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ATTUALITÀ FOCUS PANORAMACHICO & ROSALIA Bossa nova forever di Franz Coriasco 52 _ Ciak dal mondo...

Date post: 16-Mar-2020
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PANORAMA Viaggiatori Solidali e missionari FOCUS Finanza islamica Investimenti e Corano ATTUALITÀ Sud Sudan La guerra continua In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 7 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXXII LUGLIO AGOSTO 2018 CLAUSURA La luce oltre le grate
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PANORAMAViaggiatoriSolidali e missionari

FOCUSFinanza islamicaInvestimenti e Corano

ATTUALITÀSud SudanLa guerra continua

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Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

7M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXXII

LUGLIOAGOSTO2018

CLAUSURA

La luceoltre le grate

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MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIATrib. Roma n. 302 del 17-6-86. Con approvazione ecclesiastica.

Editore: Fondazione di religione MISSIO

Direttore responsabile: GIULIO ALBANESE

Redazione: Miela Fagiolo D’Attilia, Chiara Pellicci, Ilaria De Bonis.

Segreteria: Emanuela Picchierini, [email protected]; tel. 06 6650261 - 06 66502678; fax 06 66410314.

Redazione e Amministrazione: Via Aurelia, 796 - 00165 Roma.

Abbonamenti: [email protected]; tel. 06 66502632; fax 06 66410314. Hanno collaborato a questo numero: Chiara Anguissola, MarioBandera, Roberto Bàrbera, Gaetano Borgo, Carlo Casini, Marzia Cofano,Franz Coriasco, Stefano Femminis, Graziano Gavioli, Francesca Lancini,Martina Luise, Paolo Manzo, Cecilia Murarolli, Pierluigi Natalia, WalterPaggetti, Angela Gabriella Pistola, Paolo Raimondi.

Progetto grafico e impaginazione: Alberto Sottile.

Foto di copertina: © 2018 Monastero delle Benedettine di Santa GrataFoto: Stefanie Glinski / Afp, Saul Loeb / Afp, Kcna Via Kns / Afp, Marius Becker / Dpa,Laura Tárraga Garrido / Nurphoto, Wissam Nassar / Dpa, Jerome, Gianluigi Guercia /Afp, Photo / Mladen Antonov, Max_Ryazanov, Yassine Gaidi / Agenzia Anadolu, AfpPhoto / Yuri Cortez, Lena Klimkeit / Dpa, Laurin Schmid / Sos Mediterranee / PictureAlliance / Dpa, Gioia Forster / Dpa, Henry Wasswa / Dpa, Benoit Doppagne / BelgaMag / Belga, Menahem Kahana / Afp, Saul Loeb / Afp, Menahem Kahana / Afp,Eurasia Press / Photononstop, Archivio Missio (a cura di Simone Lentini), ArchivioCuamm, Archivio Cmd Pescara/Penne, Gaetano Borgo, Marco Colombo, LauraNabergoi, Chiara Pellicci, Giovanni Rocca, David-Marie Rivuze Rwema, AndreaSemplici, Annaelena Troiano. Abbonamento annuale: Individuale € 25,00; Collettivo € 20,00;Sostenitore € 50,00; Estero €40,00.

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o bonifico postale (IBAN IT 41 C 07601 03200 000063062327)- Bonifico bancario su C/C intestato a Missio presso Banca Etica

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Mensile associato alla FeSMI e all’USPI, Unione StampaPeriodica Italiana.Chiuso in tipografia il 26/06/18Supplemento elettronico di Popoli e Missione:www.popoliemissione.it

Fondazione MissioDirezione nazionale delle Pontificie Opere Missionarie

Via Aurelia, 796 - 00165 RomaTel. 06 6650261 - Fax 06 66410314E-mail: [email protected]

Presidente: S.E. Mons. Francesco Beschi

Direttore:Don Michele Autuoro

Vice direttore: Dr. Tommaso Galizia

Tesoriere: Gaetano Crociata

Responsabile riviste e Ufficio stampa: P. Giulio Albanese, M.C.C.I

Missio – adulti e famiglie(Pontificia Opera della Propagazione delle Fede)Segretario nazionale: Don Mario Vincoli

Missio – ragazzi(Pontificia Opera dell’Infanzia Missionaria)Segretario nazionale: Don Mario Vincoli

Pontificia Opera di San Pietro ApostoloSegretario nazionale: Dr. Tommaso Galizia

Missio – consacrati(Pontificia Unione Missionaria)Segretario nazionale: Padre Ciro Biondi

Missio – giovaniSegretario nazionale: Giovanni Rocca

CON I MISSIONARI A SERVIZIO DEI PIÙ POVERI:

- Offerte per l’assistenza all’infanzia e alla maternità, formazione dei seminaristi, sacerdoti e catechisti, costruzione di strutture perle attività pastorali, acquisto di mezzi di trasporto.

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- Eredità, Lasciti e Legati La Fondazione MISSIO, costituita il 31 gennaio 2005 dalla Conferenza Episcopale Italiana, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto(Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2006), è abilitata a ricevere Eredità e Legati anche a nome e per conto delle Pontificie OpereMissionarie.Informazioni: amministrazione (tel. 06 66502629; fax 06 66410314; E-mail: [email protected]).

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1P O P O L I E M I S S I O N E - L U G L I O - A G O S T O 2 0 1 8

L’attenzione manifestata da papaFrancesco nei confronti dei po-veri fin dall’inizio del suo pon-

tificato non poteva prescindere dallospinoso tema della finanziarizzazionedell’economia. Si tratta di un fenomenoglobale che abbiamo ripetutamente af-frontato sulle pagine della nostra rivista,evidenziandone gli effetti negativi inriferimento soprattutto all’esclusionesociale. E dunque, come redazione, ab-biamo avvertito l’esigenza di condividerecon voi, cari lettori, il nostro plausoper la recente pubblicazione del docu-mento Oeconomicae et pecuniariaequaestiones, che offre alcune «consi-derazioni per un discernimento eticocirca alcuni aspetti dell’attuale sistemaeconomico-finanziario», come recita ilsottotitolo. Redatto, con l’approvazionedi papa Bergoglio, dalla Congregazioneper la Dottrina della Fede e dal Dicasteroper il Servizio dello Sviluppo UmanoIntegrale, il documento afferma conchiarezza l’urgenza di riconoscere ilprimato della politica sul dio denaro.«La recente crisi finanziaria – si leggenel testo - poteva essere l’occasioneper sviluppare una nuova economiapiù attenta ai principi etici e per unanuova regolamentazione dell’attivitàfinanziaria, neutralizzandone gli aspettipredatori e speculativi e valorizzandoneil servizio all’economia reale». Eppure«non c’è stata però una reazione cheabbia portato a ripensare quei criteri

obsoleti che continuano a governare ilmondo». È quindi in gioco «l’autenticobenessere della maggior parte degliuomini e delle donne del nostro pianeta,i quali rischiano di essere confinati inmodo crescente sempre più ai margini,se non di essere esclusi e scartati».Parole profetiche e coraggiose che met-tono, per così dire, nero su bianco unadrammatica realtà, più volte denunciatadal mondo missionario.Il documento invita ad «elaborare nuoveforme di economia e finanza, le cuiprassi e regole siano rivolte al progressodel bene comune e rispettose della di-gnità umana, nel sicuro solco offertodall’insegnamento sociale della Chiesa».È evidente che questo testo rappresentauna chiara esplicitazione della visionecritica del Santo Padre e in termini ge-nerali della Santa Sede, nei riguardidella finanza speculativa, sollecitandola necessità di «una riflessione eticacirca taluni aspetti dell’intermediazionefinanziaria», il cui funzionamento «nonsolo ha prodotto palesi abusi ed ingiu-stizie, ma si è anche rivelato capace dicreare crisi sistemiche e di portata mon-diale». Pertanto, mai come oggi, è fon-damentale per le nostre comunità cri-stiane un impegno nel difendere queicriteri etici e socialmente responsabilidella Dottrina sociale della Chiesa daapplicare nell’ambito degli investimenti.Si tratta di responsabilità legate, adesempio, alla condotta di chi ottiene

EDITORIALE

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

»

Finanza:una sfida culturale

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Indice

EDITORIALE

1 _ Finanza: una sfida culturale di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _ Gerusalemme senza pace L’ambasciata della

discordia di Pierluigi Natalia

ATTUALITÀ

8 _ La guerra continua inSud Sudan

Etnie, armi e petrolio: miscela esplosiva di Ilaria De Bonis11 _ Accordo Usa e Corea del Nord La stretta di mano di Singapore di Miela Fagiolo D’Attilia

FOCUS14 _ Finanza islamica

Investimenti secondoCorano

di Paolo Raimondi

L’INCHIESTA18 _ Rifugiati in Uganda Benvenuti a Bidi Bidi di Ilaria De Bonis

SCATTI DAL MONDO

22 _ La Storia insegna L’integrazione al tempo dei Romani A cura di Emanuela Picchierini Testo di Giulio Albanese

PANORAMA

26 _ Solidali e missionari Viaggiatori non turisti di Roberto Bàrbera

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P O P O L I E M I S S I O N E - L U G L I O - A G O S T O 2 0 1 82

o concede prestiti con eccessiva facilità; di chinon informa adeguatamente gli investitori, dichi vende prodotti tossici (derivati Otc), na-scondendoli l’uno dentro l’altro e occultandodi fatto il rischio. Per non parlare del Sistemabancario ombra (Shadow banking), una finanzaparallela che, mi si passi il paragone, come lacriminalità organizzata, finisce con l’infiltrarsitra le fila di quella ufficiale.Non a caso il grande economista italiano,Federico Caffè, in tempi non sospetti avevastigmatizzato l’inganno: «Da tempo sono convintoche la sovrastruttura finanziario-borsistica conle caratteristiche che presenta nei Paesi capita-listicamente avanzati, favorisca non già il vigorecompetitivo ma un gioco spregiudicato di tipopredatorio, che opera sistematicamente a dannodi categorie innumerevoli e sprovvedute di ri-sparmiatori in un quadro istituzionale che difatto consente e legittima la ricorrente decur-tazione o il pratico spossessamento dei loropeculi».D’altronde è tuttora carente (per non dire ine-sistente) un sistema giuridico internazionaleche controlli, con specifiche autorità soprana-zionali, gli investimenti finanziari transnazionali.A questo proposito è bene ricordare che ilCompendio della Dottrina sociale della Chiesafa riferimento a questo problema quando chiededi individuare “soluzioni istituzionali” e un“quadro normativo” che permetta un’adeguataassunzione di responsabilità delle persone cheoperano nel sistema finanziario (n. 369). Laposta in gioco è alta se si considera, parafrasandoSan Giovanni Paolo II, che quando nel sistemaeconomico dominante le cose non funzionano,le cause non vanno ricercate al suo interno, manel sistema culturale che la guida e, in fondo,nelle modalità, rispettose o meno, secondo lequali viene trattata la persona umana (Cente-simus Annus, n.39). Una sfida culturale, dunque,per quelle anime che vogliono continuare acredere, come cittadini attivi, in un mondo mi-gliore. In effetti, lungi da ogni retorica, la re-sponsabilità morale e l’esigenza della virtù ri-guardano ogni persona, consapevole della pos-sibilità di influire sulla realtà per migliorarla,poiché non esistono deroghe che ci sollevanodalle nostre responsabilità.

(Segue da pag. 1)

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DOSSIER

29 _ Dentro le mura delle enclave

Giro del mondo attraversole isole della storia

di Mario Bandera

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _ Le Clarisse del MonasteroSanto Stefano di Imola

La luce oltre le grate di Miela Fagiolo D’Attilia

40 _ Tra diplomazia e Vangelo

Segretari di Stato in missione di Martina Luise

42 _ Intervista ad Andrea Semplici

Un santo per amico di Miela Fagiolo D’Attilia

44 _ Diritti Umani Nel 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale

Per la dignità in carcere di Stefano Femminis

45 _ L’altra edicola Migranti e rifugiati sempre

più a rischio Il populismo e la paura di Ilaria De Bonis

48 _ Posta dei missionari L’acqua è vita a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE

51 _ Musica CHICO & ROSALIA Bossa nova forever

di Franz Coriasco

52 _ Ciak dal mondo WAJIB Matrimonio a Nazareth di Miela Fagiolo D’Attilia

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OSSERVATORI

DONNE IN FRONTIERA PAG. 6

Akberet e i giovani di Addis Abebadi Miela Fagiolo D’Attilia

ASIA PAG. 7

Vietnam, appello a Zuckerbergdi Francesca Lancini

GOOD NEWS PAG. 16

Etiopia chiama. Eritrea risponde?di Chiara Pellicci

AMERICA LATINA PAG. 17

Le promesse di Duque per laColombiadi Paolo Manzo

MEDIO ORIENTE PAG. 21

Ritorno dall’infernodi Chiara Pellicci

54 _ Libri Cristiani del Sol Levante di Chiara Anguissola

No alla cultura dello scarto di Chiara Anguissola

Inviati dalla Chiesa torinese di Chiara Anguissola

Una nuova vita di Chiara Anguissola

VITA DI MISSIO

56 _ Il Centro missionario diocesanodi Pescara-Penne

Condividere i doni ricevuti di Chiara Pellicci58 _ Dalla diocesi di Manfredonia Vieste-San Giovanni Rotondo Un percorso sui diritti negati di D.F.59 _ Giornate nazionali di formazione

e spiritualità missionaria Ad Assisi con la voglia di rinnovarsi di Chiara Pellicci60 _ Missio Giovani Estate, tempo di missione di Marzia Cofano

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzioni di preghiera Pensiamo sempre agli ultimi di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM Burundi Digne, donna dal grande sorriso di Gaetano Borgo

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PRIMO PIANO Gerusalemme senza pace

C ome era nelle previsioni, lo spo-stamento dell’ambasciata sta-tunitense in Israele da Tel Aviv

a Gerusalemme, lo scorso 14 maggio,ha aggiunto benzina sul fuoco maisopito del conflitto israelo-palestinesee ha ulteriormente accresciuto l’insta-bilità della cruciale area del vicinoOriente. L’inaugurazione della nuovaambasciata, annunciata da Donald Trumplo scorso dicembre tra forti protesteinternazionali, è stata preceduta e ac-compagnata da sanguinose violenze,con ripercussioni pesanti sul principalescacchiere di quella guerra mondialeparcellizzata, come dice papa Francesco,che proprio in quell’area resta più cruen-

ta e dall’incerta prospettiva di soluzio-ne.Si sono così confermati i timori sullapericolosità dell’iniziativa espressi dalpapa alla vigilia dell’annuncio di Trump.All’udienza generale del 6 dicembre2017, Francesco aveva rivolto «un ac-corato appello affinché sia impegno ditutti rispettare lo status quo in con-formità con le pertinenti risoluzionidelle Nazioni Unite» e aveva ricordatoche «Gerusalemme è una città unica,sacra per gli ebrei, i cristiani e i musul-mani, che in essa venerano i luoghisanti delle rispettive religioni». Da quila necessità che «tale identità sia pre-servata e rafforzata a beneficio dellaTerra Santa, del Medio Oriente e delmondo intero e che prevalgano saggezzae prudenza, per evitare di aggiungere

di PIERLUIGI [email protected]

Il processo di pacenella regione hasubito un bruscoarresto col passaggiodell’ambasciataamericana da TelAviv a Gerusalemme.Con una lunga scia diviolenze, morti e feritinegli scontri seguitiall’inaugurazionedella nuova sede. E ora la pace sembrapiù lontana.

L’ambasciatadella discordia

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nuovi elementi di tensione in un pa-norama mondiale già convulso e segnatoda tanti e crudeli conflitti».

APPELLI VANIAncora una volta, comunque, né gliaccorati appelli alla pace, né prudenzae buon senso politici hanno prevalso, eTrump ha tirato dritto, anzi storto. Giàil 18 dicembre scorso gli Stati Unitiavevano bloccato con il veto una bozzadi risoluzione del Consiglio di SicurezzaOnu che condannava i nuovi sviluppi.Il testo, elaborato dall’Egitto, senzamenzionare direttamente gli Stati Unitio Trump, esprimeva «profondo ramma-rico per le recenti decisioni riguardantilo status di Gerusalemme», affermandoche le mosse per alterare tale status«non hanno alcun effetto giuridico edevono essere annullate in conformitàcon le pertinenti risoluzioni del Consigliodi Sicurezza Onu». Invitava anche tuttigli Stati membri dell’Onu a non rico-noscere «nessuna azione o misura con-traria a tali risoluzioni». Il testo avevaottenuto l’appoggio di tutti gli altri 14membri del Consiglio di Sicurezza, com-presi quindi quelli europei, spingendol’ambasciatrice statunitense all’Onu,

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Nikki Haley, a parlare di «un insulto eun affronto che non dimenticheremo».Il che non annuncia certo la possibilitàsia pure remota che trovi consensi ilgià improbabile schema per un nuovopiano di pace messo a punto insiemecon l’alleata Arabia Saudita dall’ammi-nistrazione statunitense, e più specifi-camente da Jared Kushner, il marito diIvanka Trump, la figlia del presidente,e da Mohammed bin Salman, ormaiufficializzato erede al trono di un Paese,unico caso al mondo, che prende ilnome da una famiglia, la sua, appuntogli al-Saud, e ne costituisce una sortadi proprietà privata.Tra l’altro, l’inaugurazione dell’amba-sciata si è tenuta in concomitanza conle celebrazioni per il 70esimo anniver-sario della nascita dello Stato di Israele,ricorrenza che i palestinesi commemo-rano ogni anno come la nakba (la ca-tastrofe), scelta che ha suggerito il ter-mine “provocazione” anche ad alcunicommentatori non certo pregiudizial-mente antiamericani o antisraeliani. Ecosì, mentre il Dipartimento di Statoamericano comunicava le presenze allacerimonia, a partire proprio da figlia egenero di Trump, e particolari sulle en-

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tusiastiche dichiarazioni del primo mi-nistro israeliano Benjamin Netanyahu,che era intervenuto, e dello stessoTrump in un videomessaggio, i siti d’in-formazione aggiornavano via via il nu-mero dei morti (diverse decine, compresauna bambina di otto mesi soffocatadai gas lacrimogeni) e dei feriti, migliaia,soprattutto al confine fra Israele e Stri-scia di Gaza, di fatto controllata daHamas. »

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PRIMO PIANO

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«L a Chiesa è un ospedale per i peccatori,non un museo per i santi». Sono le

parole di suor Akberet, una clarissa cappuccinache insieme ad una consorella aiuta edaccoglie nel convento di Santa Chiara adAddis Abeba centinaia di giovani eritrei infuga verso l’emigrazione a rischio. Le paroleraccolte da Patrizia Caiffa, inviata per il ServizioInformazione Religiosa-AgenSir, raccontanola disperazione di chi vorrebbe affrontare ilsalto nel buio del viaggio verso l’Europa, acui la religiosa dice: «Non partite, non nepossiamo più di contare i morti nel deserto onel mare. Cercate di cambiare la vostra vitaqui. Ma siccome in Etiopia i rifugiati non pos-sono lavorare, né tornare indietro, non c’èscelta». Anche suor Akberet ha un passato diprofuga (dall’Eritrea) ed è costretta a restarein Etiopia dove si trova da 26 anni. Anche leiconosce il dolore per la morte di parentiscomparsi nei viaggi attraverso il Mediterraneo,e anche per questo ha abbracciato una mis-sione singolare per una claustrale. Ha apertole porte del convento, un edificio di legno,povero di tutto ma ricco del profumo deglialberi di eucalipto e di banano che lo circon-dano. Akberet (il suo nome in tigrino vuoldire Onorata) e la consorella non hanno so-stegni economici, vivono con meno dell’es-senziale. È la preghiera a dare loro speranzae sostegno agli urban refugees che si accalcanonella capitale etiopica, dove si contano oltre900mila rifugiati sudsudanesi, eritrei e somali,solo una minoranza dei quali beneficiano diun modesto contributo mensile dall’agenziaARRA. Dice: «Possiamo solo dare confortospirituale perché non abbiamo nulla. Riceviamopochi aiuti e quel poco lo dividiamo con ipoveri. Circa 450 ragazzi e ragazze frequentanola chiesa, li abbiamo divisi in gruppi di pre-ghiera, ogni giorno ne viene uno diverso.Diamo loro la colazione, poi preghiamo in-sieme. Per il pranzo cuociamo il pane e lo di-vidiamo». Questa è la missione di Akberetche grazie al suo impegno ha avuto modo diaiutare alcuni giovani ad inserirsi nel pro-gramma dei corridoi umanitari.

di Miela Fagiolo D’Attilia

AKBERET E I GIOVANIDI ADDIS ABEBA

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

zionali nella Striscia. La risoluzioneaveva ottenuto 29 voti a favore, duecontrari (Stati Uniti e Australia) e 14astensioni. Gli europei rappresentatinel Consiglio, come al solito, erano an-dati in ordine sparso: Gran Bretagna,Germania e Ungheria si erano astenute,mentre Spagna, Belgio e Slovenia ave-vano votato a favore (e Israele ne avevasubito convocato gli ambasciatori a TelAviv per protestare). Intanto, sempreper protestare, diversi Paesi, a partiredalla Turchia, richiamavano a loro voltagli ambasciatori a Tel Aviv.

PASSI INDIETROScontri diplomatici a parte, la questionecruciale è quella posta da Abu Mazen,il presidente dell’Autorità nazionale pa-lestinese, secondo il quale «gli StatiUniti non possono più proporsi comemediatori del conflitto israelo-palesti-nese». Se è vero – e purtroppo vero ap-

CIVILI A RISCHIODue giorni dopo, il 16 maggio scorso,l’esercito israeliano comunicava di averattaccato con proiettili di artiglieriaalcune postazioni delle brigate Ezzedineal-Qassam, l’ala armata di Hamas, nelNord della Striscia di Gaza, dopo che imiliziani avevano sparato alcuni colpidi arma da fuoco contro le sue postazionisenza fare vittime. Già alla vigilia del-l’inaugurazione dell’ambasciata, un at-tacco missilistico era stato lanciato daIsraele sulla Striscia di Gaza, poche oredopo la decisione del ministro dellaDifesa, Avigdor Lieberman, di chiuderela zona di Kerem Shalom, il valico dipassaggio commerciale al confine traGaza, Israele e Egitto, dopo un incendiocausato da manifestanti palestinesi.Sempre il 16 maggio, riferendo al Con-siglio di Sicurezza, l’inviato dell’Onuper il Medio Oriente, Nickolay Mladenov,affermava che «non ci sono giustifica-zioni» per quanto accaduto a Gaza,sollecitando un’indagine internazionale.Come di prassi in simili casi, Mladenovaveva caricato di responsabilità en-trambe le parti. Cioè, Israele «deve pro-teggere le sue frontiere dalle infiltrazionie dal terrorismo» ma deve farlo inmodo “proporzionato”. Ma Hamas «nondeve usare le proteste per cercare diposizionare bombe sulla barriera di si-curezza e provocare, i suoi milizianinon devono nascondersi tra i manife-stanti e mettere a rischio la vita dei ci-vili». Anche in questo caso, comunque,gli Stati Uniti avevano annunciato cheavrebbero bloccato la risoluzione per«un’inchiesta indipendente e trasparentesu queste azioni per garantire le re-sponsabilità».Un’analoga risoluzione, presentata dalPakistan a nome dell’Organizzazioneper la cooperazione islamica, aveva in-vece approvato a Ginevra il Consigliodei Diritti umani delle Nazioni Unite –che ovviamente conta molto meno delConsiglio di Sicurezza – decidendol’invio di alcuni investigatori interna-

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D opo il Myanmar, il Vietnam. Il CEO di Fa-cebook, Mark Zuckerberg, è accusato di

favorire la censura del dissenso in Vietnam.Domenica 10 giugno scorso, decine di migliaiadi vietnamiti hanno riempito (pacificamente)le strade della capitale Hanoi e il quartiere fi-nanziario di Ho Chi Minh, per opporsi ad al-meno due iniziative annunciate dal governo:la cessione per 99 anni di tre zone economichespeciali (SEZ) a investitori (per lo più) cinesi el’approvazione di una legge sulla cyber-sicu-rezza. Le due azioni dell’Esecutivo, guidatodal primo ministro Nguyen Xuan Phuc, sem-brano legate. Da una parte, le tre “mini-Sin-gapore” controllate dalla Cina potrebbero as-somigliare a tre piccole Sylicon Valley, dove sisposano economia e high tech. Dall’altra, lelimitazioni della libertà d’espressione su internetcondizionerebbero qualsiasi critica verso questipoli di sviluppo tecnologico. E non solo.Come spiega un analista politico su AsiaTimes, le manifestazioni di piazza più grandidai tempi del disastro di Formosa (l’aziendaplastica taiwanese che nel 2016 inquinò costee oceano di quattro province vietnamite) nonscaturiscono solo da un sentimento nazionalistae anti-cinese. I dimostranti chiedono più de-mocrazia, mettendo in discussione il partito-unico. La bozza legislativa sulla cyber securityindicherebbe come reato postare materialeon line che «offende la nazione, la sua bandiera,i suoi simboli, leader, grandi e noti personaggi,eroi». Inoltre, richiederebbe ai colossi stranieridella Rete di controllare i contenuti pubblicatidai vietnamiti sui loro social o siti. EssendoFacebook il network virtuale più utilizzato inVietnam, è a Zuckerberg che si sono rivolti gliattivisti per i diritti umani. Il movimento VietTan, basato in Usa, ha inviato una letteraaperta al CEO dove si citano le numerosecensure e sospensioni di account praticateda Facebook – senza spiegazioni agli utenti –nel 2017. Al momento in Vietnam si conta uncentinaio di prigionieri politici, tra i quali lablogger cattolica Nguyen Ngoc Nhu Quynh,condannata a 10 anni di carcere per «propa-ganda contro lo Stato»… su Facebook.

di Francesca Lancini

VIETNAM, APPELLOA ZUCKERBERG

OSSERVATORIO

ASIA

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Gerusalemme senza pace

esempio un nuovo e ampio spazio dimanovra, anche militare, in Siria, e uninsperato sostegno alla sua rigida po-sizione contro Teheran, grazie al ritirostatunitense dall’accordo sul nucleareiraniano. Ma la vicenda dell’ambasciataha già trasformato il bagno di sangue,non ancora interrotto al momento incui questo articolo viene scritto, in unabisso politico. Dal piano di Jared Ku-shner e Mohammed bin Salman hannogià preso le distanze diversi Paesi arabialleati degli Stati Uniti. Per esempio,era stato il Kuwait a chiedere la riunionedel Consiglio di Sicurezza per condannarele violenze nei Territori palestinesi. Egià prima, la stessa Arabia Saudita siera unita alle condanne del trasferimentodell’ambasciata. Per non parlare delledivergenze sempre più profonde, pra-ticamente in ogni settore dei rapportipolitici, diplomatici e commerciali, traStati Uniti e alleati europei.

pare, almeno durante la presidenza diTrump – significa di fatto mettere infrigorifero, se non sotto una pietratombale, la prospettiva della soluzionedei due Stati sulla quale la comunitàinternazionale punta da decenni. Cioèquel processo di pace che proprio gliStati Uniti, fin dalla presidenza di Carter,40 anni fa, hanno voluto, costruito e,almeno in alcuni periodi, garantito.È vero che ci sono stati cocenti fallimentianche di presidenti statunitensi benpiù coscienti delle complessità mondialie ben più decisi (di quanto non appaiaTrump) a perseguire una politica di al-largamento del consenso internazionaleall’architettura del processo di pace,soprattutto dei Paesi arabi. Ma stavolta,purtroppo, più che di arresto di taleprocesso, bisogna parlare di passi in-dietro. La politica di Trump ha consentitonell’ultimo anno a Netanyahu di in-cassare diversi successi parziali, per

La figlia del presidente degli Stati Uniti,Ivanka Trump e Steve Mnuchin, Segretario al Tesoro, inaugurano la sede dell’Ambasciata statunitense a Gerusalemme, lo scorso maggio.

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ATTUALITÀ

guardo a questo ennesimo tentativo difirmare un accordo di pace tra la fazionedel presidente Salva Kiir e quelle legateal suo vice Riek Machar (in esilio in Su-dafrica, ndr) - ci spiega al telefono daJuba suor Elena Balatti, missionariacomboniana - Eppure ad Addis Abebanon è emersa alcuna soluzione definitivae nessuna firma da parte dei gruppi inconflitto». La novità è il ruolo giocatodalla religione. «È tradizione in Sudan –spiega la religiosa - che le Chiese non silimitino solo a pregare per la pace ma,ogni volta che ci sono iniziative politiche,chiedano di essere presenti per offrireassistenza spirituale e consigliare le parti

di ILARIA DE [email protected]

in gioco». Tanto che poco dopo è arrivatal’attesa notizia direttamente dal Vaticano:la Santa Sede aprirà una nunziaturaapostolica a Juba. E chissà se stavolta ilvolano del papa per la stipula di un ac-cordo di pace funzionerà. Ad Addis Abeba dopo ore di colloqui aporte chiuse, nel corso delle quali i de-legati hanno discusso soprattutto di si-curezza, governance e condivisione deipoteri (power sharing) tra forze gover-native e di opposizione, non s’è trovatala quadra. C’è intesa solo su tre punti.Però le Chiese forse stanno iniziando asmuovere le acque.«La fiducia che l’Igad (organismo regio-

P rogressi lentissimi sul fronte della“rivitalizzazione” del processo dipace per il Sud Sudan. Il Forum

di Addis Abeba (17-22 maggio scorsi),sul quale si riponevano molte speranze,non ha dato grandi risultati. Eppure hadimostrato che il South Sudan Councilof Churches (organismo interreligiosodel quale fa parte anche la Chiesa cat-tolica locale) è in grado di condurre ne-goziati “privati”. E gode di una certa fi-ducia da parte dei Paesi mediatori. «Stavolta c’erano buone speranze ri-

Etnie, armi e petrolio:miscela esplosivaEtnie, armi e petrolio:miscela esplosiva

La chiamano “a bassaintensità”, ma questaguerra che prosegue dal2013 sta decimandoun’intera popolazione.In Sud Sudan sicombatte ancora. Ma lanoizia c’è: il Vaticanoaprirà una nunziaturaapostolica a Juba.

La guerra continua in Sud Sudan

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vorrebbe essere più presente nel processonegoziale: «Siamo vestite di bianco oggi– hanno detto alla stampa le donne adAddis Abeba – perché vogliamo dire ainostri leader che è tempo di decidereper il nostro Paese, di decidere per lapace».

NESSUNO VUOLE CEDERE POTEREA conti fatti, l’intoppo rimane quellaformula vaga ma pregnante di significato:“divisione” o condivisione dei poteri(power sharing). Che è il vero talloned’Achille del Sud Sudan: ognuno faticaa cedere qualcosa, o meglio ognunovorrebbe per sé una fetta di potere inpiù. Al termine dei lavori Michael MakueiLeuth, portavoce del governo di SalvaKiir, ha detto: «Sulle questioni relativealla sicurezza si è concordato il criteriodell’ “acquartieramento” ed è stato ac-cettato l’articolo due (del dossier, ndr)»,trovando una intesa anche per unificarele forze di sicurezza. Inoltre si è convenutoper un temporaneo cessate il fuoco,che però ad oggi non è stato rispettato.Sul campo non ci sono più solo duecontendenti, ma le milizie e i gruppi ar-mati affiliati ora al presidente ora alsuo oppositore, sono molteplici e nessunovuole cedere porzioni di spazio all’altro.«Né il governo né le opposizioni hannopiù la forza militare per combattere –ci spiega al telefono padre ChristianCarlassare, comboniano in Sud Sudandal 2005 - Tuttavia, se inizialmente laguerra era circoscritta, adesso ci sonotanti gruppi che si oppongono al governoe hanno una propria agenda non semprechiara».

L’ETNIA MANIPOLATA DALLE ÉLITE

«Purtroppo già nel 2013 il Paese ha im-boccato la strada sbagliata – dice padreChristian –: quella di una politica cheesclude e che quindi ha fatto cadere ilPaese in un conflitto interno che prendeuna colorazione etnica».Suor Elena, che svolge il suo servizio

nale dei Paesi dell’Africa dell’Est che haorganizzato i colloqui, ndr) ha nelleChiese rivela quanto il negoziato siaestremamente difficile a livello politicoe militare – spiega ancora suor Elena -Il gruppo che ha la responsabilità dellamediazione ha ceduto al Consiglio ecu-menico delle Chiese i primi giorni dinegoziato: ha lasciato cioè che fosseroi leader religiosi a far dibattere gli ele-menti più salienti delle parti in conflitto».L’altra novità di questi colloqui di pacesostanzialmente falliti, sono state ledonne, che hanno chiesto un ruolo percompiere anch’esse una mediazione. LaSouth Sudan Women Coalition for Peace

missionario in ambito Giustizia e Pace,ci racconta che, rispetto al 2013 quandotutto è iniziato, «adesso i combattimentisono intermittenti in quasi tutte leregioni del Paese ad eccezione del Nord.La guerra civile di cui all’estero non siparla, rimane tuttora un conflitto abassa intensità molto dannoso». Uccidemigliaia di persone nel silenzio dellacomunità internazionale. «È estrema-mente pericoloso per la popolazionecivile – argomenta la missionaria -perché la serie di piccole imboscatecomporta una insicurezza generale cherende difficile la vita quotidiana dellagente. Al di fuori della capitale Jubanon c’è nessuna strada percorribile intutta sicurezza». Insomma, si muore du-rante le imboscate, si muore se ci si al-lontana troppo dalle arterie principali epiù frequentate del Paese, si muore nel-l’andare a raccogliere l’acqua o nel per-correre sentieri defilati.

MILIZIANI TRA LA GENTE COMUNE«Ho l’impressione – osserva anche padreChristian – che l’Unione Africana e lacomunità internazionale preferiscanocontinuare ad avere come interlocutorequesto governo così com’è, senza grossimoniti. D’altra parte, le opposizioni ef-fettivamente non sembrano credibili.La popolazione però è condannata a uncalvario».Ma chi è materialmente ingaggiato percombattere una guerra che manipolal’appartenenza etnica? «La popola- »

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Suor Elena Balatti, missionariacomboniana a Juba.

Padre Christian Carlassare, comboniano,missionario in Sud Sudan dal 2005.

ATTUALITÀ La guerra continua in Sud Sudan

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suor Elena. I ripetuti embargo al com-mercio di armi non funzionano: «In unazona rurale dove sono stata di recente– spiega ancora la suora - in ogni ca-panna c’era un’arma. Quello che dice ilpapa dovrebbe diventare la cartina ditornasole per valutare che tipo di politici

zione giovane – risponde suor Elenasenza mezzi termini -. In Sud Sudannon esiste una sofisticata logistica, nonservono grandi tecnologie: si combattea piedi, usando armi di piccolo calibro ei più giovani sono i più richiesti». L’in-centivo maggiore per loro non è lapaga, ma l’etnia, dice la comboniana. Sifa perno sull’appartenenza (sono oltre60 le etnie in Sud Sudan) che divide e siaggancia facilmente come fosse unasquadra di calcio. «La filiazione etnicacostringe i giovani a partecipare al con-flitto su un fronte piuttosto che unaltro: è uno scacchiere estremamentecomplesso questo – dice ancora la com-boniana - Poi ci sono i veterani: soldatiprofessionisti, di cui una parte è sottole armi e gli altri sono nelle milizie».

IL COMMERCIO DI ARMI E L’EMBARGO

CHE NON FUNZIONA«La mia opinione personale è che se ilconflitto fosse stato gestito all’internodel Paese sarebbe stata trovata una so-luzione: ma la verità è che il flusso diarmi è stato ininterrotto durante questianni e chi ha fornito le armi sono so-prattutto i Paesi occidentali», risponde

abbia un Paese e che tipo di contributoquella classe politica offra alla paceglobale: il traffico di armi è una rete». Edentro questa rete ci siamo tutti.Non si può dire che il Sud Sudan sia piùcoinvolto di altri né possiamo «chiuderegli occhi di fronte al fatto che l’economiadi un Paese viene sostenuta attraversola produzione di armi: è qualcosa chestiamo pagando molto caro. Chi mettelegna sul fuoco delle guerre? Quelli chevendono le armi», afferma la religiosa.Inoltre il Sud Sudan ha molte ricchezzenaturali, «a parte il petrolio che qui harappresentato una maledizione: non c’èmai stata una ricaduta positiva sullapopolazione». Lo sfruttamento del pe-trolio al Sud prima dell’indipendenzadel Paese era finalizzato all’export. «Nonè mai stata costruita neppure una raf-fineria nel Sud. Tutt’oggi non ne esistonoqui da noi», dicono i missionari. Il 193esi-mo Stato del mondo appena nato eragià maledetto: qualcosa faceva presagireche l’unità e il sentimento di apparte-nenza nazionale non si sarebbero costruitida un giorno all’altro. Soprattutto perun Paese giovane che poggia su fiumidi petrolio e miniere d’oro.

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Kim Jong-Un e Donald Trump a Singapore.

Accordo Usa e Corea del Nord

Un grande thriller, due consumatiistrioni, una platea planetaria. Loshow che per mesi ha tenuto il

mondo con il fiato sospeso per il rischiodi una guerra nucleare, non ha rispar-miato colpi di scena ad ogni puntata:dai test missilistici di Kim Jong-Un, aitweet di Donald Trump, dagli appelli dipapa Francesco per evitare una «terzaguerra mondiale a pezzi» alla mediazionedel presidente sudcoreano Moon Jae-in, dalle coreografie dei Giochi olimpiciinvernali di Pyeongchang agli alti e bassidelle borse internazionali, sempre sul

La strettadi mano diLa strettadi mano diSingapore

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

filo delle preoccupazioni degli altri Paesiasiatici, in primis Cina e Giappone per ilquadro geopolitico in trasformazione.Certo è che la data del 12 giugno scorso(nel giorno in cui veniva smantellato ilsito nucleare di Punggye in Corea delNord) è già entrata nella storia per lafirma del protocollo congiunto tra illeader nordcoreano e il presidente Trump.In pratica il summit è stato un successoinnanzitutto perché ha avuto luogodopo tutte le alterne vicende degli ultimimesi. A Singapore si è compiuta una ec-cellente operazione d’immagine per ledue co-star dell’evento che fino a pochigiorni prima rischiava di essere annullatoper le brusche dichiarazioni del presidenteamericano.

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Il 12 giugno scorso aSingapore DonaldTrump e Kim Jong-Unsi sono stretti le manisigillando un accordoche cambierà la storiae l’impianto geopoliticodel continente asiatico.»

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ATTUALITÀ

Insomma, la stretta di mano tra i duel-lanti sembra quasi il lieto fine di unaabile regia. Trump ha portato un buonrisultato a casa, alla vigilia delle elezionidi midterm; il dittatore coreano è al-l’apice della popolarità, essendo riuscitoa fare del suo Paese povero e isolato,una potenza nucleare in grado di trat-tare alla pari con le superpotenze delmondo. A ben guardare, è proprio luiil principale beneficiario di questa ope-razione, visto che in pochi mesi, daodioso despota di un popolo ridottoalla fame, si è trasformato in leadercredibile; è apparso al mondo comeuno stratega spregiudicato e lungimi-rante e, in quanto tale, diventato l’ago

della bilancia della geopolitica del con-tinente asiatico, corteggiato perciòdalle maggiori potenze. Senza lasciareniente sulla carta - a parte la vagapromessa della denuclearizzazione dellapenisola coreana - Kim ha ottenutoun impegno scritto da Donald Trump agaranzia della sua sicurezza e una di-chiarazione orale della sospensionedelle manovre militari e del ritiro delletruppe statunitensi dalla Corea del Sud.Da parte sua, Trump può vantarsi diaver ingaggiato un dialogo che potrebbechiudere l’ultimo capitolo della guerrafredda. Ad eccezione del Giappone,tutti lo hanno incoraggiato in questadirezione ma per ragioni molto diverse.

La Corea del Sud aspira alla riunifica-zione della penisola tagliata in duetronconi dal 38esimo parallelo. La Cinae la Russia considerano l’accordo diSingapore un’opportunità per ridurrela presenza americana in Asia orientale.Il Giappone resta a guardare comespettatore scettico, ma gli accordi com-merciali con l’Unione Europea sembranoaprire nuovi orizzonti e nuovi mercati.

TRATTATIVE NERVOSESettimane febbricitanti hanno prece-duto il faccia a faccia di Singapore.Poco più di due settimane prima, il 24maggio scorso, Trump ha annunciatoche non avrebbe partecipato all’incon-

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Al termine del summit diSingapore, i due leader

hanno firmano un documentocongiunto che prevede nuoverelazioni tra i due Paesi e ladenuclearizzazione dellaCorea del Nord.

Accordo Usa e Corea del Nord

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situazioni dei due Paesi e le politicheche gli Usa hanno scelto nei loro con-fronti. Così come inevitabile è stato ilgiudizio da parte dei commentatoriinternazionali della politica trumpianadei “due pesi e due misure”: più durocon l’Iran, con molte aperture versoPyongyang.Tant’è che da Teheran è partito un av-vertimento per la Corea del Nord: «Nonsappiamo con che tipo di persona KimJong-un abbia negoziato. Ma lui (Trump,ndr) potrebbe annullare l’accordo ancoraprima di essere tornato a casa». E certola posizione del presidente Usa neiconfronti di Teheran è il miglior richiamoalla prudenza per i nordcoreani che siapprestano a mettere in pratica i puntidell’accordo di Singapore. Se la denu-clearizzazione della Corea del Nord di-ventasse effettiva, bisognerebbe attivareun sistema di controlli internazionali,con visite di ispettori e tecnici in gradodi certificare lo stato delle cose, secondoquanto fu fatto dall’amministrazioneObama in Iran. La prospettiva del ri-congiungimento delle due Coree rap-presenta una ulteriore garanzia agliocchi americani che il Sud (alleatoUsa) vigilerà sulla correttezza del Nord.Sempre che il gioco non sfugga dimano a Trump e le due nazioni sorellenon decidano di fare insieme il giocoper loro più conveniente…Dopo i sorrisi e le strette di mano,arriva ora il momento di girare paginae mettersi al lavoro mentre la Cinaparla già dell’«inizio di una nuovastoria» e la Russia chiede «la creazionedi un forte meccanismo per la pace ela sicurezza». Malgrado tutto, la pru-denza non deve smorzare l’entusiasmo.Su tutto, risuona l’auspicio di papaFrancesco perché l’incontro di Singapore«possa contribuire allo sviluppo di unpercorso positivo, che assicuri un futurodi pace per la penisola coreana e per ilmondo intero».

smussando la durezza dell’attacco, comeè nello stile di Trump: «Un fantasticodialogo si stava sviluppando fra di noi.Un giorno ci incontreremo. Allo stessotempo, voglio ringraziarla per il rilasciodegli ostaggi che ora sono a casa conle loro famiglie. È stato un bel gesto,molto apprezzato». A poche ore di di-stanza arrivava la risposta da Pyon-gyang, attraverso le colonne dell’Agenziadi stampa del regime Korean CentralNews Agency (KCNA) che ribadival’apertura a ulteriori «colloqui con gliStati Uniti» da portare avanti «in qual-siasi momento, in qualsiasi forma» dan-do «agli Usa tempo e opportunità perriconsiderare i negoziati». Mentre i duecontendenti ricontrattavano il pacchettodei vantaggi reciproci, il presidentesudcoreano Moon Jae-in cominciavaad essere messo in secondo piano nellacontrattazione dell’accordo e nella me-diazione svolta durante la preparazionee lo svolgimento dei Giochi olimpicid’inverno dello scorso febbraio. Tra Kime Donald, la furbizia orientale e l’ir-ruenza affaristica statunitense (businessis business!) continuavano a sfidarsinel braccio di ferro all’ultimo rilancio.Finché non è stato trovato il puntod’accordo e Trump ha preso al volo lamano tesa del dittatore nordcoreano.

DUE PESI E DUE MISURELeggendo il comunicato di Singapore,è chiaro che si è aperto un processodifficile e delicato che dovrebbe durareanni. Ma per Trump è un grande suc-cesso “diplomatico” che lo riabilitadopo lo strappo con l’Europa all’ultimoG7 (8-9 giugno scorsi in Canada) suidazi e la salvaguardia climatica, masoprattutto dopo avere rotto il «peggioredegli accordi» del 2005 sul nucleare inIran. Il problema della reintroduzionedi sanzioni contro il governo del presi-dente Rohani e l’accordo di Singaporerendono inevitabile il confronto tra le

tro, con un messaggio che si aprivacosì: «Il mondo e la Corea del Nordhanno perso una grande opportunitàper una pace duratura o per una grandericchezza. E’ un momento triste per lastoria… Siamo stati informati che l’in-contro è stato richiesto dalla Coreadel Nord, ma questo per noi è irrilevante.Tristemente, sulla base dell’aperta ostilitàmostrata nelle ultime dichiarazioni, ri-tengo sia inappropriato in questo mo-mento tenere l’incontro». E rivolgendosidirettamente a Kim: «Lei parla dellevostre capacità nucleari, ma le nostresono così imponenti e potenti che ioprego Dio affinché non debbano maiessere usate». Il messaggio chiudeva

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FOCUS Finanza islamica

Quando si parla di finanza islamicala maggior parte delle personepensa che si stia trattando di fi-

nanziamento al terrorismo. Non è così.Si tratta di un’enorme massa di capitali,stimata oggi in circa 2.500 miliardi didollari, che sta assumendo un ruolo im-portante e crescente nel mondo della fi-nanza internazionale. La sua particolaritàè di essere coerente con i dettami del

Investimentisecondo CoranoInvestimentisecondo Corano

di PAOLO [email protected]

Cresce sempre di più il business legato al mondodelle banche islamiche che, nel rispetto dei principidel Corano in merito agli investimenti e al divieto diusura, hanno a che fare con 2.500 miliardi didollari. L’opposizione della finanza islamica neiconfronti di qualsiasi forma di speculazionefinanziaria e di operazioni basate sul rischio esull’eccessiva volatilità, fa di questi capitali unasolida massa di risorse economiche.

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che i giuristi islamici associano al concettod’indebito arricchimento in quanto rap-presenta una forma di guadagno nonprodotto dal lavoro.C’è poi la condivisione dei rischi e deiprofitti tra creditore e debitore; l’obbligodi collegare tutte le transazioni finanziarea un investimento o a un’operazione dieconomia reale in cui è impiegata qualcheforma di lavoro dell’uomo; l’obbligo disupportare economicamente solo le at-tività economiche e gli investimenti utilie moralmente accettabili (halal) e di

bandire le attività economiche considerateimmorali o peccaminose, tra cui quellelegate al gioco d’azzardo, alle droghe,alle armi, all’alcol, alla pornografia, alterrorismo e a tutto ciò che riguarda lacarne di maiale. Infine c’è il precetto difare investimenti leciti non basati sul ri-schio (gharār) e sulla speculazione (maysir),considerati come parte del gioco d’azzardo.Perciò non è permesso fare operazioniche operano sulla base della leva finan-ziaria, né l’utilizzo dei derivati e di tuttele altre forme di speculazione. Ad esempio,i fondi d’investimento islamici escludonoper statuto le società che hanno un rap-porto superiore del 30% fra debiti e ca-pitale sociale per evitare situazioni di ri-corso alla leva finanziaria per fare pro-fitti.Non deve sorprendere, quindi, che esistaanche lo Shari’ah Supervisory Board, unistituto preposto al monitoraggio degliinvestimenti effettuati da enti che rac-colgono il risparmio per reinvestirlo col-lettivamente nei progetti. È certo chemolti nababbi e certi grandi detentori dicapitali provenienti dallo sfruttamentodelle risorse energetiche del gas e delpetrolio o da altri settori in crescita,come quello del turismo, possano averorganizzato degli escamotage per by-passare i comandamenti del Corano.Forse ottenendo delle particolari dispenseda certe autorità religiose oppure affi-dando la gestione dei loro capitali a per-sone e a organizzazioni non islamiche.Ciò non dovrebbe stupirci, visto che neisecoli passati, quando le denuncia dellaChiesa contro l’usura era molto forte,tali “soluzioni” furono spesso sperimentateanche in Europa.Nonostante le tante possibilità offertedalla globalizzazione e dalla deregulation,molti settori della società musulmanaintendono, comunque, seguire i dettamidel Corano anche nelle proprie attivitàeconomiche. La finanza islamica è »

Corano che proibisce che il possesso el’uso di denaro possano produrre diret-tamente un profitto monetario. Infatti,la legge islamica in materia di finanza sibasa su pilastri precisi.Il primo è il dovere di devolvere partedei propri guadagni in carità (zakāt), ilcui pagamento è considerato una sortadi purificazione dalla tendenza all’accu-mulazione di soldi nelle mani di pochi.Segue il divieto di prestare denaro incambio di interessi monetari (il divietodel ribā) considerati una forma di usura,

Bandar Al Hajjar, presidentedell’Islamic Development Bank (IDB).

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FOCUSFOCUS

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S e tornerà la pace tra Eritrea ed Etiopia èancora presto per dirlo, dopo che quest’ultima

all’inizio del giugno scorso ha lanciato alla suavicina la proposta di applicazione dell’accordofirmato nell’anno 2000 e mai totalmente attuato.Ma la buona notizia è che qualcosa si è mosso,in un’area del Corno d’Africa da troppi anniafflitta da crisi di ogni tipo (guerre, ma ancheterribili carestie e importanti flussi di migrazioni).Una terra senza speranza, dove – secondo il rac-conto di un missionario che è stato recentementein Eritrea - i bambini già a pochi anni di etàhanno ben chiaro il loro più grande sogno, quellodi emigrare, e cercano di imparare a nuotarenelle pozze d’acqua perché – dicono – «da grandedevo attraversare il mare». Scene che lascianosenza parole e, allo stesso tempo, gridano pietà.«Se Addis Abeba e Asmara giungono a una nuovafase di mutua comprensione – scriveva su Avvenirel’8 giugno scorso Mario Giro, già viceministrodegli Esteri e della Cooperazione internazionale -molte conseguenze positive ne possono discen-dere». Non solo per i due Paesi in questione, maanche per la Somalia, in quanto l’intera zona, in-cluso il tratto di mare, è divenuta «una delle piùpericolose del pianeta». Il pericolo si chiama jiha-dismo, latente ma pronto a conquistarsi spazisempre maggiori in una situazione di stallo qualè quella che regna da anni in quest’area. «Se ter-mina l’antica guerra tra “cugini nemici” – spiegaMario Giro - vuol dire che ogni conflitto puòessere bloccato. Ci siamo tutti abituati al conflittoetiopico-eritreo, tanto da non ricordarne nemmenobene le ragioni. La separazione tra i due Stati e laloro incomunicabilità, viene presa come un datodi fatto, solo in pochi si cimentano ancora neltentare di farli parlare. Questa pace rappresente-rebbe una forte smentita a tale rassegnazione, lastessa con cui purtroppo si affrontano troppiproblemi internazionali». Insomma, se il processodi pace dovesse mettersi in moto, non c’è dubbioche i benefici sarebbero evidenti per l’interaAfrica Orientale. E, nel mondo globalizzato dioggi, anche per l’Europa.

di Chiara Pellicci

ETIOPIA CHIAMA.ERITREA RISPONDE?

OSSERVATORIO

GOODNEWS

nata negli anni Settanta del secolo scorso.Il sistema bancario ad essa collegato ècresciuto a un tasso annuo del 15% e ilsuo giro d’affari attuale è pari all’1% delmercato finanziario globale. Esso rap-presenta circa l’80% dell’intero sistemafinanziario islamico, che si stima possaraccogliere risorse pari a 3.500 miliardidi dollari entro il 2020.Le banche islamiche si distinguono no-tevolmente dalle banche occidentali. Adesempio, invece di concedere un mutuoper l’acquisto di una casa e riscuotere incambio un interesse sul prestito, la bancacompra direttamente la casa e poi laconcede in affitto al cliente, che s’impe-gnerà a versare le rate mensili più unacommissione sul servizio ottenuto. Quandoavrà pagato tutte le rate, il cliente di-venterà il proprietario della casa. Lostesso vale per tutti i contratti di leasing,che è per eccellenza un “contratto isla-mico”, in cui non si pagano gli interessima il noleggio o l’affitto del bene. Inparole più semplici, secondo la leggeislamica, chi ha dei capitali o anche deinormali risparmi non può depositarli inbanca e pretendere di ricevere degli in-teressi alla fine dell’anno. Per crescere ildenaro deve essere investito in attivitàconcrete e produttive.

PRODOTTI E CONTRATTI ISLAMICIIl sukkuk è la forma islamica alternativaal normale titolo obbligazionario. Chiemette delle comuni obbligazioni deve

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restituire il controvalore iniziale più iltasso d’interesse concordato. I sukkukinvece sono strutturati in modo tale chegli utili siano prodotti da un’attività sot-tostante e che i prestatori abbiano uncertificato di proprietà sulla stessa. Infatti,un investitore in sukkuk ha una quotacomune nella proprietà dei beni connessiall’investimento. Di conseguenza, i titolaridi tali bond hanno diritto non a un in-teresse ma a una quota dei ricavi generatidalle attività sottostanti. Partiti dallaMalesia negli anni Novanta, ad oggi nesono stati emessi per circa 300 miliardidi dollari. Dopo essere cresciuti negliStati mediorientali, stanno penetrandol’Africa e l’intera Asia.Molto attiva in queste operazioni è l’Isla-mic Development Bank (IDB) con sedein Arabia Saudita. Con le suddette ob-bligazioni partecipa al finanziamento dinumerosi progetti infrastrutturali in granparte dei Paesi africani. L’IDB sta studiandocon la Cina l’emissione di sukkuk conl’Asian Infrastructure Investment Bank(AIIB) e l’utilizzo di alti prodotti legatialla finanza islamica. Nel 2006 sono natii sukkuk convertibili in azioni. La con-versione può arrivare al 30% del capitaleazionario. I bond islamici convertibilistanno avendo un grosso successo neimercati europei.Il mudaraba è un contratto associativomisto, di lavoro e capitale, che permettedi mettere a frutto i capitali attraversooperazioni commerciali e di offrire fi-

La finanza islamica in osservanzadel Corano, vieta attivitàconsiderate immorali, come peresempio il gioco d’azzardo.

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Finanza islamica

LA FINANZA ISLAMICA IN ITALIA E IN EUROPAIn Italia la finanza islamica rappresentaun mercato potenziale notevole. Si stimache il risparmio dei cittadini musulmaninel nostro Paese sia di circa sei miliardidi euro. A ciò si dovrebbero aggiungere ipossibili finanziamenti dall’estero, a co-minciare dalla Malesia e dagli Stati delGolfo, che potrebbero diventare investi-menti in infrastrutture e in imprese ita-liane. L’Italia era partita nel 2007 con lafirma di un memorandum d’intenti tral’Associazione bancaria italiana (Abi), el’Ubae, la Lega delle banche arabe, pergettare le basi per una maggiore coope-razione, ma da quella data a oggi poco èstato fatto. Nel 2016 è stato presentatoun progetto di legge in Parlamento persuperare gli ostacoli all’espansione dellafinanza islamica che, in presenza di unanecessaria doppia transazione, è di con-seguenza penalizzata da una doppia tas-sazione.In Europa, invece, molti Paesi di matricenon araba – quali il Regno Unito, il Lus-semburgo, la Francia e l’Irlanda – hannogradualmente già adattato i propri or-dinamenti bancari al fine di poter com-

petere sul piano dell’offertadi prodotti finanziari islamici.Nel Regno Unito sono già fun-zionanti oltre 25 banche anorma con i principi etici isla-mici e nel 2013 la City ha in-cominciato ad emettere sukkuksovrani.L’opposizione ferma della fi-nanza islamica nei confrontidi qualsiasi forma di specula-zione finanziaria e di operazionibasate sul rischio e sull’eccessivavolatilità potrebbe diventareun alleato importante per chi,anche nel mondo occidentale,è stanco di vedere la finanzasenza regole e i mercati senzamoralità dominare il mondodell’economia, della politicae l’intera società umana.

L’uomo destinato a guidare sino al 2022 idestini della Colombia è Iván Duque Már-

quez, candidato del Centro Democratico, par-tito conservatore fondato dall’ex presidenteÁlvaro Uribe, eletto con il 53,9% dei voti.Da vedere, adesso, quali delle promesse pre-elettorali saranno mantenute da questo42enne avvocato economista, il più giovanepresidente del Paese sudamericano di sem-pre, il cui fratello minore, Andrés Duque, faparte della delegazione diplomatica colom-biana presso la Santa Sede.La speranza di tutti, a cominciare da papaFrancesco, è che Iván Duque possa mante-nere tutte le sue promesse di inclusione so-ciale e di creazione di posti di lavoro, miglio-rando sia la qualità dei servizi pubblici sanitarie di formazione, che l’apporto della societàcivile. Si è impegnato a ridurre la percentualedi povertà, ancora troppo elevata per una na-zione il cui Pil è raddoppiato nell’ultimo ven-tennio.Tutte le promesse in agenda aspettano com-pimento, meno quelle da lui fatte in meritoall’accordo di pace siglato dal suo predeces-sore Juan Manuel Santos dopo quattro annidi lunghi negoziati all’Avana, con la media-zione decisiva anche della Chiesa cattolica.Un patto di non belligeranza tra lo Stato su-damericano e le Farc, il gruppo guerriglierod’ispirazione marxista, che è riuscito a porrefine ad una guerra che in più di 50 anni avevacausato oltre 230mila morti ed almeno settemilioni di sfollati. Un accordo di pace i cui ri-sultati, del resto, si sono visti anche durantele ultime presidenziali, le sole elezioni dellastoria della Colombia che non abbiano fattoregistrare alcuna violenza.Speriamo che questo fatto inedito possa farrecedere Iván Duque dalle promesse di cam-pagna elettorale di «modificare gli accordicon le Farc», rischiando così di trascinare dinuovo il suo Paese in quella lunga scia di san-gue, oggi più che mai antistorica e disumana.

di Paolo Manzo

LE PROMESSEDI DUQUE PER LA COLOMBIA

OSSERVATORIO

AMERICALATINA

nanziamenti alle imprese. Con esso labanca conferisce il capitale all’impresache lo impiega per un dato investimentoo progetto, in parte per l’acquisizione dicapitale fisso e in parte per le esigenzeoperative. Da parte sua l’imprenditore vipartecipa con il proprio lavoro e attività.Il progetto deve essere realizzabile eavere una rilevanza sociale e una previ-sione di rendita economica favorevole,che sarà ripartita secondo le proporzionifissate nel contratto. In caso di difficoltà,le perdite sono sopportate solo dal fi-nanziatore (la banca) e la perdita del-l’imprenditore è limitata al suo sforzolavorativo.Nel contratto di musharaka la banca el’imprenditore costituiscono una societàanche con eventuali altri soci finanziatori.In questo caso l’imprenditore apportanon solo la propria capacità organizzativa,ma anche una quota di capitali e partecipasia agli utili sia alle perdite. Solitamenteè utilizzata per finanziare progetti d’in-vestimenti a lungo termine o d’importanzainternazionale. Si usa sia per il finanzia-mento di un’impresa (già esistente o dacostituire), sia come credito all’importa-zione o all’esportazione di merci.

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L’INCHIESTA Rifugiati in Uganda

prossimità, ndr); in parte è stata adottatauna precisa politica governativa. Questoè il Paese più “generoso” al mondo dalpunto di vista dell’accoglienza. Qui pro-fughi e sfollati godono degli stessi dirittidella popolazione locale, eccetto quellodi residenza». Hanno la libertà di spostarsi,di uscire dai campi di accoglienza eanche di cercare un lavoro sul territorio,se vogliono. I figli vanno a scuola, lorocoltivano la terra. Dal punto di vista

F ino ad un anno e mezzo fa questoera solo un tranquillo (e poveris-simo) villaggio nella savana del

Nord-ovest dell’Uganda brulla. Famiglienumerose, orti, case di argilla e paglia.Oggi è il secondo maggiore campo pro-fughi dell’Uganda. Quando è scoppiatal’emergenza guerra e fame dal vicino

In Uganda esiste un preciso programmagovernativo orientato all’accoglienza di chi scappada guerre e calamità. I campi non sono luoghicostruiti ad hoc per i profughi. È la popolazionestessa che si stringe per fare posto ai nuoviarrivati. Ma si tratta anche di una scelta che aiutaMuseveni a distogliere l’attenzione del mondo dalsuo crescente autoritarismo.

Sud Sudan, Bidi Bidi ha cambiato i con-notati. I rifugiati hanno passato il confinee in pochi giorni si sono ritrovati dall’altraparte: quella del Paese ospite.«In Africa quando i profughi bussanoalla porta c’è chi apre per davvero – ciracconta Laura Christine Okello, Hu-manitarian Emergency Coordinator diCaritas Uganda al telefono da Kampala– in parte è la filosofia africana del-l’Ubuntu (lealtà, aiuto e relazione di

di ILARIA DE [email protected]

Benvenutia Bidi BidiBenvenutia Bidi Bidi

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seveni. Alcuni ricercatori si sono chiesticosa ci sia dietro la sua generosa strategia.Ed hanno risposto che è proprio il cre-scente autoritarismo del regime ugandesead aver bisogno di questa agenda del-l’accoglienza. «Il Paese può essere definitoun regime democratico “ibrido” – scrivonoJulie Schiltz e Kristof Titeca per AlJazeera - Enfatizzare questa storia disuccesso (apertura ai rifugiati, ndr) con-sente a Museveni di divergere l’attenzionedalle tendenze semi-autoritarie del suoregime, come dimostrato dagli sforzifatti per abolire il limite temporale almandato presidenziale, trasformandolodi fatto in una presidenza a vita».Ma c’è un motivo ancora più interessante:mostrandosi agli occhi del mondo ge-neroso ed aperto verso i rifugiati, il pre-sidente può permettersi anche di «igno-rare l’appello internazionale che spingeper l’avvio di un’inchiesta indipendentesui comportamenti dell’esercito ugandesenel conflitto ad Ovest dell’Uganda», scri-vono i due ricercatori. Ed inoltre «lanarrazione dell’ospitalità consente al-l’Uganda di spostare l’attenzione da unaparte all’altra. L’obiettivo è evitare diindagare su una questione cruciale: ilsuo coinvolgimento nel conflitto sud-sudanese ed in particolare il sostegnofornito a Salva Kiir. Alle due osservazionise ne aggiunge una terza: il fatto chel’Europa, come già avvenuto con la Tur-chia, donando fondi a chi accoglie di-rettamente gli africani in Africa,

materiale le comunità, come è successoa Bidi Bidi, devono fisicamente farespazio ai nuovi arrivati, però: la terrabrulla cotta dal sole qui è diventato uncampo enorme ricoperto di tende e ba-racche. E all’inizio è stata dura per chigià c’era.

FARE SPAZIO AI NUOVI ARRIVATI«Ad ottobre 2016 quando sono arrivatii rifugiati, la vecchia comunità preesi-

stente di Bidi Bidi è entrata in conflittocon la nuova - spiega ancora ChristineOkello – C’era un problema di spazi: iresidenti hanno dovuto ridimensionarela loro presenza, stringersi e non è statofacile da accettare». Più banalmente, leinfrastrutture, l’accesso all’acqua, i centrisanitari e le scuole erano insufficienti ecosì i piccoli campi coltivati. La presenzadei rifugiati dal Sud Sudan aveva pro-vocato ulteriore mancanza di acqua ecibo. Sono intervenuti il World FoodProgramme, l’Unhcr, la Caritas, le ong epersino la Banca Mondiale, con la suaRehope strategy. Un po’ alla volta ledue comunità si sono incontrate. Ed in-tegrate. C’è da dire anche che i finan-ziamenti per i servizi ai rifugiati «vannopure a favore della comunità preesistente:scuola, sanità e cibo vengono assicuratiagli ugandesi tanto quanto ai nuovi ar-rivati», spiega ancora Okello.

OPEN DOOR NON È TUTTO ROSE E FIORIÈ un fatto che «nel West Nile, unaregione estremamente povera e giàsvantaggiata rispetto al resto dell’Uganda– ha spiegato di recente anche donDante Carraro, direttore del Cuamm-Medici con l’Africa - una popolazionedi 2milioni e 180mila persone sta acco-gliendo un milione di rifugiati, in manierapacifica. Mi sono trovato di fronte al-l’Africa che aiuta l’Africa, impegnata adare una casa a chi ha dovuto lasciarela propria. Ho visto un team di 40giovani ugandesi, tra medici, ostetriche,nutrizionisti e amministrativi, impegnarsicon entusiasmo in un progetto diffusoche vuole portare assistenza sanitariain 257 strutture, non solo per i rifugiati,ma per tutta la popolazione. Perchétutti hanno bisogno di aiuto e non sipuò aiutare chi scappa dimenticandochi accoglie».Questa è la politica chiamata “OpenDoor ”, delle “Porte Aperte”, adottatadal governo dell’Uganda nel 2006. Nonmancano però i risvolti critici rispettoall’insolita apertura del presidente Mu- »

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L’INCHIESTA

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Profughi in fuga dalla RepubblicaDemocratica del Congo, attraversano il lagoAlberto per approdare sulle coste ugandesi.

non fa altro che deresponsabilizzare sestessa rispetto al dovere di accoglienza.È il proseguimento della cosiddetta“esternalizzazione delle frontiere” e dellapolitica che tende a bloccare i rifugiatiin Africa anziché consentire loro di ar-rivare dove vogliono. In fondo con icampi profughi della Turchia è statofatto lo stesso: finanziamenti a pioggiain cambio di quote di rifugiati da tenerea bada. Peccato che le condizioni divita in Turchia non fossero ideali, cosìcome il permanere senza limite dei pro-fughi in Uganda non è una soluzionedefinitiva. Si tratta della normalizzazionedell’emergenza».

STORIE DI FUGA E RINASCITAÈ un fatto comunque, che mentre noiin Italia dibattiamo del respingimentodell’ennesima nave Aquarius e chiudiamoi porti ai migranti, nell’Uganda che con-fina con Kenya, Tanzania, Sud Sudan,Rwanda e Congo, ogni giorno entranotra le quattromila e le cinquemila per-sone, spinte dal bisogno di lasciare vitee situazioni ai limiti dell’umano. «Soloa Bidi Bidi ogni giorno entrano 1.500persone dal confinante Sud Sudan -dice Caritas Internationalis nel suo beldossier “Hope at Bidi Bidi refugee camp”-la gran parte delle quali arriva a piedi,stanca ed affamata, ed ogni famigliaha decine di bambini al seguito».Joseph Malis, ad esempio, viveva a Gi-mono, villaggio del Sud Sudan, assiemealla sua numerosa famiglia. Una notteil paesino è stato preso d’assalto eridotto in fiamme. Lui è scappato: hapreso moglie, figli (compresa la piccolaFlora di pochi mesi appena), ha caricatotutto su un carretto ed è arrivato alconfine con l’Uganda. A Bidi Bidi, 40chilometri all’interno, ha capito di esseredavvero in salvo.Secondo l’Unhcr a dicembre 2017 oltreun milione di profughi sudanesi eranoospiti nella regione del West Nile, nelNord Uganda, mentre 417mila personeerano rifugiate nei campi della regione

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cetto del rinchiudere esseri umani inspazi angusti e predomina invece l’ideadi ospitarli in zone già abitate e “servi-te”.«Ci sono degli accordi tra i governi, leagenzie delle Nazioni Unite e le comunitàlocali: ad ogni nucleo famigliare – spiegapadre Tonino – che arriva, viene datauna zappa, l’occorrente per coltivareun piccolo pezzo di terra davanti latenda o la casa e delle razioni di cibo».E così i “campi”, dice ancora il missionario,diventano una sorta «di sperimentazionedi convivenza: bisogna andare d’accordoper forza qui dentro, affinché regni lapace e non ci siano delle liti tra famiglie».Quando lo spazio è ristretto e le risorsepure, la gestione del conflitto diventauna necessità. E in effetti tante vitesono state salvate grazie alle PorteAperte. «È molto più pericoloso tornarea casa che restare qui», dice Viola Tabo,sudsudanese di 22 anni, a Caritas In-ternationalis.Originaria di Loka, un villaggetto nellaContea di Lanya, in Sud Sudan, Viola èstata costretta a scappare quando isoldati sono entrati a casa sua. Ha presocon sé suo figlio di cinque anni e ha at-traversato da sola e a piedi il confine,

arrivando a Bidi Bidi. Lei si èsalvata, otto membri della suafamiglia sono morti in Sud Su-dan. «Adesso lì è peggio diprima – racconta – qui inveceall’inizio è stata dura, non c’eracibo a sufficienza ma ora lecose vanno meglio». Per i rifu-giati le razioni di cibo sonoaumentate: prima ricevevanosolo un po’ di mais, fagioli eolio. Adesso le agenzie delleNazioni Unite e le tante ongfanno la differenza.Se l’Uganda non avesse godutodi questa libertà e avesse chiusole sue frontiere il destino perquesta gente sarebbe stato giàsegnato. In negativo.

Rifugiati in Uganda

di Gambella, nell’Ovest dell’Etiopia.Padre Tonino Pasolini, comboniano chevive ad Arua, nel Nord Uganda, ci rac-conta al telefono il meccanismo oramaiconsolidato dell’accoglienza “diffusa”in Uganda, dove manca proprio il con-

L e condizioni di vita di milioni di yemenitisono precarie. La guerra che da oltre

tre anni affligge questo Paese mediorientalee vede contrapporsi le potenze internazio-nali dell’area, come Arabia Saudita da unaparte e Iran dall’altra, non sembra averefine. Le ong denunciano una situazioneumanitaria al limite del collasso, ad unpasso dalla carestia. Secondo l’Oxfam treyemeniti su quattro (circa 22 milioni di per-sone) hanno immediato bisogno di assi-stenza e 8,4 milioni di persone non sannoda dove arriverà il loro prossimo pasto. In-somma, lo Yemen oggi è sinonimo di di-struzione, morte: in una parola inferno...Ma, nonostante tutto, il Golfo di Aden è tea-tro di migrazioni di centinaia e centinaia digiovani dell’Africa Orientale che cercano diapprodare in Yemen.Sembra una situazione paradossale. E, ineffetti, lo è. Perché lo Yemen non può cer-tamente essere un Paese dove sperare diapprodare. Eppure l’Organizzazione inter-nazionale per le migrazioni (Oim) denunciacontinui flussi di migranti in partenza dallecoste africane verso lo Yemen, punto piùvicino della penisola arabica, dove moltiagognano di arrivare con l’obiettivo di diri-gersi verso Nord, in cerca di lavoro nei Paesidel Golfo.Durante il viaggio «i migranti – spiega l’Oimad AnsaMed - subiscono abusi da trafficantie altri criminali, inclusi abusi fisici e sessuali,torture per ottenere un riscatto, detenzionearbitraria per lunghi periodi di tempo, la-voro forzato e persino la morte». Inoltre,una volta entrati in Yemen (ammesso chela traversata vada a buon fine) alcuni mi-granti «vengono coinvolti nel conflitto, su-biscono ferite o muoiono a causa di bom-bardamenti».Di fronte ad una tale situazione l’Oim haattivato un programma di rimpatrio volon-tario umanitario, per assicurare ai migranti– almeno al ritorno - un viaggio sicuro peri propri Paesi d’origine. Forse è questol’unico caso di ritorno dall’inferno.

di Chiara Pellicci

RITORNO DALL’INFERNO

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTE

Don Dante Carraro,direttore del Cuamm-Medici con l’Africa.

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L’integrazione al tempo dei Romani

N ella nostra tradizionale rubrica “Scatti dal mondo”, diamosempre risalto alle immagini dell’attualità, nella certezza

che esse rappresentano un modo efficace per raccontarequello che oggi avviene in giro per il mondo. Eppure questavolta abbiamo pensato che il presente non può affattoprescindere da quanto è avvenuto nel passato. Il riferimento èalla mobilità umana, una questione scottante, sempre più allaribalta in questo primo segmento del Terzo Millennio. Ebbene,tornando indietro nel tempo, abbiamo pensato, come redazionedi Popoli e Missione, che fosse necessario riflettere sullaStoria di Roma che duemila anni fa si trovò a dover fare i conti

con la vexata quaestio dell’integrazione di popoli all’internodei confini dell’Impero. Proviamo allora insieme ad entrare inuna sorta di macchina del tempo per comprendere cosa real-mente accadde.Lo spunto per sviluppare questa riflessione ci viene offerto dauna celebre strofa del De reditu suo (I, 52, 63) di ClaudioRutilio Namaziano: «[Roma] sospes nemo potest immemor

esse tui [...] | Fecisti patriam diversis gentibus unam…» («ORoma, nessuno, finché vive, potrà dimenticarti... Hai riunitopopoli diversi in una sola patria)». Si tratta di un virgolettatoestratto dal suo poema sulla decadenza dell’Impero Romanod’Occidente nel V secolo. Namaziano stava infatti facendoritorno dall’Urbe alla sua terra d’origine, la Gallia. Durante ilviaggio descrive una società in decadenza, contaminata dallenumerose popolazioni barbare ormai infiltratesi nel suo tessutoconnettivo, al contempo narrando le passate e ormai perdutebellezze di Roma. Dopo aver ricoperto la carica di Praefectus

urbi nel 414, s’imbarcò tre anni dopo a Portus Augusti pertornare in patria e in quella circostanza colse l’occasione perdescrivere il suo viaggio dalla foce del Tevere a Luni (anticacittà romana che si trova attualmente al confine tra Liguria eToscana). D’altronde, le vecchie strade consolari di terra eranoormai in rovina e malsicure, per cui non restava che costeggiareil Mar Tirreno per non correre il pericolo di finire nelle mani deibriganti.

S C A T T I D A L M O N D O

Raffigurazione della Battaglia di Adrianopoli (378 d.C.).

A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di GIULIO [email protected]

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LA ROMANIZZAZIONE DEI POPOLIOltre alla descrizione degli spettacoli naturali e ai ricordi eruditiche affiorano a ogni tappa del viaggio, sono notevoli nel poemal’amore per la bellezza e la grandezza di Roma, che egli avverte,quasi visceralmente, con animo pagano, avverso al cristianesimo.Sta di fatto che in una lunga apostrofe a Roma (I, 47-164),proprio nel verso 63 di cui sopra, Namaziano esalta la grandezzadell’Urbe come unica patria di genti di ogni terra: «Fecisti patriam

diversis gentibus unam». Roma, d’altronde – egli lo sapevabene - aveva dovuto confrontarsi, nella complessità geopoliticadi duemila anni fa, con realtà etniche, culturali e politiche assaidiverse tra loro, come quelle degli Etruschi, del mondo magnogreco,delle popolazioni Tosche dell’Appennino o dei Celti dell’Italia set-tentrionale, in quel complesso fenomeno di interscambio notocome “romanizzazione” (concetto questo a cui gli studiosi attri-buiscono un ventaglio diversificato di significati). Un’accolita,dunque, di identità e di alterità da integrare che l’Impero, a modosuo, era stato capace di assimilare grazie alla sua fortissimaidentità legata anche agli strumenti giuridici che la grande cittàegemone, Roma per l’appunto, adottò nel corso dei secoli.Ma possiamo allora identificare l’Impero Romano come unesempio vincente d’integrazione dei popoli? Se da una parte èvero che la cosiddetta Pax Romana era impositiva e di matricemilitare, di fatto essa realizzò un’assimilazione che si estese gra-dualmente, arrivando addirittura ad accettare che al trono imperiale

salissero personaggi provenienti da quasi tutte le province del-l’Impero. Come ha osservato pertinentemente il professorGiovanni Brizzi, ordinario di Storia Romana all’Università diBologna, «le classi dirigenti del mondo antico - etrusche,sannitiche, galliche o orientali - tendono ad accettare la propostache viene da Roma centralizzata di diventare consortes imperii.Parliamo così di un’assimilazione che si preoccupa soprattuttodelle classi dirigenti e questo crea una coesione di interessi e diobbiettivi comuni che discendono in tutti gli aspetti della societàcivile. La struttura politica del mondo antico è tendenzialmentearistocratica»1.In effetti, a pensarci bene, anche oggi le oligarchie finanziarietransnazionali – da quelle radicate nella City londinese, a quellelegate alle Petromonarchie del Golfo – hanno questa valenzaanche se poi esercitano un potere per certi versi più spregiudicatoall’insegna della massimizzazione dei profitti scavalcando la Res

publica dei popoli. Viene spontaneo domandarsi a questo puntose Roma sarebbe stata in grado di integrare al proprio interno(allora ancora non esisteva) il vasto areopago islamico, con lesue molteplici componenti culturali. Trattandosi di un monoteismo,le difficoltà non sarebbero certamente mancate soprattutto se siconsidera, per analogia, che lo stesso Namaziano, durante il suoviaggio, nel De reditu suo approfittò per tracciare alcuneosservazioni sulla sua epoca e sui cambiamenti dei costumi. In-nanzitutto la diffusione rapida del cristianesimo.

LA STORIA INSEGNA

»

“La distruzione dell'Impero romano”,opera del pittore Thomas Cole, 1836.

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LIBERTÀ DI CULTOBenché i fedeli del Nazareno fossero beneficiari della legge dilibertà di culto indetta da Costantino, per Namaziano appaionocome gente rozza e ignorante che vive nelle catacombe «al difuori della luce», seguendo le strane dottrine dei propri pastori. Èevidente che il monoteismo della cristianità entrava palesementein conflitto con il politeismo teocratico dello Stato, negando ladivinità dell’imperatore. Le persecuzioni nei confronti della Chiesadei primi secoli, anche dopo Costantino, ebbero questa valenza.Sta di fatto che la caduta dell’Impero fu certamente causata dauna molteplicità di fattori. L’attenzione degli storici si è rivolta, adesempio, alle cause economiche. A causa della vastità delterritorio, crebbe la spesa per amministrare e difendere l’Imperoe vennero introdotte tasse sempre più gravose. Ciò danneggiò ipiccoli e medi proprietari terrieri che non poterono più pagarle efurono costretti a vendere i propri possedimenti. Fu lo storicorusso Michail Rostovcev (1870-1952) che dedicò un importantelavoro alla Storia economica e sociale dell’Impero Romano, sot-tolineando con forza la decadenza dell’economia. Altri studiosihanno invece rilevato gli aspetti dovuti al mantenimento della Pax

Romana, che richiedeva la presenza di numerose e ben addestratelegioni. Il reclutamento dei soldati gravava sull’agricoltura, perchésottraeva braccia al lavoro nei campi; le spese per arruolare e

mantenere i soldati erano molto elevate; per fare fronte alle speseera necessario aggravare la tassazione; il peso delle tasseprovocava il malcontento della popolazione. Per non parlare diquanto scrisse Ammiano Marcellino, nel suo Rerum Gestarum

Libri2, in cui racconta di come, verso la fine del IV secolo d.C.,l’Impero Romano fu costretto a misurarsi con una crisi umanitariasenza precedenti, quella dei profughi Goti: era l’anno 376. Incondizioni di estrema emergenza, questo popolo in fuga dagli

S C A T T I D A L M O N D O

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“La Visione della Croce”, uno degli affreschi che decorano la saladi Costantino, all'interno delle Stanze di Raffaello (Musei Vaticani).

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Unni venne fatto entrare nell’Impero. Purtroppouna serie di eventi mandò in blocco il sistemadi accoglienza. L’operazione umanitaria venne,infatti, gestita in modo corrotto dai generaliromani che intravidero la possibilità di intascaregrossi profitti in nero, costringendo i Goti apagare le razioni che avrebbero dovuto esseredistribuite gratuitamente e per cui il governodi Roma aveva peraltro stanziato i fondi. A ciòsi aggiunse un mix di incompetenza e mancatapercezione dell’inizio di un nuovo fenomenomigratorio di massa che avviò, inesorabilmente,la civiltà romana al suo tramonto.

LA STORIA MAESTRA DI VITAE dire che molti dei Goti erano già benintegrati ed avevano acquisito la cittadinanzaromana. Addirittura alcuni erano diventatilegionari e venivano mandati in giro per l’Im-pero a difenderne i sacri confini. Improvvi-samente, però, la disastrosa gestione del-l’ingresso dei Goti (noi diremmo oggi di«nuovi immigrati») provenienti da Orientesegnò l’inizio della fine. Dopo essere entratiin gran numero nell’Impero e aver subitoabusi eccessivi da parte delle autorità, i Gotisi ribellarono. La conseguenza fu la sangui-nosa battaglia di Adrianopoli (378 d.C.) concui sconfissero l’imperatore Valente.Come si vede, un avvenimento importante come la caduta del-l’Impero Romano può essere studiato da molti punti di vista esotto differenti aspetti storiografici. E se da una parte è vero cheil mondo romano di allora era molto diverso dal nostro - ledonne, ad esempio, erano escluse dai giochi politici, anche sealcune di loro esercitavano parzialmente il potere dietro le quinte– dall’altra è evidente che la Storia è sempre e comunquemagistra vitae. E sì, perché l’integrazione è un fenomeno estre-mamente complesso in cui lo Stato di Diritto è chiamato asvolgere un ruolo di mediazione nella gestione dei flussi migratori.Fino a quando Roma è stata in grado di farlo, lo Stato ha tenuto;nel momento in cui si è innescato un decadimento del suosistema di governo, il governo imperiale d’Occidente è imploso.Ecco che allora, oggi, in un mondo fortemente globalizzato subase economica e non politica, il rischio, sempre in agguato, èla tendenza a identificarsi nei microcosmi, nelle piccole realtàquasi di quartiere, parcellizzando a dismisura il tessuto sociale.Un tema, questo, che si inserisce a pieno titolo nell’attualedibattito europeo che sempre di più ruota, con modalità ossessive,intorno a parole chiave come identità, appartenenza, radici giu-daico-cristiane, globalizzazione, internazionalismo, nazionalismi,regionalismi e chi più ne ha, più ne metta.

In questa prospettiva, inutile nasconderselo, la sfida, prim’ancorache essere sociale, politica od economica, è culturale. Secondouna recente indagine dell’Europarlamento3, il 69% dei cittadinieuropei ritiene che le misure d’integrazione dei migranti nellesocietà del Vecchio Continente siano un investimento necessarionel lungo periodo e una percentuale analoga considera l’integrazioneun processo bidirezionale per i migranti e per le società ospitanti.L’indagine, tra l’altro, rileva che solo una minoranza dei cittadinieuropei ritiene di essere ben informata sui temi della migrazionee dell’integrazione. I cittadini europei tendono anche a sopravvalutarela presenza nel proprio Paese di migranti provenienti da Paesiterzi: in 19 Stati membri, la quota effettiva di migranti extra UEcorrisponde alla metà, o meno, della loro quota stimata. E allorase la Storia è maestra di vita, l’informazione rappresenta davverouno strumento per contrastare il pressappochismo dei benpensanti,quelli dell’odierno Basso Impero.

1 http://www.ilgiornale.it/news/roma-imperiale-patria-modello.html2 http://lastoriaviva.it/quanto-sei-barbaro-parte-1-fine-dellimpero/3 http://www.integrazionemigranti.gov.it/Attualita/Notizie/Pagine/L-integraz-

ione-dei-migranti-nell-Unione-Europea.aspx

LA STORIA INSEGNA

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Il viaggio di Rutilio Namaziano verso la Gallia

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Estate, tempo di viaggi. Per chi sceglie di fare di

questo periodo unaesperienza di fede, di

conoscenza o di scoperta dimondi e culture diverse, non

mancano le occasioni diconoscere non solo luoghima soprattutto persone estili di vita lontani (anchenon in senso geografico)

dalle leggi della quotidianità.

F ratel Antonio Soffiantini è un missionario laico comboniano che ha vis-suto a lungo nel Nord-est del Brasile, negli Stati del Maranhão e del Parà.

Ora è in Italia e si occupa di organizzare i viaggi missionari, un modo per co-noscere persone, stili di vita e Paesi molto diverso dal modello standard delturismo tradizionale. «I nostri sono giovani dai 20 ai 30 anni. Sentono il bi-sogno di scoprire come si svolge la vita nelle missioni. Vanno in Asia, Afri-ca ed America Latina. I soggiorni durano dalle tre settimane ad un mese, nonmolto tempo, ma l’incontro con una realtà tanto diversa da quella occiden-tale è una esperienza intensissima e coinvolgente» racconta fratel Antonio.«Di recente – continua il missionario – abbiamo avuto un gruppo che è sta-to in Guatemala ed El Salvador. Al ritorno, i partecipanti volevano condivide-re la memoria della loro straordinaria avventura e così si è deciso di organiz-zare una mostra fotografica. La raccolta delle immagini ha ruotato intorno alcammino dell’arcivescovo Óscar Romero ed a tre parole chiave: vita, san-gue e resistenza. Vita, perché anche nelle enormi difficoltà le persone incon-trate non erano mai passive. Sangue, perché la violenza delle diseguaglian-ze sociali e delle discriminazioni contro i più deboli in quei luoghi è incom-mensurabile. Resistenza, perché la voglia di riscatto e cambiamento da quel-le parti si respira nell’aria».

Viaggiatori,non turistiViaggiatori,non turisti

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città, musei e animali, ma anche le perso-ne con la loro lingua, i loro sogni, le loro abi-tudini».Annis rappresenta Kel 12, un tour operator

per il quale da 40 anni al centro ci sono i viag-giatori e non il viaggio. Nel sito della socie-tà si spiega come verso la fine del secoloscorso solo in pochi si avventuravano fuo-ri dalle rotte conosciute. Ad osare erano «ro-mantici, nomadi, che rispondevano adun’esigenza personale. Non c’erano telefo-ni, bussole satellitari, assicurazioni. Si erasoli con il viaggio e con un senso dell’an-dare che lasciava ampi margini all’imprevi-sto. Il Sahara era la patria della libertà. Po-chi confini, da attraversare senza neancherendersene conto e dogane che erano con-

tainer piazzati nel vuoto». I viaggi “tradizio-nali” prevedono un programma rigido ed unaccompagnatore. Il contatto con gli “stra-nieri”, se non è scoraggiato, è comunque unaparte marginale dell’escursione. A volte puòcapitare di assistere a rappresentazioni fol-kloristiche, non di rado improbabili, nelle qua-li gli indigeni indossano costumi tradiziona-li ed eseguono le danze della tribù. »

le raggiungere il traguardo senza intralci, nelminor tempo possibile. Il viaggiatore inve-ce segue la strada, si lascia trasportare dal-le emozioni e dal mistero della conoscen-za, è disposto a sconvolgere i piani se qual-cosa o qualcuno cattura la sua attenzione.Il viaggiatore non ha fretta, va dove lo por-ta il cuore.Ci sono ancora altri modi per girare il mon-do per trovare in se stessi più ampi motividi riflessione. «Viaggiare significa andare allaricerca di etica e di estetica. I viaggi solida-li sono un cammino verso la bellezza dei luo-ghi e della natura, ma anche uno slancio indirezione della conoscenza. Delle personee della cultura di altri popoli. Niente a che farecol turismo». Piergianni Annis ne è convin-to e il suo lavoro consiste nell’organizzaretour per persone molto curiose. «Adesso stocollaborando con gli americani del National

Geographic – aggiunge - ed è una esperien-za nuova, molto interessante. Vogliamomettere in contatto i viaggiatori non solo coiterritori, con l’arte, la storia o i monumen-ti, ma soprattutto con chi nei posti da visi-tare ci vive. Insomma, non solo paesaggi,

Chi si avventura in questa prova partecipaalla vita di una comunità, per aiutare e so-stenere chi si impegna per i bambini, le fa-miglie svantaggiate, i malati. Si realizza cosìun percorso non da “esterno”, ma da pro-tagonista. Laura Biolcati è una lavoratrice eda Milano ha sentito il desiderio di andarein Etiopia per aiutare il personale di un or-fanotrofio di Addis Abeba. Arrivata nella gran-de città africana, l’avventura è cominciata:«Sami è venuto a prendermi per il mio in-

duction day. Devo ammettere che nonavevo idea di cosa mi aspettasse. Ma eraincredibile. Persone, macchine, pecore,capre, asinelli, polvere e cose ovunque. Ilcaos mi ha fatto sentire incredibilmente viva!Addis mi ha conquistata immediatamente.Abbiamo visto così tante cose in poche oreche alla sera ero veramente esausta, ma lagiornata era stata davvero bella e piacevo-le. Sami è un’ottima guida, ma… occhio aisuoi scherzi».

IL VIAGGIATORE NON HA FRETTAEsiste una differenza fra turista e viaggiato-re. Il turista ha un obiettivo, una meta, e vuo-

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NO AL TURISMO DI MASSAIl turismo di massa non è interessato al quo-tidiano, ai sentimenti, alla dimensione esi-stenziale dei popoli. Si naviga su gigante-sche navi dotate di ogni confort, si va in stan-ze d’albergo super accessoriate, si è ospi-tati in suite nelle quali i frigobar potrebbe-ro sfamare la famiglia di un villaggio dellaforesta amazzonica per un mese. «Noi nonfacciamo accompagnare i nostri clienti daguide, ma li affidiamo a corrispondenti lo-cali – spiega Annis – formati apposta perfare questo lavoro». Nel turismo solidale,quindi, non c’è l’aria artefatta del villaggio-vacanze, la toccata e fuga di un week-end

tutto compreso, ma piuttosto si cerca cre-scita, maturazione, empatia. E si sviluppa-no professionalità specifiche per il persona-le in loco. La proposta di Kel 12, come quel-le di chiunque lavori nel mondo del turismosolidale, è ben definita: «Il nostro viaggio nonè una rapida, seppur emozionante, visionedei luoghi; non è la visita, spesso banale efrettolosa, ad un villaggio. Il nostro viaggioè ricerca di incontro con la natura, la sto-ria, l’arte: incontro con l’altro, il diverso, daconoscere e rispettare. Questa è la filoso-fia che ci accompagna e che ci ha fatto ar-rivare tanto lontano. Lo spirito è sempre lostesso; stessa voglia di andare e scoprireun pianeta in eterno divenire, con l’occhioattento a tutto ciò che cambia. Stessa at-tenzione alle prestazioni, ai dettagli, alle esi-

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genze dei nostri viaggiatori che hanno fat-to di noi ciò che siamo e che tracciano, in-sieme a noi, il nostro futuro».

VIAGGI SPECIALIAi viaggi missionari e solidali si deve aggiun-gere una terza possibilità. La sete di cono-scenza e la curiosità in un mondo semprepiù interconnesso trovano modo di esserevissute anche per chi è portatore di handi-

cap. Oggi sono possibili occasioni di viag-gio che permettono di affrontare ostacoli finoa qualche anno fa insuperabili.Maximiliano Ulivieri, colpito dalla malattia diCharcot-Marie-Tooth, una patologia neuro-logica molto rara, ha ideato il progetto “Di-versamente Agibile”. L’idea parte da un pre-supposto semplice: nessuno può recensi-re un servizio meglio di chi ne usufruisce.«Quando ti muovi, anzi non timuovi in una sedia a rotelle,affrontare un viaggio destasempre preoccupazione - rac-conta Federica -. Se poi comedestinazione scegli l’Africa,precisamente un’isola comeZanzibar, e magari un lodge

come l’Hakuna Majiwe diret-tamente sulla sabbia, dove ap-parentemente niente è idoneo,serve un gran coraggio. Madopo tanti viaggi in quelloche non so perché chiamano

Nelle pagine 27-28:Alcune immagini della mostra fotografica cheracconta il viaggio missionario di un gruppo digiovani in Guatemala ed El Salvador.

Crediti:Colombo Marco, Annaelena Troiano, Laura NabergoiPer informazioni mostra:[email protected]

il mondo civile, assaporare l’Africa era unsogno e arriva un momento nella vita in cuiti dici che è arrivato il momento di viverlo».Così grazie al sito/blog diversamenteagibi-le.it nel quale sono raccolte le esperienze dipersone disabili, con reportage scritti, fo-tografici e filmati, la ragazza ha potuto tra-sformare il desiderio in realtà. Federica ri-corda: «Prima della partenza abbiamo con-tattato Stefano, il direttore dell’Hakuna Ma-jiwe, che ci ha illustrato lo stato dei luoghie rassicurato sul fatto che avrebbe fatto ilpossibile per rendere accessibile almeno lazona dei servizi principali. Ha fatto molto dipiù del possibile: pedana di collegamentocamera-ristorante-zona bar; rampa di acces-so ai servizi e alla camera; come un ange-lo custode ha diretto, seguito e si è mate-rialmente adoperato perché ogni escursio-ne fosse possibile: uscite in barca, al mer-cato, in città. In poche parole ha reso pos-sibile un sogno in un luogo da sogno».Quando razzismo, xenofobia, paura per chiappare diverso da noi sembrano dilagare,il viaggio diventa un formidabile antidoto con-tro le discriminazioni. Ed i viaggi solidali, quel-li missionari, le opportunità per chi soffre dimalattie invalidanti sono esempi di come sipossa sempre fare di più per costruire unmondo a misura d’uomo.

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DENTRO LE MURA DELLE ENCLAVE

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Isola di Curzola, Croazia.

Giro del mondoattraverso leisole della storia

LA GEOPOLITICA SI LASCIA DIETRO PICCOLI PEZZI DI UNPAESE ALL’INTERNO DI UN ALTRO, SEDIMENTAZIONI DELLASTORIA CHE NON POSSONO NON CREARE DIFFICOLTÀ ORESTRIZIONI AGLI ABITANTI. QUESTI TERRITORI SONO LEENCLAVE E HANNO LA CARATTERISTICA MOLTO SPECIALEDI NON SOMIGLIARSI TRA LORO. VEDIAMO IN QUESTODOSSIER QUALI SONO E DOVE SI TROVANO.

di Mario [email protected]

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L e enclave sono deiterritori di dimen-

sioni piuttosto ridotte,isolati completamentedallo Stato al quale ap-partengono, in quantodal punto di vista geo-grafico sono collocatenel territorio di un altroStato sovrano. In geo-grafia politica, il terminederiva dal francese en-claver, ovvero “chiuderecon una chiave”, e de-

finisce una regione inte-ramente compresa allʼinterno di uno Stato, cheperò appartiene ed è governata da un altro Paese.Viceversa, la parte di territorio di uno Stato sovranoche giace allʼesterno dei confini della proprianazione si chiama exclave. Il termine “enclave lin-guistica” viene spesso utilizzato come sinonimo diisola linguistica territoriale. Esistono vari tipi di en-

clave: quelle socio-economiche si trovano soprattuttonei Paesi in via di sviluppo e sono caratterizzateda forti disparità al di qua e al di là delle frontiere;quelle culturali, etniche o religiose si sono costituiteper ospitare gruppi con lingue, religioni e culturediverse da quelle dominanti; le enclave legali sonoquelle delle ambasciate e dei consolati; le città“porto franco” sono zone aperte agli scambi, senzaadempimenti fiscali, spesso meta di turismo avolte veri e propri “paradisi fiscali”. Ma vediamo,nella diversità delle storie e degli interessi che nehanno determinato la nascita, quali sono le enclavenel mondo.

KALININGRADIncuneata tra la Polonia e la Lituania, questa cittàvenne assegnata nel 1945 allʼUnione Sovietica.Kaliningrad (in tedesco Königsberg) è una cittàdella Federazione Russa, quindi un enclave russatra Polonia e Lituania con accesso al Mar Baltico,di cui è uno dei maggiori porti. Ha unʼestensionedi 15.100 chilometri quadrati e una popolazione di

Don Mario Bandera.

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circa un milione di abitanti. Prima la città appartenevaalla Prussia orientale, regione persa dalla Germaniaa causa della sconfitta nella Seconda guerra mon-diale, famosa per aver dato i natali al filosofo Em-manuel Kant. In seguito allʼadesione della Poloniae della Lituania allʼUnione Europea, lʼenclave diKaliningrad è stata al centro di negoziazioni diplo-matiche tra la Russia e lʼUnione. In effetti, con gliaccordi di Schengen, le frontiere dellʼenclave dalluglio 2003 sono diventate frontiere esterne del-lʼUnione Europea, rendendo difficili i collegamentidiretti da Kaliningrad verso il resto della Russia.

CEUTA E MELILLACeuta e Melilla, rispettivamente 74mila e 68milaabitanti, sono due città spagnole situate nel NordAfrica, circondate totalmente dal Marocco e situatesulla costa del Mar Mediterraneo vicino allo strettodi Gibilterra. Per i migranti provenienti dallʼAfricasub-sahariana, Ceuta e Melilla hanno rappresentatonegli ultimi decenni le porte dʼingresso per laSpagna e lʼUnione Europea. Per questo le due

La città di Kaliningrad, tra Polonia e Lituania,dal 1945 fa parte della Federazione Russa.

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città sono state separate dal territorio marocchinoda una doppia rete metallica alta inizialmente tremetri e poi raddoppiata a sei, lunga 9,7 chilometriintorno a Ceuta e 8,2 chilometri a Melilla, recinzionicostruite rispettivamente nel 1997 e nel 1998. Nel1995 lo Stato spagnolo accordò a Ceuta (19 chilo-metri quadrati) e Melilla (12,3 chilometri quadrati)lo statuto di autonomia. In altri termini, i due expresìdi diventarono delle entità territoriali dotate diautonomia legislativa e di larghe competenze ese-cutive.

GIBILTERRASpeculare a Ceuta e Melilla, sulla sponda oppostadel Mar Mediterraneo, si trova Gibilterra, coloniabritannica situata allʼestremità meridionale dellapenisola iberica, dove il Mar Mediterraneo siincontra con lʼOceano Atlantico. Per gli antichigreci e romani questa rocca calcarea, alta 426metri, con scogliere a strapiombo sul mare, erauna delle due Colonne dʼErcole che, insieme aquella di Jebel Musa in Marocco, segnava il confinedel mondo antico. Successivamente conquistatodalla Spagna, questo avamposto fu ceduto agli in-glesi nel 1713. Oggi Gibilterra è unʼincredibile cittàcosmopolita dove si intrecciano culture, storie emiti del Mediterraneo, sedimentatisi lungo i secoliin questa singolare enclave del Mediterraneo. »

La recinzione metallica che divide il Maroccodall’enclave spagnola di Melilla e Ceuta.

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LA REGIONE RAGUSEO-NARENTANA(CROAZIA)È una regione della Croazia meridionale. Occupala parte sud della Dalmazia (con la penisola diSabbioncello e le isole di Curzola, Meleda eLagosta), confina ad Est con la Bosnia Erzegovinae a Sud con il Montenegro. Capoluogo dellaregione è Ragusa. Gran parte della Regione ragu-seo-narentana costituisce una exclave, in quantonon vi è continuità territoriale con il resto dellaCroazia. La terraferma croata viene difatti tagliataallʼaltezza della cittadina di Neum, per dare unastriscia costiera di pochi chilometri che costituiscelʼunico sbocco al mare della Bosnia Erzegovina.Per ovviare a questo problema è in costruzione unponte di 2.300 metri che collegherà la città diPorto Tolero con la penisola di Sabbioncello,unendo così lʼintero spazio geografico della zona.

KOKKINA (ISOLA DI CIPRO)Kokkina è un piccolo insediamento costiero dellʼisoladi Cipro, amministrato dallʼautoproclamatasi Re-pubblica Turca di Cipro del Nord, che attualmentefunge da campo militare. Il censimento del 1960quantificò la popolazione in 300 persone, tutte ap-partenenti alla comunità turco-cipriota. Nonostantelʼintervento militare turco nel Nord dellʼisola, il suo

Il campo profughi di Jabaliya, nel Nord della Striscia di Gaza.

Possiede una caratteristica tutta particolare: èlʼunico territorio dellʼEuropa continentale dove leauto viaggiano sulla corsia sinistra della stradasecondo le regole stradali inglesi.

LA STRISCIA DI GAZANellʼestate del 2007 la Striscia di Gaza fu attra-versata dalla lunga (e sanguinosa) sommossadel Movimento di Resistenza Islamica, che inpoche settimane prese il potere nellʼenclave pa-lestinese dopo una resa dei conti senza esclusionedi colpi fra i sostenitori del gruppo e quelli rivali diAl Fatah. Il bilancio fu drammatico con morti eferiti da ambo le parti. Oggi il contesto socio-eco-nomico in cui versano quasi due milioni di pale-stinesi è peggiorato rovinosamente. La quotidianitàdei gazawi, i più colpiti dalla paralisi in cui è pre-cipitato il processo di pace israelo-palestinese, ècaratterizzata da continue restrizioni: nella Strisciascarseggiano cibo, medicine, acqua potabile.Lʼelettricità, quando cʼè, è solo per due ore algiorno. La crisi energetica colpisce un territoriogià devastato: a Gaza le infrastrutture sono fati-scenti, quando non ridotte a cumuli di macerie.La disoccupazione ha superato il 40%. Quellagiovanile, invece, è oltre la soglia del 60% (datiOnu).

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territorio è tuttora separato dal resto della RepubblicaTurca di Cipro del Nord di cui forma così unʼexclave.Ogni anno, secondo i rapporti del contingente Onuavvengono ancora circa un migliaio di incidenti,da semplici provocazioni verbali a veri e propricolpi di artiglieria.

BAARLE-HERTOG / BAARLE-NASSAU(BELGIO - OLANDA)Il confine più curioso dʼEuropa è certamente quelloche intercorre tra Baarle Hertog e Baarle Nassau.Questa cittadina, caso unico in Europa, viene de-nominata Baarle-Hertog, quando si sta in Belgio,e Baarle-Nassau, quando si sta in Olanda.Il confine che separa il Belgio dallʼOlanda nondivide la città con una linea di demarcazione con-tinua, ma a “macchia di leopardo” oppure comeun puzzle molto complicato. Il comune belga Ba-arle-Hertog, di 7,5 chilometri quadrati, è compostodi 24 exclave che si trovano nel comune olandese,e alcune di queste contengono al loro interno delleenclave olandesi (sette per la precisione). Laregola è che la nazionalità delle persone dipendeda dove si trova la porta della loro casa. Esistono,infatti, due municipi, due uffici postali, due polizie,ecc. La storia dellʼenclave di Baarle-Hertog risaleal Trattato di Maastricht del 1843, che stabilì lafrontiera tra il Belgio e i Paesi Bassi. Baarle-Hertogè indubbiamente il paese ed il confine tra Stati piùcomplicato dʼEuropa.

CABINDA (ANGOLA)Lʼenclave di Cabinda è la più settentrionale provinciadellʼAngola, che si affaccia sullʼOceano Atlantico esi estende per 7.300 chilometri quadrati tra Con-go-Brazzaville e Repubblica Democratica del

Congo. Lʼex possedimento portoghese è abitatoda circa 700mila persone, fornisce il 60% delpetrolio angolano, ma langue nellʼoblio socio-eco-nomico. A partire dalla seconda metà del XVIIsecolo, Cabinda divenne un importante centro delcommercio degli schiavi africani. Nel 1783 i porto-ghesi costruirono un forte. La situazione politicadellʼarea fu definita dalla Conferenza di Berlino delnovembre 1884, nella quale le potenze europeeprocedettero alla cosiddetta “spartizione dellʼAfrica”.Il 12 maggio 1886 Francia e Portogallo definironoil confine tra Cabinda e lʼodierna Repubblica delCongo. Retaggio di questa lunga trattativa è lʼim-portante corridoio verso lʼOceano Atlantico, cheancora oggi separa Cabinda dal resto dellʼAngola,facendone una exclave.

LA PENISOLA DI MUSANDAMIl governatorato del Musandam è uno degli 11 go-vernatorati dellʼOman, situato nellʼomonima penisola.Si tratta di unʼexclave separata dal resto del Paese,e consente allʼOman di avere il controllo sulloStretto di Hormuz. Visto dallʼalto, il Musandamsembra appeso a un lembo degli Emirati Arabiche lo separa dal resto dellʼOman. La navigazionesi spinge fino allʼisola di Musandam, posta dallanatura a guardia di baie nascoste e protette damontagne e blocchi di pietra come balconi. Curio-samente, in questo caso unʼenclave può a suavolta contenerne unʼaltra, infatti a Musandam è in-serita Madha, unʼenclave degli Emirati Arabi ap-partenente allʼOman e dove al suo interno si trovalʼenclave Nahwa, territorio degli Emirati Arabi. Al-lʼOman appartiene la Penisola del Musandam, ex-clave negli Emirati Arabi che chiude il Golfo Persico:un vero e proprio rebus. »

La linea di frontiera tra Baarle Hertog(Belgio) e Baarle Nassau (Olanda)tracciata sul marciapiede. La città di Cabinda.

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IL LESOTHOIl Lesotho è una enclave del Sudafrica, collocatain mezzo al sistema montuoso dei Drakensberg,la principale catena montuosa dell̓ Africa meridionale.È lʼunico Stato indipendente nel mondo a trovarsiinteramente sopra quota mille metri sul livello delmare. Il Regno del Lesotho è una enclave politicae amministrativa indipendente, collocata allʼinternodel territorio della Repubblica del Sudafrica ed èpertanto uno Stato senza sbocco sul mare. NelXVIII secolo diventò un protettorato della Coloniadel Capo (e quindi della Gran Bretagna) e dopo il1910 del Dominion del Sudafrica, in cui la coloniavenne inclusa. Il Lesotho, comunque, non divennemai parte del Sudafrica, anche grazie alla suacompattezza territoriale ed etnica. Nel 1966 ilLesotho divenne membro indipendente del Com-monwealth, costituendosi come monarchia costi-tuzionale.

DISTRETTO DI OECUSSE (TIMOR EST)Il distretto di Oecusse è uno dei 13 distrettidi Timor Est, exclave costiera nella parteoccidentale dellʼisola di Timor, separatadal resto di Timor Est dal Timor occidentale(parte della provincia del Nusa TenggaraOrientale), che è parte dellʼIndonesia. Lacapitale del distretto è Pante Macassar,conosciuta anche come Città di Okussi. Ildistretto è scarsamente abitato: si stimauna popolazione di circa 64mila abitanti.In passato fu unʼenclave portoghese interritorio olandese. Una sistemazione de-finitiva dei confini coloniali fra i possedimentinellʼarea asiatica delle due potenze europeefu firmata nel 1859: lʼaccordo, fatto sulla

pelle dei nativi, portò comunque a unire fortementele diverse comunità di Oecusse in nome di duefattori, ovvero la religione cattolica e la lingua por-toghese, che creavano forti elementi di coesionerispetto agli altri abitanti sotto giurisdizione indo-nesiana.È una delle rare zone asiatiche, assieme al Keralaindiano e le Filippine, dove il cristianesimo si con-solidò fortemente nella popolazione. Ancora più diTimor Est, lʼenclave di Oecusse ha patito i dannidel genocidio e delle deportazioni effettuate dalleForze Armate indonesiane. Una definizione usatadal Parlamento europeo nel 1995 per la tragediache vissero i suoi abitanti fu “genocidio permanente”.Inoltre durante lʼoccupazione indonesiana moltigiornalisti stranieri sarebbero stati uccisi affinchénon facessero conoscere al mondo la tragediache portò al genocidio attuato in maniera spietatadalle forze armate indonesiane che ha portato al-

Il governatorato del Musandam,enclave dell’Oman negli Emirati Arabi.

Un villaggio del Lesotho.

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lʼeliminazione - secondo stime attendibili - di oltreun quarto della popolazione.

LA BASE MILITARE AMERICANA DI GUANTANAMO (CUBA)Il supercarcere americano di Guantanamo si trovaallʼinterno di una base militare Usa a Cuba. Perchéuna punta di quellʼisola (situata nella provincia chesi chiama Oriente) è finita sotto il controllo delleforze armate Usa? La strana situazione ha originenei trattati che conclusero la guerra tra Spagna eStati Uniti alla fine dellʼOttocento. Gli Stati Uniti,potenza vincitrice, ottennero la cessione di Filippine,Cuba, Portorico ed altre piccole ex colonie spagnole.Quando gli Stati Uniti concessero lʼindipendenzaa Cuba, firmarono alcuni trattati col nuovo Statosovrano dellʼAvana. Uno di questi prevedeva “lʼaffittoperpetuo” di Guantanamo. Il trattato su Guantanamovenne firmato nel 1903, e fu poi rivisto e aggiornatonel 1934. Con quel trattato gli Stati Uniti ricono-scevano che Cuba aveva la “sovranità finale” suGuantanamo, in cambio Cuba lasciava agli StatiUniti “giurisdizione e controllo completo” su quelpezzo dellʼisola attraverso un contratto di affitto re-vocabile solo su “mutuo accordo”.Il territorio è di 45 miglia quadrate. Lʼaffitto èrimasto fermo a quattromila dollari annui. Per unprezzo così irrisorio la Marina militare americanaha a disposizione quello che è considerato il suomigliore porto naturale a Sud di Charleston, SouthCarolina. Guantanamo è in grado di ospitare finoa 50 navi militari. La base è super affollata conoltre mille edifici e due piste aeree. Oggi la richiestadel Governo cubano di riavere Guantanamo sibasa su due argomenti: primo, il trattato inizialesecondo i cubani non prevedeva lʼuso militare né

tantomeno la presenza di un carcere; secondo,lʼaffitto è troppo basso. Gli americani ribattono chei benefici economici per Cuba vanno ben oltrelʼaffitto. Nella base lavorano migliaia di tecnicicubani e i loro salari sono una delle fonti di redditopiù importanti per la provincia di Oriente. ComunqueGuantanamo è già una patata bollente a Washingtonper altre ragioni: i repubblicani (e qualche demo-cratico) hanno sempre impedito la chiusura delsupercarcere mentre lʼopinione pubblica americananon vedrebbe di buon occhio la restituzione aCuba di una base militare con tutti i plessi e serviziannessi.

ENCLAVE ED EXCLAVE IN ITALIALa Repubblica italiana può contare su unʼenclaveal di fuori dei suoi confini nazionali, ovvero quellodel comune di Campione dʼItalia, dal punto di vistaamministrativo appartenente alla provincia di Comoma completamente circondato dalla Svizzera, e didue exclave all̓ interno del suo territorio: la Repubblicadi San Marino e lo Stato della Città del Vaticano.

CAMPIONE DʼITALIACampione dʼItalia è un Comune situato sulla spondaorientale del lago di Lugano, amministrato dallaprovincia di Como in quanto territorio italiano, siapur completamente circondato dalla Svizzera. Lʼori-gine di ciò risale alla donazione che nel 777 d.C. illongobardo Totone fece alla basilica di SantʼAm-brogio, sottomettendo così Campione allʼautoritàecclesiastica milanese. Poi lʼimperatore Lotariomutò il diritto di proprietà in diritto di sovranità.Così, nonostante le dispute, come feudo di San-tʼAmbrogio, Campione mantenne lʼindipendenza.Quando nel 1512 la Svizzera, avendo partecipato

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EOecusse, distretto di Timor Est.

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er seppe fronteggiare lungo isecoli pericolose situazionie consolidare la propria au-tonomia.San Marino vanta una tradi-zione di ospitalità eccezionalein tutti i tempi. In questaterra di libertà non fu infattimai negato il diritto dʼasilo elʼaiuto ai perseguitati dallasventura e dalla tirannide,qualunque fossero la loro

condizione e le loro idee. Durante la Secondaguerra mondiale San Marino fu neutrale e, benchéavesse una popolazione di appena 15mila abitanti,accolse e diede asilo e rifugio a più di 100milasfollati provenienti dal circondario della vicina Italiabombardata senza sosta.

CITTÀ DEL VATICANOLʼattuale Città del Vaticano ha le sue origini nelloStato pontificio, ovvero lʼinsieme di territori dellʼItaliacentrale su cui il papato esercitò il suo potere tem-porale dal 752 d.C. al 1870, anno in cui lʼesercitoitaliano, dopo svariati attacchi, riuscì a conquistareRoma penetrando attraverso la Breccia di PortaPia. Ebbe fine così lo Stato della Chiesa, unʼentitàche aveva esercitato il suo governo per quasi unintero millennio. Nel 1929 la firma dei Patti Lateranensi,trattato che sancì la nascita dello Stato indipendentedella Città del Vaticano, ne fece a tutti gli effetti –secondo il Diritto internazionale - uno Stato sovrano.È situato nel territorio del Comune di Roma ed è loStato più piccolo del mondo.

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alla Lega Santa, ottenne il Ticino, inglobandoanche Campione, lʼabate di SantʼAmbrogio protestòe riuscì a mantenere lʼautonomia e la libertà dipassaggio in territorio elvetico. Nel 1797, con lʼabo-lizione delle corporazioni religiose da parte di Na-poleone, la proprietà fu trasferita al Fisco, e Cam-pione passò alle dipendenze di Como, restandoitaliana. Al Congresso di Vienna che seguì allasconfitta di Napoleone nel 1815, gli svizzeri tentaronodi nuovo di rivendicare il possesso della città, masenza esito.

SAN MARINOSan Marino ha una storia molto antica, le cuiorigini sono legate al culto del suo santo: a lui laleggenda fa risalire il merito di aver fondato lastessa Repubblica di San Marino. Ed è appunto laleggenda che ci tramanda la figura di questo ta-gliapietre che nel 257 d.C., venuto dalla natia isoladi Arbe in Dalmazia, salì sul Monte Titano e fondòuna piccola comunità di cristiani, perseguitati perla loro fede al tempo dellʼimperatore Diocleziano.Mentre lʼautorità dellʼImpero si andavaattenuando e quando ancora non si eraaffermato il potere temporale del papato,si manifestò qui, come in altre cittàdʼItalia, la volontà dei cittadini di darsiuna forma di governo. Mentre ognunadelle città italiane intitolava la propria li-bertà a un santo, la piccola comunitàdel Monte Titano, memore della figurastorica del tagliapietre Marino, si chiamò“Terra di San Marino” poi “Comune diSan Marino” e infine “Repubblica di SanMarino”. Per merito della saggezza cheispirò lʼantico Comune, il corpo sociale

Il centro storico della città di San Marino.

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anziane sono morte ma sono entratemolte suore nella maggior parte deicasi poco più che ventenni; oggi l’etàmedia è tra i 40 e i 45 anni. Vengonoda varie regioni d’Italia e più che unacomunità costituiscono una famiglia».Ma come si spiega la scelta radicaledella vita in clausura in tempo di fortecrisi vocazionale anche per il mondoreligioso femminile? La voce di madreMarta è pacata, mentre gli occhi fissanointensi l’interlocutore: «Me lo sono chie-sta anche io. Forse è la chiamata aduna scelta radicale. Ma non dobbiamodimenticare quello che dice il Signore:“Non siete voi che avete scelto ma ioho scelto voi”. Ognuna di noi ha vissutola scelta con questi due sentimenti:una grande paura e una forte attrattiva.Prima di entrare definitivamente si faun cammino di discernimento di unanno e quando la vocazione per questavita si manifesta in modo chiaro, disolito si fanno due settimane di espe-rienza. Una volta uscite o rimane lagrande voglia di tornare, o si capisceche questa scelta non va bene se nonper chi deve fare una scelta così

Da questa finestra socchiusa su unmondo “altro” si apre un panoramastraordinario sul viaggio dell’anima chesta per cominciare. «Chi viene restacolpito dalla pace di questo luogo, sirespira nell’aria» dice la madre sorri-dendo. E aggiunge: «In comunità siamo15 monache, non poche se si pensa al-l’attuale calo delle vocazioni. Quandosono arrivata nel 1983 ho trovato diecisuore molto anziane, il monastero stavachiudendo. Col passare degli anni le

L a strada assolata è impietosa-mente deserta mentre qualchebicicletta attraversa lentamente

i crocicchi del centro di Imola. Il Mo-nastero di Santo Stefano è un lungocomplesso quattrocentesco che un tem-po sorgeva fuori le mura della città, eoggi è inglobato nel tessuto urbano,quasi a simboleggiare la presenza dellemonache Clarisse in mezzo alla genteche ama e rispetta la comunità delle“sue” claustrali. Dietro l’antico portonedi legno, l’ombra accoglie benevola ilviaggiatore sudato che si lascia l’afaestiva alle spalle per entrare nel frescoregno della pace. Nel silenzio delle an-tiche mura, un campanello trilla in lon-tananza per annunciare l’arrivo del-l’ospite. In parlatorio la grata è apertacome una cornice intorno alla figuradi madre Marta, badessa del Monastero. »

Le Clarisse del Monastero Santo Stefano di Imola

L’antico convento diImola ha un’anima vivae moderna. Sono levocazioni di 15claustrali e della lorobadessa madre Marta,che per i lettori di Popoli e

Missione ha aperto lagrata del monastero e leporte del cuore perraccontare una grandescommessa e una bellamissione.

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

La luce oltrele grate

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svolta così impegnativa. Le giovaniinfatti devono rispondere dopo essereuscite, non mentre sono qui, perchél’esperienza è comunque sempre moltopositiva».Una scelta radicale, coraggiosa, quelladella clausura che oggi più che mainon significa fuggire dal mondo e dallastoria del nostro tempo. Una scelta divita, non una rinuncia, come si vedenei volti sereni di suor Cinzia, di suorDaniela e delle altre sorelle, molte dellequali con studi qualificati alle spalle.Prima di diventare Clarissa, madre Martaera insegnante di matematica, ma lasete di Dio era più forte di ogni altracosa: «La matematica mi immergevanel mistero di Dio e pensavo che varcandola porta della clausura lo avrei incontrato.Ed è stato proprio così. Ho potuto parlaredi Cristo alla gente perché è qui che hovissutol’intimità di poterlo conoscere». Molti laici frequentano il Monasteroper essere accompagnati nella ricercadi una spiritualità profonda. «Dico sempreche sono venuta in clausura per capireil cuore dell’uomo» sorride madre Marta,

nostra. Non abbiamo un mondo privato,Cristo porta sempre là dove c’è doloreper dare conforto e sollevare dalle umi-liazioni. Cristo è lì, lo sentiamo, ci aspettalì. Ci annulliamo in questa dimensione.Quello che fai è per amore di chi ti hascelto perché attraverso la tua vita tupossa raggiungere quelli che non hannonessuno che li ama. Cerchiamo di tra-smettere la nostra esperienza alla gente,è quello di cui ha più bisogno». Proprio con la stessa empatia e lo stessoentusiasmo dei missionari che lascianotutto alle spalle per lanciarsi nell’evan-gelizzazione di terre lontane. O vicine.Perché la periferia, l’emarginazione, ildolore umano sono quelle periferie esi-stenziali verso cui ci spinge papa Fran-cesco. L’ascolto, l’evangelizzazione digiovani, di coppie, di famiglie, di personemalate: questa sembra essere oggi lamissione delle claustrali di Imola chenell’Adorazione pregano per il cuoresofferente del mondo. Una missioneletteralmente a Km0 che si esprime coni canti delle Lodi e dei Vespri, con isuoni puri della cetra. Ma da cui internet

che continua: «Sentiamo tanta solitudine,tanta disperazione in chi viene a cercareil dialogo con noi. La gente non si sentepiù accolta, ascoltata, compresa. Cosamanca? La presenza di Cristo, credo sipossa dire in una sola frase. La vita ciconsuma perché c’è un grande vuoto divalori, manca umanità. Abbiamo bisognodi una mano che ci tiri fuori dalle sabbiemobili. E questa mano è quella di chiha fatto esperienza di Cristo che ci dàla certezza di una presenza che ti amae ti aiuta sempre, ti accompagna e dàtanta umanità. Il rapporto con Cristo èl’ossatura della nostra vita. Tutto ruotaintorno a Lui nei momenti di preghiera,di silenzio, ma anche di lavoro. In questaintimità, Lui ti parla sempre del mondo,di chi è solo, dell’umanità che sta sof-frendo, di chi è privato della dignitàumana. Dentro senti che provi queldolore lì, che lo condividi, sembra im-possibile ma è così. Quando penso acoloro che sono privati della dignitàumana, sento un nodo alla gola». MadreMarta si interrompe, ha gli occhi lucidi.Poi dice: «È una offesa che sentiamo

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proprio nei momenti diintimità con Lui, di spa-ziare nel mondo, rima-nendo accanto a chi soffreed è privato della propriadignità umana e di portarefrutti di amore e salvezza.Frutti magari segreti checonosceremo solo in cielo».Le grate non impedisconoche le mani si stringanonella commozione delleverità ascoltate e condi-vise. Un modo per attra-versare la finestra apertatra il “dentro” e il “fuori”.

Che si è trasformata nella cornice delracconto di una, di tante vite. E infinein uno specchio in cui l’anima vede fi-nalmente la verità.

Daniela, da Reggio Calabria, studi diingegneria a Pisa e ora anche video-maker.L’idea del filmato (https://www.youtu-be.com/watch?v=ejNN1NkHZtg, 2.500visualizzazioni) è nata dalle domande:«Perché il mondo fa fatica a compren-dere la scelta delle claustrali? Le mo-nache sono delle fallite che cercano ri-fugio nei monasteri? Pregano soltanto?».Le immagini e il commento al filmato(con la colonna sonora scritta appostada un giovane gruppo rock) sono risposteeloquenti: «È una vita che ti realizzanel profondo, non è poi una sceltatanto strana, ci sono vocazioni specifiche.Con questo film vogliamo dire che laforza della nostra vita non sta nel “fare”ma nell’ “essere”. Non sta nell’ “andare”ma nel “rimanere” in comunione semprepiù profonda con Cristo che ci ha scelte“perché portiamo frutto” con il nostroamore. E il nostro frutto rimanga».Infatti le bellissime immagini del videopermettono alle monache di dire che«non siamo qui chiuse tra quattro muraper noi stesse. Chi ci ha scelte ci chiede,

Le Clarisse del Monastero Santo Stefano di Imola

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non è tagliato fuori, e che ha comeprotagoniste giovani monache che oltreall’abito religioso indossano quandoserve, la tuta verde dei giardinieri perpiantare gli alberi nel giardino del chio-stro; che usano il martello del carpentiereo l’ago della ricamatrice con la stessaperizia; che fanno lavori di falegnameriae ristrutturano le antiche mura del mo-nastero. Niente a che vedere con ilcliché delle “suorine” chiuse in un portosicuro al riparo dal mondo. Anche santaTeresa di Lisieux era una claustrale mala sua capacità di andare lontano conla fede, ne ha fatto la patrona dellemissioni.

DONNE CORAGGIOSESono donne coraggiose capaci di unascelta d’amore e di vita radicale. Possiamoconoscere la storia della loro vocazionee il ritmo delle loro giornate nel videopostato su YouTube “Io ho scelto voi”che dal versetto del Vangelo di Giovannitrae ispirazione per dare voce ad unracconto collettivo di chi ha scelto didiventare una claustrale. Come suor

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La chiesa di Santo Stefano.

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ricercato con minuzia e con un impor-tante lavoro storiografico.Tra i tanti elementi che emergonodalla lettura, è interessante notare ilracconto di come nasca la figura delSegretario di Stato e di quali siano lecontroversie per riconoscere effetti-vamente chi è stato il primo ad averricoperto questa carica. Viene quiscritto che «ci è sembrato opportunodare credito ai molti che hanno addi-tato all’inizio del Seicento la fase na-scente di questo ufficio. E in questosecolo, per iniziare la nostra trattazioneabbiamo scelto Caffarelli Borghese,tra i primi Segretari di Stato, per ilcarattere emblematico, d’eccellenza ein certo modo spettacolare che eglioffre di questa carica, in quanto illustraquella che può essere considerata laprima fioritura e, in maniera matura,quella sovrapposizione tra la figura

«L a diplomazia della SantaSede è una diplomazia spe-ciale, perché è basata sul

Vangelo e la Parola di Dio è semprefresca. La Chiesa, grazie anche alla fi-gura del Segretario di Stato, è semprepiù missionaria e profetica. E l’esseremissionario della Chiesa è nella fedeltàal Signore e non nelle ideologie poli-tiche». Così don Pino Esposito raccontaqual è l’essenza del suo libro “Segretaridi Stato. Diplomatici con il Vangelo”,pubblicato da Pieraldo Editore. In piùdi 600 pagine l’autore tratta finementei profili dei 56 Segretari di Stato chein questi 500 anni si sono succeduti,dal 1600 al 2018. Con una veste gra-fica molto raffinata il volume è riccodi aneddoti che don Pino Esposito ha

del “cardinal nipote”, posto in funzionedel sovrintendente dello Stato eccle-siastico nella Curia di Roma, e quelladi Segretario di Stato».Prima di iniziare a parlare di ciascunadi queste grandi figure, l’autore fa lascelta stilistica di apporre un’immagineche ritragga il protagonista della storiache segue. Ed è affascinante ammirareanche il cambiamento nel modo di ri-trarre che dà la misura del segno deitempi che passano. C’è sempre, infatti,il ritratto canonico, ma con il mutaredei tempi e con le varie modernitàtecnologiche, troviamo anche l’arrivodella fotografia e poi anche della fo-tografia a colori. Cinquantasei sonole figure dei Segretari di Stato che sisono succeduti e che vengono riportatinel testo in ordine cronologico, par-tendo dunque da Scipione CaffarelliBorghese negli anni 1605-1621, fino

Dal XVII secolo ad oggi 56 Segretaridi Stato vaticani hanno portato ilVangelo nel mondo, nella storia, negliaffari della politica e delladiplomazia. Un volume raccontal’evoluzione di questo lungo percorso.

Cardinale Pietro Parolin,Segretario di Stato dellaSanta Sede.

Segretaridi Stato inmissione

di MARTINA [email protected]

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tentici protagonisti di eventi epocali.Il libro ha il pregio di evidenziare, nelsusseguirsi dei capitoli dedicati aiprofili bibliografici dei vari Segretaridi Stato, l’originalità dell’istituto: ori-ginalità che assume, in modo semprepiù netto nel corso dei secoli, la formadi una diplomazia speciale in quantomanifestamente ispirata da spirito diforte impegno pastorale e di pienaosservanza al messaggio evangelico».«All’autore, Pino Esposito - scrive an-cora il cardinale Coccopalmerio - non

Tra diplomazia e Vangelo

ad arrivare all’attuale Segretario diStato della Santa Sede, cardinale PietroParolin, in carica dal 2013.Questo libro è unico nel suo genere,poiché prima nessuno aveva scrittosu questo argomento ed, inoltre, ognifigura viene osservata sottolineandoil connubio della sua missione tra di-plomazia e carità cristiana. È impor-tante sottolineare che per la realizza-zione della pubblicazione di questaopera sono intervenuti diversi sponsore tra gli altri, assieme ad Intesa SanPaolo, figura anche il manager mu-sulmano Ramil Mavlyutov, a sottoli-neare l’importanza del dialogo inter-religioso. Infine il volume di don Pinopresenta ancora un elemento da met-tere in luce, non di minore importanza,ed è il fatto che questo libro non siastato scritto da un diplomatico, mada un semplice prete di periferia, cheproviene dalla Calabria. La prefazioneè affidata alla colta penna del cardinaleCoccopalmerio che scrive: «Il libro chepresentiamo costituisce un’interessantenovità nel panorama degli studi storicidedicati al papato e alle istituzioniche lo hanno accompagnato». Piùavanti il cardinale scrive anche: «Cioffre pagine in cui sono inscrittefigure memorabili di Segretari di Statoin virtù del loro ruolo e rango di au-

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sfugge che la missione dei Segretaridi Stato si segnala per la costantesollecitudine a calare negli affari dellapolitica e della diplomazia il sensovivo e il segno permanente della pre-senza di Gesù Cristo nelle vicendedella storia degli uomini». Il cardinaleconclude poi la prefazione che ha vo-luto donare a don Pino Esposito perquesto volume, sottolineando comeegli non sia nuovo a tal genere distudi ricordando così le altre ricercheda lui svolte.

Ritratto delcardinale ScipioneCaffarelli Borghese.

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

“pellegrinaggio” sulle orme del santo,Andrea Semplici, giornalista e scrittore,esperto di realtà del Sud del mondo, datempo collaboratore de “Il Messaggerodi sant’Antonio” (520mila abbonati in148 Paesi), autore di reportage dailuoghi in cui la devozione ha messo ra-dici.Spiega Semplici: «La mia collaborazionealla testata è cominciata quattro annifa, insieme alla mia curiosità di conosceremeglio la figura di sant’Antonio perchésapevo abbastanza poco di lui. Dal

punto di vista giornalistico mi ha colpitola scoperta della devozione universaledata a questo santo. Non si tratta sol-tanto della devozione di chi va a Padovama dei luoghi sparsi nel mondo in cuiquesto santo è amato e venerato. Col-pisce il fatto che questo avvenga ancheda parte di persone non cattolichecome a Istanbul, a Laç in Albania, dove

Un vero missionario. In vita pre-dicatore francescano nella Fran-cia delle eresie dei Catari; sugli

altari amico di uomini e donne di altrereligioni in terre lontane. Così sant’An-tonio da Padova è oggi conosciuto eamato in molti Paesi del mondo dove èvenerato con candele, processioni epreghiere. Ci accompagna in questo

Andrea Semplici

Sant’Antonio da Padova.

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

Che succede quando un giornalista segue erecupera i segni della devozione a sant’Antonio invari Paesi del mondo? Ce lo racconta AndreaSemplici in questa intervista sui luoghi in cui ilsanto di Padova è amato. Non solo dai cristiani.

Un santo per amico

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zionalmente cattolica. Dopo la distru-zione il luogo fu dichiarato zona militare,inaccessibile per decenni, al punto chesi vedono ancora le tracce dei sentieridi chi affrontava impervie camminatenelle montagne per andare a pregare.Si capì che il regime comunista stavaormai dissolvendosi quando nel 1991ci fu una immensa processione di 60milapersone proprio là dove sorgeva il san-

tuario. Anche in questo casola maggioranza delle personeerano musulmane. Oggi lagrande festa si celebra il 13giugno e raccoglie 150milapersone in buona parte noncristiane. Anche in Kosovo,regione di cultura albanese,il santo ha una importanzastraordinaria soprattutto nel-la città di Giacova».Protettore dei commercianti,affidabile cercatore di og-getti perduti, sant’Antonio,che nella sua vita fu unostudioso, un teologo e unostraordinario predicatore,grazie alla tradizione popo-lare è diventato una figuramultitasking. In Francia(dove sorge il santuario aBrile la Gaillarde nel Sud-ovest del Paese) è il “santodelle piccole cose”, a cui èdedicata la filastrocca po-polare: «Saint Antoine, grandvoleur, grand filou, rendezc’est que n’est pas à vous»,

ovvero «Sant’Antonio grande ladro,grande furbo, restituisci quello che nonè tuo». Ma è anche protettore deiraccolti in molte zone rurali, patronodelle zitelle in cerca di marito nel mondoispano-americano e perfino guaritoredalla pazzia in Ghana. Qui è conosciutoda tutti come Nanà Antonà e ai piedidella sua statua, storia e fede popolaresi stringono in un solo abbraccio congli uomini e le donne figli della terrad’Africa.

Turchia (1934-43). Il futuro papa esanto, Giovanni XXIII, si rivolse ai mu-sulmani chiamandoli «fratelli», fece tra-durre in turco il Vangelo e incoraggiòla devozione a sant’Antonio.In Albania invece le cose sono andatediversamente. Spiega Semplici: «I fran-cescani sono stati l’unico ordine religiosoche è sempre rimasto nella regionebalcanica anche durante il lungo periodo

di dominio dell’impero ottomano e poinel periodo del regime di Enver Hoxa,anche se clandestini, nascosti e perse-guitati. E questo la popolazione non loha dimenticato e Antonio è diventatouno dei simboli della resistenza personalealla protervia del regime comunista.Mi hanno raccontato che l’unica chiesacompletamente rasa al suolo con la di-namite, è stata il santuario di sant’An-tonio della montagna di Laç, a circa 40chilometri da Tirana, nella zona tradi-

Intervista ad Andrea Semplici

coloro che vanno a pregare sono mu-sulmani. Quando poi sono andato a vi-sitare questi luoghi sorprendenti, sonorimasto senza parole». Nella capitaleturca, la chiesa di Sent Antuan kilisesisorge in un angolo arretrato della cen-tralissima Istiklal Caddesi, già famosain passato come Grande Rue de Péra,dove due architetti italiani costruironol’edifico nei primi anni del secolo scorso,obbedendo alle leggi urba-nistiche secondo cui i luoghidi culto cristiani non dove-vano essere riconoscibili. Ognimartedì (giorno dedicato alsanto) centinaia e centinaiadi musulmani (i cristiani inTurchia sono un irrisorio0,002% della popolazione)attraversano il cancello apertosulla strada e il cortile perfermarsi in preghiera davantialla statua. Chi come Semplici,ha visto questi momenti didevozione, resta colpito dalfatto che vengano compiuti«gli stessi gesti del culto cat-tolico: la preghiera, i messaggiscritti, toccare la statua, bru-ciare incenso, accendere can-dele. Il consumo delle candelenella chiesa di Istanbul è paria quello della basilica di Pa-dova. Sono soprattutto ledonne che vanno a pregareperché in chiesa è consentitoloro fare quello che non fannoin moschea, e cioè di avereuna sorta di devozione manifesta alsanto a cui si scrive la grazia richiesta.Le persone dicono che si rivolgono aSent Antuan perché il santo ascolta,risponde, perché la sua mediazioneverso Dio è sempre efficace». Nellachiesa di Istanbul ci sono i frati che ilmartedì sono presenti e ascoltano chiun-que abbia voglia di parlare con loro,con una disponibilità al dialogo che fugià di Angelo Roncalli negli anni in cuiricoprì il ruolo di nunzio apostolico in

Sent Antuan kilisesi a Istanbul.

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Per la dignitàin carcere

L a sua importanza tra i diritti ri-conosciuti nella DichiarazioneUniversale dell'Onu non deve es-

sere proprio secondaria se è vero chealla protezione della dignità dei detenutiè dedicato uno dei primi articoli, ilquinto: «Nessun individuo potrà esseresottoposto a tortura o a trattamento oa punizione crudeli, inumani o degra-danti».Lo sappiamo: in questi 70 anni passatidal celebre documento sottoscritto aParigi, in molti Paesi del mondo l'auspicioè rimasto tale, mentre la realtà è diversa.Sorprende però che anche l'Europa,che ancora molti considerano – nono-stante tutto – culla della civiltà giuridicae custode dei diritti umani fondamentali,si scopra deficitaria su questo punto. Èquanto emerge da varie inchieste e

per le condizioni precarie dei detenuti:in Bulgaria, ad esempio, il CPT segnalanumerosi casi di maltrattamenti fisicisubiti da persone arrestate, per le qualispesso è necessario ricorrere a un av-vocato o a un medico è un lusso. Lacorruzione dilaga ed è particolarmentecritica la situazione nei centri di acco-glienza (si fa per dire) dei migranti,stipati in dormitori immensi, vecchi esporchi. In Albania, è critica soprattuttola condizione dei detenuti psichiatrici,definita dal Rapporto «come inumanae degradante», citando non a caso laDichiarazione Onu. E così via.E l'Italia? Alla fotografia del CPT vannoaggiunti i dati dell'Associazione Antigone,che ogni anno stila un dettagliato rap-porto. Limitandoci qui al problema cro-nico del nostro sistema carcerario, cioèil sovraffollamento, la situazione, dopoun lieve miglioramento degli anni scorsi,è di nuovo critica: nel 2017 c'è statoinfatti un incremento del numero mediodi detenuti, arrivati a 58.223; ci sonopenitenziari come quelli di Como e Ta-ranto dove i reclusi sono il doppio diquelli previsti dalle strutture e ci sonocelle da nove metri quadri dove vivonotre persone. Non sorprende allora chesiano stati ben 52 i suicidi in carcerenel 2017.

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DIRITTI UMANINel 70esimo anniversario della

Dichiarazione Universale

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rapporti, l'ultimo dei quali pubblicatoa fine aprile scorso dal Comitato per laprevenzione della tortura e delle peneo trattamenti inumani o degradantidel Consiglio d’Europa (da non con-fondere con l'Unione Europea). Il CPTdenuncia, infatti, la mancanza di mec-canismi di reclamo efficaci per le personeche vengono private della libertà per-sonale, ovunque si trovino: nelle prigioni,nelle stazioni di polizia, nei centri didetenzione per l'immigrazione, nelleistituzioni psichiatriche, ecc. Sono stati18 i Paesi del Vecchio Continente messisotto i riflettori dal Comitato che, quasiovunque, ha riscontrato problemi: adesempio, la mancanza di informazioniadeguate fornite ai detenuti sui propridiritti, il mancato o ritardato esamedelle denunce, la corruzione dei fun-zionari, la protezione insufficiente controintimidazioni e rappresaglie.Alcuni Stati si distinguono in negativo

di STEFANO [email protected]

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L’altra

«D al momento in cui si è formato il nuovo governoho sentito come se il Paese in cui avevo vissutodall’età di sei anni mi si fosse rivoltato contro».

Lo scrive Nadeesha D Uyangoda per Al Jazeera in un belpezzo dal titolo “Come ci si sente ad essere una persona dicolore nell’Italia di Salvini”.Quel che sta facendo il nuovo esecutivo, secondo l’editorialistadello Sri Lanka, è tra le altre cose, è aumentare l’ostilitàsociale verso gli italiani di colore. «Sono una giovane donnadi colore senza cittadinanza italiana che, nonostante tutto,si sente italiana – prosegue – Io rappresento un fastidio peril governo populista anti-immigrati appena eletto. Sonovista come una minaccia ed una che vuole “occupare questaterra”». L’articolo prosegue spiegando che il numero di

edicola

LA NOTIZIA

NAVE AQUARIUS RESPINTA E ACCOLTA IN SPAGNA;ANNUNCI DI POLITICHEANCORA PIÙ ESCLUDENTIPER I MIGRANTI, SIA IN ITALIACHE NEL RESTO D’EUROPA. DI FRONTE ALLE INIZIATIVE DIMATTEO SALVINI&CO, COMEREAGISCE LA STAMPAESTERA, SOPRATTUTTOQUELLA AFRICANA?

Migranti e rifugiati sempre più a rischio

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IL POPULISMO E LA PAURAIL POPULISMOE LA PAURA

di ILARIA DE [email protected]

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L’altra

bambini nati sul suolo italiano raggiungei 70mila l’anno. Poi ci sono quelli natiall’estero ma cresciuti e formati inItalia: una grossa fetta di società italiana«che non è bianca e si sente italianama non è riconosciuta come tale».Sono molti i quotidiani e i siti di infor-mazione dal Sud del mondo che inquesti ultimi mesi stigmatizzano le de-cisioni del neo-eletto esecutivo di Contecome razzista e populista. “Il nuovogoverno italiano di destra sta sbattendole porte in faccia ai migranti africani”,titola Qartz Africa, dopo la vicenda

della nave Aquarius respinta nei portiitaliani. «Bloccare l’ingresso della Aqua-rius fa parte della strategia del nuovogoverno per trarre vantaggio dalla re-torica elettorale ed assumere una po-sizione ancora più dura sull’immigrazione– scrive il quotidiano - L’Italia affermache la piccola Malta e altri Paesi europeidevono iniziare ad accettare più mi-granti». La stampa africana è abbastanzapresente e tutto sommato compattasu questi temi, ma mai particolarmenteaccesa nei toni: il Daily Nation diNairobi titola “L’Italia di Matteo Salvini

chiude i porti alla nave di salvataggiodei migranti”. Ma c’è preoccupazionesoprattutto per l’iniziativa congiuntaitalo-francese che mira alla costruzionedi centri ed hotspot per migranti daallestire direttamente in Africa: sostan-zialmente l’Africa teme molto la politicaeuropea che vorrebbe bloccare le par-tenze sul nascere, direttamente allefrontiere africane. Il sito kenyano diKBC Channel segnala l’iniziativa a due:«Italia e Francia – scrive - hanno espressosostegno agli “asylum center” nei Paesidove molti migranti iniziano il viaggio».

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dosi spesso a parlare di populismo. Ilsito di Jeune Afrique inizia così il suopezzo dal titolo “Polemica in Europadopo il rifiuto dell’Italia di accogliere i629 migranti bloccati a bordo del-l’Aquarius”: «Il loro calvario non è ancoraterminato». Anzi, forse, metaforicamente,è appena iniziato. Nel senso che la lineaeuropea, dopo lo sdoganamento di Mat-teo Salvini, si fa sempre più dura. Ècome se l’azione muscolare ed eclatantedell’Italia che con cinismo rifiuta l’at-tracco ad una nave delle ong carica didonne, uomini e bambini africani, avessetolto l’ultimo freno politically correctad un’Europa altrettanto cinica e de-strorsa. Tanto che l’intesa Macron-Conte,dopo l’iniziale scaramuccia col partitoEn Marche! che ci aveva redarguito,adesso decolla e anzi, l’Italia è consideratada certa stampa francofona più audaceed efficace della Francia stessa sullematerie migratorie. Segno che il per-

benismo alla Macron lascerà semprepiù spazio al populismo alla Di Maio.Ironico e significativo in questo sensoil titolo del mensile on line franceseCauseur: “L’Italia si risveglia e Macronva a dormire”.Anche il Belgio si è subito schieratocon Salvini: «Il segretario di Stato all’Asiloe le Migrazioni Theo Francken - riportail sito della tv belga RTBF- appoggia lapolitica del governo populista di estremadestra italiano». Dal canto suo l’UnioneEuropea (Commissione e Consiglio eu-ropeo) si orienta progressivamente allamilitarizzazione delle frontiere, allaschedatura delle persone, ai respingi-menti, alle prese di distanza fisiche epsichiche. La schedatura in particolareè qualcosa che piace molto ai nostricapi di Stato e di governo: consente didefinire, segnare, circoscrivere, marchiare,separare. Evocando ricordi di leggi raz-ziali, fascismi, dittature. E morte.

Migranti e rifugiati sempre più a rischio

Come dire, l’obiettivo finale è evitareche prendano il largo, non certo persalvar loro la vita, piuttosto per scon-giurare in Europa una invasione che,conti alla mano, non esiste. I conti li famolto bene il quotidiano The Vision:«Trentacinque euro sono il costo totaleper il mantenimento di ogni migrante– scrive la testata - Soldi che vannoalle organizzazioni umanitarie (solo dueeuro e mezzo rimangono di pocket mo-ney) e che provengono da fondi europeiche non potrebbero essere usati diver-samente. I migranti dell’Aquarius sonostati trasferiti su due navi militariitaliane che arriveranno a Valencia inquattro giorni, a 800 miglia nautichedi distanza. Inoltre, l’Europa ha minac-ciato multe da decine di milioni di europer il mancato rispetto degli accordiinternazionali. Cosa abbiamo vinto esat-tamente?». E la risposta è: nulla. Tantoche, come dice ironicamente il titolo:“629 migranti non entre-ranno in Italia ma la tuavita fa ancora schifo”. Econclude: «L’arma di cuiSalvini dispone è offrirerazionalità al razzismo eal pregiudizio». Poiché imanifesti «con gli africanirappresentati come scim-mioni, confezionati dallavecchia Lega Nord, sonoinaccettabili nel 2018, mase ottengo lo stesso ri-sultato utilizzando dei“fatti”, allora, non possoessere razzista, bensì unodi buonsenso».L’impressione è che perora la stampa estera pren-da le distanze dall’Italia,tanto che quasi sempredefinisce il nostro governodi “estrema destra”, cosache la stampa italiananon riesce a fare con al-trettanta facilità, limitan-

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Essendo a conoscenza dell’indifferenzaper i problemi e le necessità della popo-lazione da parte di molti capi di Statoafricani, delle situazioni di conflitto chespesso mietono più vittime del colera edel continuo sfruttamento della poveragente, abbiamo parlato con padre Da-vid-Marie Rivuze Rwema, della comunitàdei padri Barnabiti, che ci ha mostratoalcune foto scattate nel suo Paese diorigine, il Congo. Ci hanno colpito igruppi di persone, uomini, donne e bam-bini, in fila, muniti di taniche, secchi erecipienti vari per raccogliere l’acqua dauna sorgente naturale, percorrendo finoa due ore di strada con il relativo peso.Questa fonte non è né predisposta per laraccolta dell’acqua, né tantomeno inca-nalata per raggiungere le abitazioni dei

L’ iniziativa coinvolge un “gruppodi amici di Firenze” e consiste nellarealizzazione di un progetto di

approvvigionamento idrico nella zona diIdjwi, provincia di Kivu/Bukavu (Repub-blica Democratica del Congo).Come gruppo di amici ci definiamo cri-stianamente motivati nel sostegno dialcune attività caritative per le personepiù bisognose nei Paesi africani. Meditandole parole di papa Francesco sull’enciclicaEvangelii Gaudium, come laici in uscitaabbiamo deciso di impegnarci concreta-mente nel portare acqua potabile avillaggi sperduti e senza nessun servizio.

L’acqua è vitaL’acqua è vitaa cura di

CHIARA [email protected]

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Uomini, donne ebambini in fila perl’approvvigionamentodell’acqua dopo ore dicammino perraggiungere la sorgente.

I villaggi nel territorio di Idjwi, provincia diKivu/Bukavu (Rep. Dem. Congo), interessatialla distribuzione dell’acqua garantita dalnuovo pozzo in fase di realizzazione.

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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curare acqua potabile anche alle personedi altrettanti piccoli centri situati tra lasorgente di Nyereji ed il centro di Bur-hale.L’acqua è vita, così si dice. E noi lo stiamosperimentando nella realizzazione di que-sto progetto.Il lavoro, davvero notevole, richiede ilconcorso di molti. Lo scavo del canale, ilpassaggio delle tubazioni su terreni diproprietà, le pietre e la sabbia necessariesono a carico della popolazione localeche beneficerà del servizio, il tutto instretta collaborazione con i direttori dellescuole, i prefetti degli istituti, il capomedico della clinica ed i responsabilidelle varie località che hanno dato laloro approvazione e disponibilità appo-nendo timbri e firme sui permessi necessariper la realizzazione.Il lavoro in corso, che deve ancora con-cludersi ma ha già portato acqua alCentro Salute, risulta di grande importanzae richiede una discreta disponibilità eco-nomica: per questo abbiamo dato vitaad una raccolta fondi tra amici, nell’intento

villaggi della zona. Inoltre, in quest’areasi trovano anche due scuole ed un CentroSalute, anch’essi senza acqua potabile.Dopo aver conosciuto i gravi disagi diqueste popolazioni, vittime dei politiciche nonostante le ricchezze del Paesenon rispondono alle attese della gente,abbiamo preso in considerazione l’op-portunità di realizzare il progetto di ap-provvigionamento idrico redatto da untecnico locale, l’ingegnere Marcel Kam-bula. L’obiettivo è quello di costruire ungrande pozzo d’acqua e il relativo con-dotto idrico dalla sorgente di Nyerejifino al Centro Salute di Burhale: un per-corso di circa tre chilometri nel territoriodi Idjwi.La realizzazione di questo progetto co-stituisce una garanzia di disponibilità diacqua per molte persone, soprattuttoper quelle provenienti da quattro localitàper le quali Burhale è un centro comune,un incrocio geografico. Ma la garanziadell’acqua è assicurata anche per i moltipazienti accolti nel Centro Salute e pergli alunni della scuola primaria e del-l’istituto secondario di Bushake, oltreche per quelli della scuola primaria edell’istituto secondario di Karambi. Inoltrecon le cinque stazioni di erogazione pre-viste lungo la strada, sarà possibile assi-

di poter raggiungere la somma necessariaper il completamento dell’opera. E, sel’acqua è vita, poter contribuire a dif-fondere la vita in Africa.

Il gruppo di amici di Firenze

Angela Gabriella Pistola, Cecilia Murarolli,

Carlo Casini, Walter Paggetti

Lavori di costruzione delpozzo e scavo del canale peril passaggio delle tubazioni.

Posta dei missionari

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Posta dei missionariMISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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A Manila nellesquatter areas

case potrebbe contenerci tutti) devonofare un percorso ad ostacoli per evitaredi mettere un piede dentro al micidialefossato. Sembra di vivere in un videogame.Eppure questa è la normale vita di ognigiorno per la maggior parte delle personeche abitano a Manila.Mi rendo conto di quanto sia difficile(per non dire impossibile) comprenderequello che descrivo senza averlo visto,toccato (e annusato) in prima persona.Occorre anche considerare che la realtàè più complessa. Ad esempio, queste co-munità non sono totalmente indifferentio rassegnate all’immondizia e al degrado,ma si sforzano di rendere più abitabile illoro ambiente: varie pavimentazioni stra-dali di cemento, la copertura di qualchefogna, la creazione di campetti per ilbasket o altre attività comunitarie sonoalcune delle molte migliorie che si possononotare e apprezzare solo frequentandoquesti luoghi nel corso di mesi o di anni.In un tale contesto, viene spontaneochiedersi perché queste persone non sene vadano altrove. In passato alcuninuclei famigliari erano stati ricollocatiin altre zone, ma dopo poco tempo sonoritornati indietro perché la nuova siste-mazione li isolava dai quei servizi che,pur vivendo in uno squatter, la città po-teva offrire loro: ospedali, scuole, possibilitàdi svolgere lavori occasionali, ecc. Spessoentrano in gioco anche aspetti educativi:ci sono adulti che vanno letteralmenteeducati a cogliere il valore di una vitadiversa, per sé stessi e per la loro famiglia,e ad accettare, ad esempio, di sostenerele responsabilità quotidiane (pagamentidi utenze o affitti, impegni lavorativi,ecc.) o di curare seriamente l’igiene (dellacasa e dei figli), per evitare che si creinoulteriori problemi di non facile soluzione.Connessi a questi, ci sono anche aspettipiù ideologici e politici. Ma forse saràmeglio approfondirli un’altra volta.

Don Graziano Gavioli, fidei donum della diocesi di Modena

Manila (Filippine)

stradine che separano i blocchi di baraccheo i building sono per lo più melmoseanche dopo giorni dall’ultimo temporale.L’immondizia si trova un po’ ovunque,tanto che entrare in queste zone comportaun discreto sforzo di adattamento del-l’olfatto. Le fogne non esistono: dovesono presenti, si riducono ad un fosso acielo aperto, ricolmo di melma nera eminacciosa, che passa nientemeno cheal centro delle già strette e affollatissimestradine. Per farvi un esempio, quando ciriuniamo con uno dei gruppi di letturadella Bibbia, il nostro cerchio di 15 sgabelliè attraversato giusto a metà da una diqueste terribili “fognette”. Poco distanti,i bambini giocano con i loro semplicissimigiochi, sereni, nella convinzione che tuttoquesto sia “normale”. Le persone che nelfrattempo passano lungo la stretta stradain cui teniamo l’incontro (nessuna delle

D opo i primi mesi trascorsi qui aManila, sono pronto per raccon-tare la vita delle famiglie che

trovo attorno a me, cominciando daquelle che popolano le squatter areas.In italiano le chiamiamo “aree abusive”.Usando un termine meno tecnico, maforse più sincero, sono baraccopoli. Qui,di fatto, costituiscono buona parte delterritorio della parrocchia. Mi hanno rac-contato i più anziani che, in molte diqueste aree, più di 30 anni fa non c’eranulla, o quasi. I fiumi e le coste eranosgombri, puliti: ci si poteva tranquillamentenuotare e pescare. Adesso sono rinchiusida un intricato groviglio di baracche,immondizia e persone ammassate. Leabitazioni delle famiglie sono realizzateutilizzando ogni sorta di materiale a di-sposizione trovato per strada, nella di-scarica, o regalato da qualche amico. Le

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S amba e bossa nova, ovvero il Brasilemesso in musica ed esportato nel mon-

do: il primo, compresso nel Dna africanoarrivato – ma sarebbe meglio dire trascinato- nel Nuovo Mondo sulle navi negriere; laseconda, nata dall’incrocio di questo conil jazz, alla fine degli anni Cinquanta delsecolo scorso. Di lì a poco entrambi i genericominciarono a flirtare con la canzone d’au-tore, ed ecco il fiorire deigrandi maestri, da JoaoGilberto a Jobim, da ChicoBuarque a Caetano Veloso,solo per citare i più noti.E proprio il grande Chicosi è di recente riaffacciatosui mercati con un nuovodisco, Caravanas, un pic-colo capolavoro dove lasua poetica elegante edintimista e le sonorità si-nuose della sua musicas’incrociano a tematiche variegate: l’amoreper il calcio e la difficile situazione socio-politica del Brasile contemporaneo. Tutti ri-chiami a valori da recuperare (l’onestà, latolleranza, l’umanesimo, la giustizia sociale),attraversati da quell’ironia pungente di cuiChico è ancora più che dotato, nonostanteuna carriera lunga mezzo secolo e le 74primavere sulla groppa.Ma se il sempiterno Chico rappresenta l’ar-

zilla vecchia guardia del brasilian-sound,tra i nomi più interessanti emersi di recentec’è sicuramente quello di Rosàlia De Souza.Anche lei nata in quel di Rio (22 anni dopoChico), ma con un’anima cosmopolita chel’ha presto portata a girare il mondo (hastudiato e si è formata in Italia nei circolijazz di Testaccio, prima di lanciarsi allaconquista dello show-business esibendosi

nei festival jazz più famosi del pianeta). Oraè tornata anche sui mercati discografici,con il disco “Tempo”, che – guarda caso -contiene anche un omaggio a Chico, l’im-mortale O que serà. Mancava all’appellodiscografico da ben nove anni, e questonuovo lavoro è frutto di un profondo lavorodi ricerca anche spirituale: «Il Tempo nonesiste, dicevano i grandi saggi – ha dichiaratodi recente – Ma tra Einstein e Sant’Agostino

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Chico e RosaliaBossa nova forever

c’erano due visioni molto diverse dellastessa materia. Il tempo lenisce, matura,risponde, e poi diventa inesistente». Undisco elegante e jazzante come ha da essereun album firmato da una delle regine indi-scusse della bossa nova contemporanea,e che tuttavia ama divagare con gran classetra guizzi di samba, bolero e folk brasilia-no.Chico Buarque ha vissuto da protagonistal’era aurea della bossa nova; ha vissutosulla propria pelle il dramma della dittaturamilitare, per lunghi anni in esilio, divenendouna delle voci più autorevoli del dissenso.

Anche lui come la DeSouza ha trascorsomolto tempo in Italia:nel 1969 ha inciso undisco nella nostra lin-gua, ha collaborato conEnnio Morricone e scrit-to classici ripresi ancheda Mina, dalla Vanoni eda Mia Martini.Chico e Rosàlia: più di60 album l’uno, solocinque l’altra; due ge-

nerazioni per una musica che in realtà nonconosce età né latitudini, perché il sambae la bossa rappresentano ancora oggi illato più autentico e universale dell’animabrasiliana, capace di farsi amare a Copa-cabana come a Parigi, nelle favelas più mi-serevoli come nei grandi alberghi di LasVegas.

Franz Coriasco

[email protected]

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andare a sposarsi in America,dei progetti in Italia del giovane,fidanzato con la figlia di un di-rigente dell’Organizzazione perla Liberazione della Palestina(OLP) in esilio. Ad interpretareil confronto generazionale tra idue, la regista mette in scena idue attori palestinesi più famosi,Mohammad (premiato al Fe-stival cinematografico di Dubaiper questa interpretazione) eBakri et Saleh - anch’essi padree figlio, entrambi impegnati perla causa del loro popolo - chenel film danno ottima provadella loro bravura. In questoroad movie Abu Shadi ascoltai cd di musica araba da sce-gliere per la cena nuziale dellafiglia Amal, fuma di nascostouna sigaretta, senza dare ascol-to alle raccomandazioni di Shadiche gli ricorda l’età e i malanni

di cuore, mentre lo critica per il suo atteg-giamento accomodante nei confronti degliisraeliani. Intanto la radio trasmette notizieinquietanti e sulla via si incrociano posti diblocco con i soldati col mitra in spalla,mentre il dialogo continua. Il giovane rim-provera al padre i compromessi sostenutiper continuare ad insegnare e magari perdiventare preside prima di andare in pen-sione. Poi si fermano ed entrano nelle casedi vecchie zie che in occasione del Natalehanno trasformato il salotto in un enorme

Nazareth, la più grande cittàaraba d’Israele, chiusa tra

le sue alte colline e con le viecongestionate dal traffico, sem-bra “pietrificata” nel tempo. Ipalestinesi che ci vivono si co-noscono tutti tra loro ma sem-brano essersi adattati alla si-tuazione in una quotidianità con-venzionale e grigia. Un profes-sore alla vigilia della pensioneorganizza il matrimonio della fi-glia e gira di casa in casa perconsegnare le partecipazioniagli invitati. È il rito del wajib

che tradotto dall’arabo significa“dovere” religioso o meglio so-ciale, quando viene compiutoda cristiani che si riconosconoin una comunità di amici e pa-renti. Ad ogni porta che si apre,un caffè fumante è subito prontoper gli ospiti che, mentre sor-seggiano dai bicchieri, si ag-giornano sulle ultime novità infamiglia. C’è chi invecchia nellasua terra, mentre i giovani par-tono per altri continenti e si in-seriscono in culture diverse. Illungometraggio “Wajib, invitoal matrimonio” della regista pa-lestinese Annemarie Jacir, vin-citore del Don Chisciotte d’oroal Festival di Locarno 2017 edi innumerevoli altri premi, spa-lanca molte finestre sulla quo-tidianità della città inglobatanello Stato d’Israele dal 1948, in cui tradi-zione e modernità si fronteggiano a voltecon nostalgia, altre con imbarazzo e rabbia.E dove musulmani (60% degli abitanti) ecristiani (40%) convivono all’ombra dellastoria, senza particolari tensioni.Spingendo la vecchia Volvo sulle stradinestrette della città vecchia, Abu e il figlioShadi, architetto emigrato in Italia, tornatoa casa per le nozze della sorella, parlanodella madre che ha lasciato la Palestina per

WAJIB

Matrimonioa Nazareth

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ci sono i check-point, non c’è il muro.Inoltre, come Haifa, almeno esiste ancora:centinaia di altri villaggi sono stati rasi alsuolo. Solo una piccola minoranza dellapopolazione è riuscita a restare, e come sivede nel film vive in dei ghetti. È quell’aspettodell’occupazione di cui non si parla: rispettoa quello che succede a Gaza e in Cisgior-dania c’è meno consapevolezza di quei pa-lestinesi che vivono in un posto che lirifiuta». Nata a Betlemme nel 1974 da unaantica famiglia cristiana, a 16 anni è andata

a studiare negli Stati Uniti dove siè laureata al Claremont College

of California. Sceneggiatrice a Hol-lywood e poi specializzata in ci-nema alla Columbia University,Annemarie è vissuta per anni adAmman in Giordania prima di tor-nare con il marito a vivere ad Haifa.Un giovane talento che raccontaal mondo l’anima della sua gente:«Nazareth è una città piena di ten-sioni, i palestinesi sono cittadinidi seconda classe e non hannogli stessi diritti degli israeliani. De-vono lottare per conquistarsi spa-zio, posti di lavoro, e il diritto dipoter restare nella propria terra».

Miela Fagiolo D’Attilia

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presepe per vincere il premio del quartiere;nel tinello di amici con una figlia da sposareche fa gli occhi languidi al giovane architetto;nell’officina di un lontano parente musul-mano che colleziona orsacchiotti vestiti daBabbo Natale.La gente che incontrano per distribuire gliinviti è il contorno a questo lungo dialogofamiliare, ricostruito attraverso frammentidi memoria condivisa, di dolori e abbandonimai cicatrizzati.E poi c’è lei, la vera protagonista del film:Nazareth, un’anima antica ricoperta di casedi cemento, bella e struggente sotto i sac-chetti di plastica di immondizia che riem-piono i cortili e gli angoli delle strade.Cittadini e al tempo stesso stranieri, eredidiseredati di un grande passato, gli abitantidi Nazareth sembrano più impegnati a di-fendere i loro piccoli interessi personali, lerassicuranti convenzioni sociali, più chel’impegno per la causa comune. Lo diceapertamente Shadi che ha preferito l’esilioal compromesso di vivere da “prigioniero”nella sua terra.La giovane regista Annemarie Jacir, giuntaalla sua terza prova d’autore dopo “Salt of

this Sea” (2008) e “When I saw you”(2012), spiega che a Nazareth «non cisono segni evidenti dell’occupazione, non

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L’economia globale ha consentito a milioni di persone diavere un maggior benessere, migliore salute e diritti. Al

contempo, però, l’economia e i mercati hanno sfruttato inmodo eccessivo le risorse comuni del pianeta facendo crescere

le disuguaglianze e il malessere. Mi-chele Zanzucchi, giornalista e sag-gista, parla della globalizzazione eco-nomica e finanziaria nella sua acce-zione negativa: troppo spesso, infatti,essa dimentica la dignità dell'essereumano e il suo diritto alla solidarietà,non garantisce i poveri e li escludedalla vita sociale. L’autore vuole ren-dere fruibile a tutti alcuni pensieri dipapa Francesco sulla ricchezza e lapovertà, sul potere dell’economia edella finanza, sul culto del denaro,coscientizzando il lettore sulle que-stioni che stanno a cuore al papaper responsabilizzarlo e portarlo afavorire nuovi processi di giustiziaed equità.Il libro ha l’eccezionale prefazione di

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V enticinque giapponesi raccontano laloro conversione al cristianesimo. In

Giappone convivono antichissime tradizionireligiose, buddhismo, shintoismo e mo-dernità frenetica. Le conversioni al cristia-nesimo sono minime anche perché lalibertà religiosa è stata concessa solo nel1945. Le testimonianze raccolte nel volumedi Tiziano Tosolini sono molto prezioseperché mostrano la nascita della fede cat-tolica in persone che ignoravano l’esistenzadi Dio e non avevano mai sentito parlaredella salvezza portata da Gesù Cristo, nédella Chiesa. «Nella maggior parte dellefamiglie giapponesi non si parla mai di re-ligione – ricorda nel libro Monica T.K. -l’unica cosa importante era congiungerele mani in preghiera davanti all’altare di fa-miglia e andare ogni tanto a visitare letombe». A questa testimonianza se ne uni-scono altre, come quella di Chiara EikoShindo, insegnante di musica, di Giovanni

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Tiziano TosoliniLO SCONOSCIUTO ACCANTO.STORIE DI CONVERSIONE NEL GIAPPONE DI OGGICON UN TESTO DI ETSURO SOTOO

Edizioni EMI - € 15,00

Cristiani del Sol Levante

da Gesù Cristo. Leggendo i percorsi spi-rituali di ognuno si percepisce una piùprofonda consapevolezza della fede e deidogmi, rispetto a chi è credente “pernascita”.

Chiara Anguissola

Nagatomo Yoshitada, bibliotecario, di MariaRosa Ayumi Maeyama, infermiera, di Gio-vanni Kanmuri, addetto in un’azienda ali-mentare. Tutte rivelano una forte spintaverso il bisogno di conoscere Dio e l’amoredi Cristo per gli uomini. È importante av-vicinarsi a queste storie di conversionesenza giudizi, ma con rispetto, umiltà e ri-verenza, riconoscendo il grande travagliospirituale che queste persone hanno vissutocombattendo anche l’imbarazzo familiaree sociale.«Cristo è l’unico che ha saputo spiegarmil’inspiegabile» scrive lo scultore giappo-nese Etsuro Sotoo, convertito al cattoli-cesimo mentre lavorava alla chiesa dellaSagrada Familia di Barcellona. Moltesono le testimonianze di gratitudine pergli insegnamenti di fede e speranza insitinel messaggio cristiano che hanno con-sentito il cambiamento. Toccanti le storiedi uomini e donne chiamati al battesimo

Michele Zanzucchi

POTERE E DENAROLA GIUSTIZIA SOCIALE SECONDO BERGOGLIOPREFAZIONE DI PAPA FRANCESCO

Edizioni Città Nuova - € 15,00

papa Francesco stesso che scrive che è il momento di «co-scientizzare e valorizzare ma anche rinnegare. Ci sono dei noda dire alla mentalità dello scarto». È necessaria quindi unacultura che valorizzi tutte le risorse a disposizione della società,rispettandole, senza trattare tutto e tutti come merce che sibutta quando non serve più. I cristiani sono chiamati a seguireil Vangelo che insegna che Dio non abbandona le sue creaturein balia del male ma, al contrario, le invita a non stancarsi nelcollaborare con tutti per il bene comune. Tra i poveri del nostromillennio ci sono i migranti, una delle sfide della comunitàpolitica, della società civile e della Chiesa in primis. Le rispostea questo problema ruotano attorno a quattro verbi: accogliere,proteggere, promuovere e integrare. Legato a questo processoc’è il dovere di giustizia, soprattutto per i migranti e gli affamati,perché non sono più sostenibili le diseguaglianze economicheche impediscono di mettere in pratica il principio della desti-nazione universale dei beni della Terra. Tanti i temi trattati dal-l’autore: dal potere della conoscenza scientifica alla frammen-tazione del sapere; dalla cultura della cura e civiltà dell’amore,al ruolo della politica, con una esauriente documentazione achiusura del volume con i 16 documenti del papa su potere,denaro e giustizia sociale.

Chiara Anguissola

No alla cultura dello scarto

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P ubblicato in occasione del 60esimoanniversario dell’enciclica Fidei Donum

di Pio XII, il libro si propone di recuperaree custodire il grande patrimonio umanoche la Chiesa torinese ha dato e continuaa dare a favore dell’evangelizzazione, in-viando presbiteri diocesani, laici e famiglieal servizio missionario delle giovani Chiesenel mondo. Sono state raccolte 72 testi-monianze di fidei donum, alcune di personerientrate in diocesi, altre che sono ancorain servizio. Ognuno di loro ha motivato lapropria spinta a partire, le attività che hannocaratterizzato l’operato durante il periododi missione e un bilancio sull’esperienza.La lettura di queste storie di vita, comescrive monsignor Cesare Nosiglia nella pre-fazione, «alimenta nei nostri cuori quelfuoco per la missione che li ha animati,vera Chiesa “in uscita”, come ci ricordapapa Francesco».

cesani, ma anche per tutti gli operatori coin-volti. Uno stimolo che permette di assumerequello spirito missionario che non è legatoall’età o a vocazioni specifiche. Don Pastraro,ideatore e co-autore, invita i giovani a leggereil volume per tenere viva la memoria e spin-gere all’esperienza dei fidei donum cheoggi è in forte calo: un dato che fa rifletteree che ci fa domandare perché.

Chiara Anguissola

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Lorenzo Bartolin, Stefano Passaggio,Marco Pastraro, Morena SavianDONI DI FEDE60 ANNI DI FIDEI DONUMNELLA CHIESA DI TORINO

Edizioni EMI - € 13,00

I l mondo del carcere è immenso e com-plesso; le persone al suo interno sono uni-

che, irripetibili e fragili nella loro identità.“Rifarsi una vita” raccoglie storie di personeche hanno conosciuto il carcere e che graziealla Caritas sono state accompagnate versola ri-nascita da volontari e diaconi in un per-corso di testimonianze e di incontri. Si trattadi una rinascita di fede e di vita, aiutati dalleparole di papa Giovanni XXIII che invitava a«parlare con gli uomini senza giudicare». Èproprio quello che fanno gli operatori quandoentrano in contatto con l’unicità delle personesenza incasellarle. Le storie raccolte - scrive

Alessandro Pedrotti, educatore e responsabiledi Odòs della Caritas di Bolzano-Bressanone- sono uno spaccato di pedagogia del farsiprossimo e di pedagogia relazionale. Quellodel “potersi raccontare” fa parte di un percorsoche aiuta ad uscire dalla devianza e permette

di ritrovare la fiducia in se stesso. L’uso dellanarrazione, della parola, della riflessione, infatti,può aiutare la persona detenuta o ex detenutaa ritessere i fili di una vita e comprenderne inodi critici. Toccanti e commoventi le storieche raccontano gli sbagli e le colpe di uominie donne arrivati in carcere, a causa dell'am-biente, o del miraggio dei soldi facili, deglieventi traumatici improvvisi, delle violenzedomestiche o dei momenti di rabbia o di follia.Storie di riscatto morale, civile o spiritualeche, grazie alle pene alternative al carcere, alconforto di chi ha dato loro fiducia e le haconsiderate persone, alle famiglie che hannosaputo aspettare, si concludono con una spe-ranza, con la possibilità di un lavoro e con lacertezza di sentirsi utili.

Chiara Anguissola

Paolo Beccegato - Renato MarinaroRIFARSI UNA VITASTORIE OLTRE IL CARCERE

EDB Edizioni - € 10,00

Unanuovavita

Inviati dalla Chiesa torinese

Le testimonianze raccontano l’impatto conle varie religioni, con la povertà, con le abi-tudini e le diverse spiritualità. Partenze pienedi entusiasmo, legate al desiderio di portarela Buona Novella, per poter donare il propriotempo con generosità e forza d’animo, perpoter fare nuove conoscenze e scopertema anche con momenti di disillusione esacrifici. Viene evidenziato il trauma delrientro nella terra d’origine con l’impossibilitàdi vedere valorizzati gli arricchimenti pastoralie spirituali vissuti. Queste opportunità dimissione sono importanti esperienze di vitanon solo per i sacerdoti che hanno sempresvolto il loro ministero entro i confini dio-

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tati una presenza fondamentale nelsupporto in loco degli organizzatoridella Festa nazionale dei Ragazzi Missio-nari del 13 maggio scorso. E il successodell’evento lo testimonia con i fatti. «Pur-troppo – spiega don Di Lullo - la città nonè particolarmente attenta alla sensibili-tà missionaria, anche se c’è da dire chelo è molto per la carità: le necessità sonotante e i cittadini di Pescara non si tira-no indietro. Questa festa, però, è statal’occasione per girare tra le varie parroc-chie e fare una proposta concreta di coin-volgimento e partecipazione». Anche ilComune di Pescara ha accolto la festacon positività ed è nato un tavolo di la-voro con le istituzioni, che si sono dimo-strare molto collaborative. «Con que-st’evento nazionale – è l’auspicio del di-rettore del Cmd, ormai in uscita perché

VITA DI MISSIO

Condividere i doni r

a settembre partirà come fidei donum perl’Albania, accolto dalla diocesi di Sapa –l’attenzione della città alla missionarie-tà ne può beneficiare».Ma “condividere i doni ricevuti” è uno sti-le con cui vivere tutte le attività che ilCmd mette in cantiere. Tra le varie ini-ziative, il gruppo di Missio Giovani è al-l’opera da circa un anno. L’obiettivo èquello di educare i giovani a tenere gliocchi aperti verso orizzonti lontani:«Questo - spiega Francesca, dell’équipedel Cmd - apre tantissimo la mente ecambia il modo di guardare la realtà incui si vive. Insieme all’Ufficio mondiali-tà della Caritas diocesana, in gennaio,mese dedicato alla pace, proponiamo aigiovani di tenere in prima persona labo-ratori di educazione alla pace nellescuole primarie e secondarie». È un

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di CHIARA [email protected]

Osservando dall’esterno l’operatodel Centro missionario diocesa-no (Cmd) di Pescara-Penne, sem-

bra proprio questo il suo motto: “Con-dividere i doni ricevuti”. Sicuramente lohanno fatto prendendo sul serio la sfi-da che mesi fa è arrivata dal segretaria-to di Missio Ragazzi: ospitare la festa na-zionale nella città di Pescara. Di frontead un iniziale smarrimento per il timo-re di trovarsi tra le mani un evento trop-po grande e impegnativo, non si sonodati per vinti: rimboccate le maniche, donMassimo Di Lullo, direttore del Cmd, e lasua équipe, costituita da una ventina dipersone, hanno accolto con positivitàl’opportunità presentatasi e sono diven-

La città di Pescara accoglie i partecipantialla Festa nazionale dei Ragazzi Missionari del 13 maggio scorso.

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cammino di accompagnamento nellaformazione e di sostegno nelle esperien-ze. I giovani legati al Cmd sono stati im-portanti anche per la Festa nazionale deiRagazzi Missionari: «Li abbiamo coinvol-ti – precisa Francesca - perché si pren-dessero delle responsabilità in prima per-sona». Per il Cmd di Pescara-Penne esse-re missionari non significa “fare qualco-sa” in terre lontane, ma andare a scopri-re, conoscere, incontrare culture e popo-li diversi, da cui imparare. È questa la pro-posta che Missio Giovani lancia ai suoiaderenti, con l’insegnamento dell’italia-no ai migranti accolti nei Centri di ac-coglienza straordinaria (Cas) presenti sulterritorio.Un altro momento in cui il Cmd di Pe-scara-Penne ha dimostrato di saper ap-prezzare e condividere i doni ricevuti èstato quello in cui ha aperto la propriasede operativa in una zona periferica del-la città. Oltre all’ufficio istituzionalepresente in Curia, per le sue attività ilCmd usufruisce di un’ampia stanza al-l’interno dell’Istituto delle Pie Madridella Nigrizia, realtà che vede la presen-za di 60 suore comboniane. La zona èprossima al porto di Pescara: «Prima di

lo stile della condivisione: tra le propo-ste che offre come servizio alle comuni-tà che le accolgono, c’è l’animazione diuna settimana con “gli occhi aperti sulmondo”, che consiste nel continuare a vi-vere i consueti impegni quotidiani del-la pastorale ordinaria della parrocchia, macon una speciale sensibilità missionaria.Inoltre, per gli operatori parrocchiali piùinteressati, c’è la proposta di un percor-so di cinque incontri sulla spiritualità mis-sionaria affinché, a partire dal servizionella comunità, i partecipanti possanoacquisire la consapevolezza che la pro-pria parrocchia è il mondo intero.Se, come ripete spesso papa Francesco,la missione nasce dal voler «condivide-re con gli altri un dono ricevuto», non c’èdubbio che il Cmd di Pescara-Penne siasulla buona strada.

noi – racconta don Di Lullo -quella stanza era la mensa deipoveri della città. Poi con iltempo è diventata piccola peri tanti pasti da distribuire quo-tidianamente e il vescovo havoluto realizzare la Cittadelladella Carità, con mensa e dor-mitorio in un’unica struttura.Così, appena liberata , ho chie-sto di poter trasferire lì la sedeoperativa del Cmd: un modoper essere presenti in un luogosignificativo e per stringere illegame con una delle due co-munità missionarie presenti incittà, quella delle suore Com-boniane (l’altra è quella dei pa-dri Oblati di Maria Immacola-ta, ndr)». Anche la nuova sede,luogo significativo per i citta-dini di Pescara, da 25 anniconsiderato un polo della ca-rità e della solidarietà, può es-sere letta come un dono con-diviso in qualche modo con al-tri: è stato, infatti, chiesto al“Laboratorio Incontro” dei ragazzi disa-bili di realizzare i pannelli che arredanola stanza e che la suddividono in varieparti, destinate alle diverse attività delCmd.Pure nel modo con cui il Cmd si propo-ne alle parrocchie della diocesi si legge

ricevuti

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Il Centro missionario diocesano di Pescara-Penne

Al centro della foto don Massimo Di Lullodirettore del CMD Pescara-Penne.

La lunga camminata dei partecipanti alla festa nazionale di Missio Ragazzi sul Ponte del Mare di Pescara.

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E rano 400 i ragazzi presenti all’in-contro conclusivo del percorsosui “diritti negati nel mondo”

promosso dal Centro missionario delladiocesi di Manfredonia-Vieste-San Gio-vanni Rotondo. L’evento del maggioscorso a Monte Sant’Angelo ha chiuso unpercorso iniziato a novembre 2017: il pro-getto ha coinvolto tutta la comunità sco-lastica, le istituzioni locali ed il mondodel volontariato associativo.L’evento conclusivo ha visto come uni-ci relatori gli alunni intervenuti, oltre adon Mario Vincoli, responsabile naziona-le di Missio Ragazzi, e don Domenico Fac-ciorusso, direttore del Centro missiona-rio diocesano.Nell’affollato auditorium del santuariodi San Michele Arcangelo, i ragazzihanno presentato i lavori dei vari grup-pi scolastici, alla presenza dei rispettividirigenti. Il tema dei “diritti negati nelmondo” è stato sviscerato con diversetecniche espressive: recite, balletti, clipe cartelloni.Durante il convegno sono emerse le se-guenti considerazioni:

VITA DI MISSIO

I ragazzi protagonisti dell’incontro promosso dal Centro missionario della diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo e organizzato nel maggio scorso a Monte Sant’Angelo.

Un percorsosui diritti negatiUn percorso

li inerenti lo studio, la salute da non com-promettere con il fumo o altre devian-ze, il gioco sano che rifugge la ludopa-tia, il cibo da rispettare e non sprecare;- la consapevolezza che un cambiamen-to possibile inizia sia dagli stili di vita so-lidali da scegliere nel quotidiano, sia dal-la conoscenza dei problemi di cui sonovittime i minori nel mondo;- le azioni solidali dei “ragazzi che aiu-tano i ragazzi” sono tante: le forme diadozione a distanza, i microprogetti disviluppo sociale, le iniziative in parroc-chia finalizzate a sensibilizzare e racco-gliere offerte per l’Infanzia missionaria.In definitiva, Missio Ragazzi a MonteSant’Angelo ha proposto una costrutti-va iniziativa cittadina, rendendo glistessi alunni protagonisti del racconto so-lidale e missionario fatto davanti almondo adulto e alle istituzioni.Quanto vissuto e imparato non finiscequi. Il prossimo ed entusiasmante even-to è un torneo quadrangolare di calciocon la presenza dei migranti ospitati nelterritorio diocesano. D.F.

Dalla diocesi di Manfredonia -Vieste - San Giovanni Rotondo

- l’esigenza di un patto educativo e mis-sionario per la città abitata da alunni chesi prodigano a costruire un mondo piùgiusto, a partire dal vivere i valori in aulae in famiglia;- la necessità di affiancare ai “diritti ne-gati” i “doveri” da vivere: tra questi, quel-

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di CHIARA [email protected]

I l rinnovamento invocato nel titolodella 16esima edizione delle Giorna-te nazionali di formazione e spiritua-

lità missionaria, in programma ad As-sisi dal 26 al 29 agosto, è un appello aritrovare la propria giovinezza, non cer-to nell’età anagrafica, ma nella fede let-ta in chiave missionaria. “Giovani per ilVangelo. Rinnovarsi tutti nella Parola diGesù” è, infatti, lo slogan scelto dall’Uf-ficio nazionale per la Cooperazione Mis-sionaria tra le Chiese, che da annipropone per la fine di agosto un appun-tamento che rigenera nell’impegnomissionario e sprona ad una formazio-ne continua ed arricchente per la fede.Quest’anno il tema è in linea con quel-lo del Sinodo dei vescovi dedicato a “Igiovani, la fede e il discernimento vo-cazionale” che si terrà a Roma il pros-simo ottobre. Le Giornate di Assisi si pre-figgono di approfondire la tematica e,contemporaneamente, anticipano loslogan della prossima Giornata missio-naria mondiale, che è appunto “Giova-ni per il Vangelo”. In realtà quest’espres-sione – spiega il biblista Luca Mosca-telli nell’introduzione tematica del-l’evento - «ha in sé una illuminante am-biguità: può indicare i giovani che si of-frono per l’annuncio del Vangelo; ma

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Giornate nazionali di formazione e spiritualità missionaria

Ad Assisicon la vogliadi rinnovarsi

può anche suggerire che l’annuncio delVangelo chiede di essere “giovani” (esempre ci restituisce un po’ di giovinez-za). Ecco, vorremmo tenere insieme que-ste due dimensioni». Il percorso dellegiornate di Assisi è scandito dalle pa-role VOCAZIONE / FUTURO / PROFEZIA/ NUOVI ESODI: una sequenza che puòdescrivere la dinamica di ogni incontroprofondo con gli altri e con Dio.Il programma prevede l’intervento divari esperti di pastorale giovanile,come don Alberto Lolli, formatore, edon Riccardo Pascolini, presidente delForum degli Oratori italiani e incarica-to regionale per la pastorale giovani-le dell’Umbria. Non mancano approfon-dimenti biblici a cura di Luca Mosca-telli, che con la lectio entrerà nel vivodei contenuti del convegno, e di Lau-

ra Gusella, monaca e biblista, alla qua-le è affidata una relazione dal titolo “Ri-velazione biblica del tempo”. Un parti-colare sguardo viene riservato allaCina, con l’intervento di padre GianniCriveller, missionario del PontificioIstituto Missioni Estere e docente uni-versitario nel Paese asiatico. Momen-ti dedicati al confronto sono previstinella Tavola rotonda dal titolo “Qualipassi per una evangelizzazione giova-ne?” e nei laboratori biblici che segui-ranno. Quelle di Assisi saranno giorna-te per mettersi in cammino e per usci-re dal cerchio stretto delle proprieabitudini: un percorso che farà matu-rare i giovani e ringiovanire gli anzia-ni. E magari aprirà una rinnovata sta-gione evangelizzatrice, vissuta da gio-vani e anziani insieme.

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VITA DI MISSIO

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bia la vita e dona nuove consapevolezze.Ecco una condivisione della sua esperienza per portareuna testimonianza a chi magari ha voglia di respirare lamissione e aspetta soltanto una spinta.

Valentina, perché hai scelto di dedicare la tua esta-te ad un’esperienza di visita missionaria?«Da qualche anno maturavo l’idea di partire perun’esperienza del genere. Mi sentivo attratta, l’Africa eraun mio sogno nel cassetto che ho poi potuto finalmen-te realizzare. Viaggi “turistici” sono sempre a portata dimano, mentre incontrare un altro popolo in un altro con-tinente potrebbe non ricapitarti».

Quali erano le tue aspettative e come hai vissutoquesta esperienza?«Non avevo aspettative in particolare, ho scelto di nondocumentarmi sul Paese che andavo a visitare, di nonguardare foto, di non farmi influenzare da vissuti altrui.Era la mia esperienza, con i miei compagni di viaggio:mi bastava e mi è bastato. Dalle giornate di formazioneai singoli giorni vissuti in missione, credo che ogni cosa

ESTATE, TEMPO DI MISSIONE

ESTATE,TEMPO DI MISSIONEQuello estivo è un tempo di riposo, di riflessione e

di vacanze. Ogni attività in questo periodo èsospesa. Le scuole sono chiuse, le attività parrocchiali ediocesane cessano, aspettando l’inizio di un nuovoanno pastorale. Per molti dei giovani di Missio, però,l’estate è soprattutto un’occasione per fare nuove espe-rienze e per sperimentare concretamente cos’è la mis-sione e come la si vive. Infatti ogni anno Missio Giovanipropone, solitamente in agosto, un viaggio di visita mis-sionaria di circa un mese in luoghi di missione in giro peril mondo, all’insegna di nuovi incontri, avventure e spiri-tualità. Non è un’esperienza di volontariato, né uncampo di lavoro. Si tratta di un viaggio vissuto nel tipi-co stile dei “giovani con la missione nel cuore”, chehanno principalmente come obiettivo non quello di“fare”, quanto quello di “essere” qualcosa per qualcuno,di sperimentare cosa vuol dire entrare in contatto conun’altra realtà. Un’esperienza che ha come finalità quel-la di compiere sempre un passo in avanti verso l’Altro.È con questo spirito che Valentina, da Parma, l’annoscorso ha scelto di investire la sua estate in Tanzania perrealizzare un suo sogno e per vivere un viaggio che cam-

Valentina, terza a sinistra nella foto.

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abbia funzionato in modo tale che si tornasse a casa conun bagaglio carico di emozioni, con maggior consape-volezza di se stessi e dell’altro, con uno sguardo nuovosulla nostra vita e sulle vicende, più che mai attuali, checi circondano».

Ti va di raccontare un episodio, unmomento, che porterai con te per sem-pre?«Questo viaggio mi ha segnato e mi halasciato ovviamente più di un ricordo. Nescelgo due: il primo, quasi all’alba. Lelodi e la messa ci radunavano in chiesa,seguire i vari momenti non era semplice,ma al suono di “Baba Yetu” i respiri sicoordinavano e riuscivo ad iniziare econcludere con la comunità la preghierache per eccellenza ci rende “figli”, ilPadre Nostro. Il secondo ricordo è lega-to più alla condivisione e al confronto:si tratta del momento serale vissuto coni miei compagni di missione, quandosotto un cielo stellato, cercavamo stel-le cadenti e l’inquadratura giusta per lefoto, ci scambiavamo pensieri e istantivissuti del giorno, per mettere nero subianco cosa ci stava facendo cresceree maturare nella fede».

Consiglieresti ad altri giovani di intra-prendere un viaggio missionario? E per-ché?«Assolutamente sì. Io non avevo idea di cosafosse realmente la missione. Attraverso que-sto viaggio ho compreso più a fondo il valoredell’incontro, dello scambio culturale, dellanecessità di mettersi al fianco di un popoloper camminare insieme verso una meta, senzala pretesa di sapere dove si sta andando e inche modo arrivarci. Viaggiare così apre nuoveprospettive, spinge a rinnovare le proprie idee ea rimettere in discussione tutto ciò che siamo».

Un grazie a Valentina per questa sua testimonian-za che mi auguro possa giungere a tutti i giovaniche, come lei, hanno voglia di scoprire ed acco-

gliere le ricchezze che scaturiscono dal vivere la missio-ne.Missio Giovani augura una buona estate, all’insegna dinuovi incontri e condivisioni. E a tutti i giovani che dalleloro realtà, in gruppo o singolarmente, partiranno versoterre di missione, l’augurio di un buon viaggio!

Marzia Cofano

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V isitando un quartiere o un paese qualsiasi dalla provin-cia italiana troviamo sempre uno o più preti al servizio

di quella comunità; si può dire che all’interno del tessuto ci-vile e religioso nazionale la rete delle parrocchie unisce il Nordal Sud, isole comprese, in una realtà che il servizio dei sacer-doti rende sempre più a misura di uomo. All’interno di que-sta realtà quanti sono i sacerdoti che non fanno notizia, mache lavorano per il Regno di Dio!Preti con qualche anno sulle spalle che non si risparmiano nel-l’essere presenti nelle situazioni di sofferenza e di disagio del-la propria comunità, portando consolazione laddove ce n’è bi-sogno, e dando i giusti stimoli morali, materiali e spirituali,per continuare ad andare avanti in momenti difficili come quel-li che stiamo vivendo. Ragazzi da accompagnare nell’itinera-rio catechistico, adolescenti e giovani da aiutare nella diffici-le opera del discernimento di fronte alle scelte che la vita, ascadenza sempre più ravvicinata, presenta loro. Famiglie espo-ste ai richiami subdoli e ambigui delle “sirene” sempre più per-vasivi nella società moderna da sostenere nel loro itinerariodi fede e di vita, anziani da ascoltare e aiutare… Il panoramapastorale è molto vasto, per questo la missione del prete nonpuò essere l’opera di “cavalieri solitari”. I sacerdoti sanno dipoter sempre contare sull’aiuto del Signore e sul sostegno del-la comunità: questo li rende decisi a continuare sempre piùnell’opera intrapresa.

I grandi della terra, i presidenti e i capi di governo delle va-rie nazioni “forti” presenti sul pianeta, quando prendono

decisioni di una certa importanza, in genere lo fanno tenen-do presente i vantaggi che possono trarre e riversare sulle po-polazioni loro affidate. Per cui può darsi benissimo che i van-taggi che possono avere le famiglie dei Paesi super sviluppa-ti del Nord del mondo, si traducano per i Paesi in via di svi-luppo in danni per le loro popolazioni e di conseguenza perle famiglie che vi abitano. Il mondo è uno solo: se accettia-mo che le grandi scelte economiche e politiche diano dei van-taggi solo alle famiglie dei Paesi già benestanti, non riuscire-mo mai a proteggere le famiglie dei Paesi in via di sviluppocome un tesoro prezioso per tutta l’umanità. Urge quindi unapresa di coscienza che tenga presente questa realtà, altrimen-ti si ricadrebbe in una forma di neocolonialismo che, men-tre reca dei vantaggi agli uni, crea povertà e sottosviluppo aglialtri.A questo proposito l’incontro tra le famiglie delle nostre co-munità e le famiglie dei nuovi arrivati può essere un’ottima scuo-la di conoscenza della diversità culturale e la riscoperta del te-soro prezioso che ogni nucleo familiare può offrire ad altri. In-vece di chiuderci in casa a doppia mandata, basta costruire pon-ti con tutti coloro che il Signore pone sulla nostra strada.

“““

“LUGLIO“PERCHÉ I SACERDOTI CHE VIVONO CON FATICA ENELLA SOLITUDINE IL LORO LAVORO PASTORALE SISENTANO AIUTATI E CONFORTATI DALL’AMICIZIACON IL SIGNORE E CON I FRATELLI”. AGOSTO

“PERCHÉ LE GRANDI SCELTE ECONOMICHE EPOLITICHE PROTEGGANO LE FAMIGLIE COME UNTESORO DELL’UMANITÀ”.

Pensiamo sempreagli ultimi

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di GAETANO BORGO*[email protected]

L ei è minuta ed esile, mi col-pisce subito il suo grandesorriso impresso sul suo vol-

to, simpatico, amico. Incontro Di-gne Ntirandekura, burundese, inuna fresca mattinata primaverile,oggi sento che nell’aria tutto si starisvegliando e smuovendo. Le paro-le di Digne infatti sono primaveraper me, i suoi grandi occhi diventa-no finestre spalancate sull’Africa e ilsuo racconto, incalzato dalle mie do-mande, sprigiona in me un’ammi-razione evangelica ma anche una sin-cera personale inadeguatezza difronte al dramma e alle fatiche diquesto popolo che mi fa conoscere.Digne è nata 53 anni fa nel picco-lo Stato del Burundi, in Africa cen-trale, e ha sofferto molto nella suaprima giovinezza l’insensatezza e ladisumanità di una guerra fratricida.Ricorda: «Ho visto inchiodati alleatrocità corpi esanimi e anime dimolti sopravvissuti, inclusa la mia fa-miglia. Tuttavia, allo stesso tempo,ho percepito che la Chiesa era il miorifugio e che l’amore luminoso delCristo crocifisso era la mia forza.Probabilmente in quel tratto di vita

Digne, donna dalgrande sorriso

sofferenti sperimentando la bellez-za della casa-famiglia e il suo carisma.

La tua vita è stata immersa neldramma. Che cosa ti ha portato adabbracciare questo carisma, checosa ti ha attirato di don Benzi?«Nel suo carisma trovai ciò che mi aiu-tò a sopravvivere nei momenti più dif-ficili: la condivisione e l’abbraccio del-la vita degli ultimi. Dio nella mia stra-da pose molti compagni di camminotra cui padre Pascal, prete diocesanoburundese 67enne, che opera »

nacque il desiderio, diventato poi vo-cazione e consacrazione, di essere unpiccolo seme dell’amore di Gesù tracoloro che soffrono».La giovane africana sbarca in Italia,a Roma, e vi rimane per 12 anni.Qui incontra dapprima accoglien-za presso le suore del Sacro Cuore diGesù, poi in seguito, entra nella Co-munità Papa Giovanni XXIII di donOreste Benzi dove si dedica, suconsiglio del prete riminese, agli stu-di teologici e contemporaneamen-te all’assistenza di malati, disabili,

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famiglia 10 ragazzi abbandonati, se-guiamo da vicino 45 famiglie pigmee,attendiamo alle cure mediche per 35malati di Hiv, 30 orfani e altri bam-bini vulnerabili da zero a cinqueanni. Poi ci dedichiamo a “correre ap-presso” a tanti ragazzi “rifiutati” chevivono di immondizia nella periferia,per stare con loro e ricostruire insie-me un po’ di dignità umana».Le parole concrete di Digne scalda-no l’aria fresca di questo mattino, trale righe capisco che vorrebbe fare dipiù, ma conosce bene che moltisono i mali che affliggono il suo Pae-se e l’Africa tutta.Il Burundi è uno dei Paesi più pove-ri al mondo. Nella lista dei Paesi piùmalnutriti è al penultimo posto. Cir-ca l’80% dei burundesi vive conmeno di un euro al giorno e si muo-re, letteralmente, di fame. La gioven-tù, per lo più senza punti di riferimen-to, rappresenta più del 60% della po-polazione, mentre più del 90% del-le famiglie cerca di sopravvivere gra-zie al lavoro nei campi, con unazappa, spaccandosi la schiena su unfazzoletto di terra. Industrie e altro disimile non esistono, l’analfabetismoresta ancora molto forte, la politicaeconomica insignificante.

Cosa ci vuole, secondo la vostraesperienza sul campo, per far sor-gere un Burundi più dignitoso?

coloro che son considerati gli “scar-ti” della società. Avere a cuore l’altroogni ora, tutti i giorni, senza sosta.Averne cura facendosene carico, rico-noscerne la dignità e sentirsi apparte-nenti ad un’unica famiglia, la spingea riconoscere l’altro come figlio di Dio,al di là di ogni credo. Dice Digne:«Sulla scia di questo carisma conti-nuiamo ad accogliere l’umanità sof-ferente, emargina-ta e soprattutto ibambini abbando-nati e affamati chenessuno vuole. In-sieme a padre Pa-scal e ad altri ope-ratori accompa-gniamo nella quo-tidianità della casa-

nella parrocchia Sainte Famille Kina-ma, con il quale condivido progettidi carità, nella periferia della capita-le Bujumbura e sulle limitrofe colli-ne. Per tutto quello che don Oresteha significato e significa, abbiamo scel-to di vivere il Vangelo immersi nel-l’ascolto dei drammatici silenzi di unpopolo e dei gemiti di un’umanità tra-fitta. Dare la nostra voce in opere dicarità e nella giustizia di un cuore dicarne e non di pietra. Don Benzi ciispira come modello etico oltre chespirituale. Egli affermava, infatti, chela “condivisione diretta segna i primor-di di una nuova umanità in cui il pas-so nella storia è segnato dai poveri”».

La sua consacrazione nella Comuni-tà Papa Giovanni XXIII è vissuta con

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«Aiutare l’Africa con l’Africa» era ilmotto del vescovo Daniele Combo-ni. Oggi ho incontrato Digne, don-na africana, anche lei aiuta la sua Afri-ca. Di questo è convinta, vuole rea-lizzare questo sogno, ci sta scommet-tendo infatti tutta la propria esisten-za e consacrazione. Si sta adoperan-do per acquistare un mulino elettri-co per schiacciare grano, mais, soia ealtri cereali. Vorrebbe produrre una fa-rina altamente nutriente da distribui-re a chi manca del necessario, a chi èaffamato, al di là delle differenze re-ligiose o etniche.Digne sogna di poter acquistare unappezzamento di terra su cui costrui-re una casa con laboratori per insegna-re molte attività lavorative. Sogna didare inizio ad un allevamento dimaiali e coltivare il frutto della pas-sione in quel terreno. Sogna di acco-gliere altri ragazzi soli, abbandonati,i figli di nessuno, i figli di Dio. «I have a dream» gridava più di 50anni fa un giovane afro-americano.«I have a dream» oggi ci grida unadonna africana. Forse dobbiamorivedere i nostri piccoli e grandi so-gni, che dite? I sogni di Dignesono schegge di vero paradiso. Per-ché come scriveva don Benzi: «Pa-radiso è l’accettare di amare, è vive-re come Gesù, questa è la cosa stu-penda che andiamo a dire nel mon-do con la vita e con i fatti». Non ci sembra poco quello che cihai raccontato, cara Digne, donnadal grande sorriso. Ti sosteniamoe vogliamo realizzare con te questisogni, autentiche schegge di veroparadiso.

cato, con il monito di papa France-sco: «I poveri sono la carne di Cristo».Diventa il suo comandamento piùimportante: «Sono loro oggi da soste-nere con tutto l’amore che possiamoe, per questo, chiediamo forza e aiu-to. Non intendiamo avere cuori e oc-chi distratti, sulle orme di Gesù, ab-biamo deciso di essere voce di chi nonha voce».Sogni! Semplicemente realizzabili…Sono più di 2500 giorni che Digne,supportata dalla Comunità Giovan-ni XXIII, vive la condivisione diret-ta con i diseredati. Dice la religiosa:«Il nostro sogno d’amore non è venu-to mai meno. Sta crescendo conloro, con la loro dignità di esseri uma-ni. Offrendo affetto, cibo, istruzione,giustizia, sogniamo di poter inse-gnar loro alcuni lavori per aiutarli arealizzarsi, rendersi indipendenti e uti-li nella società, come il falegname, lasarta, l’allevatore, l’agricoltore, il mu-gnaio. È per questo che ci rivolgiamoa tutte le persone di buona volontà».

«C’è necessità di una sinergia di tut-te le componenti della società burun-dese, una coscientizzazione a tutti i li-velli perché, come dice don Benzi, “almondo non basta la predicazione del-la Parola”, serve una “vita impregna-ta di quelle parole”. Pertanto, trova-re una soluzione a tutto ciò risulta es-sere molto complesso».

Digne prosegue la nostra chiacchie-rata con dei passaggi interessanti chemi riportano alla mente il sorriso didon Oreste che ho conosciuto e fre-quentato anch’io tra le strade di Ri-mini. Di notte, con lui accanto, nonsi provava nessuna paura. Diceva:«Quando vedo il povero disarmato,quel tipo di povero che è talmente co-sciente di essere povero che quasi tichiede scusa di esistere (…), in quelmomento non vedo altro se non Dio».Oppure: «Quando vedi un povero,non far finta di non averlo visto».Queste parole del “don” per Digneoggi si rivestono, in modo più mar-

*Direttore del Centro missionariodiocesano di Padova

Digne con i bimbi pigmei.

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EDIZIONE DELLE GIORNATE NAZIONALI DIFORMAZIONE E SPIRITUALITÀ MISSIONARIA

Domus PacisSanta Maria degli Angeli - Assisi

26 - 29 agosto 2018

GIOVANI PERIL VANGELO

RINNOVARSI TUTTINELLA PAROLA DI GESÙ


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