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Articoli dedicati al mondo dell'arte pubblicati sul numero di D del 12/07/2013

Date post: 14-Dec-2014
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Estratto dal supplemento di D dell'editoriale La Repubblica
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D 14 COVER STORY COVER STORY PERCHÉ SONO FELICE Marina Abramovic ' , la più celebre protagonista di performance choc, racconta com’è cambiata: “Ora basta provocazioni, voglio trasmettere una nuova serenità” di Andrea Visconti Foto di Marco Anelli Foto di fotografo Marina Abramovic nella performance Kitchen, messa in scena nel 2009 in Spagna nelle stanze di un ex convento.
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Page 1: Articoli dedicati al mondo dell'arte pubblicati sul numero di D del 12/07/2013

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COVER STORYCOVER STORY

pERChéSOnO fEliCE

Marina Abramovic', la più celebre protagonista di

performance choc, racconta com’è cambiata:

“Ora basta provocazioni, voglio trasmettere

una nuova serenità” di Andrea Visconti Foto di Marco Anelli Fo

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Marina Abramovic nella performance

Kitchen, messa in scena nel 2009

in Spagna nelle stanze di un

ex convento.

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COVER STORY

Sono felice. Una felicità interiore profon-da che non ho mai provato in vita mia. Lo scriva, ci tengo tanto che si sappia», dice la performance artist Marina Abramovic arriva-ta all’angolo di casa, al termine di una lunga chiacchierata sulla carriera che nell’arco di quarant’anni l’ha portata da Belgrado, dove è nata, fino a New York, dove abita e lavora

da una quindicina d’anni. Di ragioni concrete per essere felice, questa artista fra le più controverse al mondo, celebre per mettersi in scena in ma-ratone al limite della tortura fisica ed emotiva oggi ne avreb-be parecchie: il suo progetto di un “Marina Abramovic Institute” sta prendendo  forma nella cittadina di Hudson a nord di New York, la piece teatrale Life and Death of Ma-rina Abramovic, che ha scritto con Bob Wilson, debutterà a dicembre all’Armory di Manhattan, e ha appena messo in cantiere un film sull’attore James Franco... Ma no, non è niente di tutto questo, chiarisce: «La mia felicità non viene dai riconoscimenti o dal fatto che l’istituto sta per diventare realtà. È una felicità che non dipende dalle persone intorno a me. Viene da una profonda trasformazione interiore, co-minciata un paio d’anni fa dopo la performance al MoMA».Si riferisce a The Artist is Presence, una piece che nel 2010 portò per cento giorni al Museum of Modern Art e dalla quale uscì trasformata. Settecentotrentasei ore e trenta minuti seduta immobile e in silenzio su una sedia, avvolta in un lungo abito rosso. Davanti a lei un tavolino spoglio al di là del quale c’era un’altra sedia. A turno, circa mille-quattrocento persone si sono sedute davanti a lei, fissando silenziosamente lo sguardo su quel volto slavo mantenuto senza espressione, da cui scaturiva una corrente d’energia mentale. Ha provato anche Lady Gaga, e la cosa ha fatto notizia. Molti partecipanti hanno reagito all’esperienza emotiva con un attacco di sommesso pianto, e sul web il

Marina Abramovic, nata a Belgrado 66 anni fa, artista di fama internazionate e Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 1997, fotografata quest’anno in Brasile durante la performance Landscape. In alto a sinistra, l’artista in un ritratto di Marco Anelli del 2011.

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“Non vedo che bisogno ci sia

di definirsi femministe,

dal momento che comunque una

donna è sempre più forte

di un uomo”

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Da Belgrado a New York

1964-1970Quando lei ha 18 anni i genitori si separano e inizia un lungo periodo di conflitto con la madre, che le impone una disciplina ferrea. Si diploma nel 1970 all’Accademia di Belle Arti di Belgrado.

1976Si trasferisce ad Amsterdam e incontra l’artista tedesco Uwe Laysiepen, in arte Ulay, col quale inizia un sodalizio professionale umano intensissimo: parlano di se stessi come di «un corpo a due teste» e un’identità sola.

1988 L’addio con Ulay è una performance clamorosa: l’uno e l’altra percorrono a piedi la Grande Muraglia cinese partendo dagli estremi opposti. Quando dopo 2500 km di viaggio solitario si incontrano a metà, il commiato.

1946Nasce a Belgrado, figlia di una coppia di partigiani titini:il padre, Vojo, eroe nazionale jugoslavo, la madre Danica maggiore dell’esercito e poi direttrice del Museo dell’Arte e della Rivoluzione.

1971-1975Si sposa con l’artista concettuale Nesa Paripovic (il matrimonio dura fino al 1976). Tra il 1973 e il 1974 realizza il suo primo ciclo di performance, le violente piece Rythm, «una ricerca sui limiti fisici del dolore».

1977-1987 È il decennio delle performance a due (Relation, Breathing in/out, Imponderabilia) e delle polemiche con il femminismo per l’ideale di simbiosi di coppia che Abramovic mette in scena.

Qui accanto, la performance Energy Clothes, realizzata nel 2001 a Como. A destra Anima Mundi: la pietà (al Carr Theatre di Amsterdam, 1983) e, sotto, un momento della performance Relation in space, alla Biennale di Venezia nel 1976: Marina Abramovic e Ulay correvano nudi per ore in una stanza, mettendo in scena il tema delle identità del maschile e del femminile nella coppia. In alto a destra, ancora l’artista in Ritratto con patate (2008).

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2010Porta al MoMA di New York per cento giorni la performance The artist is present, in contemporanea con una retrospettiva del suo lavoro al sesto piano del museo.

2013 In aprile mette in scena all’Opera Ballet di Parigi il Bolero di Ravel.

blog con i filmati Marina Abramovic made me cry ha fatto altrettanta sensazione. «È come un’opera silenziosa nella quale Abramovic è la primadonna», ha scritto esaltando la performance il critico Holland Cotter sulle pagine del New York Times, pur facendo a pezzi nello stesso articolo la re-trospettiva dei lavori dell’artista allestita in contemporanea al sesto piano del museo: «Lì mancano due elementi che definiscono l’arte della performance come mezzo di comu-nicazione: l’imprevedibilità e la natura effimera dell’evento. In mancanza di questi, tutto suona falso».

Quelle 700 ore al MoMA per Abramovic sono state una pietra miliare. L’hanno fatta cono-scere a un pubblico più vasto, soprattutto gio-vanissimi che fino a quel momento sapevano poco dell’artista che già negli anni ’70 si feriva in scena usando coltelli infilati ritmicamente fre le dita delle mani (Rythm), ballava per ore al ritmo ossessivo di un tamburo africano con

la testa avvolta in una sciarpa fino a cadere esausta (Freing the body) o si autoflagellava nuda per poi incidersi una stella sul ventre con un rasoio (Lips of Thomas). «È un’artista inter-nazionale fra le più inquietanti», scrisse nel 2003 Maureen Turim sulla rivista Camera Obscura, sottolineando nei lavo-ri della Abramovic «forti implicazioni sia per le teorie della psicanalisi che per quelle sul femminismo». Un’affermazio-ne che dieci anni dopo Marina ancora respinge: «Quello che faccio io non ha niente a che vedere col femminismo. Non credo che una donna debba sentire il bisogno di proclamar-si femminista quando è comunque più forte dell’uomo».Sono affermazioni che hanno creato col pubblico delle donne un rapporto di odio-amore. Odio per le sue continue

1997-2005Vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1997 con il lavoro Balkan Baroque, sugli orrori della guerra. Nel 2005 Porta al Guggenheim di New York Seven Easy Pieces, ripresa dei suoi primi lavori.

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provocazioni, come quando con il tedesco Ulay, suo com-pagno di vita e d’arte per un decennio, arrivò a teorizzare la totale simbiosi; amore per la sua capacità di sentirsi libera e rompere ogni regola, come quando forzò il pubblico a pas-sare per uno spazio stretto fra il suo corpo nudo e quello di Ulay, scegliendo quale sfiorare col proprio (Imponderabilia).A 66 anni, col suo corpo Abramovic ha un rapporto com-plesso. «Durante le mie performance non me ne importa nulla di come appaio, perchè in quel momento il corpo non è altro che uno strumento per diffondere un messaggio. Ma nella vita di tutti giorni ne sono estremanente conscia, se mi sento troppo grassa o se se mi vedo invecchiata. È una totale contraddizione, ma una cosa che ho imparato è che le contraddizioni non vanno nascoste».Anche ad accettare i contrasti, dice Marina, è arrivata nelle ore di «immobile energia creativa» al MoMA: «Mi hanno fatto prendere co-scienza che siamo presenze temporanee su questo pianeta. È qualcosa a cui penso ogni giorno e che mi dà molta con-centrazione». Pensieri cupi perfettamente in linea con l’ani-mo slavo che si è porta dentro dalla nascita nella Belgrado degli anni ’40, figlia di due partigiani comunisti che com-batterono con Tito durante la Seconda Guerra mondiale. Marina è cresciuta con tutti i comfort della borghesia rossa yugoslava, ma a 18 anni ha risentito molto della separazio-ne dei genitori. La madre tentò di imporle una disciplina quasi militare, lei si ribellò sposandosi e dopo pochi anni, con una laurea ottenuta all’Accademia delle Belle Arti di Belgrado, trasferendosi da sola ad Amsterdam.  «All’ini-zio fu orribile, perchè non ero abituata a essere creativa quando tutto intorno a me era facile. Come artista avevo bisogno di sofferenza, di situazioni difficili. È quel senso del dramma che noi slavi ci portiamo dentro e che ci influenza

in musica, letteratura, poesia». Ne sa qualcosa il suo pub-blico italiano che nel 1997, alla Biennale di Venezia, osser-vò sgomento Abramovic su una grande pila di ossa insan-guinate, che lavava con uno spazzolone nel vano tentativo di ripulire simbolicamente gli orrori della guerra in Bosnia. Per la performance, Balkan Baroque, vinse il Leone d’Oro. 

D ifficile pensare che Marina Abramo-vic possa avere anche un lato legge-ro. Invece è proprio questo a sor-prendere chi la incontra: ride spesso e di gusto («adoro le barzellette spor-che»), fa battute scanzonate con un forte accento slavo, in un inglese ai confini della grammatica. Più che a

parole, comunica con l’energia coltivata in anni di intera-zione spirituale con aborigeni australiani, monaci tibetani, gli sciamani in Brasile. «Le culture indigene mi hanno inse-gnato un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale». È la nuova tappa del suo percorso: «Il mio lavoro non è più creare performance artistiche. Ora desidero creare cultu-ra fondendo arte, scienza, spiritualità e nuove tecnologie». Le ridono gli occhi quando mostra sull’Ipad il prototipo del “Marina Abramovic Institute” a Hudson, che se tutto andrà come previsto inaugurerà nel 2014. «Ma devo prima trovare 20 milioni di dollari, in qualche modo me la caverò», scherza annunciando che è già partito il fund-raising. Tutto nasce dall’acquisto di un edificio nel centro di Hudson: un teatro poi diventato cinema, poi campo da tennis comunale coperto. «Il progetto è pronto e presto inizieranno i lavori per trasformarlo in un centro aperto non solo ad artisti, ma a tutto il pubblico, che lì potrà vivere l’esperienza dell’arte immateriale». I visitatori dovranno impegnarsi a trascorrere nell’Istituto almeno sei ore, durante le quali non avranno accesso a nessun oggetto personale, neppure il cellulare o l’orologio. Perderanno la nozione del tempo mentre si sposteranno di sala in sala con indosso camici bianchi, «un abbigliamento per sottolineare che saranno ore di eserci-zi mentali e spirituali, di sperimentazione delle capacità sensoriali, proprio come stare in un laboratorio», spiega la Abramovic . Quanto a lei, che in passato ha fatto un labora-torio planetario della sua frequentazione di vulcani attivi, di settimane di marcia lungo la Grande Muraglia e full im-mersione per mesi nella foresta brasiliana, in ottobre starà un mese nel deserto del Qatar. «Poi tornerò in America dove vivo da quindici anni. Ma non vengo qui per creare. Vengo per consegnare le mie idee, senza mai scendere a compro-messi col mercato dell’arte, perchè la mia anima non è in vendita. Amo fare solo le cose che mi interessano. Quello che ora mi interessa è elevare lo spirito umano».

COVER STORY

“Il mio lavoro adesso non è più fare

performance d’arte, ma creare cultura

fondendo arte, scienza e tecnologia”

Marina Abramovic fotografata da

Marco Anelli in Brasile (2013).

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la vitaÈ unattimo

Il maestro della fotografia di strada Joel Meyerowitz racconta a Cortona 50 anni di arte centrata sul “qui e ora” di Valeria Fraschetti

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GRANDI OBIETTIVI

Il movimento è tutto. Energia, luce, cellule. È l’essenza della vita e dell’esperienza fotogra-fica». Questa intuizione brilla nei pensieri di Joel da 50 anni. Si accende in lui un giorno del

1963, quando è un promettente art di-rector dell’East Bronx. Viene spedito dal suo capo a osservare un fotografo scattare immagini per un libretto di cui aveva curato la grafica. Quel fotografo è il gigante Robert Frank. Joel non ne

ha mai sentito parlare, ma resta incan-tato da quell’uomo che si muove men-tre fotografa persone che si muovono. «A ogni clic vedevo il picco assoluto di quell’istante». Il giorno stesso Joel ras-segna le dimissioni, prende una mac-china fotografica in prestito e corre nel suo nuovo ufficio: la strada.Joel è quel Joel Meyerowitz (oggi 75 anni) che ha saputo ritagliare alla stre-et photography un posto al di fuori del reportage. L’ha elevata ad arte. Benché

usasse il colore come linguaggio prima-rio, quando questo era ancora snobba-to dai colleghi perché riproponeva il mondo tale e quale, senza trasformarlo, come si riteneva che la “vera” fotogra-fia dovesse fare. Più tardi, Meyerowitz ha anche contribuito a riabilitare il banco ottico in un territorio che non fosse quello del documentario. E ora, dopo mezzo secolo, ha messo insieme il suo lavoro in una retrospettiva capace di restituire ancora la forza di quel gior-

New York City, 1975. Pagina

accanto, sempre Manhattan, 1965.

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no con Robert Frank. In due volumi che condensano i movimenti di cui è stato testimone «nella loro breve ed ef-fimera gloria», istanti tragici e ironici di vita quotidiana. Il sunto della sua opera si chiama Ta-king my Time, “Prendere il mio tem-po”. Lo stesso nome che avrà la sua mostra ospitata, dal 18 luglio, all’inter-no del festival di fotografia Cortona On The Move. All’apparenza il titolo stride con l’immagine di un fotografo che la-vora sul filo del “qui e ora”. Ma lasciar-si andare alla tentazione della semplifi-cazione con Joel Meyerowitz significa sbandare. «Durante la mia carriera, grossomodo ogni sette anni, mi sono concesso del tempo: per rimettere in discussione il mio approccio, il mio metodo», ci racconta, «perché la foto-grafia è anche strumento di scoperta di se stessi». Nel frattempo, anche il senso della fotografia stessa è cambiato: «Ne-gli anni 70 era considerata come una forma di artigianato, di commercio». Poi, è arrivata la sua promozione a for-ma d’arte e, infine, l’era del sospetto per l’immagine, a causa di internet: «Se Cartier-Bresson scattasse nella Parigi di oggi, rischierebbe di essere fermato dalla polizia: quando la gente scopre di essere immortalata da una macchina

fotografica, specie di un anziano come me, pensa al peggio: allo sberleffo sul web, quando non alla pedofilia». Un percorso di riflessioni ed evolu-zioni che emerge nelle 600 immagi-ni (molte inedite) del suo libro. Dal-le celebri foto nelle strade della New York anni 60, a quelle in grande forma-to, più riflessive, dei paesaggi di Cape Cod, passando per quelle “più sociali” e, per molti più note, di Ground Zero. Nei giorni dopo l’11/9 è stato l’unico fotografo ad avervi accesso illimita-to. Eppure anche lì, in quel cratere di morte e umiliazione, dice, «non ho smesso di vedere il mestiere come un’arte ottimista che, nell’attimo in cui dai lo scatto, ti fa pensare “Yes”, sì!». Perché per Meyerowitz il medium è senz’altro il messaggio. «La fotografia mi tiene in contatto con l’umanità», ama ripetere. «È una forma di comuni-cazione che permette agli esseri umani di sentirsi più vicini». Non è l’estetica, quindi, l’ingrediente che fa parlare uno scatto, ma il suo potenziale demiurgi-co. «Una buona foto è una capsula del tempo: deve trasportarci in quell’esat-to momento in cui è stata scattata, con-nettere la nostra identità con quell’i-stante e insegnarci qualcosa». Questa «ricerca di una profondità che

porti ad elevare le persone» ora la sta focalizzando in un progetto che è già nel nome: Elements, un approfondi-mento sui fenomeni che governano le nostre vite. L’idea gli è venuta mentre era a Colonia, in Germania, in una ca-mera dai muri trasparenti interrata ai bordi in una piscina olimpionica: «Ho guardato l’enorme esplosione di bolle prodotta dal tuffo degli atleti. E sono rimasto lì, a osservarla ancora e anco-ra». E così ha iniziato a voler andare «al cuore di ciò che visibile». Uno sforzo al quale si sta dedicando anche ora che ha lasciato, per qualche mese, la sua New York per una fattoria di Buoncon-vento, nel senese. Paesaggi, città, persone sono stati fis-sati dal suo sguardo affamato, seppure con approcci diversi. Quale filo invisi-bile tiene insieme i suoi 50 anni di lavo-ro? «Il tentativo di setacciare la bellezza contenuta nell’effimero», confida. E ti rendi conto che, nonostante gli anni, Joel Meyerowitz porta con sé le trac-ce del ragazzino del Bronx che è stato, figlio di un piccolo commerciante di origini ebraiche che, in quel quartiere che era un proscenio su cui sfilavano l’ironia e la tragedia della vita, gli ha in-segnato a osservare il mondo come un caleidoscopio di rivelazioni.

New York City, 1976. Pagina accanto, un parco nel Bronx, 1967e, foto grande, Parigi, sempre nel 1967.

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CORTONA SI MUOVEIl Viaggio sarà declinato in ogni forma al festival di fotografia Cortona On the Move 2013. Dal 18/7 al 29/9, corti e vicoli della cittadina saranno animati da racconti e immagini dei viaggiatori per eccellenza, i fotografi. Giunto alla III edizione, il festival ospiterà mostre di artisti importanti: Joel Meyerowitz, Christian Luz, Zed Nelson. E workshop, proiezioni, letture di portfolio arricchiranno un programma che prevede anche l’assegnazione del premio On the Move, che quest’anno sceglierà il miglior lavoro fotografico sul tema Happiness on the move, felicità in movimento. Italiani on the move è invece il nome della novità 2013 per i turisti desiderosi di condividere un’esperienza di viaggio fatta entro il 1999. Pubblicate sul sito di Repubblica, media partner dell’evento, le oltre 1500 foto inviate dai 500 partecipanti daranno vita a una mostra del festival.

«Non ho mai smesso di vedere il mestiere come

un’arte ottimista, che ti fa dire mentre scatti: “Sì!”»


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