a Rimini in Comune per reclamare l’inizio di lavori già approvati, poiché il biso-gno della classe operaia è tale da non ammettere ulteriori dilazioni. Venne nominata una commissione... La commissio-ne, ricevuta con molta cortesia dal Sindaco e dagli Assessori ... si portò poi dal Sotto Prefet-to... Avuta assicurazione del suo interessamento, la Com-missione ringraziò e scese in piazza a riferire agli operai che con calma dignitosa atten-devano l’esito dei due colloqui avuti. Conosciute le risposte e le assicurazioni avute, si sciolsero pacificamente dando prova di educazione civile”.Il Momento, 8 maggio 1915.

1915 / “Viserba. Scuole. - Nelle nostre scuole, a tutt’oggi, non sono state accese le stufe per riscal-dare gli ambienti che raccol-gono i nostri piccoli scolari. E così i bambini se ne tornano a casa piagnucolando e intiriz-ziti dal freddo. Richiamiamo l’attenzione di chi dovrebbe già aver provveduto a meno che non si attenda il mese delle rose.Il Momento, 23 dicembre 1915.

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 19

I siti sopra e di fianco al Borgo di Marina

Un patrimonio storico di mura e torri malatestiane e medicee distruttoper l’attuazione di uno dei primi piani regolatori di Rimini

Il porto e i sobborghi tra le mura e il mare

Non pretendo di formulare verità indiscutibili ma

ipotesi fondate e ragionevo-li su due aree urbane dalla storia assai complessa se non intricata: l’area portuale tra il ponte d’Augusto e Tiberio e porta Galliana, e il fora da mare tra il Borgo di Marina

e l’anfiteatro. Anche per la conoscenza di queste aree si deve attingere alle pubblica-zioni di Oreste Delucca che ha ampliato a dismisura le nostre fonti di conoscenza (1). Tutta-via è possibile, a mio avviso, proporre ipotesi alternative plausibili alle tradizionali affermazioni storiografiche sia sull’area portuale del Marecchia sia sul sito del presunto secondo porto antico di Ariminum. Scavi ben diretti e relazioni di scavo pubblicate in tempi ragionevoli confer-meranno o meno le seguenti ipotesi che mi sembrano più promettenti.Partiamo dalla veduta di Ri-mini di Agostino di Duccio, la formella del Cancro, senza la pretesa che sia una fotografia del porto di Rimini dei suoi tempi, potrebbe però rappre-sentare la scena del porto sia antico che medievale fino alla metà del ‘400. Tra la torre portaia sul ponte e la porta

Galliana, sono rappresentati: a) il bordo del fiume – possibi-le banchina naturale o molo di attracco delle barche –; b) un telo di mura merlate ma senza beccatelli; c) un altro telo di mura merlate senza beccatelli più alte. Malgrado le numerose vi-cende testimoniate dagli atti superstiti di una storia più che millenaria del fiume e del por-to, avanzo l’ipotesi che questa sia la scena reale unica del porto a cui riferirsi per tutta la storia dal 268 avanti Cristo – il porto romano comprendente anche le banchine di pietra scoperte sull’altra sponda – agli anni di Sigismondo Pan-dolfo (1417 -1468). Vediamo qui raffigurato tutto lo spazio del porto antico e di quello medievale. Si noti che la prima mura merlata va dal fianco della porta Galliana alla metà circa della porta sul ponte. È dunque il muro che esiste tuttora e che contiene, con grossi rappezzi, il canale del porto nella parte destra. L’altro muro è scomparso senza lasciare traccia visibile. Nel muro superstite, come hanno rilevato Marcello Car-toceti e Luca Mandolesi, che hanno condotto parziali scavi nell’area, si aprono due porte, una quasi a sesto acuto e una a tutto sesto, probabilmente di epoca sigismondea – di una terza c’è una traccia –; davano accesso dalla città alle ban-chine del porto. Dietro queste porte sono stati ritrovati fram-menti di ceramiche dei primi del ‘500, epoca in cui presumi-bilmente queste aperture e la porta Galliana vennero terra-pienate. La parte del muro sul canale che vediamo oggi tra le porte murate e il ponte risale

al ‘700. Nel bassorilevo, la porta Galliana ha davanti due piccole ‘false braghe’ merlate, oggi scomparse, e le banchine continuano nell’area portuale del Borgo di Marina.

Nell’area alla destra della via del mare (attuale via Giovan-ni XXIII) usciti dalla Porta di Marina – la trecentesca porta di san Giorgio o dei Cavalieri, che forse prendeva il nome da un Collegio dei Cavalieri di San Giorgio che decadde o non riuscì a decollare nel 1551 (2) –, sulla destra si stende-vano gli orti dei Sobborghi di Marina: li divido in tre parti: l’addizione di Carlo presso la chiesa dei Domenicani; le fortificazioni malatestiane e cinquecentesche, spacciate dal Clementini come il molo e il faro del presunto secondo porto di Ariminum; il muro

romano del 268 a.C, con due torri, dall’uscita della fossa Patara dalle mura antiche fino all’Anfiteatro. Espongo dei fatti osservati da studio-si importanti e non recepiti dagli addetti ai lavori. For-

di Giovanni Rimondini

Agostino di Duccio, formella del Cancro, Cappella dei Pianeti, Tempio Malatestiano.

L’immagine del porto e delle sue

fortificazioni e del Borgo di Marina dovrebbe essere abbastanza realistica. L’ipotesi

sostenuta nell’articolo è che questa immagine

riproduca l’antico porto romano e quello

medievale.

Il porto antico nella parte destra del fiume

apparso durante gli scavi della ghiaia.

La banchina primitiva sporge in basso, con un probabile masso bucato per assicurare le barche con corde. Sopra questa banchina ve n’è un’altra antica sempre di pietre

squadrate, segno forse dell’incipiente

fenomeno di subsidenza.

(Foto Emilio Salvatori)

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STORIA DELL’ARCHITETTURA

Sulla banchina romana o sulle banchine romane hanno costruito una banchina in cemento che rimane sempre sott’acqua, una delle mostruosità del gravissimo e irrimediabile disastro che ha compromesso l’esistenza del ponte antico.(Foto Emilio Salvatori)

Sotto:Veduta del porto antico e medievale e dei restauri del secolo XVIII, dal ponte dei Mille.

mulo ipotesi alternative che, ripeto, solo oculate campagne di scavi potranno accertare o falsificare.

I Domenicani vennero in città intorno alla metà del ‘200 ed ebbero dal Comune di Rimi-ni la chiesa di San Cataldo vicino al muro cittadino appena costruito, e insieme si assicurarono una posterula o piccola porta in detto muro per andare in un terreno di loro proprietà subito fuori le mura. Com’è noto fu Carlo Malatesta a circondare con una fortificazione quadrango-lare il terreno extraurbano dei frati e a togliere loro, per così dire, le chiavi di casa. Nel maggio del 1770, Jano Planco col suo odiosamato discepolo Antonio Battarra, esplorò tutto il muro cittadino dalla parte del mare, ancora in cerca di prove materiali dell’esistenza del porto antico, e in una lettera a Cristofano Amaduzzi del 17 maggio 1770, trascrisse un’epigrafe “nel muro tra i due torrioni che rinchiudono il convento dei Domenicani”. Eccone il testo: TEMPORIS. INIURIA. DIRUT / AERE. PUB / FERNANDUS. NERIUS. I.V.D. / FRAN. MARIA, BLANCHELLUS / ET. BER-NARDINUS. PETRONUS / PRA-EFECTI. CONSTRUNXERE / M D C X X [Per ingiuria del tempo rovinate (mura e torri), a spese pubbliche, Ferdinando Neri dottore in diritto pubblico ed ecclesiastico, Francesco Maria Bianchelli e Bernardino Petroni prefetti, fecero costrui-re nel 1620.] (3).Mi sono ingegnato in quat-tro articoli su “Ariminum” a mostrare nei dettagli la falsità dell’affermazione di Cesa-

re Clementini dei due porti antichi di Ariminum, uno sul Marecchia e uno su un “Seno di mare” tra il Marecchia e l’Ausa (4). L’impossibilità fisica di un simile porto venne constata dal “proto” veneziano Tommaso Temanza in uno scambio di lettere con Jano Planco (5). Il Planco difese il Clementini ma non seppe ribattere alle ragioni fisiche e idrauliche del Temanza. Il presunto molo con il pre-sunto faro antichi del Clemen-tini sono invece – e questo è più di un ipotesi, è un fatto documentato – il Murus comu-nis Apse altrimenti detto ber-tressche da mare per le quali nel 1382 si preparavano i man-telletti ossia le ventole di legno tra un merlo e l’altro, messe in opera in previsione di un assedio (6). Il muro che partiva dal muro cittadino dopo la foce della fossa Patara e finiva in mare, era stato costruito, secondo Marco Battaglia, dai Malatesti nel 1352 per difen-dere i sobborghi di Marina e forse anche per dare i confini ad un’addizione urbana. Lì comunque, tra il muro e il mare, finirono imbottigliate le truppe pontefice nell’assedio del 1469 contro Roberto Mala-testa, che vi erano penetrate guadando il Marecchia dal Borgo San Giuliano, tanto che per liberarsi dovettero fare un buco nel muro e superare in mare il Torrazzo, il presunto faro romano. Nel punto dove questo muro che si inoltrava in mare si staccava dalle mura cittadine venne eretta nei pri-mi decenni del ‘500 una torre cilindrica detta la Tenagliozza, sulla quale Jano Planco, in visita come s’è detto, scrive: “Ci è ben fatta l’arme del Pon-

tefice di Casa Medici, che sarà o di Leone X o di Clemente Settimo, giacché a sinistra ci è l’Arme di Francesco Guicciar-dini, che fu Presidente sotto di que’ due Pontefici della Romagna” (7).

Tutto questo ben di Dio storico di mura e torri malatestiane e medicee fu distrutto nei primi del ‘900 per l’attuazione di uno dei primi piani regolato-

ri di Rimini. Lo sbocco della Fossa Patara, che era la cloaca maxima di Ariminum con una nicchia sul fornice, ho fatto

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 21

Al centro:Carta topografica con la confinazione dell’area del porto e delle mura fino all’anfiteatro.ABCD: il Borgo di Marina. 1 Banchina del porto romano. 2 Due porte quattrocentesche che davano sulla banchina del porto medievale. 3 Porta Galliana del XV secolo. 4 Porta dei Cavalieri o di San Giorgio o del mare. 5 Bastione di San Cataldo. 6 Torrione della Tenagliozza del secolo XVI. 7 Torraccia, fortificazione a mare del secolo XIV. 8 Uscita della Fossa Patara, o cloaca maxima di Ariminum. 9 Muro romano del III secolo a.C. e due torri romane. 10 Anfiteatro del I secolo d.C..

in tempo a vederlo prima che lo murassero nel cortile degli autobus vicino a piazzale Clementini. Le mura e la torre romane sono state riconosciu-te e preservate da Giuseppe Gerola, a Rimini nell’agosto del 1915 per salvare l’Anfitea-tro romano dallo stesso piano regolatore. In quell’occasione, condotto da Vittorio Belli, lui che era sovrintendente ai monumenti a Ravenna, scrisse una lettera al sovrintendente archeologi-co di Bologna. Ne ripubblico la parte saliente perché, stranamente, non è ancora stata presa in conside-razione dagli addetti ai lavori e in molti non la conoscono: “Recatomi stamani a Rimini ho potuto esaminare il muro di cinta che dall’Anfiteatro

romano, lungo il lato nord della città, si dirige verso la stazione. Per il passato le piante ed altri impedimenti non permetteva-no di esaminarlo e ora la mia attenzione è stata richiamata colà dal dottor [Vittorio] Belli, che con molta passione segue i rinvenimenti archeologici della sua città. Contraria-mente a quanto io credeva, la cinta originale risale quasi per intero all’epoca romana –sia pure della decadenza–. Nell’evo medio fu soltanto risarcita in qualche punto e quasi totalmente stuccata di nuovo. Lungo il percorso delle mura si ammirano gli avanzi di una porta a doppia ghiera di mattoni molto simile ai lavori dell’Anfiteatro, e più avanti un certo arco sotto di cui passa

un corso d’acqua; quivi è pure ricavata nel muro una nicchia che si direbbe destinata ad accogliere una statua”.

La lettera del 14 VIII 1915 si conserva nella Soprintendenza ai beni naturali e architettoni-ci di Ravenna. A mio avviso, si deve correggere dove assegna il muro ad età tardo antica, si tratta invece delle mura pri-mitive di Ariminum larghe tre metri, e non quelle di Aurelia-no larghe un metro e mezzo; se si scava si trovano le mura ad opus incertum di arenaria come presso l’Arco di Augusto. L’arco a doppia ghiera non appartiene ad una porta ma è l’ingresso tamponato in antico di una torre.

Particolare di una porta del porto medievale murata in antico.

Particolare della pianta allegata al Raccolto

istorico di Cesare Clementini, di Giovanni

Arrigoni del 1617, con le fortificazioni

di spiaggia malatestiane e medicee spacciate per “I Muri dell’antico Porto.

A destra:Particolare di una mappa del 1877.

Si riconosce in basso la chiesa di san Girolamo

(distrutta) e in alto le mura del bastione

di San Cataldo e la torre medicea detta la

Tenagliozza dalla forma a tenaglia, impiantata

sulle mura del XIV secolo

[Archivio di Stato di Rimini,

Archivio Comunale, carteggio b. 1078].

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Note1) O. Delucca, L’abitazione riminese nel Quattrocento, I, S. Patacconi, Rimini 2006, pp. 907-940, 961-979.2) M. Zanotti, Collezione, III, SC-MS 285, p.79, Biblioteca Gambalunga Rimini.3) G. Bianchi (J. Planco), Lettera a Cristofano Amaduzzi, 17 V 1770, Accademia dei Filopatridi di Savi-gnano sul Rubicone.4) Rimondini, Il porto di Rimini in “Ariminum” XV, 4 2008; id. 5 2008; id. 6 2008; id. XVI, 1 2009.5) Nella prefazione della ristampa anastatica di Tommaso Temanza Delle antichità di Rimino, Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1996.6) O. Delucca, op.cit., p. 962, n.5.7) G. Bianchi [J. Planco], Lettera a Cristofano Amaduzzi, del 12 VII 1770, Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.

di Manlio Masini

Particolare della Porta Galliana, ristrutturata da Sigismondo Pandolfo nel XV secolo

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Porta Galliana: un nome suggestivo, un’origine

medievale incerta che incu-riosisce e sollecita ancora delle risposte, una storia che si perde nella notte del tempo. Ma anche un nome imba-razzante a lungo proferito sottovoce per non incorrere in equivoci o per non arros-sire. Per secoli questa porta malatestiana ha identificato tutta l’area settentrionale del Rione Clodio adiacente al porto canale confinante con le mura di cinta; un agglomerato urbano sudicio, rigurgitante di miseria e di ignoranza, ricetta-colo di loschi individui.Nelle vicinanze della Porta Galliana, estremo lembo di questa suburra cittadina, era concentrato il traffico della prostituzione. Presso l’arco gotico si davano convegno meretrici, ruffiani e clienti. Con il favore delle tenebre av-venivano gli incontri occasio-nali e da lì, dopo la contratta-zione, ci si incamminava verso i lupanari vicini.Di bordelli più o meno na-scosti nella zona ce n’erano diversi e per tutte le tasche. Della loro presenza si trovano

notizie nei testi del Clemen-tini, del Tonini e Delucca. Esistevano nel Trecento quando la porta, integra nella sua architettura permetteva l’accesso alla città ed anche dopo la metà del Cinquecen-to quando, ormai chiusa ed interrata, rappresentava solo un riferimento logistico nella topografia riminese.Fino al 1860 Porta Galliana era sinonimo di biechi movimenti notturni. Da quell’anno le cose cambiavano. Il 15 febbraio un decreto firmato dal ministro Cavour mandava in vigore, su tutto il territorio del nuovo regno, il Regolamento sulla prostituzione. La normativa autorizzava l’apertura di luo-ghi adibiti al pubblico mere-tricio. Nascevano le “case di tolleranza”, dove il mestiere più antico del mondo veniva esercitato in piena regola e alla luce del sole, anche se all’interno di ambienti “chiu-si”. Gli incontri, i patteggia-menti e il viavai notturno nei pressi della storica porta cessavano. Tutto diventava più semplice e tranquillo: ogni prestazione aveva il suo prezzo con tariffe controllate

dalla legge. Del tutto naturale che i primi “casini” autorizzati spuntassero nel settore storico della prostituzione: il Rione Clodio. La via Clodia diventa-va la zona calda delle ten-tazioni proibite, una piccola Babilonia del sesso. Col tempo il nome della strada entra-va nella fantasia della gente come emblema del piacere a tariffa e finiva per sostituire, nella simbologia popolare, quello che Porta Galliana, or-mai nel dimenticatoio, aveva rappresentato per secoli.

Porta Galliana

Zona calda delle tentazioni proibite, piccola Babilonia del sesso

Era il crocevia della prostituzione

STORIA DELL’ARCHITETTURA

dove trovare e prenotaregratuitamente ariminumAriminum è distribuito gratuitamente nelle edicole della Provincia di Rimini abbinato al quotidiano “La Voce di Romagna”. È spedito ad un ampio ventaglio di categorie di professionisti ed è consegnato diretta-mente agli esercizi commerciali di Rimini. Inoltre è reperibile presso il Museo della Città di Rimini (via Tonini) e la libreria Luisè (corso d’Augusto, antico Palazzo Ferrari, ora Carli). La rivista può essere consultata e scaricata in formato pdf gratuitamente sul sito del Rotary Club Rimini all’indirizzo www.rotaryrimini.org

Tra le vetrine del Museo della Città e del Museo delle Grazie

Una delle più importanti effigi mariane divenuta miracolosa nel luglio del 1596

Le piccole madonne della ghiara

Quando Ludovico Pratis-soli, un devoto cittadino

reggiano, commissionò nel

1569 a Lelio Orsi un disegno raffigurante la Vergine col Bambino (fig. 1), e in seguito nel 1573 fece realizzare l’af-fresco col medesimo soggetto al pittore Giovanni Bianchi detto il Bertone (fig. 2), non poteva immaginare che la sua immagine sarebbe diventata una delle più importanti effigi mariane della storia. La prima ubicazione, infatti, era relativamente modesta: l’affresco era posto sul muro di cinta dell’orto dei Padri Ser-vi di Maria di Reggio Emilia, in sostituzione di una Madon-na più antica diventata ormai illeggibile. La devozione verso questa bella Vergine fu subito ampia e popolare, tanto che nel 1595 Giulia Tagliavini ne richiedeva la custodia; nel frattempo era stata resecata dal muro e portata entro una piccola cappella edificata con le offerte dei fedeli. Il 29

aprile 1596 avveniva un primo miracolo: per intercessione della Beata Vergine un gio-vane diciassettenne di nome Marchino, muto dalla nascita, riotteneva la parola. L’evento causò l’accorrere di numerosi fedeli, e il vescovo di Reggio Emilia Claudio Rangoni istruì sollecitamente il processo canonico. Insolitamente, papa Clemente VIII approvò il miracolo in brevissimo tempo, e così il 29 luglio 1596 la Madonna della Ghiara diven-ne immagine miracolosa, con approvazione dei pellegrinag-gi. In seguito, si sarebbero succeduti numerosi altri fatti prodigiosi e miracolosi, e nel corso del Seicento fu costruita la magnifica basilica reggiana dedicata a questa Vergine, nobilitata dai dipinti di alcuni

dei maggiori artisti del XVII secolo, specialmente emiliani.Da allora, la diffusione dell’immagine fu rapida non solo su scala locale, ed anche a Rimini si conoscono diverse attestazioni pittoriche. La più rilevante è certamente la bella pala del bolognese Lucio Mas-sari conservata ai Servi, ma opere raffiguranti la Madonna della Ghiara, la cui devozione era estremamente popolare, si possono riscontrare anche nei paesi dell’entroterra, come ad esempio a Monteleone di Ron-cofreddo, dove nella chiesa dei santi Cristoforo e Caterina è conservata una notevole pala seicentesca con San Carlo Borromeo che adora la Madonna della Ghiara.L’intento di questo breve sag-gio è quello di focalizzare l’at-

di Giulio Zavatta

Lelio Orsi, Madonna della Ghiara,

Reggio Emilia, Basilica della Ghiara

Giovanni Bianchi detto il Bertone,

Madonna della Ghiara, Reggio Emilia,

Basilica della Ghiara

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ARTE

Tre avori intagliati raffi-guranti Madonna della Ghiara (fine XVI-inizio XVII sec.?), Rimini, Museo delle Grazie

Madonna della Ghiara, avorio intagliato, sec. XVII, New York, Metropolitan Museum

tenzione su quattro piccoli ma preziosi oggetti, tre dei quali conservati al museo delle Grazie, sul colle di Covignano, ed uno in deposito presso il museo, quest’ultimo il meglio conservato e dotato di una bel-la cornicetta dorata, anch’esso proveniente dalla collezione del santuario francescano. Si tratta di intagli in avorio, di piccole dimensioni, raffi-guranti la Vergine reggiana, verosimilmente in gloria sulle nubi, con in basso la testina alata di un angelo cherubino. Le tre versioni delle Grazie (fig. 3) sono in qualche modo lacunose: due sono acefale, mancando in entrambe la testa del Bambino, ed una è tagliata in basso, essendo stato asportato il cherubino; mentre l’opera conservata nel museo cittadino è come detto in miglior stato. Non è chiara la loro provenienza, se cioè fossero prodotti riminesi, o più probabilmente emiliani (il museo delle Grazie raccoglie infatti numerose opere prove-nienti dai conventi francesca-ni d’Emilia, e in particolare un considerevole gruppo di opere di ambito parmigiano).

Attualmente sono classificate come opere anonime, e non ne è nota neppure la funzione: forse erano piccoli ricordi, o immaginette che il pellegrino poteva portare con sé: cer-tamente erano oggetti d’uso, visto lo stato di consunzione nel quale ci sono pervenuti. Per questo, non attirano, come dovrebbero, l’attenzione di chi le guarda, per il loro caratte-re piuttosto devozionale che artistico, e si trovano – piccole come sono – un po’ nasco-ste tra i tanti interessanti e variegati oggetti conservati nelle vetrine del mu-seo francescano ed in quelle della pinacoteca civica. Diversa sorte tocca in-vece a una loro “collega”, di fattura migliore ma del tutto coerente come ambito ed epo-ca, conservata a New York, al Metropolitan Museum (inv. 1976.422.5; gift of Alfred and Victoria Har-ris, 1976, fig. 4). Negli Stati Uniti l’oggetto è considerato – correttamente – seicentesco (“probably 17th century”) ed è esposto nel-la sezione di scultura e delle arti decorative italiane dell’e-poca del Baroc-co (Gallery 550

- Italian Baroque Sculpture and Decorative Arts). Rispetto all’enfasi con cui è esposta la parente statunitense, le tre so-relle di Rimini si mostrano con una modestia, è il caso di dire, tutta francescana. Il piccolo e sorprendente museo delle Grazie, tuttavia, può vantare alcuni oggetti che – per la loro rappresentatività e per il loro pregio artistico – nulla hanno da invidiare, come in que-sto caso, ad analoghe opere conservate nei più importanti istituti museali del mondo.

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«Si tratta di intagli in avorio di piccole dimensioni, opere

anonime raffiguranti

la Vergine in gloria sulle nubi, con in basso la testina

alata di un angelo cherubino»

“L’adorazione dei Magi”

L’opera giace dimenticata nell’abside della Chiesa di S. Fortunato sul Colle di Covignano

Il capolavoro di Giorgio Vasari

L’avvicinarsi delle festività natalizie e dell’Epifania ha

risvegliato nella mia memo-ria il ricordo del magnifico quadro de “L’adorazione dei Magi”, di Giorgio Vasari, che giace, nella generale dimenti-canza, nell’abside della Chiesa di S. Fortunato, antica Abbazia di S. Maria di Scolca, sede dei monaci olivetani, sul Colle di Covignano.

Entrando nella Chiesa, lo si intravvede appena dietro l’altare, con tabernacolo ed alti candelieri: questa posizio-ne nascosta e per di più nella penombra, per la scarsa luce naturale (ma ora dotata di impianto di illuminazione at-

tivabile), è stata la fortuna del quadro perché lo ha protetto da trasferimenti di sede e da requisizioni da parte dei po-tenti che si sono succeduti dal 1547, data di esecuzione della pala, quando il Vasari giunse a Rimini.Il Vasari venne a Rimini nell’ agosto del 1547, invi-tato dall’abate Gian Matteo Faetani, con la promessa di correzione e trascrizione in “buona forma” della sua opera letteraria più famosa “Vite dei più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue infino ai tempi nostri”: per ricambiare “questa comodità” dipinse la tavola della “Ado-razione dei Magi” che, ridotta in condizioni precarie, venne restaurata nel 1996 dalla Prof.ssa Adele Pompili di Bologna, sotto la sorveglianza del Prof. Andrea Emiliani, sovrain-tendente ai Beni artistici e culturali della Regione.Il dipinto è da considerare ve-ramente il capolavoro del Va-sari ed un efficace manifesto del “manierismo” italiano, per la raffinatezza dei colori e per l’inesausta ricerca di eleganze formali e decorative, per la di-sinvoltura e la precisione con cui è stato condotto in tutte le sue parti. La scena è caratte-rizzata da una atmosfera eso-tica e magica in cui si agitano in modo pittoresco uomini ed animali che compongono una visione “cosmopolita”, formata da un universo vario ed ideale che trova la sua ragione di unità nello splendido gruppo centrale della Madonna con il Bambino, attorniato dai Tre Magi dal ricco abbigliamento e recanti i loro doni. Sotto, in primo piano, uno schiavo con un pappagallo e una scimmia

(autoritratto del pittore?).Il restauro della Pala del Vasari venne promosso dal Rotary Club di Rimini di cui, all’epoca, ero presidente. L’i-niziativa culturale fu possibile grazie alla partecipazione e alla collaborazione dell’al-lora Vescovo della diocesi di Rimini, Mariano De Nicolò, e al finanziamento della Fonda-zione CARIM. L’inaugurazione e la presentazione dell’opera ristrutturata avvenne il 30 maggio 1996 alle ore 21 e fu seguita da tre serate in cui storici, scrittori, archivisti e cultori d’arte portarono la loro testimonianza ad un pubblico attento e numeroso.

di Rinaldo Ripa

“L’adorazione dei Magi”

di Giorgio Vasari; a destra,

nella sua cornice.

«Il dipinto, efficace manifesto del “manierismo”

italiano, fu restaurato

nel 1996»

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ARTE

Riccardo Varini / Da mare a mare

Una visione poetica che si esalta nel silenzio contemplativo della realtà

Rimini da tramandare

di Giulio Zavatta e Alessandra Bigi Iotti

Dall’alto:

Rimini, 1985.

Cervia, 2011.

Bassa padana, 1992 (fotografia scelta da “Le Monde” nel recente MIA di Milano).

Nel borgo di San Giovan-ni, nel nuovo spazio

dell’agenzia NFC situata nella galleria Gorza nell’omonimo palazzo, si è tenuta dal 28 al 30 settembre una piccola ma raffinata esposizione del fotografo reggiano Riccardo Varini intitolata Da mare a mare, prorogata poi, a grande richiesta, anche nella settima-na successiva. La mostra è stata accompa-gnata da un buon successo di pubblico e di critica, ed ha suscitato interesse nei visitato-ri. Prima di questa occasione, infatti, Varini non aveva mai avuto modo di esporre le sue opere a Rimini, benché nella città adriatica avesse scattato numerose immagini fin dagli inizi della sua carriera, vale a dire da oltre trent’anni. Varini, nato nel 1957 a Reg-gio Emilia, è spesso definito “allievo” del grande fotografo e concittadino Luigi Ghirri, autore di alcune delle più straordinarie immagini della riviera del dopoguerra. Ed in effetti, a partire dal 1984, anno dell’incontro tra Varini e Ghir-ri, il più giovane fotografo non ha mai negato l’importanza e la centralità della poetica di Ghirri nella sua stessa opera. Tuttavia, come ha già rilevato Arturo Carlo Quintavalle, ben presto Varini si è avviato su una propria strada, portando agli estremi alcuni aspetti della ricerca di Ghirri, fondendoli con il pittoricismo di alcuni pittori emiliani – in particolar

modo Gino Gandini, allievo di Morandi e già amico di Varini –, guardando alle fotografie dei “chiaristi” come Cavalli, realizzando un paziente e con-tinuo lavoro di “sottrazione” e “pulitura” delle immagini. Specialmente nella serie dei “Bianchi”, Varini raggiunge così la piena espressione della sua arte, fatta di semplicità, silenzio quasi contemplativo, arrivando a una visione al contempo pittorica e poetica, segnando un percorso di ricer-ca del tutto personale. Queste bellissime immagini lo hanno consacrato nel panorama della fotografia italiana contempora-nea. Arturo Carlo Quintavalle ha infatti invitato il fotografo emiliano ad archiviare le sue immagini allo CSAC dell’Uni-versità di Parma (Centro Studi e Archivio della Comunicazio-ne), che raccoglie le immagini della contemporaneità ritenute significative e da tramandare. Non solo: nell’ultima edizione del MIA di Milano, una delle più importanti rassegne foto-grafiche in Italia, la prestigiosa testata francese Le Monde ha scelto proprio un’immagine di Varini per rappresentare la rassegna.Nel raffinato catalogo realiz-zato da Amedeo Bartolini per conto di NFC Edizioni, abbia-mo cercato di contestualizzare l’opera di Varini all’interno del filone dei cosiddetti “narratori padani”, ai quali, crediamo, il fotografo reggiano appartenga a pieno diritto. Le vaste distese della pianura (considerata, come suggerisce il titolo, anch’essa un mare), le strade che perdono la propria via di fuga nella nebbia si inquadra-no perfettamente nel filone narrativo padano sapiente-

mente tratteggiato da Belpoliti e Celati, ed evocato talvolta anche nelle pagine di Pier Vit-torio Tondelli, che da un punto di partenza prossimo a quello di Varini ha percorso più volte la via Emilia verso il mare. L’e-sposizione, tuttavia, prevedeva anche fotografie che, ponen-dosi all’inizio della carriera di Varini, mostrano una ricerca ancora embrionale, e una Rimini degli anni Ottanta che è al contempo ugua-le e diversa da allora. La mostra si apriva infatti con un trittico di immagini inter-calate intorno al 1984-85, dove ancora compari-vano colori forti come il rosso e immagini “piene”, benché ingentilite dalle inquadrature pulite e dall’espo-sizione in chiaro di Varini. L’occasione della mostra di Varini ha infine consentito anche un incontro tra il fotografo e la poetessa riminese Sabrina Foschini, che in occasione del finissage ha letto alcuni pen-sieri poetici già editi nelle sue raccolte Terramare (2011) e Il paragone col mare (2002). L’accostamento dei versi di Sabrina Foschini e delle im-magini di Riccardo Varini, che si è fortunatamente sedimen-tato nel catalogo, si è rivelato davvero consono e suggestivo, raggiungendo spesso, seppur per vie differenti e con sen-sibilità diverse, un comune approdo poetico.

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FOTOGRAFIA

L’umorismo di Enzo Maneglia al Piccolomuseo di Fighille

Un invito al sorriso e a volare con le ali della fantasia

GIRAVOLTE DEL PENSIERO

Enzo Maneglia è uno dei militanti illustri nel campo

dell’umorismo. Nel corso dei decenni è risultato vincito-re dei concorsi del settore frequentati dai migliori e che si risolvono nella festa e danza delle idee. In questa categoria si distingue per l’eleganza e

la proprietà del segno, che è pungente, ma sempre benevo-lo. Ogni sua opera rispecchia l’originalità e lo scatto di una mente, che spesso si soffer-ma sul particolare, per cui i motivi secondari e in genere trascurati assurgono al ruolo di protagonisti.

Il segno di Maneglia si muove con naturalezza, ripete le immagini della realtà e della fantasia forgiandole con la singolarità del talento. Diviene un linguaggio efficace perché si carica di suggestioni, mette in luce significati e aspetti inediti, che sorprendono. I soggetti sembrano definiti con un filo che si dipana sottile da un gomitolo nero. Sono, in genere, personaggi che, pur incompiuti o sbozzati, si per-cepiscono in ogni particolare. Compaiono nella vastità sur-reale del bianco. Sono sciolti dalle regole comuni, recano il sorriso, fanno pensare. Non hanno necessariamente biso-gno della nuvoletta parlante, nè di altri inserti alfabetici, come la didascalia. Anche il titolo è spesso assente. …

Certi disegni portano la mente in carrozzella, regalano il pia-cere di una canzone serena. Ma non è detto che proponga-no sempre motivi allegri. Non sono certamente comici “I Cassonettari”, le persone but-tate via o autoesclusesi dalla società del benessere. Ma fan-no compagnia, suscitano un moto di benevolenza, che si accende anche tramite le bat-

tute di spirito, le quali, in certi casi, si rendono indispensabili. Queste sono scenette di una creatività feconda e dicono che la contentezza di vivere si può trovare tra gli emarginati più che tra la “bella gente”.Sono spassosi, protagonisti di disegni e dipinti, i pupazzetti con le scatole di cartone. Quegli scatoloni sono gli avanzi della nostra civiltà dei consumi. Li troviamo ammuc-chiati fuori dai negozi Il solito personaggio di Maneglia ne fa una catasta malferma sul carretto. Il vento li spinge in aria. Volano e passano come il tempo. Diventano aquilo-ni senza fili, idee che vanno perdute.

Per Maneglia tutte le strade portano all’arte. Le strade, in questo contesto, sono i me-dium, come l’acquarello, le chine, la matita. Per nume-rosi dipinti si avvale dell’olio, mezzo per eccellenza della tradizione. Allora smette i panni dell’umorista e dipinge con preferenza scorci della vecchia Rimini, quartiere San Giuliano, prossimo al mare,

di Franco Ruinetti

Alla doccia.

In alto a destra:La locandina della mostra di Fighelle.

Sotto:Giulio Andreotti e Bettino Craxi.

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MOSTRE

In alto:Maneglia al lavoro.

A sinistra:Bearzot e Obama.

con le case basse dei pesca-tori, che hanno le facciate dai colori diversi fiaccati dalle piogge e dal tempo. È come se dipingesse la solitudine ed il silenzio, che si raccolgono e covano in quelle strade nelle prime ore dei pomeriggi estivi.L’ispirazione ha la scintilla facile. Un foglio di polistirolo diventa il volto di Fellini che ha l’espressione da amico di

sempre. È sul punto di dire cose originali con la sua bo-naria naturalezza. È esposto in permanenza nella casa ri-minese che del grande regista custodisce i ricordi.C’è Bearzot, anche lui di po-listirolo. L’artista l’ha donato al PiccoloMuseo di Fighille. Accanto alla testa c’è un pallo-ne. È grande come il mappa-mondo, perché con lui l’Italia

è campione del mondo.Ancora. Il sottile filo di ferro diventa un sogno. Compa-re una bella giovane nuda, formosa quanto basta per non desiderare di svegliarsi.La vita estetica, pensava Kier-kegaard, è l’aspirazione ad una vita diversa. Per renderla più serena Maneglia invita al sorriso e a volare con le ali della fantasia.

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Enzo Maneglia è un artista colto e sensibile, dotato di un humour raffinato, discreto, in alcuni casi persino amaro e surreale. I suoi disegni sono scenette

della quotidianità, che con amabile tenerezza sfiorano le debolezze e i luoghi comuni del nostro tempo. E se da una parte richiamano il sorriso, dall’altra indu-cono alla introspezione costringendo il lettore a guardarsi dentro. Ho in mente certe fuggevoli espressioni dei suoi “tipi da spiaggia”; l’aria sognante delle sue innocenti bambine; i passatempi del bagnasciuga e le rituali “chiacchiere d’om-brellone”; la puzza sotto il naso di sedicenti intellettuali, spocchiosi e stralunati; i frettolosi turisti del “mordi e fuggi”, che non hanno mai tempo per soffermarsi a gustare i propri stati d’animo, essenziali per assaporare fino in fondo le piccole gioie della vacanza. E poi i suoi scatoloni di cartone, ingombranti, appiccicosi, inutili ... Metafora di una società “usa e getta”, che produce, consuma e fagocita se stessa. Le sue “creature” sono portatrici di una filosofia spicciola, fanciulle-sca, distaccata dalle passioni: fanno parte di una umanità ingenua, un po’ bislac-ca, ma pulita e gentile, non ancora intossicata dagli sms e dai siti Internet.

(Manlio Masini)

SCENETTE DELLA QUOTIDIANITÀ

Le opere di Luciano Filippi alla “Popolare” di Villa Verucchio

Un linguaggio materico che supera il reale e una tavolozza che levita nella poesia

… e gli occhi salgono oltre il quadro

Dall’8 al 30 settembre Lu-ciano Filippi ha esposto

le proprie opere nelle sale della Cooperativa La Popolare di Villa Verucchio.

Ogni volta che ci si ferma davanti ai dipinti dell’arti-sta riminese è come fosse la prima volta. Rivelano motivi nuovi, hanno colori spesso impossibili, carichi di bellezza avvolgente. La tecnica può ap-parire spregiudicata, comun-que i risultati sono convincen-ti. Il linguaggio è figurativo, ma fino ad un certo punto e a modo suo. Il pittore usa l’olio, l’acrilico, pennello, spatola, però anche altro, come polve-re di marmo, resine collanti, catrame, gesso, calce.Di tutta la produzione, vasta e articolata, l’artista, nella personale di Villa Verucchio, ha presentato i paesaggi, le cattedrali e le vele, temi che lo impegnano da tempo, per i quali soprattutto merita stima e successo.I paesaggi. Filippi è il cantore della Romagna. Cerca nell’en-troterra i panorami della solitudine. Si vedono folate

di verde trascorrere sulla ribalta del dipinto quando esso racconta le giornate dell’au-tunno. L’intonazione generale reca la luce, l’anima della stagione. Talvolta all’orizzonte si percepiscono delle case a cavallo di una collina. Sono incerte nella lontananza, forse si riferiscono ad un paese del-la memoria che affiora nelle radure della nostalgia. Sulla riva del quadro c’è un tumul-to di colori. La boscaglia ha rami e tronchi marroni scuri che balzano sulle tonalità del verde, poi compaiono strap-pate d’azzurro, trasparenze del giallo, quindi tanti colori si fondono, esalano in un alitare appena percettibile. Tra terra e cielo non c’è soluzione di continuità. Le note cromatiche che modellano con chiarezza figurativa le fronde, le modu-lazioni del terreno, i calanchi, ritornano come echi labili su in alto. Sembra che la natura si purifichi, la materia diviene cielo e l’attenzione trascende, va oltre il reale.

Le cattedrali. L’artista è affascinato dalle cattedrali, in particolare dalle gotiche

francesi del ‘2, ‘300. Periodi-camente sente la necessità di dipingerne una. I colori sono plumbei, così li definisce Manlio Masini. Le tele sono grandi, ma mai abbastanza perché queste chiese sono più grandi di loro, manca lo spa-zio per il cielo e, spesso, per rappresentare compiutamente le facciate. Luciano Filippi non propone pittoricamente solo questi straordinari mo-numenti, ma per loro tramite dà luce e configurazione alle emozioni, che sono inconte-nibili. Viste così da vicino le chiese non stanno in un solo colpo d’occhi, davanti ad esse ci sentiamo piccoli, immersi nell’alone del fascino e nella

di Franco Ruinetti

Vele.

In alto a destra:Composizione.

Sotto a destra:Il Grand Hotel.

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MOSTRE

bellezza. La tecnica è dell’ag-giungere e del cavare, forse mai usata prima. Il linguaggio è materico: strati di polvere di marmo, lembi di catrame e così via. Poi l’autore raschia, erode, aggiunge colore. Le tante aperture, il movimen-to degli archi a sesto acuto, le

bifore, le decorazioni, fanno leggera la veduta, che non chiama ad entrare dentro uno dei portali fortemente strom-bati. Invita a volgere la vista verso il rosone, i pinnacoli, le guglie, in alto verso lo spirito. L’interesse per le cattedrali è certamente originale. Claude

Monet ne dipinse alcune per studiare la luce nelle diverse ore del giorno. Sulle facciate di Filippi prevale l’ombra del grigio, che per Kandinsky è silenzio, raccoglimento.

Le vele. Le vele sorgono sul fasciame delle barche. Sono slanciate, libere, il quadro non le contiene, vanno oltre e gli occhi di chi guarda le seguono. Ora gialle, poi rosse, quindi bianche, i colori si ad-densano, si sciolgono, levitano nella poesia. Così il concetto che trascorre nella produzione pittorica di Filippi, in questa tematica è ancora più esplici-to. Dalla materia soggetta alla gravità si sprigiona lo spirito, animato da una forza che è tesa verso l’Assoluto. I colori spesso sono sorpren-denti. Risultano appropriati e seducenti anche quando il mare ha gorghi blu, sfumature marroni, rimbalzi nel rosso spento. E questo significa che il talento ha infiniti alfabeti. Che parlano dentro.

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Pur uscendo dal classico linguaggio dell’immagine, la pittura di Lu-ciano Filippi ne mantiene gli ormeggi, distinguendosi ed elevandosi

per l’originalità di un lessico che nella trasfigurazione scopre nuove e autorevoli trame espressive.La continua e progressiva ricerca stilistica e cromatica, condotta con serietà e in piena autonomia, ha permesso all’artista riminese di accor-dare la propria poetica all’interno di una suggestiva sequenza di sfu-mature timbriche e materiche, dove le cose perdono la loro fisicità per intrecciarsi, e nello stesso tempo sciogliersi, in un ineffabile mondo del mistero.Atmosfere rarefatte, plumbee, ricche di reminiscenze arcane si alter-nano a fondali limpidi, solari, giocati sulle vibrazioni del colore, che sfarina sapientemente in luce e movimento. Operazioni creative dell’in-trigo, quelle di Filippi, che emanano energia, trasmettono emozione, suscitano stupore. E che non lasciano indifferenti.

(Manlio Masini)

INTRIGO E STUPORE

In alto:Neve a Verucchio.

A sinistra:Grande fioritura.

In basso:la cattedrale.

Roberto Rossi/ Trombonista jazz

Artista dotato di straordinaria musicalità e inventiva e di uno spiccato senso dell’improvvisazione

Il trombone di Viserbella

Strumento a fiato d’ottone, forse già noto nell’antichità

(le tubae dei romani), nel me-dioevo il trombone sostenne probabilmente la parte del te-nor e anche nei secoli seguen-ti fu impiegato a raddoppiare le voci. Nel ‘500 ha dato origi-ne a una famiglia di strumenti simili al trombone attuale, della quale il più importante è tuttora il trombone tenore in si bemolle. La singolarità di questo strumento a canna cilindrica come la tromba, è una coulisse telescopica detta anche tiro da cui la denomi-nazione trombone a coulisse o trombone a tiro che permette di abbassare progressiva-mente il suono fondamentale

allungando la colonna d’aria. Monteverdi nell’Orfeo, Cesti nel Pomo d’oro, Schutz nelle Symphoniae Sacrae, Gabrieli nelle Canzoni e Sonate furono i primi ad affidare parti im-portanti ai tromboni. Furono seguiti da Haendel nel Saul, Gluck, Haydn e Mozart. Il trombone, al pari della trom-

ba, è fra gli strumenti musicali che hanno dimostrato con il passare degli anni le maggiori capacità evolutive e la sua trasformazione che ha tanto arricchito le possibilità dell’or-chestra moderna, è dovuta principalmente alla potente influenza del jazz. Così quanti abbracciano l’esperienza del jazz attraverso la pratica strumentale del trombone, si ritrovano in qualche modo “avvantaggiati” da una tecnica molto evoluta, in grado di valorizzare al massimo grado la loro genialità e di esaltare il loro virtuosismo.È questo il caso di Roberto Rossi, oggi considerato uno dei massimi trombonisti jazz

a livello internazio-nale. Personaggio estroverso, artista dotato di una istin-tiva prorompente musicalità, di una innata inventiva e di uno spiccato sen-so dell’improvvisa-zione, il riminese di Viserbella come lui stesso ama pre-cisare, con il suo strumento ha girato il mondo ottenendo ovunque apprezza-menti lusinghieri. Eppure è rimasto quello che era da giovane, affabile e cordiale nei modi e

negli atteggiamenti e per nulla insuperbito dalla fama e dal successo. Da qualche tempo ha preso casa a Roncofreddo, ma appena è libero dai suoi impegni professionali corre a Viserbella al bar che frequen-tava da ragazzo, per ritrovarsi a fare quattro chiacchiere con gli amici di sempre. E lì può

rilassarsi completamente per-ché il clima è rimasto quello di una volta, senza formalismi di maniera. Talvolta, quando sporadicamente gli capita di esercitarsi nella casa paterna e al bar arrivano i suoni del suo inimitabile trombone vie-ne redarguito dagli amici con espressioni di ironica insoffe-renza del tipo: “Ma fammi il piacere...!”, “Ma non è ancora ora di smetterla una volta per tutte?”. E tutto questo è per lui motivo di spasso e di grande divertimento.Roberto Rossi si è avvicinato precocemente al trombone all’età di nove anni, frequen-tando a Viserba un corso di orientamento musicale tenuto dal prof. Federico Fabbrizioli che per primo ne intuì lo stra-ordinario talento. Singolare la scelta dello strumento ope-rata da Roberto: il trombone per un bambino non ha certo il richiamo della chitarra o del pianoforte. Eppure dopo averlo ascoltato e provato, scattò subito per lui il colpo di fulmine. In breve Roberto entrò in banda cogliendo le prime soddisfazioni e so-prattutto provando piacere a suonare con gli altri. Dopo qualche tempo però, senten-dosi vittima della derisione dei coetanei che vedendolo girare per strada con la custodia del trombone che non passava

di Guido Zangheri «Da vittima della derisione

dei coetanei ad applauditissimo

jazzista in giro per il mondo»

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MUSICA

certo inosservata, lo prende-vano in giro, andò in crisi e sull’onda di uno smarrimento adolescenziale, prese a malin-cuore la decisione di ritirarsi. Ma il richiamo della musica era troppo forte per Roberto, che superando ogni riserva, dopo un paio d’anni s’iscrisse al liceo musicale “Lettimi” nella classe di ottoni del prof. Orio Lucchi, un autentico la-boratorio strumentale. Al “Let-timi” Roberto Rossi ebbe modo di avvicinarsi al jazz attraver-so la partecipazione alla Big band – una autentica novità anche sul piano didattico e ag-gregativo – ideata e realizzata dal prof. Lucchi all’interno della scuola riminese. L’espe-rienza si rivelò determinante per gli orientamenti musicali di Roberto perché gli fece conoscere il jazz, appassio-nandolo profondamente ad un genere per il quale scoprì la sua più autentica attitudine. Conclusi pertanto gli studi ac-cademici con il diploma con-seguito presso l’allora Istituto Pareggiato “Malerbi” di Lugo nel 1984, Rossi intraprese inizialmente l’attività profes-sionale in ambito cameristi-co e sinfonico (Sinfonica di Sanremo, RAI Radiotelevisione Italiana, G. Rossini di Pesaro, Ort Firenze) partecipando con-testualmente con successo ad alcuni concorsi internazionali. Nel 1986 venne incaricato dell’insegnamento di tromba e trombone al Conservatorio di Musica “S. Giacomanto-

nio” di Cosenza e iniziò nello stesso anno la sua attività di musicista jazz con l’orche-stra “Hamburger serenade” diretta da Giovanni Tommaso, partecipando all’omonima trasmissione televisiva con la regìa di Pupi Avati. Da questo momento in avanti la carriera di Roberto Rossi non cono-sce soste, è un susseguirsi di concerti: non si contano le collaborazioni con le grandi star internazionali del jazz,le partecipazioni ai festival, le incisioni, gli apprezzamenti, i riconoscimenti. Diventa diffi-cile potere enucleare in questi frenetici ventisei anni di atti-vità i più rilevanti successi e le maggiori soddisfazioni colte da Rossi in tutte le parti del mondo. Roberto ha suonato e ha inciso con notissimi perso-naggi quali Eros Ramazzotti, Renato Zero, Lorenzo Jovan-notti, Gianni Morandi, George Michel, Rosanna Casale, Paolo Conte, Vinicio Capossela, Lu-cio Dalla, Ivano Fossati, Lucia-no Pavarotti, Augusto Martelli, Oliver Lake, David Murray, Marco Tamburini, Franco D’Andrea, Piero Odorici, Carlo Atti, Andrea Pozza, Roberto Ottaviano, Pietro Tonolo, Billy Hart, Cameron Brown, Lee Konitz, Joe Chambers, Ge-org Russel, Kenny Wheeler, Giorgio Gaslini, Cedar Walton, Paolo Pellegatti , Paul Jeffrey, Eddie Daniels, David Raksin, Jim hall, Paul Motian, Riccar-do Brazzale, Jack Waltrhat, Roberto Gatto, David Sanborn,

Giovanni Mirabassi, Flavio Boltro, etc.Le tappe più significative della sua straordinaria ascesa pas-sano dal Festival di Roccella Ionica al Festival di Bergamo, dal Jazz Contest al Vero-na Jazz, da Umbria Jazz, ai Festival di Amiens, Den Haag, Barcellona, Roma, dal Festival dell’Amicizia fra i popoli al Pescara Jazz. Nel 1992 Roberto Rossi fonda con Pietro Tono-lo, Marco Tamburini, Piero Odorici la Gap Band, parteci-pando al Festival del Cinema di Savona. Nel 1993 effettua due tournée, una in Ungheria con l’orchestra jazz delle TV europee “EBU.EUR” e una seconda, nelle principali città della Spagna con la Gap Band. L’anno seguente tiene concerti con l’orchestra del “Paese de-gli specchi” con George Russel, Kenny Wheeler ed entra a far parte dell’Orchestra dell’AMJ

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«Roberto Rossi ha suonato e ha

inciso con notissimi personaggi quali Eros Ramazzotti,

Renato Zero, Lorenzo Jovanotti, Gianni Morandi,

Lucio Dalla, Luciano

Pavarotti…»

diretta da Giorgio Gaslini. Successivamente si esibisce assieme a Carlo Atti e Andrea Pozza al “Ronnie Scott” di Londra e inizia a collabora-re con Cedar Walton con il quale assieme a Piero Odorici, partecipa a diverse rassegne in Italia. Nel 1996 ha l’onore di eseguire nell’Atelier Musicale di Milano in prima nazionale “Sweet Basil”, composizione per trombone e big band di

Franco Donato-ni. L’anno dopo suona al Centro della Cultura di Stoccolma con Marco Tambu-rini. Nel 2000 tiene una tour-née negli USA – New York, North Carolina – con Paolo Pellegatti e Paul Jeffrey. Nel 2001, dopo aver partecipa-to al “Pavarotti International”, viene invitato a

Palermo per eseguire con Lee Konitz gli arrangiamenti del famoso disco di Miles Davis “Birth of the cool”. Con la Ci-vica Jazz Band di Milano di cui è primo trombone, si produce in occasione della riapertu-ra del teatro Dal Verme con Eddie Daniels e David Raksin, compositore reso famoso del celeberrimo tema “Laura”. Partecipa inoltre con Marco

Tamburini ai “Tre giorni di musica per una vita” per Billy Higgins. Nel settembre 2001 viene chiamato dall’Orchestra Na-zionale d’Italia per una tour-née in Cina e suona a Pechino, Dalian, Macao, Taipei. Roberto ha ancora vivo il ricordo del viaggio e del profondo senso di sgomento e di panico avver-tito da lui e dai suoi colleghi, quando l’aereo sorvolava l’Af-ghanistan, in quanto effettuato il 12 settembre all’indomani dell’abbattimento delle torri gemelle. Ritornato in Italia tiene, ospite dell’Orchestra di Musica Contemporanea, un concerto “Sacred concert” a Palermo in veste di solista, in omaggio a Duke Ellington e successivamente suona con Jim Hall al Teatro Manzoni di Milano. Nel 2002 partecipa al Festival di Vicenza con Paul Motian e la “Lydian Sound Orchestra” diretta da Riccardo Brazzale eseguendo i brani del noto concerto “Monk at Town Hall”. Tiene poi un concerto dedica-to a Mingus all’“Iseo Jazz” con Jack Walrhat. Nel 2003 parte-cipa al Festival Internazionale di jazz di Dubai. Nel 2004 suona in quartetto con Pietro Tonolo a vari festival in Italia e all’estero, con un repertorio di musiche di Lennie Trista-no. Nel 2005 ritorna a New York dove suona al “Sweet basil” per una settimana con il quintetto di Roberto Gatto. Partecipa inoltre al festival “Instanbul Jazz Weekend” in quartetto con Pietro Tonolo. Nel 2006 viene chiamato al Te-atro Olimpico di Vicenza per lo spettacolo teatrale con Gior-gio Albertazzi ripreso dai RAI 2, su testi di Shakespeare con

musiche di Duke Ellington. L’anno dopo si produce in vari festival in Inghilterra e suona con Kenny Wheeler al Gray Cat festival. Nel 2008 suona con Cedar Walton in vari festival italiani, partecipa ad “Umbria Jazz” con il gruppo di David Sanborn e successi-vamente al festival di Roccella Ionica con Enzo Iacchetti voce recitante nel progetto dedicato a Italo Calvino. Successiva-mente tiene concerti in Siria e Libano in trio con Giovanni Mirabassi e Flavio Boltro. Lo scorso anno torna a Um-bria jazz con Roberto Gatto e di recente interviene al festival jazz di Nis in Serbia. Intanto costituisce “a Rota libera”, gruppo di stampo bandistico fortemente dedito all’improvvisazione, che fonda il suo repertorio principal-mente sulle musiche da film di Nino Rota.Attivo anche sul fronte della didattica, Rossi dopo il citato incarico a Cosenza, nel ‘94 ha insegnato alla scuola di jazz il “Paese degli specchi” nel bolognese, nel ‘96 presso i seminari invernali di musica jazz di Siena e ai civici corsi di jazz a Milano nell’ Accademia internazionale “Musica oggi”; dal 2001 è stato docente pres-so i Conservatori di Bologna e di Adria, negli anni 2008 e 2009 insegnante di trombone jazz e musica d’insieme pres-so i seminari internazionali di Siena IN-JAMM. Parallela-mente, dall’anno accademico 2007/2008 ha avuto l’incarico della cattedra di jazz presso il Conservatorio “Dall’Abaco” di Verona. In tale contesto nel 2006 ha pubblicato un suo Me-todo per trombone jazz edito da Ricordi.

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A spasso per la città

Un mestiere tramandato di padre in figlio con la collaborazione di mogli e nipoti

I Cupioli, panificatori da una generazione

di Silvana Giugli

Giorgio Cupioli con la moglie Silvana, la nipote e il figlio.

Sono i “ruggenti” Anni Trenta (1930/35). Il nonno Lorenzo Cupioli, con la famiglia e i cugini, lavora, ovvero fa il pane, in un forno in via Isotta. È un lavoro artigianale che richiede molto sacrificio ma dà anche soddisfazione ed è un lavoro sicuro, e poi, in via Isotta, in Borgo Sant’Andrea, ogni primavera, si verifica un evento da non perdersi: il pas-saggio della Mille e Miglia (la Brescia-Roma-Brescia), quella mitica gara di regolarità per auto, che per 13 edizioni, quelle pre-guerra, attraversa Rimini, al ritorno, verso il tra-guardo lombardo. Il passaggio delle auto avviene di notte e i fornai possono goderselo durante una pausa del lavoro senza allontanarsi. Anche il regista Fellini, nel suo Amar-cord, ricorda quell’evento.Il figlio Arsildo, che vuole avere la licenza per mettersi in proprio, pertanto lavora in un forno di via Bertani, presso Santa Rita ma poi “arriva” la guerra. La famiglia Cupioli ha diversi figli ma Arsildo deve partire. Però, per sua fortuna, fa un mestiere che lo aiuta. Dovrà, comunque, andare in Russia ma nella Sussistenza e, questo, gli permetterà, dopo indicibili traversie, di essere tra i pochi a ritornare a casa.Verso la metà degli Anni Cinquanta Arsildo apre un suo forno in via Michele Rosa. Nel centro di Rimini ci sono diversi fornai: Capucci in via Dante: vicino all’ex Acli, un altro in via Mentana, altri due in via Garibaldi tra cui quello di Bianchini, uno in via Roma quasi all’angolo con corso Umberto (oggi Giovanni XXIII). C’è poi quello nella “piazzetta delle poveracce” e

il forno del Comune, dietro le vecchie poste. E poi come non ricordare l’altro forno storico di Rimini, il Fellini in Corso d’Augusto, verso il ponte di Tiberio, poco dopo il cinema Fulgor. E poi tanti altri ancora nelle zone meno centrali. Questi sono gli anni durante i quali si sviluppa sempre più il turismo e il lavoro non manca. Così tutti i fratelli Cu-pioli lavorano nel panificio di famiglia. Negli Anni Sessanta gli impianti vengono poten-ziati con un forno tedesco, che funziona con differenti combustibili. È un forno di tipo “militare” che può essere trasportato su camion per seguire il reparto cucinieri: è una rarità per l’epoca. Ancora oggi è attivo regolarmente.Quando viene meno Arsildo la direzione del forno passa al figlio Giorgio che rinnova ed amplia il locale e nel panifi-cio le generazioni di Cupioli continuano a succedersi. Attualmente, da molti anni, il fratello minore di Giorgio, ha aperto un suo forno in via Covignano che ricorda molto quello di via Michele Rosa in centro sia per l’arredo che per i prodotti proposti: pasta fresca fatta a mano.La clientela del forno Cupioli è, da sempre, la più varia e Giorgio ricorda come, negli Anni Sessanta, molte don-ne della zona venivano, per Pasqua, a far cuocere le loro ciambelle. Mentre, in esta-te, invece, erano le padrone di molte pensioncine che portavano al forno, per essere cotte, le teglie ricolme di lasagne. E poi c’erano i clienti “d’élite” come Lucio Battisti, Tonino Guerra, alcuni coristi della Scala di Milano e alcuni

noti imprenditori riminesi che aspettavano in fila, tra la “gente comune”, che uscisse dal forno l’ultima infornata di spianata bollente.I Cupioli sono una famiglia numerosa, una gran bella fa-miglia, dove, quasi di regola, il mestiere viene tramandato di padre in figlio e tutti, mogli e nipoti, col-laborano. In questo senso hanno tutti i requisiti per essere consi-derati “sto-rici” nel loro settore che oggi è tra l’artigiano e il com-merciante. Tuttavia il Comune non ha voluto riconoscere la qualifica di “esercizio storico” e questo è fonte di rammarico per Giorgio. Forse sarà perché l’arredo del negozio non è d’epoca: ma si sa che un forno deve rispetta-re delle regole igieniche che non gli permettono di conser-vare scaffali o madie antiche. O forse le agevolazioni e gli sgravi fiscali di cui potevano godere con il riconoscimento di “esercizio storico” erano troppo impegnativi per il Co-mune. Chissà.

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ALBUM

«Quando Lucio Battisti

e Tonino Guerra aspettavano in fila che uscisse

l’ultima infornata di spianata»

“L’isola e le rose” di Walter Veltroni

Una stravagante proposta di ribellione ammantata di poesia e dolcezza

Il romanzo di un sogno

Sul finire dello scorso anno, Walter Veltroni mi chiese

cosa ricordassi dell’Isola delle Rose su cui si sarebbe incen-trato il suo prossimo romanzo.

Mi domandò inoltre se mi fosse stato possibile aiutarlo a procurare del materiale d’archivio relativo alla Rimini di quei “secondi anni ‘60” e a fargli incontrare sia qualcu-no dei protagonisti di quella singolare avventura, sia alcuni personaggi che per varie

ragioni ne avessero all’epoca trattato, sia qualche autore che avesse scritto della Rimini del passato, fra cui Manlio Masini di cui già conosceva alcune opere.Chi abbia letto qualche suo li-bro precedente sa con quanta cura, ai limiti della pignoleria, Veltroni ami contestualizzare i suoi romanzi, “movimentan-doli” non solo con riferimenti a situazioni ed eventi storica-mente accaduti, ma addirit-tura arricchendoli di “piccole preziosità di contorno”, rievo-cative della cultura diffusa, del senso comune, delle abitudini caratterizzanti l’epoca in cui la trama si svolge. C’è a questo proposito un aneddoto che la dice lunga: il direttore della Perugina, avendo avuto il preannuncio di una telefonata dell’On. Walter Veltroni”, si era predisposto a sostenere chissà quale impegnativa conversazione; s’è invece sentito chiedere se al tempo in cui si svolgeva uno dei rac-conti di “Noi” la sua azienda producesse effettivamente il citato “Carrarmato Perugina al latte”.Devo dire che il piccolo ausilio dato a Walter, soprattutto per le annualità del “Carlino” consultate alla Gambalunghia-na, mi ha fornito l’emozio-nante occasione di rivisitare momenti ed eventi con cui ha interagito un quinquennio del mio percorso giovanile; che ripensato in rapporto alla condizione di gran parte dell’odierna gioventù, mi verrebbe da definire “felice-mente irrequieto”, al pari di quello di tanti miei coetanei, assetati com’eravamo di una gran voglia di futuro, sia che sfociasse in uno dei variegati

e spesso contrapposti versanti della politica, o nello sport, o più semplicemente nel biso-gno di costruire e vivere delle esperienze assieme.La medesima irrequietezza da cui sono pervasi i quat-tro giovani protagonisti del romanzo, sui quali Veltroni trasferisce la “pazza idea” di voler creare l’Isola delle Rose, che da piattaforma in mezzo al mare quale inizialmente doveva limitarsi ad essere, sfocia poi in uno stravagante “sogno rivoluzionario”, tra-sformandosi in autoproclama-to Stato indipendente, dotato di Governo, di propria moneta e dell’esperanto come lingua nazionale.Il raccontarsi dei quattro ra-gazzi, che in quella suggestiva avventura investono il meglio di se stessi, ne evidenzia la

di Nando Piccari «… e tutto su quell’isola sorretta

da tubi e piloni, che misura appena

quattrocento metri quadrati e che in certe notti

regala il fantastico spettacolo del

fitoplancton, con il mare che diventa

fosforescente, quasi salisse dalle

sue profondità un’entità invisibile

a illuminarlo»

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LIBRI

differenza di personalità, con-cezione culturale e propensio-ne esistenziale, non sottacen-do di ciascuno anche i limiti, le paure e in qualche caso le nevrosi. Ma il loro comune denominatore è il sogno: un sogno che certamente si porta dentro pure un che di ribel-lione e di sfida al mondo, ma cariche di poesia e di dolcez-za, riassunte nella dedizione alla loro creatura: quell’isola sorretta da tubi e piloni, che misura appena quattrocento metri quadrati e che in certe notti regala il fantastico spet-tacolo del fitoplancton, con il mare che diventa fosfore-scente, quasi salisse dalle sue profondità un’entità invisibile a illuminarlo.Sullo sfondo c’è la Rimini di quegli anni, di cui Veltroni ci ripropone molteplici spezzo-ni veritieri riferiti a vicende sociali e politiche, così come alle sue propensioni ludiche e culturali; insieme a talune atmosfere fatte di un disordi-nato miscuglio fra la voglia di progredire, così avvertibile nella città di quegli anni, la consapevolezza del “doversi dar daffare”, l’idea che il do-mani sarebbe stato comunque migliore dell’oggi; e ancora, i colori e i sapori della festa che l’estate sapeva regalare, segui-ti dalla malinconia provocata dal suo interrompersi per l’arrivo dell’autunno.Il libro regala il non facile risultato di una felice osmo-si fra “l’intelaiatura storica” dell’avvenimento da cui esso trae spunto e la sorprendente verosimiglianza del racconto di fantasia che vi fa seguito. Al punto tale che chi ha memo-ria di quella vicenda, alla fine deve fare uno sforzo – perfino

malvolentieri e con un po’ di “magone” – per ricordare che in realtà fu un maturo ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, a fondare l’Isola delle Rose.Se mi è permessa una piccola digressione personale, devo dire che a me il libro ha cau-sato anche l’aggiunta di un re-troattivo senso di colpa. A quel tempo infatti, al pari di tanti studenti riminesi, d’estate lavoravo “di remo” a Marina Centro (fra i miei aiutanti...più o meno volontari, vi era il Past President Luigi Prioli. Insieme, quando era stagione, uscivamo anche in moscone a piazzare “e paranghel” per prendere “i bicun”). Natural-mente la stramba avventura della “Insulo de la rozoj” era in quei mesi uno degli argo-menti obbligati, con il suo corollario di leggende metro-politane generatrici di ogni tipo di diffidenza. Siccome io ero l’unico comunista del giro, alcuni bagnini più anziani e molti clienti, convinti che die-tro all’operazione Isola delle Rose si nascondesse la mano spionistica dell’Unione Sovie-tica, polemizzavano con me quasi fossi una quinta colonna del Politburo: cosa che mi faceva fortemente arrabbiare poiché fin dall’inizio della mia militanza politica ebbi ripetutamente a manifestare un’aperts contrarietà all’URSS. Cosicché quando l’isola fu fatta bombardare dal Governo Italiano, quasi tirai un sospiro di sollievo. Credo vada infine rilevato che pur avendo Veltroni la dime-stichezza che sappiamo con la trattazione politica, e nono-stante il libro sia permeato di inequivocabili tracce del clima

prodromico al sessantotto già in incubazione, “L’Isola e le rose” non è affatto il classico romanzo politico. È, appunto, il romanzo di un sogno. Anzi, di un sogno svanito ma non per questo inutile. Perché, come fa dire l’autore a uno dei suoi personaggi, «non sono i sogni non realizzati ma quelli non fatti a rendere futile e stupida un’esistenza.»

Rimini, 22 agosto 2012, Teatro degli Atti. Presentazione, in anteprima nazionale, de “L’isola e le rose”. Sul palco: Tiziana Ferraio Walter Veltroni, Fabio De Luigi, Andrea Gnassi e Sergio Zavoli.

«“L’Isola e le rose” è il romanzo di

un sogno svanito ma non per questo

inutile. Perché, come fa dire l’autore a uno dei suoi

personaggi, “non sono i sogni non

realizzati ma quelli non fatti a rendere

futile e stupida un’esistenza”»

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“John Lindsay Opie/ Estetica simbolica ed Esperienza del Sacro”

Il volume di Alessandro Giovanardi è impreziosito dall’introduzione di Boris Uspenskij

Un maestro sulla “soglia dei mondi”

C’è un mondo a metà tra la carne e lo spirito, un

mondo delle immagini ma non del fantastico, perché è fatto dell’«alta fantasia» dantesca che non inventa, nel significa-to che oggi diamo al termine, ma come nella sua antica eti-mologia: ritrova. Questo regno che porta linfa vitale a tutte le religioni e che conserva in forma simbolica, gli archetipi e le figure che illuminano la strada dei cercatori di Dio, coniugandosi in vari nomi ma con la stessa forma è chiamato appunto «mundus imaginalis».Si potrebbe definire un luogo della visione, un anello di con-giunzione celeste, che è anche il tramite entro cui l’arte pas-sa, nel cercare di esprimere l’invisibile e lo spirituale, ed è il nucleo di fede nella bellez-za, a cui John Lindsay Opie ha sempre cercato di attingere, più che le fonti della pro-pria ricerca, l’incitamento a cercare. Lo studioso, da molti anni risiedente in Italia, è nato negli Stati Uniti da un’antica famiglia scozzese, trasferi-tasi in Virginia, già nel XVII secolo con antenati illustri che hanno radici nella storia della nazione stessa, quali il

leggendario generale Lee, icona della guerra di Secessio-ne. Come ama però ricordare, è stato concepito a Shangai durante uno degli spostamenti del padre, che era ufficiale di marina. E forse questo suo attraversamento di vari con-tinenti, già sperimentato nel liquido amniotico si è concre-tizzato anche nella trasversa-lità dei suoi interessi e nella ricerca di una loro possibile relazione, un matrimonio di simboli. Infatti, all’inizio di una carriera, cominciata sotto le insegne del ragazzo prodi-gio, si è dedicato ad indagare molteplici forme artistiche legate al culto religioso, nate in diverse latitudini del cosmo, per approdare poi e sostare, nel lago dorato dell’icona, che nella religione ortodossa non è semplice rappresentazione del divino, ma una diretta emanazione della sua grazia. Per usare le sue stesse parole: «sostanziale è il rapporto tra l’icona e l’arte delle altri grandi religioni a cominciare da quelle primitive, in cui simboli e segni sono sempre comunque intesi come veicoli reali della potenza sacrale» ed è nel solco di questo rapporto carsico e misterioso che si possono considerare alcune sue scoperte. Una di queste riguarda l’iconografia dei “monti gemelli”, la montagna spaccata che s’innalza dal centro della terra, presente in molti dipinti bizantini ma an-che trecenteschi riminesi, che sembra attingere la sua ori-gine dai sigilli cilindrici della Mesopotamia del III millennio A.C. con la rappresentazione del Dio sole che sorge tra due cime, tagliando a metà con un coltello, il monte sacro. Inoltre

i suoi studi sull’arte religiosa indiana, che lo hanno inizial-mente appassionato al colle-zionismo delle bambole sacre Tamil, gli hanno permesso di rilevare una sostanziale affi-nità tra le teologia dell’India Shivaita e il Cristianesimo. E tuttavia come ricorda Giova-nardi, in Lindsay Opie «non vi è mai una sovrapposizione sincretica di temi “pagani” a temi cristiani, bensì la trasfi-gurazione di segno e conte-nuto dei primi, nel senso dei secondi».In tutta la sua lunga carriera di storico dell’arte, bizantini-sta, docente universitario e iconologo, ma anche di critico della letteratura americana e studioso della cultura artistica indiana e cingalese, Lindsay Opie ha disseminato le sue idee e la sua conoscenza in una miriade di semi sparsi in articoli, riviste, atti di conve-gni, conferenze e libri difficil-mente reperibili e consultabi-li, che rischiavano di perdere la loro coesione e confondere in un velame nebbioso, la fisionomia del loro autore. Ora il pericolo è scongiurato dal ritratto che uno dei suoi allievi, il riminese Alessandro Giovanardi ha saputo traccia-re di lui, nel libro edito per

di Sabrina Foschini «Un omaggio d’affezione volto

a ricostruire in senso critico la bibliografia

dell’opera intellettuale

di Lindsay Opie»

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LIBRI

John Lindsay Opie, grande storico dell’arte.

i prestigiosi, rigorosi tipi di Storia e Letteratura di Roma intitolato “John Lindsay Opie/ Estetica simbolica ed esperien-za del sacro” composto come una biografia del pensiero o come è detto nel sottotitolo, un profilo intellettuale. Allievo in questo caso non in senso let-terale, ma nel segno proposto da Agostino che concepisce il Maestro non tanto come tra-mite d’esperienza, ma come chi è capace di risvegliare negli altri il proprio maestro interiore, e così Giovanardi ha scelto nell’aristocrazia dei testi di un autore schivo e dedito alla perfezione, una guida indiretta e certa. Ma la stessa vita di Lindsay Opie si è nutrita di molti maestri palesi e segreti: gli storici dell’arte Rensselaer W. Lee, che definì la teoria umanista della pittu-ra, Bernard Berenson, salva-tore del Tempio Malatestiano, e Roberto Longhi, scopritore di Caravaggio, l’iconologo Erwin Panofsky, discepolo di Aby Warburg. A completare il lignaggio intellettuale di John concorrono le affinità eletti-ve col matematico e filosofo russo Pavel Florenskij, martire del gulag sovietico, l’identità di sguardo con lo studio-so anglo-singalese Ananda Coomaraswamy, la complicità col grande islamista persiano

Seyyed Hossein Nasr che John aiutò a fuggire dall’Iran kho-meinista, trovandogli asilo po-litico e accademico negli Stati Uniti, la lunga amicizia con Elémire Zolla, vissuta sotto le costellazioni delle immagini e dei simboli sacrali.La scintilla di questa attenzio-ne è nata appunto per l’incon-sapevole intercessione della poetessa Cristina Campo, compagna di Zolla, che da lungo tempo Giovanardi stu-dia e chiosa come un canone insuperabile di scrittura e che amica di Lindsay Opie, ne aveva tradotto in Italiano la lettera aperta indirizzata ad Aleksandr Solzenicyn, il nobel di “Arcipelago gulag”, sui ri-schi di un impoverimento del culto ortodosso. Alla Chiesa russa e al rito bizantino-slavo lo studioso americano si era, difatti, felicemente conver-tito anche per influenza del pensiero scintillante della poetessa. Da questo incipit e da alcuni saggi iconogra-fici si è accesa la fiamma di un interesse e una curiosità profonda, che con la cono-scenza personale di Lindsay Opie è diventato anche un omaggio d’affezione volto a ricostruire in senso critico e cronologico una bibliografia, più possibile completa della sua opera intellettuale, che possa traghettare altri studiosi nell’indagine e nella disanima del suo pensiero. Il volume è impreziosito anche da una altrettanto affettuosa introduzione dell’intellettuale russo Boris Uspenskij, uno dei più importanti semiologi del nostro tempo, che ripercorre nei singoli episodi biografici, l’amicizia con John Lindsay Opie, nata da un’intesa sull’in-

terpretazione del pensiero dei “Vecchi credenti” russi e poi cementatasi in quella che è di-ventata una comune passione dell’anima, estrema devozione alle culture dimenticate e per questo ancora vitali e sapienti. Infine un aneddoto: pare che nel novembre del 2003, var-cando le porte del Tempio di Sigismondo con Lindsay Opie, ospite della Fondazione Cassa di Risparmio Di Rimini, l’eru-dito riminese Enzo Pruccoli si ricordò di quel 1928 in cui il giovanissimo Augusto Cam-pana aveva accompagnato un ammirato Aby Warburg in visita al monumento malate-stiano. A Pruccoli, discepolo di Campana, sembrò quasi di esser chiamato a ripetere il cerimoniale facendo da guida a John, discendente dalla scuola warburghiana. Alessan-dro Giovanardi che li affian-cava e li aveva fatti conoscere, vide chiudersi l’ideale disegno di un tappeto: i bassorilie-vi di Agostino di Duccio, le tavole riminesi del Trecento, l’esperienza del culto e della liturgia, il rapporto fra visibile e invisibile, palese e manife-sto, non saranno più per lui ciò che erano state prima.

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«Giovanardi, con tale opera,

stimola gli studiosi ad introdursi nell’indagine del pensiero

di Opie»

“Camicie Nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo”

Nel volume di Elios Andreini e Saturno Carnoli la storia di alcune donne coraggiose

Partigianetutto il giorno a pedalare

Giampiero Lippi, storico della Resistenza, ha ricor-

dato nella scorsa primavera a Rimini, in occasione della Festa della Donna, tre figure di giovani donne romagnole che tanto si sono spese per la libertà negli anni 1943-1944 quando l’assurda guerra volu-ta dal fascismo stava volgendo disastrosamente alla fine: Ida Paganelli, Adria Neri e Ulitta Dallamotta.Ida Paganelli, cervese, in-fermiera presso l’ospedale di Rimini negli anni Trenta, fu testimone e protagonista umile e silenziosa di impor-tanti avvenimenti della nostra storia. Nel 1938, ad esempio, facilitò l’incontro tra la vedova

di Guido Picelli (il difensore di Parma contro i picchiatori fascisti, 1922) e alcuni an-tifascisti che diedero vita, a Cervia, a un comitato di salute pubblica anticipando quello che sarebbe stato il Cln.Nel 1943, con la comparsa della repubblica di Salò, rico-verò nella sua villetta alcuni alti ufficiali inglesi. Il generale Philip Neame nelle sue memo-rie ricorda: «Passammo alcune notti nella villa di una signora italiana. La chiamavano Ida dell’ospedale». Ida fu sempre pronta ad ospitare antifascisti e, d’accordo col personale dell’ospedale, distribuiva medicinali ai partigiani; ma fu nel luglio del 1944 che per

un grave errore di consegna di una lettera del Comitato di liberazione provinciale destinata alla Paganelli (a cui si impartivano ordini, ma fu data, perché essa era assente, inconsapevolmente a un fasci-sta) la casa della destinataria fu perquisita dai Carabinieri i quali consegnarono la donna

di Ivo Gigli

Adria Neri

«Una volta furono fermate dai tedeschi, ma paradossalmente

furono salvate da un fascista»

LIBRI

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alla Brigata Nera di Ravenna; fu trattenuta otto giorni e sot-toposta a terribili e vergogno-se sevizie, come tra l’altro, le bruciature delle sigarette sulle carni e schegge di legno confi-scate sulle unghie. Ma Ida non aprì bocca. Fu, poi, spedita per due mesi in carcere ove fu an-cora visitata e interrogata dai fascisti e dal console Guidi. Arrestarono persino la figlia che le portava da mangiare. Uscita dal carcere Ida si diede alla clandestinità.Tutto questo è raccontato da Elios Andreini e Saturno Car-noli nel libro “Camicie nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo” che raccoglie un condensato di molteplici processi contro i fascisti. Dopo la Liberazione la Paganelli riprese il suo lavoro presso l’o-spedale di Rimini e non volle mai accettare attestati del suo impegno e del suo coraggio.Adria Neri – “Marga” il nome di battaglia – nacque a Can-nuzzo nel forese romagnolo. Trasferita a Cervia, sposata, aderì alla Resistenza come staffetta. A Cervia, dopo l’8

settembre 1943, collaborò con Bulow (Arrigo Boldrini) nella ricerca di armi. Ospitò nella sua casa un diserto-re cecoslovacco, che poi fu aggregato all’Ottava Brigata Garibaldi. Quando Giovanni Fusconi assunse nel maggio 1944 la segreteria del PCI di Rimini, volle con sé due staffette cervesi: “Marga” e “Liliana (Ulitta Dellamotta. Furono assegnate al settore politico: partivano per Rimini in bicicletta e continuavano a pedalare ogni giorno per reca-pitare corrispondenza, stampa e armi a Forlì, a Verucchio, a Morciano e San marino. La loro era una vita convulsa e piena di tensioni, dovevano cambiare continuamente i loro recapiti, potevano essere fermate e arrestate. Tra l’altro, una volta furono fermate dai tedeschi, ma paradossalmente furono salvate da un fascista. Finita la guerra “Marga” fre-quentò corsi professionali e fu assunta dal comune di Rimini e non cessò mai di vivere nelle organizzazioni operaie e partigiane.

Queste donne, “Marga”, Ida e “Liliana” e le loro compagne, si opposero a un regime che non si peritava, pure, di essere alleato con la più barbara delle dittature, il nazismo, e si batterono dimostrando non solo impegno e coraggio, ma facendo una chiara scelta di civiltà.

Ida Paganelli

«Partivano per Rimini in bicicletta

per recapitare stampa e armi»

ARIMINUM | LUGLIO AGOSTO 2012 | 47

Compagnie e personaggi della ribalta riminese

La “Perpetua inamureda” degli “Jarmidied”

Valeria Parri

Il desiderio di recitare in dialetto in Valeria Parri

nasce quando la figlia fre-quenta la scuola elementare. In quel tempo, in accordo con

gli insegnanti, a carnevale e per la chiusura dell’anno scolastico, i genitori prepara-no una commedia, che oltre a divertire i figli diletta loro stessi. Si portano alla ribalta rappresentazioni intercalate da allegri e noti detti dialet-tali, come quelli suggeriti dai nonni: “Va a pisèr t’la zen-dra, (va a a fare la pipì nella cenere) oppure “ T’ci sempre l’utma com la coda de chen” (sei sempre l’ultima come la coda del cane). Inizialmente

il palcoscenico creava grossi timori tra i quali quello di non ricordare le parti del copione. Col passare degli anni tutto di-viene facile, tanto che, su invi-to, il team comincia a recitare sui palcoscenici di altre sedi scolastiche. Nel 2003 la Parri entra a far parte della compa-gnia dialettale “I Bighelloni” sotto la guida del commedio-grafo e regista Antonio Palma. La prima commedia che Valeria fa con il nuovo gruppo è “La pensione Stella”, una rappresentazione che porta alla ribalta storie della Rimini estiva. Dal 2012 entra a far parte della compagnia “Jarmi-died”, con la quale si sente a suo agio perché le consente di sostenere ruoli sempre diver-si: è la rompiscatole, vicina di casa, in “La butega ad Pitron”; la sarta in “Una dmenga ad Carnivel”; la perpetua inamu-reda in “È parsot de Signor”; ha il ruolo di mediatrice in “E dievli uj fa e po uj cumpagna”; è la sarta chiacchierona in “Una dmenga ad Carnivel”; interpreta la moglie delusa, la vecchia nonna… Il gruppo scenico da qualche tempo è formato dagli stessi attori e dallo stesso regista: una condizione di amicizia collabo-rativa che crea in Valeria tanta sicurezza. Ella pensa di aver dato il meglio di se stessa nella parte della “Per-petua inamure-da”, aiutata nel ruolo dal modo

di parlare e deambulare di un’anziana e ciarliera signora. A suo avviso non è difficile reperire nuovi testi, perché, grazie al territorio romagnolo che si estende dal mare alla collina, è possibile cogliere contenuti e suggerimenti da tradurre in copioni, come non resta difficile, almeno nella sua compagnia, reperire gio-vani che si prestano a calcare le scene, anche se talvolta con un dialetto fluttuante. Valeria Parri trova che nella poesia dialettale di Gianfranco Miro Gori, è condensata la storia del nostro vernacolo.

di Adriano Cecchini

Valeria Parri, moglie di Lurenz,

innamorata del parroco in

“La butega ad Pitron”.

«Una passione che nasce nell’ambito

scolastico e prosegue

sui palcoscenici di città»

48 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012

DIALETTALE

Gianfranco Miro Gori

E DIALETI mi nòn i panseva e i ciacareva in dialet. La mi ma e i mi bai pensa in dialet, mo sa mei a sémpra zcours in itaglién.E mè, ch’iò studiè è dialet te cafèprima a ragiòun in taglienpu a faz la traduzioncmè sl’inglòijes e franzòis.Mo u i è una masa’d diferénza:sa queli a chin pansè furistirsa quèst, l’è sa, spicem ti mi vécc

La medaglia del Rotary Club Rimini Riviera

L’opera è stata eseguita da Angelo Ranzi, un artista che si esprime nelle più svariate tecniche della pittura e della incisione

I gioielli di piazza Cavour

di Arnaldo Pedrazzi

Dritto: ROTARY CLUB RIMINI RIVIERA (nel giro)Simboli e firma Ranzi (nel campo)

Rovescio: CON IL ROTARY INCONTRO AL MONDO (nel giro)Simboli e firma Ranzi (nel campo)

Diametro: mm 60Peso: g 115 in argento, g 105 in bronzoTiratura: 10 in argento, 150 in bronzoStabilmento: Picchiani & Barlacchi s.r.l. Firenze

Il Rotary è una organizza-zione di uomini e di donne,

rappresentanti le più svariate attività economiche e profes-sionali, che lavorano insieme a livello mondiale per offrire un servizio umanitario alla so-cietà, incoraggiare il rispetto di elevati principi etici nell’e-sercizio di ogni professione e aiutare a costruire un mondo di amicizia e di pace. Fra le più importanti attività voglio in particolare ricor-dare il “Progetto Polio Plus”, iniziato oltre 20 anni fa su idea del club italiano Rotary Club Treviglio e della Pianu-ra Bergamasca, che oggi sta collaborando nel completare la vaccinazione a livello mondiale di tutti i bam-bini contro la poliomie-lite. Il Rotary Interna-tional infatti è tra i partner, insieme all’Organizzazio-ne Mondiale della Sanità, all’Unicef e al “CDC” (Center for Disease Control and Prevention), della Global Polio Eradication Iniziative, l’eradicazione globale della Poliomielite.Il contributo finanziario del Rotary International all’iniziativa ha superato i 700 milioni di dollari americani (100 milioni donati solo nel 2008). Recentemente la Bill e Melinda Gates Foundation ha donato alla Rota-ry Foundation 100 milioni di dollari americani a favore di questo progetto; la Ro-tary Foundation si è im-pegnata allo stesso modo a

raddoppiare la donazione nei prossimi tre anni. Attualmen-te, secondo i dati di maggio 2012, i rotariani nel mondo sono 1.230.551, raggruppati in più di 34.404 Club presenti in oltre 200 Paesi. Il primo Rotary Club Italiano è stato fondato a Milano il 20 dicembre 1923. Dopo l’inter-ruzione del periodo fascista e della seconda guerra mondia-

le, in Italia è cresciuto rapi-damente: sempre nel maggio 2012 contava 42.034 Rotariani in 802 club.

Nel 1989 il Consiglio di Le-gislazione ha eliminato nella Costituzione del RI il requisito che prevedeva l’affiliazione limitata ai soli uomini nei Rotary club. Le donne sono quindi state accolte in tutto il mondo e nel 2009 erano già 187.967.A Rimini ci sono due club, il Rotary Rimini e il Rotary Rimini Riviera che nel 2007 ha fatto coniare il bel medaglione che qui illustriamo, da conse-gnare ai relatori e agli ospiti.

La medaglia sul dritto rap-presenta uno scorcio della piazza Cavour di Rimini: teatro Galli, palazzo del Capitano, palazzo dell’A-rengo, statua di Paolo V; per caratterizzare la cit-tà, si sono voluti evitare i soliti monumenti, come

arco, ponte e duomo, che sono già stati molto

sfruttati.Sul rovescio è raffigurato il molo che partendo dalla città si protende sul mare aperto; si è voluto rappresentare il molo perché punto d’approdo

di coloro che viaggiano per mare, da sempre la grande via di comunicazione e di contatto fra i popoli.La medaglia è stata eseguita da Angelo Ranzi, un artista che si esprime nelle più svariate tecniche della pittura e della incisione,

nonché nella coniazione di medaglie e nella realiz-

zazione di opere in bronzo; vive e lavora a Forlì.

ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 51

NUMISMATICA

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ARIMINUM

Dentro l’onda

“ARIMINUM”? UNA CARA ESPERIENZA

Cari amici,dopo quasi vent’anni da quando le mie fotografie cominciarono a comparire sulle copertine di “Ariminum” la mia collaborazione con questa bella rivista è giunta al termine. Il motivo è semplice: sopravvenute esigenze commerciali e pubblicitarie impongono un diverso ruolo ed una diversa tipologia dell’immagine di coper-tina, che comporterà anche la sovraimpressione di varie scritte, titoli e altro ancora.A questo punto, la mia scelta è ovvia: il fatto è che le mie foto-grafie non sono adatte a questa nuova impostazione, essendo state concepite con tutt’altra ottica, quella che corrisponde al mio personale modo di sentire e di vedere. Insomma, non potrebbe funzionare.Concludendo questa mia esperienza, che mi è e mi resterà cara, ringrazio di cuore il direttore, l’amico Manlio Masini, che, con rara cultura, pazienza, simpatia ed intelligenza, ha sempre colla-borato con me in tutti questi anni. È stato, ogni volta, un grande piacere incontrarlo e conversare con lui.Non da ultimo, un sentito grazie anche a tutti coloro che hanno apprezzato la mia opera. Con l’occasione, poiché diversi lettori me lo hanno chiesto, preciso che tutte le mie immagini apparse su “Ariminum” sono tratte da diapositive (quasi tutte “kodachrome” la mitica marca, ora non più in produzione, nominata perfino in una canzone degli altrettanto mitici “simon & garfunkel”). Di-verse di quelle foto sono state poi ricavate dal mio libro fotogra-fico “Rimini alla ricerca di un’anima”. Solo l’ultima immagine comparsa sul numero di luglio/agosto e raffigurante la ruota panoramica di notte, è una foto digitale. E qui sarebbe certo interessante trattare l’argomento che appassiona molti: fotoca-mere a pellicola/fotocamere digitali, ma forse ve ne sarà un’altra occasione.Un saluto e un grazie a tutti.

Federico Compatangelo

ARIMINUMBimestrale di Storia, Arte e Cultura della Provincia di Rimini Fondato dal Rotary Club RiminiAnno XIX - N. 5 (110) Settembre/Ottobre 2012

DirettoreManlio Masini

Hanno collaboratoAlessandra Bigi Iotti, Alessandro Catrani, Adriano Cecchini, Federico Compatangelo, Lanfranco Fabbri, Sabrina Foschini, Corrado Ghini, Ivo Gigli, Silvana Giugli, Giuma, Man, Arnaldo Pedrazzi, Nando Piccari, Giovanni Rimondini, Rinaldo Ripa, Franco Ruinetti, Guido Zangheri, Giulio Zavatta

RedazioneVia Destra del Porto, 61/B47921 Rimini - Tel. 0541 52374

EditoreGrafiche Garattoni s.r.l.

AmministratoreGiampiero GarattoniDelegato del Rotary Club RiminiAlessandro Andreini

RegistrazioneTribunale di Rimini n. 12 del 16/6/1994

CollaborazioneLa collaborazione ad Ariminum è a titolo gratuito

Distribuzione / DiffusioneQuesto numero è stato stampato in 7000 copie ed è distribuito gratuitamente nelle edicole della Provincia di Rimini abbinato al quotidiano “La Voce di Romagna”. È spedito ad un ampio ventaglio di categorie di professionisti ed è consegnato agli esercizi commer-ciali di Rimini. Inoltre è reperibile presso il Museo della Città di Rimini (Via Tonini) e la Libreria Luisé (Corso d’Augusto, antico Palazzo Ferrari, ora Carli).La rivista è leggibile in formato Pdf sul sito del Rotary Club Rimini all’indirizzo www.rotaryrimini.org

PubblicitàPiùmediaTel. 0541 777526

Stampa e FotocomposizioneGrafiche Garattoni s.r.l.Via A. Grandi 25Viserba di RiminiTel. 0541 732112 Fax 0541 732259


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