Date post: | 21-Mar-2016 |
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Artù
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Da due mesi lei mi ha nuovamente lasciato, o meglio: ha preferito il mondo
esterno, un ambiente nuovo, ricco di stimoli, di emozioni, di curiosità, di sfide, di
duelli all’ultimo sangue, ai quali non si può rinunciare per nessuna ragione al mondo,
nemmeno per amore.
Esce ogni mattina molto presto, in punta di piedi per non svegliarmi, convinta
che, nel dormiveglia, io non percepisca quel fruscio ovattato sulla moquette, che piano
piano si allontana, preludio per me di tante ore di solitudine, durante le quali la noia
si alternerà ad un vago senso di smarrimento, finché il dubbio si farà strada nella
mente di questo vecchio innamorato.
Prima o poi deciderà di non tornare: in fondo, per una come lei, abituata a
bruciare i sentimenti, ad afferrare ciò che vuole senza curarsi delle ferite che infligge,
non ci vuole molto per cancellarmi dal suo cuore incostante e ballerino, così assetato
d’amore, sempre pronto a seguire la prima carezza, senza curarsi di sapere se è sincera.
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Ogni volta che perde qualche battaglia si rifugia a casa per leccarsi le ferite, che
diventano sempre più difficili da cicatrizzare, un po’ più avvilita di ieri, un po’ più
pericolosa che in passato e non permette a nessuno di avvicinarsi, lasciandomi in
disparte a osservarla, impotente, disperato per non essere stato capace di impedirle
questo ennesimo dolore, incapace di fermarla, consapevole che una volta rimarginata
l’ennesima lacerazione, sarà di nuovo pronta a tuffarsi in quello stesso mondo aspro e
impietoso per cui non è tagliata.
I primi giorni di questa sua nuova vita, quando l’angoscia m’impediva ogni
altra forma di distrazione, aspettavo paziente dietro ai vetri, scrutando quell’angolo
dal quale, fino a ieri, la vedevo spuntare puntuale, con l’incedere affrettato di tutti i
freddolosi, che non vedono l’ora di raggiungere il loro nido, al riparo dai rigori di
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questo clima settentrionale, per raggomitolarsi, appisolandosi al suono di un
appagante e umido “ron ron”.
Poi ho capito che aveva cambiato itinerario e orari. Ora non riesco più a
prevedere il suo ritorno e spesso me la ritrovo improvvisamente vicinissima, a
scrutarmi con lo sguardo un po’ colpevole di chi è reduce dall’ennesima scappatella e
vuole farsi perdonare.
Forse spera che un mare di coccole possa cancellare tante ore passate tra un
dormiveglia e l’altro, desiderando di toccarla, di sentire il suo respiro mentre tenta di
riposarsi accanto a me o si rigira inquieta, troppo stanca per scambiare un gesto
affettuoso, troppo ansiosa per lasciarsi avvolgere da mille visioni colorate.
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Quando invece riesce a dormire forse sogna di me, perché a volte,
istintivamente, la sua mano mi cerca; ma anche la mia immaginazione corre alla
velocità della luce, perché quando è lontana mi basta chiudere gli occhi e percepisco il
suo odore, immaginando la sua presenza nella stanza accanto, quando mi arriva,
antipatico e petulante, il suono metallico del computer che chiede informazioni.
Anche oggi lei è lontana e non mi resta che affrontare l’autunno della mia vita
facendomi inghiottire dall’incubo che mi perseguita ogni volta che mi sento solo e ho
paura.
In realtà si tratta di una serie di scatole cinesi, nelle quali la realtà del sogno si
confonde con il sogno di una realtà che si è persa nella nebbia del ricordo e tuttavia mi
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riporta davanti agli occhi il fantasma della morte, che per un soffio soltanto non mi
ha strappato per sempre da lei, quando ancora avevo la fama di essere un giovane
rampante cacciatore.
Nella visione mi rivedo convalescente, ma da qualche giorno mi sento
decisamente meglio: mi è tornato l’appetito e ho ritrovato anche la voglia di
divertirmi, come facevo prima. Sono in casa da solo, perciò mi lascio andare a
sonnecchiare in poltrona, facendomi riscaldare dai primi tiepidi raggi del sole; nel
dormiveglia, però, ecco ricomparire la malattia, attraverso la solita inconfondibile
allucinazione.
Ogni cosa ha i contorni sbiaditi e non riesco ad alzarmi, instupidito come sono
dal dolore e dal terrore di perderla, di non vedere più i suoi occhi grigioverdi così simili
ai miei, che mi accarezzano sempre e mi guardano fissi, pronti a cogliere ogni
sfumature del mio umore così bizzarro.
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Parla con gli occhi, lei, ed io so che diventano cupi e sottili quando è stanca,
brillanti e cangianti quando è arrabbiata, umidi e sognanti quando mi stringe e mi
bacia con passione, sussurrando parole d’amore che io non so contraccambiare.
Quella volta, invece, ho visto nei suoi occhi la stessa disperazione che deve aver
letto nei miei, quando abbiamo rischiato di perderci per sempre e sono convinto che sia
stata soltanto la sua determinazione a salvarmi, perché davvero mi sentivo sfinito,
pronto ad arrendermi di fronte al male, incapace perfino di parlarle, per farle capire
che non volevo abbandonarla.
A volte sono convinto di non meritarla, soprattutto quando ripenso a tutte le
scene di gelosia, all’aggressività che le manifesto quando tento di attirare la sua
attenzione senza ottenere risposta.
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In quei momenti si risveglia in me la belva crudele, che di nascosto osserva,
immobile e silenziosa, la preda, pronta a cogliere il fatale attimo di distrazione per
assalirla e sbranarla, privandola della vita: “O mia o di nessuno!”.
Ma l’ultima volta ho esagerato. Me ne sono reso conto quando ho visto il suo
sguardo addolorato e incredulo, mentre tentava di fermare il sangue copioso che
bagnava entrambi: mi aspettavo parole cattive, invece scendevano calde e affettuose
direttamente nel cuore, nel tentativo di tranquillizzarmi, facendomi intendere di aver
compreso.
Così ho capito che devo smettere di mettere alla prova il suo amore, di
pretendere conferme e trovare pretesti per litigare. Devo rassegnarmi: ha sposato un
esemplare della sua specie. Devo accontentarmi di sapere che tra noi esiste una
simbiosi tale che è difficile capire chi dei due è l’umano e quando la sento ridere,
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chiamandomi con i soprannomi più buffi, o si prende gioco di me, nascondendosi
dietro alla porta per farmi spaventare, la mia anima felina intuisce che in quei
momenti appartiene solo al mio mondo.
E’ quasi buio, ho perso la cognizione del tempo, confuso tra ora legale e ora
solare, convenzioni così di moda fra gli umani, ma il mio istinto suggerisce che fra
poco sentirò la chiave girare nella toppa e, subito dopo, lei entrerà in punta di piedi,
per non svegliarmi, ma questa volta le farò una sorpresa: mi farò trovare dietro la
porta e le andrò incontro, le parlerò a modo mio e la sfiorerò, piano, per farle capire
che l’amo, per farle dimenticare tutta la fatica e le amarezze della giornata, per farle
ricordare che a casa qualcuno l’aspetta.
Artù (1988 – 2005)
Dettato a Marina Perozzi nel mese di novembre 1998