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Avevano spento anche la luna - Club degli Editori - I ... · continuare a lottare anche quando...

Date post: 20-Feb-2019
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RUTA SEPETYS Romanzo Avevano spento anche la luna
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Ruta SepetyS

Ru

ta

Sep

et

yS

Romanzo

Avevano spento anche la luna

Av

eva

no

spen

to a

nch

e la lu

na

813576

«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un

vuoto troppo a lungo dimenticato.»The Wall Street Journal

«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importan-ti, questo romanzo è entrambe le cose.»

The Washington Post

«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la poten-za di questo romanzo.»

Publishers Weekly

«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un

rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Com-movente. Un romanzo importante, che merita il maggior

pubblico possibile.»Booklist

sovraccoperta

CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es

alle classifiche del «New York Times». Definito all’unanimità da librai, lettori, giornalisti e insegnanti un romanzo im-portante e potente, racconta una storia unica e sconvolgente, che strappa il re-spiro e rivela la natura miracolosa dello spirito umano, capace di sopravvivere e continuare a lottare anche quando tutto è perso.

Ruta Sepetys è nata in Michigan, da una famiglia di rifugiati lituani. Non ha mai dimenticato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo è andata in Lituania, nel tentativo di recuperare la memoria paterna. Per scrivere Aveva-no spento anche la luna le ricerche sono state impegnative e l’hanno portata a vi-sitare i campi di lavoro in Siberia e a co-noscere storici e tantissimi sopravvissuti, che l’hanno aiutata a descrivere i parti-colari più importanti di quel passato di atrocità.

In copertina:Illustrazione di ushadesign

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica ir-rompe con violenza in casa sua, in Litua-nia. Lina, figlia del rettore dell’universi-tà, è sulla lista nera, insieme alle famiglie di molti altri scrittori, professori, dottori. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno.Ma c’è qualcosa che non possono toglie-re a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di pri-gionia del padre. È l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, de-cisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a so-pravvivere, onererà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia.Ispirato a una storia vera, Avevano spen-to anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. Venduto in ventotto paesi, ap-pena uscito in America è balzato in testa

Segue sull’altro risvolto

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Romanzo

Avevano spento anche la luna

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«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un

vuoto troppo a lungo dimenticato.»The Wall Street Journal

«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importan-ti, questo romanzo è entrambe le cose.»

The Washington Post

«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la poten-za di questo romanzo.»

Publishers Weekly

«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un

rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Com-movente. Un romanzo importante, che merita il maggior

pubblico possibile.»Booklist

sovraccoperta

CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es

alle classifiche del «New York Times». Definito all’unanimità da librai, lettori, giornalisti e insegnanti un romanzo im-portante e potente, racconta una storia unica e sconvolgente, che strappa il re-spiro e rivela la natura miracolosa dello spirito umano, capace di sopravvivere e continuare a lottare anche quando tutto è perso.

Ruta Sepetys è nata in Michigan, da una famiglia di rifugiati lituani. Non ha mai dimenticato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo è andata in Lituania, nel tentativo di recuperare la memoria paterna. Per scrivere Aveva-no spento anche la luna le ricerche sono state impegnative e l’hanno portata a vi-sitare i campi di lavoro in Siberia e a co-noscere storici e tantissimi sopravvissuti, che l’hanno aiutata a descrivere i parti-colari più importanti di quel passato di atrocità.

In copertina:Illustrazione di ushadesign

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica ir-rompe con violenza in casa sua, in Litua-nia. Lina, figlia del rettore dell’universi-tà, è sulla lista nera, insieme alle famiglie di molti altri scrittori, professori, dottori. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno.Ma c’è qualcosa che non possono toglie-re a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di pri-gionia del padre. È l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, de-cisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a so-pravvivere, onererà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia.Ispirato a una storia vera, Avevano spen-to anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. Venduto in ventotto paesi, ap-pena uscito in America è balzato in testa

Segue sull’altro risvolto

Ruta SepetyS

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Romanzo

Avevano spento anche la luna

Av

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to a

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«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un

vuoto troppo a lungo dimenticato.»The Wall Street Journal

«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importan-ti, questo romanzo è entrambe le cose.»

The Washington Post

«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la poten-za di questo romanzo.»

Publishers Weekly

«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un

rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Com-movente. Un romanzo importante, che merita il maggior

pubblico possibile.»Booklist

sovraccoperta

CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es

alle classifiche del «New York Times». Definito all’unanimità da librai, lettori, giornalisti e insegnanti un romanzo im-portante e potente, racconta una storia unica e sconvolgente, che strappa il re-spiro e rivela la natura miracolosa dello spirito umano, capace di sopravvivere e continuare a lottare anche quando tutto è perso.

Ruta Sepetys è nata in Michigan, da una famiglia di rifugiati lituani. Non ha mai dimenticato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo è andata in Lituania, nel tentativo di recuperare la memoria paterna. Per scrivere Aveva-no spento anche la luna le ricerche sono state impegnative e l’hanno portata a vi-sitare i campi di lavoro in Siberia e a co-noscere storici e tantissimi sopravvissuti, che l’hanno aiutata a descrivere i parti-colari più importanti di quel passato di atrocità.

In copertina:Illustrazione di ushadesign

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica ir-rompe con violenza in casa sua, in Litua-nia. Lina, figlia del rettore dell’universi-tà, è sulla lista nera, insieme alle famiglie di molti altri scrittori, professori, dottori. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno.Ma c’è qualcosa che non possono toglie-re a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di pri-gionia del padre. È l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, de-cisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a so-pravvivere, onererà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia.Ispirato a una storia vera, Avevano spen-to anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. Venduto in ventotto paesi, ap-pena uscito in America è balzato in testa

Segue sull’altro risvolto

Ruta SepetyS

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Romanzo

Avevano spento anche la luna

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«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un

vuoto troppo a lungo dimenticato.»The Wall Street Journal

«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importan-ti, questo romanzo è entrambe le cose.»

The Washington Post

«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la poten-za di questo romanzo.»

Publishers Weekly

«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un

rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Com-movente. Un romanzo importante, che merita il maggior

pubblico possibile.»Booklist

sovraccoperta

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alle classifiche del «New York Times». Definito all’unanimità da librai, lettori, giornalisti e insegnanti un romanzo im-portante e potente, racconta una storia unica e sconvolgente, che strappa il re-spiro e rivela la natura miracolosa dello spirito umano, capace di sopravvivere e continuare a lottare anche quando tutto è perso.

Ruta Sepetys è nata in Michigan, da una famiglia di rifugiati lituani. Non ha mai dimenticato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo è andata in Lituania, nel tentativo di recuperare la memoria paterna. Per scrivere Aveva-no spento anche la luna le ricerche sono state impegnative e l’hanno portata a vi-sitare i campi di lavoro in Siberia e a co-noscere storici e tantissimi sopravvissuti, che l’hanno aiutata a descrivere i parti-colari più importanti di quel passato di atrocità.

In copertina:Illustrazione di ushadesign

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica ir-rompe con violenza in casa sua, in Litua-nia. Lina, figlia del rettore dell’universi-tà, è sulla lista nera, insieme alle famiglie di molti altri scrittori, professori, dottori. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno.Ma c’è qualcosa che non possono toglie-re a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di pri-gionia del padre. È l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, de-cisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a so-pravvivere, onererà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia.Ispirato a una storia vera, Avevano spen-to anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. Venduto in ventotto paesi, ap-pena uscito in America è balzato in testa

Segue sull’altro risvolto

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1.

Mi portarono via in camicia da notte.Ripensandoci, i segnali c’erano tutti: foto di famiglia bru-

ciate nel camino, la mamma che nel cuore della notte cuciva l’argenteria e i gioielli più belli nella fodera del suo cappotto e il papà che non tornava dal lavoro. Il mio fratellino, Jonas, continuava a fare domande. Anch’io ne facevo, ma forse mi rifiutavo di riconoscere i segnali. Solo più tardi mi resi conto che la mamma e il papà intendevano scappare con noi. Ma non scappammo.

Fummo portati via.14 giugno 1941. Mi ero messa la camicia da notte e mi ero

seduta alla scrivania per scrivere una lettera a mia cugina Jo-ana. Aprii un nuovo blocco di carta avoriata e un astuccio di penne e matite, un regalo della zia per il mio quindicesimo compleanno.

La brezza serale entrava dalla finestra aperta e fluttuava sulla scrivania, facendo danzare le tende. Sentivo il profumo del mughetto che io e la mamma avevamo piantato due anni prima. «Cara Joana.»

Non fu un bussare. Fu un rimbombo cupo e insistente che mi fece sobbalzare sulla sedia. Dei pugni battevano sulla nostra porta d’ingresso. Dentro casa, nessuno si mosse. Io mi alzai dalla scrivania e sbirciai in corridoio. Mia madre era appiattita contro la parete, di fronte alla carta della Lituania incorniciata, con gli occhi chiusi e il viso tirato da un’angoscia che non vi avevo mai visto prima. Stava pregando.

«Mamma», disse Jonas, un solo occhio visibile attraverso la

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fessura della porta in camera sua, «hai intenzione di aprire? Sembra quasi che vogliano buttarla giù.»

Nostra madre girò la testa e vide me e Jonas che facevamo capolino dalle rispettive stanze. Abbozzò un sorriso. «Sì, te-soro. Adesso vado ad aprire. Non lascerò che buttino giù la nostra porta.»

I tacchi delle sue scarpe echeggiarono lungo il parquet del corridoio e la gonna lunga e leggera le ondeggiò sulle cavi-glie. La mamma era elegante e bella, anzi, bellissima, con un sorriso insolitamente aperto che illuminava ogni cosa intorno a lei. Io ero fortunata ad avere i suoi capelli color miele e i suoi luminosi occhi azzurri. Jonas aveva il suo sorriso.

Dal pianerottolo tuonarono voci imperiose.«L’nkvd!» sussurrò Jonas impallidendo. «Tadas ha detto

che hanno portato via i suoi vicini su un camion. Stanno arrestando la gente.»

«No, non qui», risposi. La polizia segreta sovietica non aveva motivo di interessarsi a noi. Andai in fondo al corridoio per ascoltare e guardai di nascosto oltre l’angolo. Jonas aveva ragione. Tre agenti dell’nkvd avevano circondato la mamma. Portavano berretti blu con un bordo rosso, su cui spiccava una stella dorata. Un agente alto aveva in mano i nostri passaporti.

«Ci serve più tempo. Saremo pronti domattina», disse la mamma.

«Venti minuti... o non vivrete abbastanza da arrivare a domattina», minacciò l’agente.

«Per favore, abbassate la voce. Ho dei figli», sussurrò la mamma.

«Venti minuti», gridò l’agente. Buttò la sigaretta accesa sul pavimento pulito del nostro soggiorno e la schiacciò sul legno con lo stivale.

Stavamo per diventare sigarette.

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2.

Volevano arrestarci? Dov’era il papà? Corsi nella mia stan-za. Sul davanzale della finestra era comparsa una pagnotta appena sfornata, con una grossa mazzetta di rubli infilata sotto. La mamma arrivò sulla soglia con Jonas che la seguiva, standole attaccato.

«Ma, mamma, dove andremo? Che cosa abbiamo fatto?» chiedeva lui.

«È un equivoco. Lina, hai sentito? Dobbiamo fare in fretta e prendere tutto ciò che è utile, anche se non ci siamo neces-sariamente affezionati. Avete capito? Lina! I vestiti e le scarpe devono essere la nostra priorità. Cercate di infilare tutto quello che riuscite in una sola valigia.» La mamma guardò verso la finestra. Si affrettò a far scivolare il pane e il denaro sulla scrivania e chiuse di scatto le tende. «Promettetemi che se qualcuno cercherà di aiutarvi lo ignorerete. Sistemeremo da soli la faccenda. Non dobbiamo trascinare parenti e amici in questo malinteso, capite? Anche se vi chiameranno a voce alta, voi non dovete rispondere.»

«Ci arresteranno?» chiese Jonas.«Promettetemelo!»«Te lo prometto», disse piano Jonas. «Ma dov’è il papà?»La mamma rimase zitta un attimo, battendo le palpebre

rapidamente. «Lui ci verrà incontro. Abbiamo venti minuti. Raccogliete le vostre cose. Subito!»

La camera cominciò a girare. La voce della mamma mi riecheggiava in testa. «Subito. Subito!» Che cosa stava succe-dendo? I rumori del mio fratellino di dieci anni che correva in giro per la sua stanza mi fecero scattare qualcosa dentro.

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fessura della porta in camera sua, «hai intenzione di aprire? Sembra quasi che vogliano buttarla giù.»

Nostra madre girò la testa e vide me e Jonas che facevamo capolino dalle rispettive stanze. Abbozzò un sorriso. «Sì, te-soro. Adesso vado ad aprire. Non lascerò che buttino giù la nostra porta.»

I tacchi delle sue scarpe echeggiarono lungo il parquet del corridoio e la gonna lunga e leggera le ondeggiò sulle cavi-glie. La mamma era elegante e bella, anzi, bellissima, con un sorriso insolitamente aperto che illuminava ogni cosa intorno a lei. Io ero fortunata ad avere i suoi capelli color miele e i suoi luminosi occhi azzurri. Jonas aveva il suo sorriso.

Dal pianerottolo tuonarono voci imperiose.«L’nkvd!» sussurrò Jonas impallidendo. «Tadas ha detto

che hanno portato via i suoi vicini su un camion. Stanno arrestando la gente.»

«No, non qui», risposi. La polizia segreta sovietica non aveva motivo di interessarsi a noi. Andai in fondo al corridoio per ascoltare e guardai di nascosto oltre l’angolo. Jonas aveva ragione. Tre agenti dell’nkvd avevano circondato la mamma. Portavano berretti blu con un bordo rosso, su cui spiccava una stella dorata. Un agente alto aveva in mano i nostri passaporti.

«Ci serve più tempo. Saremo pronti domattina», disse la mamma.

«Venti minuti... o non vivrete abbastanza da arrivare a domattina», minacciò l’agente.

«Per favore, abbassate la voce. Ho dei figli», sussurrò la mamma.

«Venti minuti», gridò l’agente. Buttò la sigaretta accesa sul pavimento pulito del nostro soggiorno e la schiacciò sul legno con lo stivale.

Stavamo per diventare sigarette.

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2.

Volevano arrestarci? Dov’era il papà? Corsi nella mia stan-za. Sul davanzale della finestra era comparsa una pagnotta appena sfornata, con una grossa mazzetta di rubli infilata sotto. La mamma arrivò sulla soglia con Jonas che la seguiva, standole attaccato.

«Ma, mamma, dove andremo? Che cosa abbiamo fatto?» chiedeva lui.

«È un equivoco. Lina, hai sentito? Dobbiamo fare in fretta e prendere tutto ciò che è utile, anche se non ci siamo neces-sariamente affezionati. Avete capito? Lina! I vestiti e le scarpe devono essere la nostra priorità. Cercate di infilare tutto quello che riuscite in una sola valigia.» La mamma guardò verso la finestra. Si affrettò a far scivolare il pane e il denaro sulla scrivania e chiuse di scatto le tende. «Promettetemi che se qualcuno cercherà di aiutarvi lo ignorerete. Sistemeremo da soli la faccenda. Non dobbiamo trascinare parenti e amici in questo malinteso, capite? Anche se vi chiameranno a voce alta, voi non dovete rispondere.»

«Ci arresteranno?» chiese Jonas.«Promettetemelo!»«Te lo prometto», disse piano Jonas. «Ma dov’è il papà?»La mamma rimase zitta un attimo, battendo le palpebre

rapidamente. «Lui ci verrà incontro. Abbiamo venti minuti. Raccogliete le vostre cose. Subito!»

La camera cominciò a girare. La voce della mamma mi riecheggiava in testa. «Subito. Subito!» Che cosa stava succe-dendo? I rumori del mio fratellino di dieci anni che correva in giro per la sua stanza mi fecero scattare qualcosa dentro.

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18

Tirai fuori con uno strattone la mia valigia dall’armadio e la aprii sul letto.

Esattamente un anno prima, i sovietici avevano cominciato a trasferire truppe oltre il confine, nel nostro paese. Poi, in agosto, la Lituania era stata ufficialmente annessa all’Unione Sovietica. Una volta che mi ero lamentata a cena, il papà mi aveva sgridato dicendomi di non dire mai e poi mai qualcosa di negativo sui sovietici. Mi aveva mandato in castigo in camera mia. Dopo quella volta non dissi più niente ad alta voce. Ma ci pensavo molto.

«Le scarpe, Jonas, calze di scorta, un cappotto!» sentivo la mamma gridare dal corridoio. Presi dalla mensola una foto della nostra famiglia e misi la cornice d’oro a faccia in su nella valigia vuota. I volti mi guardarono, felici, ignari. Era la Pasqua di due anni prima. La nonna era ancora viva. Se davvero stavamo andando in prigione, volevo portarla con me. Ma non era possibile che ci mettessero in prigione. Non avevamo fatto niente di male.

Colpi e rumori secchi esplodevano in tutta la casa.«Lina», disse la mamma precipitandosi in camera mia, con

le braccia cariche. «Sbrigati!» Spalancò l’armadio e i cassetti, tirò fuori freneticamente le mie cose e le gettò alla rinfusa in valigia.

«Mamma, non riesco a trovare il mio album da disegno. Dov’è?» le chiesi in preda al panico.

«Non lo so. Ne compreremo uno nuovo. Metti via i tuoi vestiti. Svelta!»

Jonas corse nella mia stanza. Si era vestito per andare a scuola, con la divisa e il cravattino, e teneva in mano la cartella. I capelli biondi erano accuratamente pettinati con la riga da parte. «Sono pronto, mamma», disse con la voce che tremava.

«N-no!» balbettò lei, rimanendo senza fiato alla vista di Jonas con la divisa della scuola privata. Fece un respiro for-zato e abbassò la voce. «No, tesoro, la valigia. Vieni con me.» Lo afferrò per un braccio. «Lina, mettiti le scarpe e le calze. Svelta!» Prima di correre nella stanza di Jonas mi gettò il soprabito estivo e io lo indossai.

Infilai i sandali e presi due libri, i nastri per i capelli e la

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spazzola. Dov’era finito il mio album da disegno? Afferrai dalla scrivania il blocco di carta avoriata, l’astuccio di penne e matite, il rotolo di rubli e li sistemai fra i mucchi di roba che avevamo buttato in valigia. Chiusi le serrature a scatto e corsi fuori dalla camera, le tende che si gonfiavano e sbattevano sulla pagnotta fresca rimasta sulla scrivania.

Vidi il mio riflesso nella porta a vetri della panetteria e mi soffer-mai un momento. Avevo una macchia di vernice verde sul mento. La grattai via e spinsi la porta. Un campanello squillò sopra la mia testa. Il negozio era caldo e profumava di lievito.

«Lina, che bello vederti.» La donna si precipitò al bancone per servirmi. «Che cosa ti posso dare?»

La conoscevo? «Mi scusi, io non...»«Mio marito è professore all’università. Lavora per tuo padre»,

mi spiegò. «Ti ho visto in città con i tuoi genitori.»Annuii. «Mia madre mi ha chiesto di comprare una pagnotta»,

le dissi.«Certo», rispose la donna dandosi da fare dietro il bancone. Avvolse

una pagnotta tonda nella carta marrone e me la porse.Quando allungai i soldi, lei scosse la testa.«Ti prego», sussurrò la donna, «non potremo mai sdebitarci,

davvero.»«Non capisco.» Allungai verso di lei la mano con le monete. Mi

ignorò.Il campanello tintinnò e qualcuno entrò nel negozio. «Salutaci

tanto i tuoi genitori», si raccomandò la donna prima di servire l’altro cliente.

Più tardi, quella sera, chiesi al papà chiarimenti sul pane.«È stato molto gentile da parte sua, però non era il caso», disse lui.«Ma cosa hai fatto?» gli domandai.«Niente, Lina. Hai finito i compiti?»«Ma devi aver fatto qualcosa per meritarti il pane gratis», insistetti.«Non mi merito niente. Si sta dalla parte del giusto, Lina, senza

aspettarsi gratitudine né ricompense. Adesso va’ a finire i compiti.»

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Tirai fuori con uno strattone la mia valigia dall’armadio e la aprii sul letto.

Esattamente un anno prima, i sovietici avevano cominciato a trasferire truppe oltre il confine, nel nostro paese. Poi, in agosto, la Lituania era stata ufficialmente annessa all’Unione Sovietica. Una volta che mi ero lamentata a cena, il papà mi aveva sgridato dicendomi di non dire mai e poi mai qualcosa di negativo sui sovietici. Mi aveva mandato in castigo in camera mia. Dopo quella volta non dissi più niente ad alta voce. Ma ci pensavo molto.

«Le scarpe, Jonas, calze di scorta, un cappotto!» sentivo la mamma gridare dal corridoio. Presi dalla mensola una foto della nostra famiglia e misi la cornice d’oro a faccia in su nella valigia vuota. I volti mi guardarono, felici, ignari. Era la Pasqua di due anni prima. La nonna era ancora viva. Se davvero stavamo andando in prigione, volevo portarla con me. Ma non era possibile che ci mettessero in prigione. Non avevamo fatto niente di male.

Colpi e rumori secchi esplodevano in tutta la casa.«Lina», disse la mamma precipitandosi in camera mia, con

le braccia cariche. «Sbrigati!» Spalancò l’armadio e i cassetti, tirò fuori freneticamente le mie cose e le gettò alla rinfusa in valigia.

«Mamma, non riesco a trovare il mio album da disegno. Dov’è?» le chiesi in preda al panico.

«Non lo so. Ne compreremo uno nuovo. Metti via i tuoi vestiti. Svelta!»

Jonas corse nella mia stanza. Si era vestito per andare a scuola, con la divisa e il cravattino, e teneva in mano la cartella. I capelli biondi erano accuratamente pettinati con la riga da parte. «Sono pronto, mamma», disse con la voce che tremava.

«N-no!» balbettò lei, rimanendo senza fiato alla vista di Jonas con la divisa della scuola privata. Fece un respiro for-zato e abbassò la voce. «No, tesoro, la valigia. Vieni con me.» Lo afferrò per un braccio. «Lina, mettiti le scarpe e le calze. Svelta!» Prima di correre nella stanza di Jonas mi gettò il soprabito estivo e io lo indossai.

Infilai i sandali e presi due libri, i nastri per i capelli e la

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spazzola. Dov’era finito il mio album da disegno? Afferrai dalla scrivania il blocco di carta avoriata, l’astuccio di penne e matite, il rotolo di rubli e li sistemai fra i mucchi di roba che avevamo buttato in valigia. Chiusi le serrature a scatto e corsi fuori dalla camera, le tende che si gonfiavano e sbattevano sulla pagnotta fresca rimasta sulla scrivania.

Vidi il mio riflesso nella porta a vetri della panetteria e mi soffer-mai un momento. Avevo una macchia di vernice verde sul mento. La grattai via e spinsi la porta. Un campanello squillò sopra la mia testa. Il negozio era caldo e profumava di lievito.

«Lina, che bello vederti.» La donna si precipitò al bancone per servirmi. «Che cosa ti posso dare?»

La conoscevo? «Mi scusi, io non...»«Mio marito è professore all’università. Lavora per tuo padre»,

mi spiegò. «Ti ho visto in città con i tuoi genitori.»Annuii. «Mia madre mi ha chiesto di comprare una pagnotta»,

le dissi.«Certo», rispose la donna dandosi da fare dietro il bancone. Avvolse

una pagnotta tonda nella carta marrone e me la porse.Quando allungai i soldi, lei scosse la testa.«Ti prego», sussurrò la donna, «non potremo mai sdebitarci,

davvero.»«Non capisco.» Allungai verso di lei la mano con le monete. Mi

ignorò.Il campanello tintinnò e qualcuno entrò nel negozio. «Salutaci

tanto i tuoi genitori», si raccomandò la donna prima di servire l’altro cliente.

Più tardi, quella sera, chiesi al papà chiarimenti sul pane.«È stato molto gentile da parte sua, però non era il caso», disse lui.«Ma cosa hai fatto?» gli domandai.«Niente, Lina. Hai finito i compiti?»«Ma devi aver fatto qualcosa per meritarti il pane gratis», insistetti.«Non mi merito niente. Si sta dalla parte del giusto, Lina, senza

aspettarsi gratitudine né ricompense. Adesso va’ a finire i compiti.»

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3.

La mamma riempì una valigia altrettanto grande per Jo-nas. Lo faceva sembrare ancora più minuscolo di quel che era e lui doveva reggerla con entrambe le mani, piegandosi all’indietro per sollevarla da terra. Non si lamentò del peso né chiese aiuto.

Il rumore di vetri e ceramiche infranti risuonava dolente nell’appartamento a intervalli rapidi. Trovammo nostra madre in tinello che gettava per terra la cristalleria e le porcellane più belle. Aveva la faccia lucida di sudore e i riccioli biondi le ricadevano liberi sugli occhi.

«No, mamma!» gridò Jonas correndo verso i cocci rotti che si ammucchiavano sul pavimento.

Io lo tirai indietro prima che toccasse i vetri. «Mamma, perché stai rompendo il tuo servizio bello?»

Lei si fermò e fissò la tazza di porcellana che teneva in ma-no. «Perché ci sono troppo affezionata.» La scagliò per terra, senza nemmeno soffermarsi a guardarla rompersi prima di prenderne un’altra.

Jonas si mise a piangere.«Non piangere, tesoro. Ne prenderemo di più belle.»La porta si spalancò di scatto e tre agenti dell’nkvd en-

trarono in casa impugnando fucili a baionetta. «Che cosa è successo qui?» chiese un agente alto, esaminando i danni.

«È stato un incidente», rispose la mamma calma.«Lei ha distrutto delle proprietà sovietiche», tuonò lui.Jonas si tirò vicino la valigia, per paura che anche quella

potesse diventare da un minuto all’altro proprietà sovietica.La mamma si guardò nello specchio dell’anticamera per

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sistemarsi i riccioli scompigliati e mettersi il cappello. L’agen-te dell’nkvd la colpì sulla spalla con il calcio del fucile, but-tandola con la faccia contro lo specchio.

«Porci borghesi, sempre a perdere tempo. Non le servirà quel cappello», la derise.

La mamma si raddrizzò e ritrovò l’equilibrio, poi si lisciò la gonna e aggiustò il cappello. «Mi scusi», disse in tono dimesso all’agente prima di sistemarsi di nuovo i riccioli e infilarsi lo spillone di madreperla nel cappello.

«Mi scusi»? Aveva detto proprio così? Quegli uomini fanno irruzione di notte in casa nostra, la sbattono contro lo spec-chio... e lei li supplica di «scusarla»? A quel punto la mamma allungò la mano per prendere il lungo cappotto grigio, e di colpo capii. Stava giocando con gli agenti della polizia so-vietica una delicata partita a carte, senza sapere quale mano sarebbe stata distribuita in seguito. La rividi nella mia mente cucire gioielli, documenti, argento e altri valori nella fodera di quel cappotto.

«Devo andare in bagno», annunciai nel tentativo di disto-gliere l’attenzione da mia madre e dal cappotto.

«Hai trenta secondi.»Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non

avevo idea di quanto in fretta sarebbe cambiato il mio viso, sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei fissato più a lungo il mio riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima volta, per più di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero.

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3.

La mamma riempì una valigia altrettanto grande per Jo-nas. Lo faceva sembrare ancora più minuscolo di quel che era e lui doveva reggerla con entrambe le mani, piegandosi all’indietro per sollevarla da terra. Non si lamentò del peso né chiese aiuto.

Il rumore di vetri e ceramiche infranti risuonava dolente nell’appartamento a intervalli rapidi. Trovammo nostra madre in tinello che gettava per terra la cristalleria e le porcellane più belle. Aveva la faccia lucida di sudore e i riccioli biondi le ricadevano liberi sugli occhi.

«No, mamma!» gridò Jonas correndo verso i cocci rotti che si ammucchiavano sul pavimento.

Io lo tirai indietro prima che toccasse i vetri. «Mamma, perché stai rompendo il tuo servizio bello?»

Lei si fermò e fissò la tazza di porcellana che teneva in ma-no. «Perché ci sono troppo affezionata.» La scagliò per terra, senza nemmeno soffermarsi a guardarla rompersi prima di prenderne un’altra.

Jonas si mise a piangere.«Non piangere, tesoro. Ne prenderemo di più belle.»La porta si spalancò di scatto e tre agenti dell’nkvd en-

trarono in casa impugnando fucili a baionetta. «Che cosa è successo qui?» chiese un agente alto, esaminando i danni.

«È stato un incidente», rispose la mamma calma.«Lei ha distrutto delle proprietà sovietiche», tuonò lui.Jonas si tirò vicino la valigia, per paura che anche quella

potesse diventare da un minuto all’altro proprietà sovietica.La mamma si guardò nello specchio dell’anticamera per

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sistemarsi i riccioli scompigliati e mettersi il cappello. L’agen-te dell’nkvd la colpì sulla spalla con il calcio del fucile, but-tandola con la faccia contro lo specchio.

«Porci borghesi, sempre a perdere tempo. Non le servirà quel cappello», la derise.

La mamma si raddrizzò e ritrovò l’equilibrio, poi si lisciò la gonna e aggiustò il cappello. «Mi scusi», disse in tono dimesso all’agente prima di sistemarsi di nuovo i riccioli e infilarsi lo spillone di madreperla nel cappello.

«Mi scusi»? Aveva detto proprio così? Quegli uomini fanno irruzione di notte in casa nostra, la sbattono contro lo spec-chio... e lei li supplica di «scusarla»? A quel punto la mamma allungò la mano per prendere il lungo cappotto grigio, e di colpo capii. Stava giocando con gli agenti della polizia so-vietica una delicata partita a carte, senza sapere quale mano sarebbe stata distribuita in seguito. La rividi nella mia mente cucire gioielli, documenti, argento e altri valori nella fodera di quel cappotto.

«Devo andare in bagno», annunciai nel tentativo di disto-gliere l’attenzione da mia madre e dal cappotto.

«Hai trenta secondi.»Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non

avevo idea di quanto in fretta sarebbe cambiato il mio viso, sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei fissato più a lungo il mio riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima volta, per più di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero.

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4.

I lampioni in strada erano spenti ed era quasi buio pesto. Gli agenti marciavano dietro di noi, obbligandoci a tenere il loro passo. Vidi la signora Raskunas sbirciare da dietro le ten-dine. Nell’attimo in cui si accorse che la guardavo, scomparve. La mamma mi diede un colpetto al braccio per farmi capire che dovevo tenere la testa bassa. Jonas si stava affannando a portare la sua valigia, che gli batteva sui polpacci.

«Davai!» ordinò un agente. Sbrigarsi, sempre sbrigarsi.Avanzammo fino all’incrocio, verso una grossa sagoma

scura. Era un camion, circondato da altri agenti dell’nkvd. Mentre ci avvicinavamo al retro del veicolo, vidi che dentro c’erano delle persone sedute sulle loro valigie.

«Spingimi su prima che lo facciano loro», si affrettò a sus-surrarmi mia madre: non voleva che un soldato le toccasse il cappotto. Feci come mi aveva chiesto. Gli agenti spintonarono Jonas sul camion. Lui cadde a faccia in giù e la valigia gli fu gettata addosso. Io riuscii a salire senza cadere ma, quando mi raddrizzai, una donna mi guardò e si portò di colpo la mano alla bocca.

«Lina, tesoro, abbottonati il soprabito», mi esortò la mamma.Abbassai lo sguardo e vidi la mia camicia da notte a fiori.

Nella fretta di cercare l’album da disegno, mi ero dimenti-cata di cambiarmi. Scorsi poi una donna alta e magra, con il naso a punta, che fissava Jonas. La signorina Grybas. Era una zitella che insegnava nella nostra scuola, una maestra di quelle severe. Riconobbi anche altre persone: la bibliotecaria, il proprietario di un albergo della zona e parecchi uomini che avevo visto parlare con il papà per strada.

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Eravamo tutti sulla lista. Non sapevo bene che cosa fosse quella lista, sapevo solo che c’era scritto sopra il nostro nome, così come quello delle altre quindici persone sul camion con noi. Il portellone posteriore venne chiuso con un colpo secco.

Un vecchio calvo di fronte a me emise un flebile gemito. «Moriremo tutti», disse piano. «Sono sicuro che moriremo.»

«Sciocchezze!» si affrettò a ribattere la mamma.«Invece sì», insistette lui. «È la fine.»Il camion si avviò con un sobbalzo in avanti, facendo cadere

tutti dalle valigie su cui erano seduti. Il calvo all’improvviso si tirò goffamente in piedi, scavalcò il portellone del pianale e saltò giù. Si schiantò sul marciapiede e si lasciò sfuggire un lamento simile a quello di un animale catturato in una trap-pola. La gente a bordo si mise a gridare. Il veicolo si fermò con uno stridio di pneumatici e gli agenti balzarono a terra. Abbassarono il portellone e vidi l’uomo che si contorceva a terra per il dolore. Lo sollevarono e gettarono il suo corpo raggomitolato di nuovo sul camion. Una gamba sembrava straziata. Jonas nascose la faccia nella manica della mamma. Lo presi per mano. Stava tremando. Mi si annebbiò la vista, serrai gli occhi e li riaprii. Il veicolo si rimise in moto di scatto.

«no!» si lamentò l’uomo tenendosi la gamba.Il camion si fermò davanti all’ospedale. Tutti sembrarono

sollevati all’idea che si sarebbero presi cura dell’uomo calvo ferito. Ma non fu così. I russi si erano fermati ad aspettare. Una donna sulla lista stava partorendo. Non appena fosse stato tagliato il cordone ombelicale, avrebbero gettato lei e suo figlio sul camion.

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4.

I lampioni in strada erano spenti ed era quasi buio pesto. Gli agenti marciavano dietro di noi, obbligandoci a tenere il loro passo. Vidi la signora Raskunas sbirciare da dietro le ten-dine. Nell’attimo in cui si accorse che la guardavo, scomparve. La mamma mi diede un colpetto al braccio per farmi capire che dovevo tenere la testa bassa. Jonas si stava affannando a portare la sua valigia, che gli batteva sui polpacci.

«Davai!» ordinò un agente. Sbrigarsi, sempre sbrigarsi.Avanzammo fino all’incrocio, verso una grossa sagoma

scura. Era un camion, circondato da altri agenti dell’nkvd. Mentre ci avvicinavamo al retro del veicolo, vidi che dentro c’erano delle persone sedute sulle loro valigie.

«Spingimi su prima che lo facciano loro», si affrettò a sus-surrarmi mia madre: non voleva che un soldato le toccasse il cappotto. Feci come mi aveva chiesto. Gli agenti spintonarono Jonas sul camion. Lui cadde a faccia in giù e la valigia gli fu gettata addosso. Io riuscii a salire senza cadere ma, quando mi raddrizzai, una donna mi guardò e si portò di colpo la mano alla bocca.

«Lina, tesoro, abbottonati il soprabito», mi esortò la mamma.Abbassai lo sguardo e vidi la mia camicia da notte a fiori.

Nella fretta di cercare l’album da disegno, mi ero dimenti-cata di cambiarmi. Scorsi poi una donna alta e magra, con il naso a punta, che fissava Jonas. La signorina Grybas. Era una zitella che insegnava nella nostra scuola, una maestra di quelle severe. Riconobbi anche altre persone: la bibliotecaria, il proprietario di un albergo della zona e parecchi uomini che avevo visto parlare con il papà per strada.

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Eravamo tutti sulla lista. Non sapevo bene che cosa fosse quella lista, sapevo solo che c’era scritto sopra il nostro nome, così come quello delle altre quindici persone sul camion con noi. Il portellone posteriore venne chiuso con un colpo secco.

Un vecchio calvo di fronte a me emise un flebile gemito. «Moriremo tutti», disse piano. «Sono sicuro che moriremo.»

«Sciocchezze!» si affrettò a ribattere la mamma.«Invece sì», insistette lui. «È la fine.»Il camion si avviò con un sobbalzo in avanti, facendo cadere

tutti dalle valigie su cui erano seduti. Il calvo all’improvviso si tirò goffamente in piedi, scavalcò il portellone del pianale e saltò giù. Si schiantò sul marciapiede e si lasciò sfuggire un lamento simile a quello di un animale catturato in una trap-pola. La gente a bordo si mise a gridare. Il veicolo si fermò con uno stridio di pneumatici e gli agenti balzarono a terra. Abbassarono il portellone e vidi l’uomo che si contorceva a terra per il dolore. Lo sollevarono e gettarono il suo corpo raggomitolato di nuovo sul camion. Una gamba sembrava straziata. Jonas nascose la faccia nella manica della mamma. Lo presi per mano. Stava tremando. Mi si annebbiò la vista, serrai gli occhi e li riaprii. Il veicolo si rimise in moto di scatto.

«no!» si lamentò l’uomo tenendosi la gamba.Il camion si fermò davanti all’ospedale. Tutti sembrarono

sollevati all’idea che si sarebbero presi cura dell’uomo calvo ferito. Ma non fu così. I russi si erano fermati ad aspettare. Una donna sulla lista stava partorendo. Non appena fosse stato tagliato il cordone ombelicale, avrebbero gettato lei e suo figlio sul camion.

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