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Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura...

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5 Echo Centro di Studi sulla Fortuna dell’Antico “Emanuele Narducci” Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea Atti dell’Ottava Giornata di Studi Sestri Levante, 18 marzo 2011 a cura di Sergio Audano e Giovanni Cipriani
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5Echo

Centro di Studi sulla Fortuna dell’Antico “Emanuele Narducci”

Aspetti della Fortuna dell’Anticonella Cultura Europea

Atti dell’Ottava Giornata di StudiSestri Levante, 18 marzo 2011

a cura diSergio Audano e Giovanni Cipriani

ECHOCollana di studi e commenti diretta da Giovanni Cipriani

Comitato scientifico Sergio Audano, Pedro Luis Cano Alonso, Nicole Fick, Giulio Guidorizzi, Giancarlo Mazzoli, Robert Proctor, Giunio Rizzelli, Silvana Rocca, Elisa Romano, Valeria Viparelli.

Segreteria di redazioneGrazia Maria Masselli, Tiziana Ragno, Biagio Santorelli.

© 2012 Edizioni Il CastelloVia Conte Appiano, 60, 71121 Foggia - ItalyTel. 0881.022 150 Fax 0881.1880147Sito web: www.ilcastelloedizioni.ite-mail: [email protected]

Grafica: Alessandro GisoldiEditing: Alba Subrizio

ISBN 978-88-6572-062-2

NEI CIELI DI ICARO E FETONTE, FRA ANTICO E MODERNO

Rita Degl’Innocenti Pierini(Università di Firenze)

Robert Vivier, poeta e saggista belga, nel 1962 a Bruxelles pubblica un volumetto dal titolo suggestivo Frères du ciel, il cui sottotitolo precisa Quelques aventures poétiques d’Icare et de Phaéton: una prospettiva critica da studioso di letteratura comparata europea, che comunque non manca di offrire spunti interpretativi anche allo studioso di antichistica, se non altro per spingere a sondare più approfonditamente da quali presup-posti e precedenti classici possa aver preso sviluppo la fortuna sterminata di due storie mitiche, presenti anche nell’immagina-rio dei non addetti ai lavori (in particolare la storia di Dedalo e Icaro)1. Del resto io stessa, quando ho proposto il tema del mio intervento, non mi ero resa conto fino in fondo di quanti studi

1 Mantengo al mio contributo l’originario carattere di relazione orale (del 2009), integrandolo con un’appendice bibliografica abbastanza esaustiva e aggiornata: farò riferimento agli studi citati in calce, quindi, solo quando si presenterà necessario il dialogo con i critici. Per il tema specifico qui affrontato, vale a dire le interferenze fra i miti paralleli di Icaro e Fetonte, oltre al libro di Vivier citato nel testo, il contributo più importante è, a mio parere, il saggio di La Penna 2001, cui si può ora aggiungere De Vivo 2009, che nel titolo evoca il ‘volo’ di Fetonte (le virgolette sono mie), e gli studi presenti in Hölkeskamp-Rebenich 2009. Sull’uso paradigmatico dei paralleli miti di Icaro e Fetonte in Luciano, vd. Cistaro 2009, 144 ss. Nella nota conclusiva, ulteriori indicazioni bibliografiche sulla fortuna dei due miti in autori e testi che non trovano spazio nella mia analisi.

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fossero stati dedicati soprattutto al mito di Icaro nelle lettera-ture moderne, complice talvolta anche il mancato dialogo tra critici che si sono anche recentemente occupati di questo tema, partendo sovente da prospettive diverse nell’analisi dei testi e degli autori. Il sottotitolo, che vorrei proporre di aggiungere idealmente al mio percorso di lettura, è “Tra Orazio e Ovidio, tra Ovidio e Seneca”, ovvero dell’importanza delle intermediazioni culturali, per porre l’accento già preliminarmente sul fatto che non esiste nel concetto di fortuna una recta via di trasmissione, ma una polifonia di voci interpretative2, che accompagnano il testo antico nel suo cammino verso il moderno e che si sovrap-pongono e si stratificano come le mani in un manoscritto anti-co, difficili da decodificare, ma ricche di suggestioni evocatrici. Anche nel caso di miti notissimi come quelli di Icaro e Fetonte, per i quali viene immediatamente in mente il nome di Ovidio e delle sue ampie narrazioni, credo che sarà facile osservare come al plot narrativo di matrice ovidiana si avvicinino e si ag-greghino poi altre letture e numerosi altri interpreti.

1. Orazio, Ovidio, SenecaNon è certo questa la sede per esaminare tutte le attestazioni

di questi notissimi miti in ambito classico, basterà comunque osservare che in entrambe le storie assistiamo ad un analogo sviluppo diacronico: meno significative le presenze nella let-teratura greca classica, sporadiche le attestazioni allusive in latino, una compiuta e articolata narrazione in Ovidio, nelle Metamorfosi in particolare, che costituiscono chiaramente l’ar-chetipo fondamentale della fortuna delle due storie mitiche nel-la letteratura europea.

Per la vicenda di Icaro3, in mancanza di fonti letterarie gre-

2 Illustra molto bene la complessità e la polivalenza dei percorsi esegetici il volume di Boitani 2004.

3 Ancora utile la dissertazione di Holland 1902.

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che significative antecedenti l’età augustea, è ai poeti latini - Virgilio, nella particolare forma dell’ekphrasis nel VI dell’Eneide, vv. 16 ss., Orazio, Ovidio, Seneca tragico - che dobbiamo la gran-dissima fortuna, anche nelle arti figurative4, del mito di Dedalo ed Icaro ed in particolare della caduta spettacolare di Icaro. E’ comunque molto probabile l’ipotesi che Callimaco ne trattas-se negli Aitia dato che nel fr. 23, 3 Pf. si parla del mare Icario, che secondo il noto aition prese appunto nome dalla caduta del giovane: dalla notorietà del mito deriva verosimilmente lo svi-luppo molto sintetico, e quindi sottilmente allusivo, del motivo di Dedalo ed Icaro nelle odi di Orazio, da cui prende inizio la mia analisi. In Orazio infatti il mito di Icaro porta già in sé i segni distintivi di un suggestivo simbolismo, vagamente filoso-fico, relativo all’ascesa dell’anima e all’osservazione dall’alto, e letterario, allusivo al volo del poeta al di sopra delle possibilità umane, del tempo e della storia, tema con cui si chiudono anche le stesse Metamorfosi ovidiane5. Si tratta di odi molto famose: in carm, 1, 3, il celebre propemptikon per il viaggio di Virgilio, nel contesto moralistico della critica alla navigazione e alle al-tre invenzione umane, che spingono l’uomo oltre i limiti imposti dalla divinità, Orazio ricorda expertus vacuum Daedalus aera / pennis non homini datis (vv. 34-5), in un contesto che si chiu-de con un’epigrafica condanna senz’appello della cieca hybris umana: nil mortalibus ardui est: / caelum ipsum petimus stul-titia. Altro notissimo passo è costituito dall’ode conclusiva del secondo libro, dove la simbolica trasfigurazione di Orazio in un bianco ales implica una duplice metafora di volo, e Icaro è evocato come simbolo della poesia sublime e del tema filosofico della visione dall’alto, carm. 2, 20, 9-16:

4 Dedalo è figura molto presente nelle gemme: vd. Toso 2007, 112 ss. Fondamentale comunque Nyenhuis 1986.

5 Sulle complesse valenze del volo, da leggere almeno Luck-Huyse 1997 e Boitani 2004.

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Iam iam residunt cruribus asperaepelles et album mutor in alitem superne nascunturque levesper digitos umerosque plumae.Iam Daedaleo notior Icarovisam gementis litora Bosphori Syrtisque Gaetulas canorusales Hyperboreasque campos

La poesia sublime appare capace di elevare il poeta al di so-pra degli altri esseri umani, ma si rivela rischiosa per Orazio, che, per pretendere di essere un novello Pindaro, paventa per sé un inglorioso fallimento, come si legge in carm. 4, 2, 1-4: Pindarum quisquis studet aemulari, / Iule, ceratis ope Daedalea / nititur pennis, vitreo daturus / nomina ponto. Un passo quest’ul-timo che implica, con studiata sintesi, tutta l’ambiguità del mito icario, che potremmo enucleare in un duplice interrogativo de-stinato anche per gli antichi a non avere risposta: fu vera gloria quella di Dedalo ed Icaro? E’ vera gloria quella del poeta?

Ma è naturalmente ad Ovidio6, che si deve la fama e il maggior sviluppo narrativo del mito dedalico: Ovidio elabora un’ampia narrazione della vicenda mitica sia nel secondo libro dell’Ars amatoria che nell’VIII libro delle Metamorfosi, dove si snoda in connessione con le peripezie cretesi di Teseo, che costituisce il fil rouge sotteso a miti così diversi nel libro centrale del poema. Anche se Ovidio evita un’interpretazione moralistica esplicita, il racconto di Dedalo ed Icaro implica di per sé generici risvolti didascalici, nella misura in cui, da una parte, Icaro perde la vita per non aver rispettato i prudenti consigli del padre, mentre Dedalo paga con la perdita del figlio l’aver preteso con la sua invenzione di superare i limiti imposti all’uomo dalla divinità.

6 Non è certo possibile citare la sterminata bibliografia sulla fortuna ovidiana: rimando a lavori recenti e ben documentati come Picone- Zimmermann 1994; Anselmi-Guerra 2006.

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In apertura del secondo libro dell’Ars amatoria, l’excursus mi-tologico trae spunto, piuttosto artificiosamente, dalla difficoltà di imporre il modus al libero volo di Amore: dal racconto emer-ge l’esigenza del rispetto della misura, che il saggio artefice Dedalo tenta invano di insegnare al figlio, ma traspare anche l’impulso a superare il limite, l’ammirazione per l’abilità umana. II confronto con l’ode 1, 3 di Orazio sembra imporsi: il viaggio di Virgilio spingeva Orazio a dare una valutazione negativa del-la navigazione e del volo, come infrazioni sacrileghe dei limiti imposti all’uomo dalla divinità (vv. 25-6 Audax omnia perpeti / gens humana ruit per vetitum nefas), una visione arcaizzante e antiprogressiva, che trova riscontro nelle molte sfaccettature del mito delle età; in quest’ottica i gesti di Prometeo e di Dedalo, per il quale Orazio parla di pennis non homini datis, sono carichi di hybris al pari della violazione dell’Ade da parte di Ercole o dell’assalto al cielo dei Giganti.

Molteplici interpretazioni simboliche del mito icario in Ovidio sono state tentate anche di recente, particolarmente nell’Ars, dato che in quest’opera il poeta stesso si presenta come un magister, che illustra l’arte di amare, come l’artifex Dedalo insegna al figlio l’arte di volare: non possiamo addentrarci ora in analisi come queste spesso troppo sottili7, ma certo ci preme sottolineare almeno l’analogo epilogo della vicenda nelle due opere ovidiane, quando si mette in luce che, venuta meno la paura, Icaro osa sfidare il cielo, finché, invocato invano dal pa-dre, precipita nelle acque di quel mare cui darà nome.

Cum puer incautis nimium temerarius annis altius egit iter deseruitque patrem. [...]Decidit atque cadens ‘pater o pater, auferor’ inquit; clauserunt virides ora loquentis aquae.At pater infelix, nec iam pater, ‘Icare’ clamat,

7 Un esempio è costituito dall’ampia analisi di Sharrock 1994, 87-195.

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‘Icare’ clamat,’ubi es, quoque sub axe volas?Icare’ clamabat; pinnas aspexit in undis. Ossa tegit tellus, aequora nomen habent.

(ars 2, 83-4; 91-6)

cum puer audaci coepit gaudere volatudeseruitque ducem caelique cupidine tractusaltius egit iter [...]oraque caerulea patrium clamantia nomenexcipiuntur aqua, quae nomen traxit ab illo.At pater infelix nec iam pater ‘Icare’ dixit,‘Icare’ dixit ‘ubi es? qua te regione requiram?’‘Icare’ dicebat: pennas adspexit in undisdevovitque suas artes corpusque sepulcrocondidit, et tellus a nomine dicta sepulti. (met. 8, 223-5; 229-35)

Dai due passi paralleli emerge un’ambiguità di fondo nel de-scrivere la fine del giovane, che appare vittima di una temeraria imprudenza nell’Ars, ma anche audace sperimentatore del volo nel poema esametrico: diversa, e niente affatto ambigua, la con-clusione dell’episodio di Fetonte delle Metamorfosi, dove le so-relle pongono sull’Eridano un’epigrafe, che non sembra lasciare dubbi sulla natura eroica dei magna ausa (met. 2, 325 ss.):

Naides Hesperiae trifida fumantia flammacorpora dant tumulo, signant quoque carmine saxum: Hic sitvs est Phaethon cvrrvs auriga paterniqvem si non tenuit magnis tamen excidit avsis.

L’epigrafe ovidiana rimanda implicitamente al tema metapo-

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etico8 che Orazio aveva affrontato nelle odi in cui allude ad Icaro, saldando così idealmente nel complesso immaginario letterario dei lettori augustei le due storie, che anche a livello narrativo in Ovidio presentano evidenti punti di contatto, per esempio nei consigli paterni di mantenere la via mediana (con parole non dissimili, met. 2, 137 medio tutissimus ibis;140 inter utrumque tene), cui corrisponde in entrambi i giovani un’attrazione irre-frenabile verso l’alto, che in Fetonte si accompagna alla sua ine-sperienza nella guida del carro: se Icaro è caeli cupidine tractus, Fetonte emicat … et concipit aethera mente (met. 1, 776 s.) brilla al pari delle stelle e «s’empie la mente di cielo» (come si legge nella bella traduzione di Ludovica Koch). Comunque il mito di Fetonte, che peraltro fruiva di un notevole precedente tragico euripideo, nella Roma augustea si piegava ad altre e più sotti-li implicazioni, anche di sapore ‘attualizzante’9: non era come Icaro un docile strumento nella mani del padre, ma un giova-ne ambizioso, che chiedeva orgogliosamente di guidare il car-ro del Sole, come prova riconosciuta di paternità e che con la sua imperizia rischiava poi però di coinvolgere l’intero cosmo in una catastrofica conflagrazione. È evidente quindi che il mito di Fetonte si presta ad interpretazioni simboliche10 più impe-gnative rispetto a quello di Icaro: l’exemplum fetonteo può es-sere impiegato per es. quale paradigma del monarca incapace ed irresponsabile, sfruttando due diverse, ma entrambe diffu-sissime, immagini metaforiche del governare: l’assimilazione, già presente nell’opera platonica11, tra chi regge governando lo stato e l’auriga, si salda qui alla simbologia solare del potere, di derivazione orientale, ma ben presente a Roma12. Icastico il

8 Vd. Barchiesi 2005, ad loc.9 Mi permetto di rimandare a quanto osservavo in Degl’Innocenti

Pierini 1990, 251 ss.10 Vd. Chevallier 1982, passim. Cfr. anche Hardie 1987, 139 s.; Poulle

2002.11 Valga soprattutto ricordare il famoso passo di rep. 566 d. 12 Della sterminata bibliografia sul tema mi limito a citare Weinstock

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flash esemplare di Orazio in carm. 4, 11, 25 ss. Terret ambustus Phaethon avaras / spes, in un’ode in cui13 il poeta consiglia l’a-more solo tra pari, seguendo un noto adagio proverbiale14, e vede in Fetonte (e Bellerofonte15) l’esempio di chi, avido e am-bizioso, ha spinto troppo in alto le sue speranze: un tema che, come vedremo, non mancherà di rimodularsi nella poesia ita-liana.

Non mi risultano prima di Ovidio paralleli fra Icaro e Fetonte, ma i modi allusivi della narrazione ovidiana fanno sì che ai let-tori antichi e moderni non sia sfuggito il sottile legame tra i due episodi mitici che Ovidio vuol suggerire; meno scontato è inve-ce evidenziare che Ovidio stesso se ne serve in funzione auto-biografica nella produzione dell’esilio e che quindi come spesso capita ci offre a ritroso anche la chiave interpretativa del mondo mitico del suo poema maggiore. Ovidio esule, attraverso esem-pi come questi, riflette sulla sua condizione, ponendo l’accento proprio sul tema della mediocritas e del modus, e questo già a partire dalla prima elegia dei Tristia: chi ha osato troppo salire come Icaro è caduto in basso, anche se ha lasciato memoria di sé nel mare (1, 1, 87-90), mentre Fetonte ricordato in un distico precedente (vv. 79-80) avrebbe preferito vitare caelum:

Vitaret caelum Phaethon, si viveret, et quos optarat stulte, tangere nollet equos. [...]Ergo cave, liber, et timida circumspice mente ut satis a media sit tibi plebe legi!Dum petit infirmis nimium sublimia pennis Icarus, aequoreis nomina fecit aquis.

Gli esempi trovano più ampio sviluppo in trist. 3, 4, un’elegia

1971, 381 ss.13 Una recente e documentata lettura ne offre Traina 2003, 103-115.14 Vd. Citti 2000, 163-181.15 Cfr. Boitani 2004, 13 s.

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interamente dedicata al motivo dell’amicizia tra uguali, nella quale Ovidio teorizza il tema dell’oscura mediocrità come unica àncora di salvezza per gli individui, che non devono aspirare ad altezze, da cui è inevitabile poi precipitare, come nel caso ap-punto di Icaro e Fetonte:

Quid fuit, ut tutas agitaret Daedalus alas, Icarus inmensas nomine signet aquas?Nempe quod hic alte, demissius ille volabat: nam pennas ambo non habuere suas.Crede mihi, bene qui latuit, bene vixit, et intra fortunam debet quisque manere suam [...] nec natum in flamma vidisset, in arbore natas, cepisset genitor si Phaethonta Merops.

Ovidio quindi conferma con quest’ultimo passo l’ambiguità di fondo che caratterizza queste vicende mitiche e che aprirà la strada a due diversi filoni della loro interpretazione16: si tratta di un’audacia blasfema e trasgressiva, oppure di una legittima aspirazione a superare gli angusti limiti della fisicità imposti all’uomo dalla sua natura? Non si può infatti dimenticare che il testo ovidiano del mito di Fetonte in una famosa rilettura offer-ta da Seneca nel De providentia assume una pregnanza nuova, accentuando la valenza positiva della spinta orgogliosa verso l’alto e il tema poi della caduta eroica17 del generosus adule-

16 Vd. Sozzi 1994 (e, indipendentemente, La Penna 2001). 17 Sen. prov. 5, 10-11: Contra fortunam illi tenendus est cursus multa

accident dura, aspera, sed quae molliat et conplanet ipse. Ignis aurum probat, miseria fortes viros. Vide quam alte escendere debeat virtus: scies illi non per secura vadendum. [...] Haec cum audisset ille generosus adulescens, ‘placet’ inquit ‘via, escendo; est tanti per ista ire casuro. [...] Post haec ait: ‘iunge datos currus: his quibus deterreri me putas incitor: libet illic stare ubi ipse Sol trepidat.’ Humilis et inertis est tuta sectari: per alta virtus it. Un’analisi capillare e ben documentata della presenza di Fetonte in Seneca ha svolto Berno 2003, 93 s. n. 103; 261-263; su ulteriori

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scens: credo che l’intertesto senecano sia stato presente a molti scrittori e poeti italiani, che si riappropriano in seguito del mito classico. Del resto lo stesso valore esemplare assume anche il mito di Icaro in un coro dell’Oedipus senecano (vv. 892 ss.), che si conclude col motto «Tutto quello che eccede la misura resta sospeso nell’insicurezza» (come traduce Paduano), motivo gno-mico presente anche in un coro dell’Hercules Oetaeus 675 ss. e non a caso illustrato dagli esempi di Fetonte (vv. 677-682) e di Dedalo ed Icaro (vv. 683-691): si intrecciano già in Seneca evi-denti suggestioni e contaminazioni oraziane e ovidiane ad apri-re la strada alle riscritture moderne. La pensosa cornice gnomi-ca dei Tristia, venata di soggettivismo, si esalta nel tessuto argo-mentativo della tragedia senecana, dove il tema della ‘medietà’ è assunto a regola di vita anche per influsso di Orazio18.

Non sarà un caso che la sentenziosità icastica tipica della gnomica elegiaca e degli intermezzi corali senecani trovi una naturale prosecuzione in età, ambiti culturali e generi poetici molto diversi, ma tutti accomunati dalla volontà di sfruttare la pregnanza simbolica del mito classico: mi limito a sondare bre-vemente tre esempi emblematici di questa varietà interpretati-va, Dante, la lirica napoletana del ‘500 e D’Annunzio.

2. DanteNel canto XVII dell’Inferno per scendere dal settimo all’otta-

vo cerchio, dagli usurai a Malebolge, Dante raccontando la sua straordinaria e terribile esperienza di volo sulle «spallacce» di Gerione (vv. 91-3), «macchina inerte, vascello senz’anima», se-condo l’efficace definizione di Piero Boitani19, paragona il suo volo a quello dei due giovani eroi del mito classico, Fetonte ed

elementi interpretativi, cfr. anche Degl’Innocenti Pierini 1990, 251 ss.; 2008, 120 ss.; vd. per un’ulteriore indagine Degl’Innocenti Pierini 2012.

18 Vd. Degl’Innocenti Pierini 1999, 39 ss.19 Boitani 2004, 83.

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Icaro, Inf. XVII 106-114:

Maggior paura non credo che fosse quando Fetòn abbandonò li freni, per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse;né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui ‘Mala via tieni!’,che fu la mia, quando vidi ch’i’ era nell’aere d’ogni parte, e vidi spenta ogni veduta fuor che della fera.

Gli exempla mitologici sono qui funzionali per dimostrare che la dismisura e la hybris portano all’annientamento dell’e-roe classico, mentre solo la misura e l’humilitas guidano l’eroe cristiano verso l’indiamento. La paura che Dante-Icaro prova non è quella dell’Icaro ovidiano, incosciente e sicuro di sé fino in fondo, mentre, nota Michelangelo Picone in una fine analisi dell’episodio20, è semmai il maturo Dedalo a temere per l’im-presa in cui si accinge a coinvolgere il figlio; da una descrizione oggettivizzata e minuziosa come quella ovidiana, in Dante si sci-vola verso una sintesi ‘soggettiva’ del mito, come dimostra «le reni sentì spennar», immagine che conferisce un forte pathos realistico ed espressivo alla scena21, mentre l’incisivo «mala via tieni!» implica già un riferimento macrotestuale al tema dan-tesco del viaggio, dove la ‘mala via’ dell’orgoglioso Icaro caeli cupidine tractus (come leggiamo in met. 8, 224) si contrappo-ne alla ‘diritta via’ del pellegrino cristiano guidato dall’umiltà e da Virgilio. E del resto non dimentichiamo che anche il Dante impegnato nella sua lotta contro le degenerazioni della chiesa contemporanea nell’Epistola ai Cardinali italiani (11, 5) descri-

20 Picone 1994.21 Un’analisi della scena ed una rassegna delle interpretazioni nei

commenti alla Commedia in Wlassics 1975, 183-188.

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ve quest’ultimi come simili a Fetonte nel loro exorbitare, nella loro palese incapacità di guidare il carro della chiesa (non aliter quam falsus auriga Pheton exorbitastis) e tali quindi da condurla fino al precipizio.

La funzione esemplare in Dante non appare quindi lontana dall’Ovidio dei Tristia e apre la strada ad emblematiche e future riletture dei due miti: soprattutto io credo che l’accostamento esplicito del destino dei due eroi classici costituirà anche una legittimazione a successivi giochi allusivi presenti nella poesia italiana di secoli diversi. Dante sottintende e supera l’interpre-tazione medievale che incontriamo per es. nell’Ovide moralisé, dove si legge a proposito di Fetonte: «chi vola troppo alto s’i-norgoglisce di beni di Dio e non propri, chi troppo in basso ama troppo il mondo. Quelli che cadono somigliano al loro maestro Lucifero e lo seguono fino agli Inferi».

3. Lirici del ‘500Un momento di grande fortuna del mito di Icaro è costituita

dall’esperienza dell’umanesimo napoletano, una presenza mol-to significativa a partire da un bel sonetto di Iacopo Sannazaro (79)22 :

Icaro cadde qui: queste onde il sanno,che in grembo accolser quelle audaci penne;qui finì il corso, e qui il gran caso avvenneche darà invidia agli altri che verranno. Aventuroso e ben gradito affanno,poi che, morendo, eterna fama ottenne!Felice chi in tal fato a morte venne,c’un sì bel pregio ricompensi il danno. Ben pò di sua ruina esser contento,se al ciel volando a guisa di colomba,

22 Cito da Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari 1961.

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per troppo ardir fu esanimato e spento; et or del nome suo tutto rimbombaun mar sì spazioso, uno elemento!Chi ebbe al mondo mai sì larga tomba?

Sanazzaro esalta in Icaro l’ardimento ed una morte eroica ca-pace di riscattare una vita che non sarà dimenticata, un motivo questo che non è certo in Dante né nell’Ovidio delle Metamorfosi, che mettono in luce invece la paura del giovane; mi pare di po-ter dire che qui paiono innervarsi soprattutto tracce oraziane, anche per l’idea degli interminati spazi (anche Ovidio in trist. 3, 4, 22 parla di immensas aquas), che sembra derivare dagli sce-nari di volo ‘pindarico’ delle odi oraziane e quindi sottintendere un’identificazione del poeta con l’essere alato, metafora già an-tica, ma molto frequentata anche nella poesia di Petrarca23.

È comunque un successivo sonetto di Luigi Tansillo Amor m’impenna l’ale24, a differenza di quello del Sannazaro espres-so in prima persona, che collega in modo esplicito il motivo di Icaro con quello del volo di Amore:

Amor m’impenna l’ale, e tanto in altole spiega l’animoso mio pensiero,che, ad ora ad ora sormontando, speroa le porte del ciel far novo assalto. Tem’io, qualor giù guardo, il vol tropp’alto,ond’ei mi grida e mi promette altero,che, s’al superbo vol cadendo, io pero,l’onor fia eterno, se mortal è il salto. Ché s’altri, cui disio simil compunse,diè nome eterno al mar col suo morire,

23 Vd. Afribo 1994, 43 s.; cfr. anche analoghi componimenti nelle Rime estravaganti del Tebaldeo 347, 409, 600, 693, 716 (vd. l’edizione di J.-J. Marchand, Modena 1989-1992).

24 Cito da Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Milano 1975.

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ove l’ardite penne il sol disgiunse, ancor di me le genti potran dire:- Quest’aspirò a le stelle, e s’ei non giunse,la vita venne men, ma non l’ardire!

Tansillo si dimostra qui molto probabilmente memore dell’O-vidio dell’Ars amatoria, ma anche, mi sembra di poter sostenere, di Orazio nell’ode 4, 11, un componimento tematicamente affi-ne, dove l’esempio di Fetonte era inserito nel contesto di un’ode, che metteva in guardia dal perseguire un oggetto d’amore lon-tano dalle proprie possibilità: appare quindi evidente che le due storie mitiche attraverso i modelli poetici latini si sovrappongo-no nella memoria poetica di Tansillo. Infatti se la prima quar-tina è stata ricollegata, e non a torto, all’albus ales e all’Icaro di Orazio carm. 2, 20, non senza echi del Petrarca, soprattutto per l’uso pregnante di ‘impennare’25, il «novo assalto» tansilliano sembra recuperare da Ovidio il concetto della straordinarietà dell’impresa di Icaro, quale è descritta anche da Orazio in carm. 1, 3. Il venosino Tansillo, lettore appassionato del conterraneo Orazio, secondo la più nobile tradizione dell’arte allusiva, in questo suo famoso sonetto è anche in grado di far percepire la determinante mediazione di Petrarca, che nel Canzoniere, RVF 307, 8 s., sosteneva A cader va chi troppo sale, / né si fa ben per uom quel che ‘l ciel nega e soprattutto nella cosiddetta canzo-ne della metamorfosi (RVF 23, 52-53), chiaramente rielaborava con filigrana allusiva26 i miti di Icaro e Fetonte su eleganti varia-zioni oraziane (Né meno anchor m’agghiaccia / l’esser coverto poi di bianche piume / allor che folminato et morto giacque / il mio sperar che tropp’alto montava).

Il Tansillo, consapevole del suo umile ruolo di paggio di cor-

25 Vd. Petrarca, sonetto 157, 3-4 Amor, ch’a’ suoi le piante e i cori impenna / per fargli al terzo e lei volando ir vivi.

26 Di ‘filigrana’ parla R. Bettarini (Torino 2004) nel suo commento a sonetto 307.

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te, considera il suo amore per la marchesa del Vasto come una prova di ardimento, come un’impresa per cui vale la pena mori-re, un amore ‘ambizioso’ e quindi pericoloso come la sfida al cie-lo di Icaro, ma in questo caso soprattutto di Fetonte, prima im-plicitamente evocato attraverso le raffinate allusioni ad Orazio e Petrarca, e in conclusione del sonetto esibito apertamente nell’evidente rielaborazione, quasi una traduzione, dell’epitafio fetonteo di Ovidio (s’ei non giunse ne è la spia più certa, un vero e proprio ‘marker allusivo’ ricalcato com’è sul si ovidiano di met. 2, 32827 quem si non tenuit magnis tamen excidit ausis). La conta-minazione, a mio parere evidente, con l’epitafìo conclusivo della vicenda di Fetonte in Ovidio28 è confermata dall’accostamento dei due miti e del destino eroico dei due giovani anche nell’i-nizio di un madrigale dello stesso Tansillo (3 Pèrcopo)29: S’un Icaro, un Fetonte / per troppo ardir già spenti il mondo esclama:/ quel che perder di vita, elli han di fama.

Un altro sonetto del Tansillo offre una variazione sullo stes-so tema, presentando ancora il motivo dell’ardimento amoroso, che accetta il rischio di una rovinosa débâcle, perché compen-sato dal pensiero della sublime eroicità dell’impresa, novello e ardimentoso Icaro:

Poi che spiegate ho l’ale al bel desio,quanto per l’alte nubi altier lo scorgo,più le superbe penne al vento porgo, e, d’ardir colmo, verso il ciel l’invio.

27 Lo osserva giustamente Velli 1983, 69 n. 13, che nel suo saggio sottolinea anche la probabile intermediazione della tragedia senecana.

28 Rudd 1988, 42, ad altro proposito, nota delle contaminazioni col mito di Fetonte, ma parla di errore, non di scelta poetica.

29 Il Tansillo innesta più chiaramente il mito di Icaro (sotteso secondo Rudd 1988, 30 in Petrarca 307) Io pensava assai destro esser su l’ale / (non per lor forza, ma di chi le spiega) / per gir cantando a quel bel nodo eguale / onde Morte m’assolve, Amor mi lega. / Trovaimi a l’opra via più lento et frale / d’un picciol ramo cui gran fascio piega, / er dissi: ‘A cader va chi troppo sale, / né si fa ben per uom quel che’l ciel nega.

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Né del figliuol di Dedalo il fin riofa ch’io paventi, anzi via più risorgo:ch’io cadrò morto a terra ben m’accorgo;ma qual vita s’agguaglia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento:- Ove mi porti, temerario? China,ché raro è senza duol troppo ardimento. -Non temer, - rispond’io, - l’alta rovina;poiché tant’alto sei, mori contento,se ‘l ciel sì illustre morte ne destina.

Questo sonetto fu nel passato attribuito a Giordano Bruno30, perché il filosofo lo fa esporre al Tansillo stesso quale interlo-cutore del terzo dei Dialoghi degli Eroici furori (con la sola va-riante al v. 3 di ‘le veloci penne’), ma il sonetto era stato pubbli-cato dal Tansillo già nel 1558. Secondo Benedetto Croce, in un breve, ma famoso saggio31, nella complessa contestualizzazione del dialogo bruniano il sonetto di Tansillo viene ad assumere anche un diverso e più profondo significato: il «bel desio» non sarebbe qui più l’amore, ma l’aspirazione alla Conoscenza. Non dimentichiamo del resto che Giordano Bruno stesso lo imi-tò in un suo sonetto, premesso all’opera De l’infinito, universo e mondi, e che inizia appunto con E chi mi impenna, e chi mi scalda il core32, che non fa riferimento esplicito al mito di Icaro, ma rimanda invece allusivamente, attraverso il pregnante ‘im-pennare’, alla tradizione petrarchesca di Tansillo e nello stesso

30 Vale la pena ricordare almeno l’esempio autorevole del De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana.

31 Ripubblicato in Problemi di estetica, Bari 1910. Sulle innervature platoniche del sonetto si sofferma Sozzi 1994, 194 s.

32 Vd. i versi che più interessano E chi mi impenna, e chi mi scalda il core, / chi non mi fa temer fortuna o morte, / chi le catene ruppe e quelle porte, / onde rari son sciolti ed escon fore? [...] / Quindi l’ali sicure a l’aria porgo, / né temo intoppo di cristallo o vetro; / ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.

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tempo la supera con la tensione etica verso l’infinito filosofi-co33. Qui posso solo accennare al problema, ma è evidente che il tema è funzionale alla nostra analisi, giacché come dicevo all’i-nizio e come mi sembra dimostrato dalle nostre letture di oggi, anche le mediazioni hanno importanza, specialmente quando si tratta di esempi e di simboli: la cornice dialogica, la letteratu-ra al secondo grado dei genettiani ‘palinsesti’ si direbbe oggi, il contesto con la sua trama di relazioni sono in grado di mutare di segno il significato primo e originario di un testo anche clas-sico e notissimo, ma già Croce a proposito di questo sonetto di Tansillo parlava di ‘palinsesti’, cioè di «opere d’arte, che si crea-no su opere d’arte».

4. D’AnnunzioVeniamo ora all’ultimo esempio, che dovrò nella mia espo-

sizione sintetizzare al massimo, perché si tratta di D’Annunzio, che al mito di Icaro ha riservato ovviamente uno spazio privi-legiato, collegato com’è al tema eroico del volo pionieristico in cui si cimenta già dal 1909, quando dichiara che la modernità supera sia il mito antico che il sogno del Rinascimento, Icaro e Leonardo: «Ecco la metamorfosi della vita civile. È una nuova ebbrezza, un nuovo bisogno. Non penso che a volare ancora»34.

Il testo più emblematico è il sonetto L’ala sul mare, che pre-lude ad Altius egit iter, il cui titolo è tratto da Ovidio (è sia in Ars 2, 84 che in met. 8, 225), e al Ditirambo IV, che segue da vicino la

33 Cfr. Sabbatino 2004, 158. Mi sembra interessante aggiungere anche la menzione di Teofilo Folengo, Caos del Triperuno, vv. 19-21: Or dunque, di più sana audacia e senno / ch’Icaro mai non ebbe, a l’ardua via / ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.

34 Cito da un inedito presente in un articolo di una specialista come Annamaria Andreoli, Corriere della Sera (11 aprile 2003, p. 35), articolo scritto alla vigilia dell’inaugurazione della mostra “D’Annunzio e Trieste, nel centenario del primo volo aereo”. Interessante anche l’uso del mito icario in testi prosastici celebrativi, vd. Taccuini, a cura di E. Bianchetti, R. Forcella, Milano 1965, 854, 857.

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narrazione ovidiana:

Ardi, un’ala sul mare è solitaria.Ondeggia come pallido rottame.E le sue penne, senza più legame,sparse tremano ad ogni soffio d’aria. Ardi, veggo la cera! E’ l’ala icaria,quella che il fabro della vacca infamefoggiò quando fu servo nel reame del re gnossio per l’opera nefaria. Chi la raccoglierà? Chi con più fortelega saprà rigiugnere le pennesparse per ritentare il folle volo? Oh del figlio di Dedalo alta sorte!Lungi dal medio limite si tenneil prode, e ruinò nei gorghi solo.

Sono presenti nel sonetto molti elementi che richiamano Ovidio35: soprattutto la suggestiva apparizione dell’ala sulle onde del mare è chiaramente suggerita da Ovidio che sia in Ars 2, 95 che in met. 8, 233 parla di Dedalo che pennas adspexit in undis. Il «folle volo» volge a nuovo significato l’immagine famo-sa, che Dante aveva impiegato per Ulisse (Inf. XXVI, 125 dei remi facemmo ali al folle volo): ‘folle’ per Dante evocava un concetto di audacia carica di hybris36, per D’Annunzio è connotato positi-vamente, come indicano poi «alta sorte» e «il prode». La terzina conclusiva del sonetto sembra del resto riecheggiare allusiva-mente i componimenti del ‘500, che abbiamo prima citato, recu-perandone sia il gusto ‘epigrafico’ che la movenza sentenziosa: e anche nel Ditirambo IV la fine di Icaro è tale da attribuirgli «lode

35 Tengo conto delle note di commento di F. Roncoroni, Milano 1995, e di P. Gibellini, Torino 1995.

36 Vd. Baldelli 1998, 370: «folle e follia nella Commedia… indicano un eccesso, qualcosa di temerario e dì colpevole, perché appunto non misurato; ed è dunque di anime superbe e magnanime».

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eterna».Anche qui in D’Annunzio l’arte allusiva è al servizio di un

progetto innovativo che vuole guidare il lettore dall’antico al moderno attraverso le tappe di un percorso personale quasi iniziatico: non è certo un caso che, sin dalle prime pagine del ro-manzo Forse che sì forse che no del 1910, D’Annunzio citi se stes-so ricordando «la prima ala d’uomo caduta sul Mediterraneo, l’ala icaria composta con le verghe dell’avellano con l’omento secco del bue con le penne maestre degli uccelli rapaci». Per D’Annunzio la scelta di Icaro si configura come una decisione eroica, della quale si sottolinea spesso enfaticamente la solitu-dine, come sarà per es. nel Dit. IV 550-1 Solo / fui, solo e ala-to nell’immensità: in questo contesto il recupero letterale della iunctura ovidiana medio limite37 permette a D’Annunzio non solo di alludere esplicitamente al modello ovidiano, ma anche di prenderne le distanze, giacché se in latino limes implica sem-plicemente la ‘via’, la ‘rotta’ da seguire, nell’italiano ‘limite’ è invece presente un’idea negativa, che appare chiaramente an-titetica rispetto alla visione superomistica dannunziana38. Il Dedalo ovidiano pone l’accento sulla prudente pedagogia della mediocritas, mentre nella visione dannunziana la figura di Icaro è chiaramente simbolo di eroico titanismo, come suona il titolo del successivo componimento preditirambico Altius egit iter39,

37 Ov. met. 8, 203-5 (Instruit et natum ‘medio’que ut limite curras / Icare’, ait ‘moneo, ne, si demissior ibis unda / gravet pennas, sì celsìor, ignis adurat) è ‘tradotto’ quasi letteralmente nel Ditirambo IV vv. 496-9: Giova nel medio limite volare; / che, se tu voli basso, l’acqua aggreva / le penne, se alto voli, te le incende / il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo; vd. anche 511 (la mia via) sarà dovunque e non nel medio limite.

38 Sottolinea opportunamente alcune differenze tra Ovidìo e D’Annunzio Fornaro 1994, 224: «il folle volo di Ulisse fa tutt’uno con quello del figlio di Dedalo [...] uomo e pur, più del titubante Fetonte, degno di essergli figlio. La differenza di merito stabilita fra due eroi imprudenti è propria di D’Annunzio: non è in Dante, che collega i due folli voli nel segno della paura (Inf. XVII, 106 ss.) e non è reperibile neppur in Ovidio».

39 Espressione attestata sia nell’ars 2, 84 che nelle met. 8, 225, ma

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parole che nelle Metamorfosi sono precedute da audaci coepit gaudere volatu e caeli cupidine tractus.

Non possiamo certo ripercorrere in questa sede tutto il lun-ghissimo Ditirambo IV (650 versi), nel quale un Icaro adulto in prima persona narra per quadri successivi, scanditi dall’incipit anaforico «Icaro disse», la sua vicenda esistenziale, iniziando dai prodromi cretesi caratterizzati dal suo amore, quasi un rap-tus fascinatorio e premonitore, per Pasifae, figlia del Sole, cui il padre Dedalo andava preparando la vacca lignea. Proprio da questo amore devastante e morboso Icaro cerca di riscattarsi in un’ansia eroica di autodistruzione, che non ha evidentemen-te più nulla in comune coll’ingenuo puer del mito ovidiano40. Nell’Icaro di D’Annunzio non c’è paura, ma in un primo momento collaborazione attiva al progetto del padre, poi rifiuto del medio limite e infine ebbrezza di altezze, rappresentate dal ricercato contatto col Sole. Molto elaborata e insistita è la descrizione di quella sorta di estasi del volo che coglie Icaro, in un brano per-vaso da forti sensazioni emotive (vv. 530 ss.), e caratterizzato da una sorta di nuova metamorfosi del corpo umano, che si identi-fica con aria, fuoco e poi infine acqua. L’Icaro dannunziano «da-gli occhi solari» denuncia così, a mio parere, anche la sua stretta affinità con Fetonte, quando si esalta al punto di voler lui stesso guidare il carro solare, attingendo alla descrizione ovidiana del II libro delle Metamorfosi, nell’evocazione anche dei nomi dei mitici destrieri (vd. met. 2, 153-5), vv. 586 ss.:

Poi non vidi altro più, se non il Sole.Poi non volli altro più, se non da presso

mentre nell’ars ciò che precede è cum puer incautis nimium temerarius annis, il passo che sicuramente influenza D’Annunzio è met. 8, 223-5, citato sopra nel testo.

40 Vd. il citato commento di Roncoroni 1995, 588 s. Nella caduta di Icaro si legge autobiograficamente anche la caduta dell’illusione mitica di D’Annunzio, che d’ora in poi nel libro d’Alcyone canterà la nostalgia (ricordiamo che in questa ultima sezione è presente Pastori, per fare un solo celeberrimo esempio).

123 Rita Degl’Innocenti Pierini

mirarlo eretto sul suo carro igníto,giugnerlo, farmi arditodi prendere pei freni il suo cavallosinistro, Etonte dalle rosse nari.

La presenza sottilmente allusiva del Fetonte ovidiano nel Ditirambo IV di D’Annunzio, presenza che non sembra essere sufficientemente valutata nei commenti e negli studi sul mito icario in Alcyone41, alla luce del nostro percorso di lettura non ci appare semplicemente un intarsio erudito e baroccheggiante, ma si inserisce in una linea che, partendo dai classici antichi, si nutre nel suo percorso di altre voci e di altri autori, come la lirica del ‘500, sottolineando continuità e discontinuità: il gioco eru-dito imprime nel marino Icaro anche un più marcato sigillo di solarità attraverso i riferimenti allusivi alla vicenda di Fetonte.

Molto altro potremmo aggiungere al nostro viaggio aereo42, ma è tempo di finire, perché non vorrei anch’io per essermi troppo innalzata e soffermata nei cieli di Icaro e Fetonte rischia-re una rovinosa e poco eroica caduta… nel sottrarre tempo agli altri interventi e nell’annoiare il pubblico.

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41 Non ne parla per esempio Paratore 1966, uno studio peraltro ancora valido e suggestivo.

42 Riferimenti ai due miti paralleli sono frequenti in Tasso, su cui vd. in particolare Colaninno 1996; Prandi 2004, 122-123. Sulla presenza di Fetonte, e di Icaro, in Leopardi si sofferma ora Sandrini 2010, 92 ss.

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Finito di stampare nello stabilimento tipografico Arti Grafiche Favia

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nel mese di febbraio 2012


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