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BAUMAN - sindacatoscrittori.net · dimensione sociologica della «più finale fine di tut-te, se...

Date post: 01-Feb-2020
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copertina LA FINE È NOTA BAUMAN ECCO PERCHÉ LA VITA È UNA PARTITA QUOTIDIANA CON LA MORTE INCONTRO CON IL SOCIOLOGO DELLA «MODERNITÀ LIQUIDA» CHE RACCONTA COME LA CONSAPEVOLEZZA DELLA MORTALITÀ SIA LA COSA CHE DÀ SENSO AI NOSTRI GIORNI. «ANDARMENE NON MI FA PAURA. IL TERRORE È SVEGLIARSI SENZA AVER NIENTE DA FARE» dal nostro inviato RICCARDO STAGLIANÒ UNA DELLE SCENE CULT DELLA STORIA DEL CINEMA: IL CAVALIERE (MAX VON SYDOW) GIOCA A SCACCHI CON LA MORTE (BENGT EKEROT) IN IL SETTIMO SIGILLO DI INGMAR BERGMAN (1957)
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Page 1: BAUMAN - sindacatoscrittori.net · dimensione sociologica della «più finale fine di tut-te, se così si può dire». Se ne è occupato in vari li-bri, ha accettato di girare un

copertinaLA FINE È NOTA

BAUMANECCO PERCHÉ LA VITAÈ UNA PARTITA QUOTIDIANACON LA MORTE

INCONTRO CON IL SOCIOLOGO DELLA «MODERNITÀ LIQUIDA» CHE RACCONTA COME LA CONSAPEVOLEZZA DELLA MORTALITÀ SIA LA COSA CHE DÀ SENSO AI NOSTRI GIORNI. «ANDARMENE NON MI FA PAURA. IL TERRORE È SVEGLIARSI SENZA AVER NIENTE DA FARE»

dal nostro inviato RICCARDO STAGLIANÒ

UNA DELLE SCENE CULT DELLA STORIADEL CINEMA: IL CAVALIERE (MAX VON SYDOW)

GIOCA A SCACCHI CON LA MORTE (BENGT EKEROT) IN IL SETTIMO SIGILLO

DI INGMAR BERGMAN (1957)

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copertinaLA FINE È NOTA

LEEDS (Inghilterra). Non è tanto la mortein sé a interessargli. «Solo pochi bruttimomenti alla fine della vita» la liquidavaMontaigne. Ma come quei titoli di codapossano tenere in ostaggio tutto il film,determinarne la trama. «Ogni evento,

tranne la morte, ha una promessa scritta in inchio-stro indelebile, che per quanto stampata piccola as-sicura: la storia continua» spiega Zygmunt Bauman,uno dei più importanti sociologi viventi, che emergedal fumo della sua pipa appollaiato su una poltron-cina di pelle verde bottiglia più o meno sua coeta-nea. Lo studio dà su un giardino in fiore ed è appar-tenuto all’amatissima moglie Janina che sopravvive– tra i tanti altri modi – anche nell’indirizzo di postaelettronica che il professore usa per comunicarecon il mondo. Sue erano le piante che il teorico dellamodernità liquida amorevolmente innaffia. I posterdi vecchi spettacoli teatrali. Le foto insieme. Il pen-siero della sua scomparsa, nel dicembre del 2009, èl’unica kryptonite per questa superpotenza intellet-tuale che, a 87 anni, passa ancora cento giorni al-l’anno in giro per conferenze («Mi manca il confron-to con gli studenti»). La macchina inesorabile delsuo cervello analitico si grippa solo a nominarla.Per poi riprendersi subito, cambiando discorso: ti-po insistere paternamente con l’ospite ché finisca ilamponi che ha preparato e i croissant fatti arrivaredalla pasticceria all’angolo.

Conosce il lutto, ma ciò che gli sta a cuore è ladimensione sociologica della «più finale fine di tut-te, se così si può dire». Se ne è occupato in vari li-bri, ha accettato di girare un documentario sul te-ma e di parlarne con noi. Perché non è affatto unariflessione triste. Anzi. «È la consapevolezza dellafine che infonde ogni momento che la precede di unmeraviglioso significato. Non tanto perché ci dà ilsignificato ultimo della vita, quanto perché ci incitae ci costringe a riempire le nostre vite con signifi-cati. È quella consapevolezza che ci spinge a cerca-re nuovi inizi. La coscienza di vivere in un tempopreso a prestito che ci suggerisce di usarne ogniboccone in maniera saggia. Insomma, la vita è pie-na delle cose – non una di più, né una di meno – chela morte è riuscita a piantarci dentro». Più che te-merla, quindi, dovremmo esserle riconoscenti.Cicerone diceva: «Filosofare è imparare a mori-

re». Lei è d’accordo?

«Io direi, al contrario, che a causa della presen-za costante dell’idea della morte nella nostra vita,impariamo a riflettere sul suo significato. Schope-hauer ci ha insegnato che senza morte non ci sa-rebbe filosofia. Io dico che non ci sarebbe neanchela cultura, quella trasgressione tipicamente umana

alla natura, ovvero il sedimento del tentativo sen-za sosta di rendere la vita vivibile nonostante laconsapevolezza della mortalità. È proprio la carat-teristica non negoziabile della brevità del tempo anostra disposizione, della probabilità di lasciareprogetti incompiuti e cose ancora da fare, chespinge gli umani all’azione e fa volare l’immagina-zione. Detto altrimenti, la cultura, che ci fornisceinfiniti spunti per pensare ad altro, è il tentativo digettare un ponte tra le due sponde, vita mortale eimmortalità, e ci spinge a lasciare una traccia del-la nostra seppure breve visita».La storia del pensiero si è incaricata di testare

varie soluzioni per la «madre di tutte le pau-

re», come lei ha definito la morte. Qualcuna ha

funzionato meglio di altre?

«La soluzione cristiana mi sembra la più efficace.Presuppone l’immortalità dell’anima e poi presentadue opzioni, l’immortalità buona e quella cattiva, ilparadiso e l’inferno. Non denigra la vita terrena, an-zi, dà una tremenda importanza al breve periodo incui guadagnarci l’accesso a una delle due strade.Così facendo, ha fornito una fortunata risposta atante domande, da quella sulla mancanza di sensodella vita che ossessionava Pascal a quella circa lasua irredimibile assurdità di cui parla Camus. Secredi, insomma, il significato lo cogli».E le soluzioni laiche, invece?

«Le definirei successi parziali. La loro differenzaessenziale è che non prevedono che tutti siano be-nedetti o condannati a un qualche tipo di immorta-lità. Ci sono fondamentalmente due sistemi perconquistarsela. Io uso la metafora dei mezzi di tra-sporto privati e pubblici. Nel primo caso sei tu, in-dividualmente, al volante dell’auto che ti ci porterà,facendo ricordare il tuo nome grazie all’apprezza-mento dei tuoi contemporanei. Succedeva ai re, aigenerali, ai grandi inventori. Poi ai pittori e agliscrittori. Ora capita anche alle celebrità, compresi icalciatori, le modelle, i serial killer. Nel secondo ca-so, invece, la gratitudine dei contemporanei è col-lettiva, nei confronti di chi appartiene a un gruppodi persone che si sono distinte per una causa im-portante, tipo difendere un Paese o liberarlo. I me-moriali ai militi ignoti ne sono un esempio».Lei ha scritto anche di un’altra strategia cul-

turale, la «decostruzione della mortalità». Di

che cosa si tratta?

La soluzionecristiana è la più efficace:immortalitàdell’anima e poi paradiso o inferno

DALL’ALTO VERSO IL BASSO, MARCO TULLIO CICERONE (106-43 A. C.).ARTHUR SCHOPENHAUER (1788–1860), BLAISE PASCAL (1623–1662).A SINISTRA, ZYGMUNT BAUMAN

ZYGMUNT BAUMAN

(POZNÁN, 1925), SARÀ A BOLOGNA, ALLA REPUBBLICA DELLE IDEE, DOMANI(SABATO, SALONE DEL PODESTÀ).DISCUTERÀ CON IL GIORNALISTADELL’ESPRESSO WLODEKGOLDKORN SUL TEMA:IO E L’ALTRO.BAUMAN È TRADOTTOIN ITALIA PREVALENTEMENTEDA LATERZA E DAL MULINO. IL SUO RECENTEMORTALITÀ,IMMORTALITÀ E ALTRESTRATEGIE DI VITAÈ EDITO DAL MULINO(2012, PP. 280, EURO 14)

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copertinaLA FINE È NOTA

«È un approccio sperimentato soprattutto nel-la fase che chiamo modernità solida. Per renderel’idea della morte meno terribile, si è provato ascomporla in tante parti. Una volta derubricata al-la somma di mille sotto-cause diverse – cancro,cattiva alimentazione, fumo e altri comportamentinocivi – ci si può anche, ingenuamente, illudereche neutralizzando la prima, la seconda e così via,l’esito finale si possa allontare ad infinitum. Il sot-totesto è: morire non è una condizione inevitabile,ma si viene uccisi da errori che noi o la scienzanon siamo ancora riusciti a risolvere».Questa decostruzione prevede anche una mag-giore familiarizzazione con il concetto della fine?

«Sì. Sebbene quella del nostro rapporto con lamorte sia la storia di un incontro mancato – conEpicuro: se c’è lei, non ci siamo noi –, abbiamo semprepiù occasioni per farne esperienze surrogate. Ce nesono di personali, ma distanti, come quando Derri-da avverte: “Quando muore una persona, con leiscompare anche tutto un mondo”. Distanti e imper-sonali, sull’esempio del terremoto che ingoia miglia-ia di vite che finiscono per diventare giusto materiaprima per statistiche. E infine ci sono le morti vicinee personali, se a lasciarci è il nostro partner, un fa-miliare o un amico. Ecco, la morte è per definizionela negazione assoluta dell’esperienza, non si puòtoccare né immaginare. Ma questo terzo caso èl’unico che ci conduce nelle sue vicinanze. E farne laconoscenza, un certo numero di volte, è come unaprova generale di quel che significherà».Più tipica della postmodernità sarebbe invece la«decostruzione dell’immortalità». Ci spiega co-sa significa?

«Invece di pensare che in futuro sia possibilesconfiggere le cause discrete di cui la morte èeffetto, nella modernità liquida preferiamo accet-tare che il futuro – come dice la pubblicità – siaadesso. E quindi va riempito di soddisfazioniche prima tendevamo a posticipare. Costi quelche costi: per noi stessi, per il Pianeta, per il de-bito che lasceremo in eredità ai nostri figli. Loslogan è: immortalità subito. Attraverso espe-rienze che ce ne facciano pregustare l’ebbrezza.Tipo una vacanza alla Seychelles. Vestiti (a rate)e case (con mutui subprime) che non potremmopermetterci. Droghe mai provate prima».La via commerciale alla trascendenza, per cosìdire. Montaigne, che pure aveva fatto della mor-te il punto focale della sua riflessione, amava ci-tare Seneca quando raccomandava di concen-trarsi sul presente e dedicargli una totale atten-zione. È così facile?

«Montaigne è un pensatore che mi è molto caro.

Erede di una lunga tradizione stoica, proponevasoluzioni non applicabili a tutti. No, non è perniente facile. A me piace la riflessione filosofica,ho sempre trovato consolazione nelle letture, mada sociologo mi rendo conto che è una cura buonasolo per ristrette minoranze».Ai non «eletti», invece, che cosa consiglia persopportare il pensiero quotidiano che i nostrigiorni hanno una scadenza incerta sul quando,ma non sul se?

«Il mio mestiere non è dare ricette. Io osservocome gli uomini convivano con questo peso, e comeda secoli non se ne lascino schiacciare. E qui tornain gioco la cultura che fornisce infiniti modi per te-nerci occupati, in maniere tali che non ci resti nep-pure il tempo da dedicare a quest’idea. Oltremodooffensiva perché è l’unico problema per cui nonesiste soluzione. Da questo punto di vista, la moder-

nità liquida ci viene in soccorso. Prima la nostraidentità, il lavoro, la famiglia erano scelti una voltaper sempre. Una volta stabiliti ci si poteva dedica-re alla speculazione, cose ultime incluse. Oggi inve-ce la ricerca di identità è un processo senza fine. Cisi reinventa di continuo, sia professionalmente chesentimentalmente. E ciò ha sia il vantaggio di nonlasciarci troppo tempo per la riflessione escatologi-ca, sia quello di averci fatto provare un gran nume-ro di morti e rinascite simboliche che contribuisco-no a un’ulteriore familiarizzazione con la fine».Lei ha avuto una lunga vita, ricchissima di sod-disfazioni e di affetti. Quale molla la spinge amettersi ancora alla scrivania ogni mattina?

«Non ho trucchi particolari, né ho cambiatoatteggiamento con l’età. Sono troppo occupatoper starci troppo a pensare. Un momentodrammatico, per me, sarebbe svegliarmi e nonavere niente da fare. Contemplare un desertolungo ventiquattr'ore. Invece, giorno dopo gior-no, apro gli occhi alle 4 o alle 5 con la consape-volezza di tanti obblighi inadempiuti, risposteda dare, problemi nuovi da investigare».Ma il futuro per lei, oggi, cosa significa? Le suefiglie? I nipoti? Il prossimo libro?

«Il futuro, come ha spiegato il mio amico logicoRobert Kowalski, per definizione non esiste: quan-do lo incontriamo è già presente. Siamo noi a cre-arlo, sottovalutando però la più imprevedibile dellevariabili, ovvero l’essere umano. Il nostro

Il futuroin realtànon esiste.Quando lo incontriamoè già diventatopresente

DALL’ALTO VERSO IL BASSO, ALBERT CAMUS (1913-1960),JACQUES DERRIDA (1930-2004),MICHELEYQUEM DE MONTAIGNE (1533-1592)

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copertinaLA FINE È NOTA

RICCARDO STAGLIANÒ

campo da gioco comprende due sottoinsiemi. Dauna parte c’è il fato, una serie di condizioni date sucui niente possiamo, come la circostanza che sianato a Poznán e che un certo giorno, a una tal ora,abbia incontrato mia moglie. Ma, dall’altra, è pursempre il carattere che ci fa prendere delle deci-sioni all’interno di queste condizioni. Siamo con-dannati a scegliere. Anche ad Auschwitz, sebbenecon un margine assai angusto, si poteva farlo. Perquesto sono molto cauto su tutto ciò che riguardauna proiezione in avanti nel tempo. Ciò detto, lemie figlie sono certo importanti, ma quel che pote-vo fare, volente o nolente, per influenzare le lorovite l’ho già fatto. Per il resto, il mio futuro si è cer-tamente ristretto. Prima pianificavo in termini dianni, oggi penso a rispondere alle sue domandestamattina, fare un’intervista con una tv coreananel pomeriggio e sapere che questo mese starò acasa una decina di giorni prefissati. Ogni piano sutempi più lunghi sarebbe sciocco».Dal momento che l’ha citata, e che questa stan-za è tappezzata di suoi ricordi, due anni e mez-zo fa lei ha perso sua moglie. Abbandonandoper un attimo la teoria, come si sopravvive aun evento del genere?

(L’inarrestabile eloquio del professore si arresta.

Chiude gli occhi. Riaccende la pipa). «È un’esperienzamolto privata, non voglio condividerla. So beneche viviamo in una società confessionale, ma ionon mi ci trovo bene. Posso solo dire che lei è an-cora con me. Le sue ceneri sono al piano di so-pra, nel mio studio. La sua immagine è la primache vedo quando accendo il computer all’alba.Riesco, in qualche modo, a vivere ancora con lei.Conversiamo, e non perché sia pazzo, ma perchéè il modo in cui abbiamo vissuto insieme per ses-santadue anni e probabilmente non finirà mai.Mi spiace, ma è tutto quel che posso dire».Nell’Arte della vita scrive che noi umani «dob-biamo scegliere obiettivi che siano (almeno nelmomento in cui li scegliamo) ben oltre la nostraportata. Dobbiamo tentare l’impossibile». Miviene in mente l’ormai celebre discorso di SteveJobs agli studenti di Stanford in cui li invitava anon accontentarsi mai. È una spinta trascen-dente rispetto alla mortalità o il viatico perun’insoddisfazione perenne?

«Non so tracciare un confine netto. Ho molti let-tori giovani, e ciò mi fa gran piacere. Ma non tuttipossono essere Jobs o Zuckerberg. Non riuscirei aricavarne una teoria scientifica, però ritengo cheogni essere umano abbia un mondo fatto specifica-mente per lui, che calza a pennello con il suo carat-tere e le sue aspettative. Il problema più grande è

che la maggior parte di noi lo cerca nei posti sba-gliati. Da qui la tragedia dell’infelicità. Condividomolto quello che disse una volta Wolfgang Goe-the: “Ho vissuto una vita molto felice ma non ri-cordo una singola settimana che lo sia stata”. C’èun grande malinteso sul fatto che sia una condi-zione costante. Si tratta invece di liberarsi, voltaper volta, di nuove infelicità».Superare in continuazione ostacoli, insomma. Ilfilosofo Martin Heidegger sostiene che ci accor-giamo delle cose soltanto quando qualcosa in lo-ro non va. È così anche per la vita e c’è un modoper ovviare a questa pericolosa disattenzione?

«Non deve sorprendere. La familiarità finisceper diventare invisibilità. Se le cose stanno sem-pre al loro posto, non te ne accorgi. Se il rasoiocon cui ti fai la barba è dove deve essere, non cipensi. Lo stesso accade col martello. So dove tro-varlo e non mi è mai venuto in mente di interro-garmi sulla martellità, per così dire. Tranne quan-do si rompe. Solo allora capisco che deve essere dicerte dimensioni e di un certo peso per funzionarea dovere. Finiamo per non notare le cose routina-riamente obbedienti alle nostre abitudini. È l’ele-mento che, tra l’altro, distrugge un certo numerodi coppie. Smettono di sorprendersi, non si vedo-no più. Per questo una piccola crisi ogni tanto puòsalvare da questo ben più letale destino di oblio».Meglio qualche scossa per evitare di addormen-tarsi alla guida e andarsi a schiantare. Ma nellavita di tutti i giorni che cosa può salvarci? A qua-le molla dobbiamo fare appello per mettere, ognisanto giorno, un piede giù dal letto?

«Non c’è bisogno di sforzarsi troppo. Viviamonel culto delle novità, con cui la modernità liquida

ci sorprende quotidianamente. Siamo attaccati ainostri oggetti, ma ciò non ci impedisce di buttarlinel cestino non appena un nuovo modello esce. Èun sistema piuttosto intelligente per espungerel’idea della mortalità dalla nostra agenda quotidia-na: ci sono così tanti eventi che non resta postoper altro. Ma l’effetto collaterale, ed è un problemache sento molto, è che oltre alla morte stiamosmettendo di pensare anche a tutti i valori di lun-go termine, dal Pianeta alle generazioni future. Equesto è un alto prezzo che paghiamo per liberar-ci dal giogo della fine».

DALL’ALTO VERSO IL BASSO, STEVE JOBS (1955-2011), JOHANN WOLFGANG

VON GOETHE (1749–1832), MARTIN HEIDEGGER (1889–1976).SOTTO, BAUMAN CON L’AMATA MOGLIE JANINA LEWINSON, SCOMPARSA NEL 2009

Oltre allamorte stiamosmettendodi pensarea tutti i valoridi lungotermine


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