+ All Categories
Home > Documents > Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G. -...

Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G. -...

Date post: 01-May-2018
Category:
Upload: buinhan
View: 219 times
Download: 3 times
Share this document with a friend
132
Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G. Università degli Studi dell’Insubria Dipartimento di Economia Anno accademico 2014-2015 APPUNTI DI MACROECONOMIA (Seconda parte pp. 175-296) Il modello IS-LM per una economia aperta La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips La controrivoluzione monetarista Questo testo è stato realizzato sulla base degli appunti presi dallo studente Galeb Mourad Agha durante le lezioni tenute dal Prof. Giancarlo Bertocco nell’Anno accademico 2013-2014. Il testo è stato rivisto e integrato da Giancarlo Bertocco e Andrea Kalajzić.
Transcript

Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G.

Università degli Studi dell’Insubria

Dipartimento di Economia

Anno accademico 2014-2015

APPUNTI DI MACROECONOMIA

(Seconda parte – pp. 175-296)

Il modello IS-LM per una economia aperta

La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips

La controrivoluzione monetarista

Questo testo è stato realizzato sulla base degli appunti presi dallo studente Galeb

Mourad Agha durante le lezioni tenute dal Prof. Giancarlo Bertocco nell’Anno

accademico 2013-2014. Il testo è stato rivisto e integrato da Giancarlo Bertocco e

Andrea Kalajzić.

i

INTRODUZIONE

1. Definizioni introduttive p. 1

2. Lo schema dei conti di contabilità nazionale p. 3

2.1. I conti di contabilità nazionale in economia chiusa p. 3

2.2. I conti di contabilità nazionale in economia aperta p. 10

3. Il deflatore del Pil (la differenza tra reddito nominale e reddito reale) p. 13

PARTE PRIMA

La teoria macroeconomica neoclassica prekeynesiana

1. Introduzione p. 17

2. Il mercato del lavoro p. 18

2.1. La funzione di domanda di lavoro p. 18

2.2. La funzione di offerta di lavoro p. 30

2.3. L’equilibrio sul mercato del lavoro p. 33

2.3.1. L’eccesso di offerta di lavoro p. 34

2.3.2. L’eccesso di domanda di lavoro p. 35

2.3.3. Lo spostamento della curva di offerta di lavoro p. 36

2.3.4. Lo spostamento della curva di domanda di lavoro p. 37

3. Il mercato dei beni p. 39

3.1. L’offerta aggregata di beni p. 40

3.2. La domanda aggregata di beni p. 41

3.2.1. Le decisioni di consumo p. 41

3.2.2. Le decisioni di investimento p. 44

3.3. L’equilibrio sul mercato dei beni p. 51

4. Il mercato dei capitali p. 54

4.1. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali p. 55

e l’equilibrio sul mercato dei beni

4.2. Gli squilibri sul mercato dei capitali e sul mercato dei beni p. 56

4.2.1. L’eccesso di offerta di risparmi p. 56

(l’eccesso di offerta aggregata di beni)

4.2.2. L’eccesso di domanda di risparmi p. 59

(l’eccesso di domanda aggregata di beni)

4.3. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali p. 60

e l’equilibrio sul mercato del credito

ii

5. Il modello neoclassico completo e la legge di Say p. 61

5.1. La coerenza della teoria neoclassica con la legge di Say p. 61

5.2. Il sistema di equazioni, l’ordine di soluzione del sistema e la p. 64

rappresentazione grafica del modello neoclassico completo

5.2.1. Gli effetti di una variazione dell’offerta di lavoro p. 66

5.2.2. Gli effetti di una variazione delle decisioni di p. 68

investimento delle imprese

5.2.3. Gli effetti di una variazione delle decisioni di p. 69

consumo e di risparmio

6. La teoria neoclassica della moneta e la dicotomia del modello p. 71

macroeconomico neoclassico prekeynesiano

6.1. Le caratteristiche della teoria neoclassica della moneta p. 71

6.2. La distinzione tra moneta-merce e moneta-segno p. 72

6.3. L’equazione degli scambi di Fisher e la teoria quantitativa p. 73

della moneta

6.4. La natura dicotomica del modello macroeconomico neoclassico p. 79

PARTE SECONDA

La rivoluzione keynesiana e i modelli della ortodossia keynesiana

della ‘sintesi neoclassica’ negli anni ʼ50 e ’60 del secolo scorso

1. La rivoluzione keynesiana p. 83

1.1. La distinzione tra ‘real-exchange economy’ e ‘monetary economy’ p. 83

1.2. La critica alla legge di Say e il principio della domanda effettiva p. 90

2. Il modello reddito-spesa p. 93

2.1. Le equazioni del modello p. 93

2.2. L’esistenza di equilibri di sottoccupazione caratterizzati p. 96

dalla presenza di disoccupazione involontaria

2.3. Una rappresentazione grafica del reddito di equilibrio p. 99

2.4. Gli effetti di una variazione delle componenti autonome della p. 103

domanda aggregata, il moltiplicatore del reddito e

l’inversione della relazione causale tra risparmi e

investimenti

2.5. Gli effetti di una variazione della propensione marginale p. 112

al consumo (il paradosso del risparmio)

2.6. Il modello reddito-spesa con settore pubblico e gli effetti della p. 116

politica fiscale

3. La teoria keynesiana del tasso di interesse p. 119

3.1. Introduzione p. 119

3.2. La funzione di domanda di moneta p. 120

iii

3.3. La funzione di offerta di moneta p. 126

3.4. L’equilibrio sul mercato della moneta keynesiano p. 128

3.5. La natura monetaria del tasso di interesse p. 131

3.6. Gli effetti delle variazioni del reddito e della quantità p. 136

di moneta sull’equilibrio del mercato della moneta

4. Il modello IS-LM p. 143

4.1. Introduzione p. 143

4.2. Le equazioni del modello e la determinazione analitica dei p. 144

valori di equilibrio del reddito e del tasso di interesse

4.3. L’analisi grafica dei meccanismi di funzionamento p. 150

del modello IS-LM

4.3.1. La curva IS p. 150

4.3.2. La curva LM p. 156

4.3.3. L’equilibrio IS-LM p. 163

4.4. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria p. 170

5. Il modello IS-LM per una economia aperta p. 175

5.1. Il mercato dei beni in una economia aperta p. 175

5.1.1. Le diverse nozioni di tasso di cambio p. 175

5.1.2. Le determinanti delle esportazioni e delle importazioni p. 181

5.1.3. La derivazione della curva IS in economia aperta p. 183

5.2. La bilancia dei pagamenti p. 192

5.2.1. Il saldo delle partite correnti p. 192

5.2.2. I movimenti di capitale p. 198

5.2.3. Il saldo della bilancia dei pagamenti p. 200

5.2.4. La curva BP e l’equilibrio nel saldo della bilancia p. 201

dei pagamenti

5.2.5. I fattori che influenzano il valore del tasso di p. 209

cambio nominale

5.2.6. I regimi di cambio p. 213

5.3. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria p. 217

in una economia aperta (modello Mundell-Fleming)

5.3.1. Gli effetti della politica fiscale e della politica p. 217

monetaria in una economia aperta in regime di

cambi fissi

5.3.2. Gli effetti della politica fiscale e della politica p. 229

monetaria in una economia aperta in regime di

cambi flessibili

iv

6. La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips p. 240

6.1. Introduzione p. 240

6.2. Il modello IS-LM con curva di Phillips p. 243

6.3. Il ‘real balance effect’ e l’efficacia solo temporanea di p. 247

una politica fiscale espansiva

6.4. Il ‘trade-off’ tra reddito e inflazione p. 252

PARTE TERZA

La controrivoluzione monetarista e il ritorno

alle conclusioni della teoria neoclassica

1. Introduzione p. 257

2. La critica di Friedman alla curva di Phillips p. 258

2.1. L’introduzione delle aspettative inflazionistiche e p. 258

l’ipotesi di illusione monetaria

2.2. L’instabilità della relazione tra il livello del reddito e p. 271

il tasso di inflazione descritta dalla curva di Phillips

2.3. La curva di Phillips di lungo periodo e la riaffermazione p. 282

della teoria quantitativa della moneta

3. La spiegazione della stagflazione nell’ambito del quadro teorico p. 285

descritto da Friedman

4. Friedman, la Nuova Macroeconomia Classica e il ritorno alle p. 290

conclusioni della teoria neoclassica

PARTE SECONDA

La rivoluzione keynesiana e i modelli della ortodossia keynesiana

della ‘sintesi neoclassica’ negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso

175

5. Il modello IS-LM per una economia aperta

La versione del modello IS-LM riferita al caso di una economia aperta agli scambi con

l’estero prende anche il nome di modello Mundell-Fleming, in omaggio ai due

economisti che hanno contribuito alla sua elaborazione.

5.1. Il mercato dei beni in una economia aperta

Iniziamo la nostra analisi del modello Mundell-Fleming, descrivendo il mercato dei

beni in una economia aperta.

In precedenza, la descrizione del mercato dei beni ci ha permesso di illustrare il

principio keynesiano della domanda effettiva, basato sulla relazione causale:

𝐷𝐴 → 𝑌.

Rispetto a una economia chiusa agli scambi con l’estero, la composizione della

domanda aggregata (𝐷𝐴) cambia, perché è necessario prendere in considerazione anche

le esportazioni, ovvero la domanda di prodotti nazionali proveniente da soggetti

residenti all’estero (𝐸𝑆𝑃). Pertanto, avremo:

a) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃.

Inoltre, in una economia aperta la domanda aggregata complessiva non genera un

equivalente incremento del reddito nazionale (𝑌), poiché una parte della domanda

stessa viene soddisfatta da produttori esteri, dando così origine a un flusso di

importazioni di beni (𝐼𝑀𝑃). Di conseguenza, vale la seguente relazione di equilibrio:

b) 𝐷𝐴 = 𝑌 + 𝐼𝑀𝑃.

Sostituendo la a) nella b), otteniamo:

𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃 = 𝑌 + 𝐼𝑀𝑃,

e quindi

c) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃 − 𝐼𝑀𝑃.

5.1.1. Le diverse nozioni di tasso di cambio

Per sommare le grandezze che compaiono nella condizione di equilibrio per il mercato

dei beni in una economia aperta, è necessario poterle esprimere in una stessa unità di

misura. In altre parole, occorre che le grandezze economiche prese in considerazione

176

siano tra loro omogenee. Nel caso di una economia aperta, 𝐶, 𝐼 e 𝐺 sono espressi in

moneta nazionale. Anche le esportazioni, che corrispondono a beni e servizi prodotti

all’interno di un paese, sono espresse in valuta nazionale. Le importazioni, invece, che

sono rappresentate da beni e servizi prodotti all’estero, sono espresse in valuta estera.

Il valore delle importazioni non è quindi immediatamente confrontabile con il valore

delle altre grandezze prese in considerazione.

Al fine di rendere omogenee le grandezze economiche che definiscono il livello del

reddito nazionale (𝑌), è necessario introdurre la nozione di tasso di cambio.

Per semplicità, consideriamo un mondo suddiviso in due parti, composte, da un lato,

dal nostro paese di riferimento, in cui viene usata la valuta nazionale costituita dall’euro

(€), e, dall’altro, dal resto del mondo, in cui viene impiegata la valuta estera data dal

dollaro ($).

E’ possibile specificare due distinte definizioni di tasso di cambio tra queste due

valute:

1. Il tasso di cambio nominale, e

2. Il tasso di cambio reale.

A sua volta, anche il tasso di cambio nominale può essere definito in due modi,

ovvero come:

a) prezzo della valuta nazionale espresso in termini di valuta estera (ovvero come

numero di dollari ($) necessari per acquistare un euro (€)), e

b) prezzo della valuta estera espresso in termini di valuta nazionale (ovvero come

numero di euro (€) necessari per acquistare un dollaro ($)).

Nelle nostre lezioni utilizzeremo la prima definizione di tasso di cambio nominale.

Pertanto, da qui in avanti il tasso di cambio nominale (𝑬) indicherà la quantità di

valuta estera (nel caso specifico, la quantità di dollari) necessaria per l’acquisto di una

unità di valuta nazionale (euro):

𝐸 → $ per acquistare 1 €.

Un aumento di 𝐸 (𝐸 ↑) significa che occorre un numero maggiore di dollari per

acquistare un euro. In questi casi, si usa affermare che si è registrato un apprezzamento

o una rivalutazione del tasso di cambio nominale.

Al contrario, una riduzione di 𝐸 (𝐸 ↓) indica che è diminuita la quantità di dollari

necessaria all’acquisto di un euro. In altri termini, in questi casi, il tasso di cambio

nominale ha subito un deprezzamento o una svalutazione.

Il tasso di cambio reale, invece, offre una misura della competitività di prezzo dei

prodotti nazionali rispetto ai prodotti esteri.

177

Il significato di questo concetto può essere spiegato attraverso un semplice esempio

numerico. Consideriamo due prodotti omogenei, ad esempio due automobili della stessa

categoria, realizzati l’uno in Europa, e l’altro negli Stati Uniti. Supponiamo, inoltre, che

il prezzo dell’auto europea (𝑃) sia pari a 10.000 €, mentre quello dell’auto americana

(𝑃∗) è pari a 10.000 $.

Ipotizziamo, poi, che i costi di trasporto per il trasferimento di beni tra i paesi europei e

gli Stati Uniti siano nulli. Di conseguenza, ogni consumatore europeo o americano può

acquistare l’automobile europea al prezzo di 10.000 €, oppure quella americana al

prezzo di 10.000 $. Per stabilire quale delle due auto sia più conveniente in termini di

prezzo, ciascun consumatore deve confrontare i prezzi dell’auto europea e di quella

americana facendo riferimento a una stessa unità di misura. A tale scopo, il singolo

consumatore deve conoscere il tasso di cambio nominale (𝐸). Immaginiamo che il tasso

di cambio sia 1:1, ovvero che:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Pertanto, il prezzo dell’auto europea espresso in termini di dollari è pari a:

𝐸 ∙ 𝑃 = 1 $ ∙ 10.000 € = 10.000 $.

In questo caso, il consumatore americano è indifferente rispetto all’acquisto di un’auto

europea o di un’auto americana, perché il loro costo è uguale, cioè pari a 10.000 $.

La stessa conclusione vale anche per il consumatore europeo che calcola il prezzo in

euro di una automobile costruita negli Sati Uniti. Egli, infatti, si chiederà quanti euro

dovrebbe spendere per acquistare un’auto americana che costa 10.000 $. Poiché il tasso

di cambio nominale indica la quantità di dollari che si possono ottenere in cambio di un

euro, la quantità di euro equivalente a 10.000 $, che indichiamo con il simbolo 𝑥, è pari

a:

𝑥 =10.000 $

𝐸 .

In corrispondenza di un tasso di cambio nominale 𝐸 = 1, otteniamo:

𝑥 =10.000 $

1= 10.000 € .

Anche il consumatore europeo è quindi del tutto indifferente rispetto all’acquisto di una

automobile costruita in Europa o negli Stati Uniti.

E’ possibile esprimere questa condizione di indifferenza per l’acquisto di prodotti

nazionali o esteri, specificando il rapporto tra i prezzi delle due automobili espressi in

dollari:

178

𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗=

Prezzo dell'auto europea in $

Prezzo dell'auto americana in $ .

Come abbiamo visto poco sopra, nel nostro esempio questo rapporto è pari a 1. In tale

circostanza, vige una situazione di equivalenza o di indifferenza rispetto all’acquisto del

prodotto nazionale o di quello estero.

Naturalmente, il valore del rapporto di cui sopra cambia, se si modificano i prezzi (𝑃

e/o 𝑃∗), oppure il livello del tasso di cambio nominale (𝐸). Supponiamo, per esempio,

che si osservi una rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸 ↑), e che dopo la

rivalutazione occorrano 1,3 $ per acquistare 1 € (𝐸 = 1,3 $ 1 €)⁄ .

A seguito della rivalutazione dell’euro, la competitività di prezzo tra l’auto costruita

in Europa e quella realizzata negli Stati Uniti si modifica. In effetti, il prezzo dell’auto

europea in termini di dollari diventa:

𝐸 ∙ 𝑃 = 1,3 $ 1 €⁄ ∙ 10.000 € = 13.000 $.

Per i consumatori statunitensi, l’auto europea è dunque diventata più costosa, mentre

quella costruita nel loro paese è diventata più conveniente.

La stessa conclusione vale per i consumatori europei, che, in corrispondenza della

mutata condizione di cambio tra il dollaro e l’euro, troveranno anch’essi più

conveniente acquistare una automobile prodotta negli Stati Uniti. Infatti, il prezzo in

euro dell’auto costruita in Europa è sempre pari a 10.000 €, mentre il prezzo in euro

dell’auto realizzata negli Stati Uniti è sensibilmente calato, essendo ora pari a:

𝑥 =10.000 $

𝐸=10.000 $

1,3= 7.692 € .

In sintesi, la rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) peggiora la competitività

dei prodotti nazionali in rapporto a quelli esteri, perché rende più costosi i primi rispetto

ai secondi. La variazione della competitività di prezzo è misurata dal rapporto:

𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗=

Prezzo dell'auto europea in $

Prezzo dell'auto americana in $=13.000

10.000= 1,3.

Un aumento del valore di questo rapporto indica un peggioramento della competitività

di prezzo del prodotto nazionale rispetto a quello estero. Infatti:

se 𝐸 ↑ → 𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑.

179

Di conseguenza:

i) la convenienza del consumatore statunitense ad acquistare una automobile europea si

riduce, mentre

ii) aumenta la convenienza del consumatore europeo ad acquistare una automobile

costruita negli Stati Uniti.

Per definire il tasso di cambio reale (𝜀) riscriviamo il rapporto di cui sopra

utilizzando le seguenti grandezze:

𝐸 = tasso di cambio nominale,

𝑃 = indice dei prezzi dei prodotti e dei servizi realizzati in Europa

(deflatore del PIL del paese nazionale), e

𝑃∗ = indice dei prezzi dei prodotti e dei servizi realizzati negli Stati Uniti

(deflatore del PIL USA).

Pertanto, il tasso di cambio reale corrisponde a:

𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗ .

In sintesi:

una rivalutazione del tasso di cambio reale (𝜀 =𝐸∙𝑃

𝑃∗ ↑) peggiora la competitività di

prezzo dei prodotti nazionali;

viceversa, una svalutazione del tasso di cambio reale (𝜀 =𝐸∙𝑃

𝑃∗↓) migliora la

competitività di prezzo dei prodotti nazionali.

Sino ad ora abbiamo preso in considerazione soltanto due valute. Tuttavia, nella

realtà ne esiste un numero molto più elevato. E’ quindi possibile calcolare numerosi

tassi di cambio bilaterali tra una valuta nazionale e le diverse valute estere. Inoltre, è

possibile calcolare anche un tasso di cambio multilaterale corrispondente alla media

dei tassi di cambio bilaterali, ponderata in base all’importanza degli scambi economici

intercorrenti con i diversi paesi esteri.

Una volta introdotto il concetto di tasso di cambio, possiamo esprimere le

componenti del reddito prodotto in una economia aperta in termini omogenei.

A tal fine, ricordiamo la distinzione tra:

𝑌 = reddito reale (misurato a prezzi correnti), e

𝑌𝑁 = reddito nominale (misurato a prezzi costanti).

180

Ricordiamo, inoltre, il concetto di deflatore del PIL (𝑃 =𝑌𝑁

𝑌), da cui si ricavano le

seguenti due relazioni:

𝑌𝑁 = 𝑌 ∙ 𝑃 (reddito nominale), e

𝑌 =𝑌𝑁𝑃 (reddito reale).

Partendo dalla relazione c) vista in precedenza, possiamo scrivere la seguente

definizione di reddito nominale:

d) 𝑌𝑁 = 𝐶𝑁 + 𝐼𝑁 + 𝐺𝑁 + 𝐸𝑆𝑃𝑁 − 𝐼𝑀𝑃𝑁 .

Ogni grandezza nominale può essere espressa come prodotto tra la corrispondente

grandezza in termini reali e l’indice dei prezzi. Avremo quindi:

𝐶𝑁 = 𝐶 ∙ 𝑃, 𝐼𝑁 = 𝐼 ∙ 𝑃 e 𝐺𝑁 = 𝐺 ∙ 𝑃.

Indicando con 𝑋 il valore delle esportazioni in termini reali, risulterà:

𝐸𝑆𝑃𝑁 = 𝑋 ∙ 𝑃.

Tutte le grandezze nominali definite sopra sono state espresse in termini di euro (𝑃,

infatti, rappresenta il deflatore del PIL nazionale). Per completare la definizione del PIL

nominale (𝑌𝑁) è necessario specificare anche il valore nominale delle importazioni in

termini di euro.

A tale scopo, indichiamo con 𝐼𝑀 il valore delle importazioni in termini reali e con 𝑃∗

l’indice dei prezzi dei beni importati in valuta estera (dollari). Pertanto, l’espressione:

𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

corrisponde al valore nominale delle importazioni in termini di dollari. Per ottenere il

valore nominale delle importazioni in termini di euro dobbiamo dividere il valore delle

importazioni espresso in dollari per il tasso di cambio nominale (𝐸). Avremo quindi:

𝐼𝑀𝑃𝑁 =𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸= importazioni nominali misurate in euro.

Di conseguenza, possiamo scrivere:

e) 𝑌𝑁 = 𝐶𝑁 + 𝐼𝑁 + 𝐺𝑁 + 𝑋 ∙ 𝑃 −𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸 .

181

Partendo da questa espressione, si ricava la seguente equazione per il reddito reale (𝑌):

f) 𝑌 =𝑌𝑁𝑃=𝐶𝑁𝑃+𝐼𝑁𝑃+𝐺𝑁𝑃+𝑋 ∙ 𝑃

𝑃−𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸∙1

𝑃 .

Ponendo:

𝐶𝑁𝑃= 𝐶,

𝐼𝑁𝑃= 𝐼 e

𝐺𝑁𝑃= 𝐺, si ottiene

g) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 − 𝐼𝑀 ∙ (𝑃∗

𝐸 ∙ 𝑃).

E poiché:

𝑃∗

𝐸 ∙ 𝑃=

1

𝐸 ∙ 𝑃𝑃∗

=1

𝜀, si può scrivere

1) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

5.1.2. Le determinanti delle esportazioni e delle importazioni

Per completare la descrizione del mercato dei beni, dobbiamo specificare i fattori che

influenzano le diverse componenti della domanda aggregata. Per quanto riguarda 𝐶, 𝐼 e

𝐺, valgono le considerazioni svolte con riferimento alla realtà di una economia chiusa

agli scambi con l’estero:

2) 𝐶 = 𝐶(𝑌 − �̅�)

3) 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟)

4) 𝐺 = �̅�.

Restano quindi da individuare le determinanti delle esportazioni (𝑋) e delle

importazioni (𝐼𝑀) in termini reali.

Le esportazioni in termini reali (𝑿) sono funzione di due fattori. In primo luogo,

esse dipendono dal reddito del resto del mondo (𝒀∗). Possiamo infatti assumere che

esista una relazione diretta tra il livello di 𝑌∗ e le esportazioni, perché, a parità di altri

fattori, se crescono i redditi dei paesi esteri (Stati Uniti, Cina, Giappone, etc.) aumenta

la domanda di prodotti e servizi nazionali espressa da soggetti stranieri:

se 𝑌∗ ↑ → 𝑋 ↑ , e

182

se 𝑌∗ ↓ → 𝑋 ↓.

In secondo luogo, le esportazioni in termini reali dipendono dalla competitività di

prezzo dei prodotti nazionali rispetto a quelli esteri. Esse, cioè, sono funzione anche

del tasso di cambio reale (𝜀). Un aumento di 𝜀 rende più costosi i prodotti nazionali per

i consumatori stranieri, determinando una riduzione delle esportazioni reali (𝑋). Al

contrario, una svalutazione del tasso di cambio reale provoca un incremento delle

esportazioni reali:

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑ → competitività peggiora → 𝑋 ↓ , e

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↓ → competitività migliora → 𝑋 ↑.

In definitiva, possiamo quindi scrivere la seguente equazione:

5) 𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) con 𝑑𝑋

𝑑𝑌∗> 0 e

𝑑𝑋

𝑑𝜀< 0.

Anche le importazioni in termini reali (𝑰𝑴) sono funzione di due fattori. In primo

luogo, infatti, esse dipendono dal livello del reddito nazionale (𝒀), perché a un

aumento del reddito disponibile dei soggetti nazionali corrisponde una crescita della

loro domanda di beni, che si indirizza non solo ai beni e servizi prodotti internamente,

ma anche a quelli prodotti all’estero. Pertanto, ci aspettiamo che esista una relazione

diretta tra il reddito reale generato all’interno del paese (𝑌) e le importazioni di beni e

servizi in termini reali (𝐼𝑀):

se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀 ↑ , e

se 𝑌 ↓ → 𝐼𝑀 ↓.

Il secondo fattore che incide sul volume delle importazioni è anche in questo caso

costituito dalla competitività di prezzo dei beni e dei servizi nazionali rispetto a quelli

esteri, e quindi dal livello del tasso di cambio reale (𝜀). Una rivalutazione del tasso di

cambio reale rende più costosi i beni e i servizi nazionali, aumentando così la

convenienza ad acquistare i beni e i servizi realizzati all’estero. Viceversa, una

svalutazione del tasso di cambio reale, aumenta la convenienza all’acquisto di beni e

servizi realizzati internamente, determinando una contrazione delle importazioni:

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑ → competitività peggiora → 𝐼𝑀 ↑ , e

183

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↓ → competitività migliora → 𝑋 ↑.

Avremo quindi la seguente funzione delle importazioni in termini reali:

6) 𝐼𝑀 = 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀) con 𝑑𝑋

𝑑𝑌> 0 e

𝑑𝐼𝑀

𝑑𝜀> 0.

5.1.3. La derivazione della curva IS in economia aperta

Sostituendo le equazioni 2), 3), 4), 5) e 6) nella equazione 1) otteniamo l’espressione

dell’equazione che descrive il mercato dei beni in una economia aperta, e che

corrisponde alla curva IS relativa a una economia aperta agli scambi con l’estero:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(�̅�, 𝑟) + �̅� + 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 .

La differenza tra le esportazioni e le importazioni viene definita saldo commerciale

(𝑵𝑿):

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 .

Dagli schemi dei conti di contabilità nazionale ricordiamo che:

Saldo delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶) = (𝐸𝑆𝑃 − 𝐼𝑀𝑃)⏟ 𝑆𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒

+ (𝑅𝑀 − 𝑅𝑋)⏟ 𝑆𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜

.

Supponiamo, per semplicità, che:

𝑅𝑀 = 𝑅𝑋 = 0.

In questo caso, il saldo delle partite correnti coincide con il saldo commerciale, ovvero:

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀= 𝑆𝑃𝐶.

Il saldo commerciale è funzione di tre variabili:

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 → 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀).

184

Come varia il saldo commerciale al variare di queste tre variabili?

Vediamo innanzitutto gli effetti prodotti dalle variazioni del livello del reddito nel resto

del mondo:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌∗ ? → se 𝑌∗ ↑ → 𝑁𝑋 ?

Se 𝑌∗ ↑ → 𝑋 ↑ → (le esportazioni aumentano a parità di importazioni) → 𝑁𝑋 ↑.

Pertanto:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌∗> 0.

In secondo luogo, dobbiamo esaminare l’impatto prodotto dalle variazioni del livello

del reddito nazionale:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌 ? → se 𝑌 ↑ → 𝑁𝑋 ?

Se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀 ↑ → (le importazioni aumentano a parità di esportazioni) → 𝑁𝑋 ↓.

Di conseguenza:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌< 0.

Infine, dobbiamo chiederci quali sono gli effetti prodotti da una variazione del tasso di

cambio reale:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝜀 ?

Il primo canale di influenza è quello relativo alle variazioni del valore reale delle

esportazioni:

𝜀 → 𝑋 ?

Ricordiamo che:

𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗, con 𝑃 = �̅� e 𝑃∗ = 𝑃∗̅̅ ̅.

185

Consideriamo il caso di una diminuzione del livello del tasso di cambio reale, ovvero

una svalutazione del cambio reale determinata da una svalutazione del tasso di cambio

nominale. Per ipotesi, infatti, l’indice dei prezzi nazionale e quello del resto del mondo

sono dati:

𝐸0 = 1 $/1 € → 𝐸1 = 0,9 $/1 € .

Se 𝑃 = 10.000 €, allora la svalutazione del tasso di cambio nominale determina una

riduzione del prezzo in dollari delle autovetture prodotte in Europa, perché 0,9 ∙

10.000 = 9.000 $ < 10.000 $. Pertanto, il volume delle esportazioni aumenta e il saldo

commerciale migliora:

se 𝜀 ↓ → 𝑋 ↑ → 𝑁𝑋 ↑.

Il secondo canale di influenza è invece quello relativo alle variazioni della quantità

di beni importati. Una svalutazione rende più competitivi i prodotti nazionali e riduce

il volume delle importazioni (𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)), provocando quindi un miglioramento del saldo

delle partite correnti:

𝜀 → 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀) ↓ → 𝑁𝑋 ↑.

Il terzo canale, infine, si manifesta attraverso le variazioni del prezzo dei beni

importati. Una svalutazione del cambio reale indotta da una svalutazione del tasso di

cambio nominale determina un aumento del prezzo in termini di euro dei prodotti e dei

servizi realizzati nel resto del mondo. Tornando all’esempio numerico utilizzato poco

sopra, se il prezzo di una automobile costruita negli Stati Uniti è pari a 𝑃∗ = 10.000 $,

in conseguenza di una diminuzione del tasso di cambio nominale la quantità di euro

necessari all’acquisto di tale automobile passa da 10.000 a:

10.000 $

𝐸=10.000 $

0,9= 11.111 €.

La svalutazione produce un duplice effetto di segno opposto sul valore delle

importazioni definito in euro. Infatti, se da un lato essa provoca una riduzione della

quantità dei beni importati, dall’altro essa determina un incremento del prezzo in euro

dei beni importati stessi.

In conclusione, una variazione del tasso di cambio reale produce tre effetti distinti sul

saldo commerciale:

un effetto sulle quantità esportate;

un effetto sulle quantità importate, e

un effetto sul prezzo in euro delle quantità importate.

186

Nel caso di una svalutazione del tasso di cambio reale, questi tre effetti possono essere

sintetizzati schematicamente nel modo seguente:

L’impatto complessivo di una variazione del tasso di cambio reale sul saldo

commerciale dipende dall’intensità relativa di questi tre effetti. I primi due effetti

possono essere definiti come effetto-quantità (effetto-quantità esportazioni ed effetto-

quantità importazioni), mentre il terzo è un effetto-prezzo (effetto-prezzo

importazioni).

Se prevalgono gli effetti-quantità, allora una svalutazione del tasso di cambio reale

determinerà un miglioramento del saldo commerciale:

𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑.

Nel caso contrario di una rivalutazione del tasso di cambio reale, in presenza di una

prevalenza degli effetti-quantità il saldo commerciale è invece destinato a peggiorare:

𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓.

Infine, il saldo commerciale peggiora anche nei casi in cui l’effetto prezzo sui prodotti

importati prevalga sugli effetti-quantità.

Si può dimostrare che gli effetti-quantità prevalgono sull’effetto-prezzo in presenza di

una determinata condizione che prende il nome di condizione di Marshall-Lerner. Nel

prosieguo delle nostre lezioni assumeremo che valga tale condizione, e quindi che

l’impatto di una variazione del tasso di cambio reale sul saldo commerciale sia

determinato dalla prevalenza degli effetti-quantità sull’effetto prezzo.

In base alle considerazioni precedenti, riscriviamo l’equazione della curva IS per una

economia aperta agli scambi con l’estero nel modo seguente:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀).

187

Se assumiamo come dati i valori di:

�̅�, 𝜑, �̅�, 𝑌∗ e 𝜀 = 𝜀,̅

abbiamo una equazione in due incognite, 𝑌 e 𝑟.

La IS definisce tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che soddisfano l’equazione 1),

ovvero tutte le combinazioni dei livelli del reddito e del tasso di interesse coerenti con

l’equilibrio sul mercato dei beni.

Possiamo rappresentare tutte queste combinazioni attraverso un grafico, come nella

figura seguente.

Figura 74 – Le combinazioni dei livelli del reddito e del tasso di interesse

in una economia aperta

In corrispondenza di 𝑟 = 𝑟0, il livello del reddito è pari a 𝑌 = 𝑌0. In particolare:

𝑌0 = 𝐶(𝑌0 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟0) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌0, 𝜀).

Se prendiamo in considerazione un livello del tasso di interesse superiore a 𝑟0, per

esempio 𝑟 = 𝑟1 > 𝑟0, il livello del reddito varia (𝑌1 ≠ 𝑌0). Più precisamente:

𝑌1 = 𝐶(𝑌1 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟1) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌1, 𝜀), con

𝑌1 < 𝑌0 perché 𝐼(𝜑, 𝑟1 > 𝑟0) < 𝐼(�̅�, 𝑟0).

188

Come nel caso di una economia chiusa agli scambi con l’estero, la IS è dunque

inclinata negativamente. Tuttavia, la IS relativa a una economia aperta differisce dalla

IS relativa a una economia chiusa per due caratteristiche.

In primo luogo, varia il grado di inclinazione della curva. Il cambiamento del grado

di inclinazione della curva IS ha un importante significato economico che possiamo

illustrare confrontando i grafici delle curve IS in economia chiusa e in economia aperta.

Figura 75 – La diversa inclinazione della curva IS in economia aperta

Cominciamo la nostra analisi dal caso di una economia chiusa agli scambi con

l’estero.

L’inclinazione della curva IS rappresenta la sensibilità del reddito (𝑌) alle variazioni

del tasso di interesse (𝑟). Tale sensibilità è influenzata da due fattori. Per poterli

evidenziare, dobbiamo innanzitutto riscrivere le equazioni (lineari) che descrivono il

mercato dei beni in una economia chiusa agli scambi con l’estero:

a) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + �̅�

b) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�)

c) 𝐼 = 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟.

Sostituendo la b) e la c) nella a), otteniamo:

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�) + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

189

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 =1

1 − 𝑐∙ [𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�].

Come possiamo notare, il primo fattore da cui dipende l’inclinazione della curva IS è

il valore del parametro 𝒃, che, come abbiamo visto nella prima parte del corso,

rappresenta la sensibilità delle decisioni di investimento (𝐼) rispetto alle variazioni del

tasso di interesse (𝑟). Infatti, al variare di 𝑏, una variazione del livello del tasso di

interesse può provocare una variazione più o meno accentuata degli investimenti.

Questa circostanza emerge con chiarezza dall’esame della figura 76, che riproduce le

tre distinte rappresentazioni grafiche della funzione lineare degli investimenti definita

dall’equazione c) già viste nella precedente figura 56.

Figura 76 – La sensibilità al tasso di interesse della funzione lineare degli investimenti

Poiché le variazioni della spesa per beni di investimento provocano delle variazioni del

livello del reddito, anche queste ultime sono influenzate dal valore assunto dal

parametro 𝑏. In particolare:

se 𝑏 è elevato, una variazione del tasso di interesse, provocando una sensibile

variazione degli investimenti, determina anche una forte variazione del livello del

reddito (elevata sensibilità del reddito rispetto al tasso di interesse);

se, invece, 𝑏 è basso, una variazione del tasso di interesse, determinando una esigua

variazione degli investimenti, induce soltanto una piccola variazione del livello del

reddito (scarsa sensibilità del reddito rispetto al tasso di interesse).

Il secondo fattore da cui dipende l’inclinazione della curva IS è rappresentato dal

valore del moltiplicatore del reddito, che, come sappiamo è funzione della

190

propensione marginale al consumo (𝑐). A questo proposito, consideriamo il seguente

esempio numerico:

se 𝑐 = 0,75 → 1

1 − 𝑐=

1

1 − 0,75=

1

0,25= 4, mentre

se 𝑐 = 0,80 → 1

1 − 𝑐=

1

1 − 0,80=

1

0,20= 5.

In definitiva, la sensibilità di 𝑌 rispetto a 𝑟 aumenta al crescere del moltiplicatore, e

quindi al crescere della propensione marginale al consumo.

Una volta esaminati i fattori che incidono sulla inclinazione della curva IS in una

economia chiusa, possiamo passare all’analisi del caso di una economia aperta agli

scambi con l’estero. Per determinare di quanto aumenta 𝑌, quando il livello del tasso di

interesse scende da 𝑟1 a 𝑟0, dobbiamo chiederci come variano i due parametri 𝑏 e 1

1−𝑐

passando da una economia chiusa a una economia aperta.

Supponiamo che il valore del parametro 𝑏 rimanga costante. Ciò significa che, a

parità di riduzione del livello del tasso di interesse, l’incremento degli investimenti non

varia rispetto al caso di una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Che cosa accade, invece, al moltiplicatore (1

1−𝑐) ?

Come sappiamo, in una economia chiusa vale la seguente relazione causale:

𝐷𝐴 → 𝑌.

Pertanto, un aumento dei consumi o degli investimenti determina un aumento della

domanda aggregata che, a sua volta, provoca un incremento del livello del reddito.

Tuttavia, in una economia aperta una parte dell’aumento di domanda aggregata indotto

dall’aumento dei consumi o degli investimenti si dirige verso i prodotti e i servizi

realizzati all’estero, e viene quindi soddisfatta dalle importazioni. Di conseguenza, in

una economia aperta il valore del moltiplicatore del reddito non può che essere inferiore

a quello del moltiplicatore del reddito in una economia chiusa. Quindi, a parità di

diminuzione del livello del tasso di interesse, l’incremento di reddito indotto

dall’aumento della spesa per beni di investimento sarà inferiore rispetto a quello

osservabile in una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Sulla base di queste considerazioni, possiamo concludere che in una economia aperta

la curva IS è più inclinata (più rigida) di quanto non lo sia in una economia chiusa,

perché le variazioni del reddito sono meno sensibili in rapporto alle variazioni del tasso

di interesse:

𝑑𝑌 = 𝑌0′ − 𝑌1

′ < 𝑑𝑌 = 𝑌0 − 𝑌1.

191

Partendo dalle relazioni lineari che descrivono il mercato dei beni, possiamo

determinare analiticamente il valore del moltiplicatore del reddito in una economia

aperta.

1) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀

2) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�)

3) 𝐼 = 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟

4) 𝐺 = �̅�

5) 𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀)̅ → 𝑋 = �̅�

6) 𝐼𝑀 = 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)̅ → 𝐼𝑀 = 𝑚 ∙ 𝑌 con

𝑚 =𝑑𝐼𝑀

𝑑𝑌(propensione marginale alle importazioni) > 0

Sostituendo le equazioni 2), 3), 4), 5) e 6) nella equazione 1) otteniamo:

1) 𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�) + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅� −𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅, da cui

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅� −𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 +𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅= 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�

𝑌 ∙ (1 − 𝑐 +𝑚

𝜀̅) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�

𝑌 =1

1 − 𝑐 +𝑚𝜀̅

∙ [𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�]

Dal confronto tra il moltiplicatore del reddito in una economia aperta e il moltiplicatore

del reddito in una economia chiusa emerge che, avendo il primo un denominatore

maggiore del secondo, quest’ultimo assume un valore più elevato:

1

1 − 𝑐 +𝑚𝜀̅

< 1

1 − 𝑐 .

La seconda differenza tra la IS relativa a una economia aperta e la IS relativa a una

economia chiusa riguarda la posizione sul piano della curva.

Infatti, come si evince dalla figura 77, in una economia aperta la posizione della curva

IS sul piano è funzione del valore assunto dal tasso di cambio reale (𝜀).

192

Figura 77 – La posizione della curva IS in funzione del valore del tasso di cambio reale

Nel caso di una diminuzione del valore del tasso di cambio reale la curva IS si sposta

verso destra:

se 𝜀 = 𝜀1 < 𝜀0 → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → (𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑁𝑋) ↑ → 𝑌 ↑ con 𝑌1 > 𝑌0.

Viceversa, in caso di un aumento di valore del tasso di cambio reale, la curva IS si

sposta verso sinistra:

se 𝜀 = 𝜀2 > 𝜀0 → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → (𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑁𝑋) ↑ → 𝑌 ↓ con 𝑌2 < 𝑌0.

5.2. La bilancia dei pagamenti

Lo studio delle relazioni economiche internazionali non si limita all’analisi delle

esportazioni e importazioni di beni e servizi, ma comprende anche l’esame dei flussi di

valuta associati alle diverse operazioni economiche messe in atto da agenti economici

residenti in paesi diversi.

5.2.1. Il saldo delle partite correnti

Ai fini dell’esame delle relazioni finanziarie internazionali, partiamo dal concetto di

saldo commerciale (𝑁𝑋), che, come abbiamo visto in precedenza, nell’ipotesi che il

saldo dei trasferimenti di reddito di un paese (𝑅𝑀 − 𝑅𝑋) sia nullo, coincide con il saldo

delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶).

193

Consideriamo ancora una volta l’equazione che descrive l’equilibrio sul mercato dei

beni in una economia aperta, e definiamo il reddito disponibile nel caso in cui il saldo

dei trasferimenti di reddito sia nullo:

a) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀

b) 𝑌𝑑 = 𝑌 + 𝑅𝑀 − 𝑅𝑋 con 𝑅𝑀 = 𝑅𝑋 = 0

c) 𝑌𝑑 = 𝑌.

Sostituendo la a) nella c) otteniamo l’equazione d):

d) 𝑌𝑑 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀, da cui

𝑌𝑑 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

Sottraendo a entrambi i membri di quest’ultima espressione il valore delle entrate del

settore pubblico (𝑇), possiamo scrivere:

𝑌𝑑 − 𝑇 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

Pertanto:

Il saldo commerciale e, per effetto dell’ipotesi di nullità del saldo dei trasferimenti di

reddito, il saldo delle partite correnti, possono quindi essere interpretati

equivalentemente come differenza tra le esportazioni e le importazioni reali o come

differenza tra il risparmio e l’investimento nazionali:

194

Di conseguenza:

se 𝑁𝑋 = 0 → 𝑆 = 𝐼,

se 𝑁𝑋 > 0 → 𝑆 > 𝐼, e

se 𝑁𝑋 < 0 → 𝑆 < 𝐼.

Per comprendere il significato economico di queste relazioni, riprendiamo il concetto

di risparmio che abbiamo utilizzato quando abbiamo descritto la teoria keynesiana del

tasso di interesse. In particolare, consideriamo la relazione tra risparmio (𝑆) e ricchezza

(𝑊), e ricordiamo che, in ciascun periodo, il flusso di risparmi corrisponde alla

variazione dello stock di ricchezza:

𝑆 = 𝑑𝑊.

Come sappiamo, risparmiare significa accumulare potere d’acquisto sotto forma di

moneta e, in termini più generali, di titoli di credito. E poiché i titoli di credito sono

emessi dai debitori, l’accumulo di titoli di credito da parte dei risparmiatori coincide con

l’emissione di impegni di pagamento da parte dei debitori. Ne consegue che, in una

economia chiusa, vale necessariamente l’eguaglianza tra risparmi e investimenti:

𝑆 = 𝐼.

Infatti, ai titoli di credito accumulati dai risparmiatori corrispondono esattamente i titoli

di credito emessi dagli operatori economici nazionali. In altre parole, i debiti

equivalgono agli investimenti e viceversa.

In una economia aperta agli scambi con l’estero, tuttavia, questa equivalenza si

riscontra soltanto quando il saldo delle partite correnti è nullo:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 = 0 → 𝑆 = 𝐼.

Quando, invece, il saldo delle partite correnti è attivo (𝑆𝑃𝐶 > 0), i titoli di credito

accumulati dai risparmiatori eccedono quelli emessi per finanziare la spesa per beni di

195

investimento degli operatori economici nazionali. Ciò significa che esiste un credito

netto degli operatori economici nazionali nei confronti di quelli stranieri:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 > 0 → 𝑆 > 𝐼.

Viceversa, quando il saldo delle partite correnti è passivo (𝑆𝑃𝐶 < 0), i titoli di credito

accumulati dai risparmiatori sono inferiori al numero di quelli emessi per finanziare gli

investimenti effettuati dagli operatori nazionali. In questo caso, quindi, si registra un

indebitamento netto degli operatori economici nazionali nei confronti di quelli stranieri:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 < 0 → 𝑆 < 𝐼.

In altre parole, poiché l’ammontare dei titoli di credito emessi per finanziare gli

investimenti è superiore all’ammontare dei titoli di credito sottoscritti dai risparmiatori

nazionali, una parte degli investimenti nazionali è stata finanziata da operatori stranieri.

Quali sono gli strumenti utilizzati per rappresentare la variazione della posizione

netta creditoria o debitoria degli operatori nazionali nei confronti dell’estero?

Per rispondere a questa domanda, illustriamo il caso più semplice, supponendo che le

importazioni (𝐼𝑀) e le esportazioni (𝑋) di beni e servizi vengano regolate in contanti, e

che le monete coinvolte negli scambi commerciali tra due paesi siano costituite

dall’euro e dal dollaro.

In tal caso, un importatore che voglia acquistare beni denominati in dollari deve

procurarsi i dollari necessari alla realizzazione dei suoi piani di spesa. A tal fine, egli

acquista dollari in cambio di euro. Pertanto, una operazione di importazione dà luogo a:

una offerta di euro in cambio di dollari o, equivalentemente,

una domanda di dollari in cambio di euro.

Queste operazioni vengono gestite dalla banca centrale del paese del soggetto

importatore.

L’attività di un esportatore dà origine a una operazione esattamente simmetrica. In

questo caso, infatti, sono gli operatori stranieri che si rivolgono alla loro banca centrale

per procurarsi degli euro in cambio di dollari. Nello specifico, sarà la banca centrale

americana a chiedere euro in cambio di dollari alla BCE. Questa operazione equivale a

quella compiuta dalla BCE, quando, per finanziare le importazioni di beni nei paesi

dell’eurozona, domanda dollari in cambio di euro alla banca centrale americana. Per

semplicità, possiamo anche immaginare che gli importatori stranieri paghino i prodotti

importati in dollari, e che, successivamente, gli esportatori nazionali convertano i dollari

in euro presso la loro banca centrale nazionale. In entrambe le situazioni l’esportazione

di beni determina:

una offerta di valuta estera (dollari) in cambio di valuta nazionale (euro), e quindi

196

una domanda di euro in cambio di dollari.

In definitiva, possiamo scrivere che il saldo delle partite correnti, che, a scopi di

semplificazione, abbiamo fatto coincidere con il saldo commerciale di un paese, ovvero

con la differenza tra le esportazioni e le importazioni del paese stesso, equivale alla

variazione delle riserve ufficiali in valuta della banca centrale:

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈.

Immaginiamo, per esempio, di partire da un saldo commerciale in pareggio (𝑁𝑋 =

0):

𝑁𝑋 = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 0.

In particolare:

𝑁𝑋 = 0 → 𝑋 =𝐼𝑀

𝜀= 1.000 €.

Supponiamo, inoltre, che il tasso di cambio nominale sia pari a 1:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

In questo caso, il valore complessivo delle esportazioni sarà uguale a:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Gli esportatori chiedono alla banca centrale di poter scambiare i dollari ottenuti per la

vendita di beni e servizi all’estero contro euro Pertanto:

Esportatori → cedono 1.000 $ e acquistano 1.000 €,

Banca centrale → acquista 1.000 $ e cede in cambio 1.000 €.

Per pagare le importazioni, gli importatori devono invece procurarsi un ammontare di

dollari pari a:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Di conseguenza, gli importatori si rivolgono alla banca centrale, chiedendo di poter

scambiare euro contro dollari:

197

Importatori → cedono 1.000 € e acquistano 1.000 $,

Banca centrale → acquista 1.000 € e cede in cambio 1.000 $.

Complessivamente, i flussi di domanda e di offerta di euro e di dollari si bilanciano. Di

conseguenza, la variazione di riserve ufficiali è nulla, e quindi è nulla anche la

variazione di quantità di moneta (nel caso specifico, di euro) immessa nel sistema:

𝑑𝑅𝑈 = 0 → 𝑑𝑀 = 0.

Le cose cambiano, quando il saldo commerciale di un paese, che, nella ipotesi di

nullità del saldo dei trasferimenti di reddito, corrisponde al saldo delle partite correnti,

non è in pareggio:

𝑁𝑋 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0.

Ipotizziamo, per esempio, che il saldo commerciale (𝑁𝑋) sia uguale a 500 €, ovvero

che le esportazioni superino l’ammontare delle importazioni per un valore pari a 500 €:

𝑋 = 1.500 € > 𝐼𝑀

𝜀= 1.500 € → 𝑁𝑋 = 500 €.

Se il tasso di cambio nominale è ancora pari a 1 (1 $ 1 €)⁄ , gli esportatori riceveranno:

𝐸 ∙ 1.500 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.500 € = 1.500 $.⁄

Anche in questo caso, i proventi delle vendite all’estero vengono cambiati presso la

banca centrale:

Esportatori → cedono 1.500 $ e acquistano 1.500 €,

Banca centrale → acquista 1.500 $ e cede in cambio 1.500 €.

A loro volta, poiché le importazioni hanno un controvalore complessivo uguale a 1.000

€, gli importatori si rivolgono alla banca centrale per ottenere:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Di conseguenza:

Importatori → cedono 1.000 € e acquistano 1.000 $,

Banca centrale → acquista 1.000 € e cede in cambio 1.000 $.

198

Pertanto, a un aumento delle riserve in dollari della banca centrale pari a 500 unità,

corrisponde un incremento della quantità di euro, e quindi della quantità di moneta in

circolazione, pari anch’esso a 500 unità:

𝑁𝑋 = 500 € → 𝑑𝑅𝑈 = 500 → 𝑑𝑀 = 500.

Qualora, invece, si dovesse registrare un disavanzo commerciale di 500 €, perché le

importazioni superano l’ammontare delle esportazioni per un valore uguale a 500 €:

𝑋 = 1.000 € < 𝐼𝑀

𝜀= 1.500 € → 𝑁𝑋 = −500 €,

a una riduzione delle riserve in dollari della banca centrale pari a 500 unità,

corrisponderebbe una diminuzione della quantità di euro, e quindi della quantità di

moneta in circolazione, pari anch’essa a 500 unità:

𝑁𝑋 = −500 € → 𝑑𝑅𝑈 = −500 → 𝑑𝑀 = −500.

Questi ultimi due esempi hanno dunque permesso di mettere in evidenza non soltanto

la natura della relazione tra il saldo delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋) e la variazione

delle riserve ufficiali (𝑑𝑅𝑈), ma anche l’esistenza di un secondo canale, oltre a quello

delle operazioni di mercato aperto visto in precedenza, attraverso il quale la banca

centrale può creare (o distruggere) moneta. In altri termini, esiste anche un canale

estero di creazione (o di distruzione) della moneta, corrispondente alla variazione

delle riserve ufficiali indotta da uno squilibrio del saldo delle partite correnti (del saldo

commerciale):

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀.

5.2.2. I movimenti di capitale

Completiamo la nostra analisi dei flussi di valuta tra paesi diversi, introducendo la

nozione di movimenti di capitale. I movimenti di capitale consistono in operazioni

finanziarie associate all’acquisto di titoli denominati in valuta estera o in valuta

nazionale. In particolare:

gli operatori economici nazionali acquistano titoli denominati in valuta estera (titoli

del debito pubblico di paesi stranieri, oppure azioni/obbligazioni emesse da società

straniere), mentre

gli operatori economici esteri acquistano titoli denominati in valuta nazionale (titoli

del debito pubblico nazionale, oppure azioni/obbligazioni emesse da società

nazionali).

199

Supponiamo che il saldo commerciale sia positivo e pari a 500 €. Come sappiamo, in

tal caso:

𝑁𝑋 = 500 → 𝑑𝑅𝑈 = 500 → 𝑑𝑀 = 500.

Ipotizziamo, inoltre, che il tasso di cambio nominale sia uguale a:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Immaginiamo, ora, una prima operazione finanziaria consistente nell’acquisto di

titoli denominati in valuta straniera (dollari), cui corrisponde un controvalore in euro

pari a 200, da parte di agenti economici nazionali. A tal fine, gli acquirenti dei titoli

esteri devono rivolgersi alla banca centrale per ottenere una quantità di dollari uguale a:

𝐸 ∙ 200 € = (1 $ 1 €) ∙ 200 € = 200 $.⁄

Questa operazione produce un effetto analogo a quello determinato da una importazione

di beni sulle riserve ufficiali detenute dalla banca centrale. Se indichiamo con la sigla

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 la grandezza corrispondente alla variazione delle attività finanziarie

sull’estero, ovvero l’ammontare di titoli esteri acquistati da operatori economici

nazionali, con riferimento all’esempio di cui sopra avremo:

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 200, e quindi

𝑑𝑅𝑈 = 𝑁𝑋 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 500 − 200 = 300.

Pertanto, vale la seguente relazione:

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈 + 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Completiamo il nostro esempio, prendendo in considerazione una seconda

operazione finanziaria, consistente nell’acquisto di titoli denominati in valuta nazionale,

per un valore complessivo di 400 €, effettuato da parte di agenti economici stranieri. I

residenti all’estero si rivolgeranno quindi alla banca centrale per ottenere l’ammontare

di valuta nazionale necessario all’acquisto dei titoli nazionali, cedendo in cambio una

quantità di valuta straniera (dollari) pari a:

𝐸 ∙ 400 € = (1 $ 1 €) ∙ 400 € = 400 $.⁄

Questa operazione produce un effetto analogo a quello determinato da una esportazione

di beni sulle riserve ufficiali detenute dalla banca centrale. Se indichiamo con la sigla

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 la grandezza corrispondente alla variazione delle passività finanziarie

200

sull’estero, ovvero l’ammontare di titoli nazionali acquistati da operatori economici

stranieri, con riferimento al nostro esempio avremo:

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 = 400.

Complessivamente, le transazioni in beni e servizi e le operazioni finanziarie con

l’estero hanno prodotto la seguente variazione delle riserve ufficiali detenute dalla

banca centrale:

𝑑𝑅𝑈 = 𝑁𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 500 + 400 − 200 = 700.

Quest’ultima relazione viene definita conto della bilancia dei pagamenti. Come

abbiamo visto, tale conto mette in evidenza gli effetti sulle riserve ufficiali detenute

dalla banca centrale prodotti dalle seguenti operazioni economiche:

transazioni commerciali in beni e servizi (𝑁𝑋), e

movimenti di capitale (𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇).

In particolare, la differenza tra la variazione delle attività finanziarie sull’estero e la

variazione delle passività finanziarie sull’estero (𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇) viene chiamata

saldo dei movimenti di capitale (𝑆𝑀𝐶). Il saldo dei movimenti di capitale assume un

valore positivo, quando l’incremento delle passività finanziarie sull’estero è maggiore

dell’incremento delle attività finanziarie sull’estero. Questa definizione può sembrare

controintuitiva. Tuttavia, il suo significato emerge con chiarezza, se si ricorda che:

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 → afflusso di capitali dall'estero (incremento delle riserve ufficiali), e

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → deflusso di capitali verso l'estero (decremento delle riserve ufficiali).

5.2.3. Il saldo della bilancia dei pagamenti

Il saldo della bilancia dei pagamenti corrisponde alla somma del saldo commerciale e

del saldo dei movimenti di capitale:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋 + 𝑆𝑀𝐶 = 𝑑𝑅𝑈.

Di conseguenza:

se 𝑆𝐵𝑃 = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 0,

se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 > 0, e

201

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0.

5.2.4. La curva BP e l’equilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti

La differenza fondamentale tra una economia aperta e una economia chiusa riguarda la

definizione degli obiettivi delle autorità di governo. Nel caso di una economia chiusa

agli scambi con l’estero, l’unico obiettivo fondamentale di politica economica consiste

nel raggiungimento della piena occupazione della forza lavoro disponibile. In

precedenza abbiamo visto come, nell’ambito del quadro concettuale fornito dal modello

IS-LM, le autorità di governo possono perseguire questo obiettivo attraverso l’uso degli

strumenti di politica fiscale e di politica monetaria.

Nel contesto di una economia aperta agli scambi con l’estero, oltre all’obiettivo della

piena occupazione della forza lavoro disponibile, le autorità di politica economica si

prefiggono anche il raggiungimento dell’equilibrio dei conti con l’estero. Infatti,

mentre è possibile registrare disavanzi temporanei delle partite correnti (della bilancia

commerciale) o della bilancia dei pagamenti, un paese non può sopportare disavanzi nei

conti con l’estero per un periodo di tempo prolungato, perché ciò comporterebbe una

continua erosione delle riserve di valuta detenute dalla sua banca centrale che, per

definizione sono limitate:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0.

E’ quindi necessario capire come, nell’ambito di una economia aperta, si possono

utilizzare gli strumenti della politica fiscale e della politica monetaria per raggiungere

due distinti obiettivi di politica economica, quello della piena occupazione e quello

dell’equilibrio dei conti con l’estero.

A tal fine, dobbiamo innanzitutto definire le equazioni che caratterizzano il modello

IS-LM in economia aperta. Iniziamo dalle equazioni che individuano l’equilibrio sul

mercato dei beni e il saldo della bilancia dei pagamenti:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶.

Per poter completare il modello IS-LM in economia aperta, occorre studiare i fattori

che influenzano il saldo dei movimenti di capitale (𝑆𝑀𝐶):

𝑆𝑀𝐶 = 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇,

e quindi le determinanti del comportamento dei possessori di ricchezza nazionali e

stranieri.

202

Ricordiamo che, in una economia chiusa, i possessori di ricchezza devono decidere

la composizione dei loro portafogli scegliendo tra moneta e titoli nazionali:

Viceversa, in una economia aperta, la scelta dei possessori di ricchezza si estende anche

ai titoli esteri:

Sostanzialmente, quindi, nel caso di una economia aperta agli scambi con l’estero le

scelte dei possessori di ricchezza dipendono dal differenziale (spread) tra i tassi sui

titoli nazionali e quelli sui titoli esteri, ovvero dalla differenza di rendimento tra i titoli

nazionali e quelli esteri:

differenziale di tasso (spread) = (𝑟 − 𝑟∗).

A parità di altre condizioni, gli effetti di una variazione dello spread (𝑟 − 𝑟∗) sul

saldo dei movimenti di capitale possono essere riassunti schematicamente nel modo

seguente.

In particolare, nel caso di un aumento dello spread:

203

Al contrario, nel caso di una diminuzione dello spread:

Come si può notare, esiste una relazione diretta tra la dinamica dello spread e il saldo

dei movimenti di capitale.

Per descrivere le caratteristiche del modello IS-LM in economia aperta, possiamo

quindi aggiungere una terza equazione alle due equazioni già presentate poco sopra:

3) 𝑆𝑀𝐶 = 𝑓(𝑟 − 𝑟∗) con 𝑓′ > 0.

Affinché questa relazione sia effettivamente valida, è necessario specificare le

seguenti due condizioni:

la prima condizione è relativa ai gradi di rischio dei titoli nazionali e di quelli esteri.

Infatti, se la rischiosità dei due gruppi di titoli dovesse variare, la domanda per i titoli

nazionali e quelli esteri varierebbe indipendentemente dal valore assunto dallo

spread;

la seconda condizione riguarda invece le aspettative circa il valore futuro del tasso di

cambio nominale (𝐸), che devono essere stabili.

Per meglio comprendere le implicazioni di quest’ultima condizione, è bene

rammentare che il tasso di cambio nominale non rappresenta una grandezza data e

immutabile, ma che esso è soggetto a delle oscillazioni.

Possiamo illustrare l’effetto indotto da una variazione delle aspettative circa il valore

futuro del tasso di cambio nominale attraverso un semplice esempio numerico.

Ipotizziamo che al tempo presente il tasso di cambio nominale sia pari a 1:

𝐸0 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Supponiamo, inoltre, che si diffondano delle aspettative relative a una svalutazione del

cambio, e che il valore atteso del tasso di cambio nominale tra un anno sia pari a 0,9:

204

𝐸1 = 0,9 (0,9 $ 1 €).⁄

Consideriamo, ora, il comportamento di un operatore che disponga di una ricchezza 𝑊

uguale a 1.000 €. Questo operatore si trova di fronte a due tipi di scelta. In primo luogo,

infatti, egli può decidere di acquistare titoli denominati in euro che offrono un

rendimento nominale del 5%:

In secondo luogo, egli può decidere di acquistare titoli denominati in dollari che offrono

anch’essi un rendimento nominale del 5%:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1000 € = 1.000 $.⁄

Quale è il rendimento effettivo offerto da queste due scelte di portafoglio?

Il tasso di rendimento in termini di dollari è pari al 5%. Infatti:

1.050 $ − 1.000 $

1.000 $= 5%.

Il tasso di rendimento in termini di euro, invece, dipende dal valore del tasso di cambio

nominale dopo un anno dall’acquisto dei titoli:

se 𝐸1 = 1 → 1.050 $ = 1.050 € → 1.050 € − 1.000 €

1.000 €= 5%, mentre

se 𝐸1 = 0,9 → 1.050 $ ∙ (1 $ 0,9 €)⁄ =1.050

0,9= 1.167 €.

Di conseguenza:

1.167 € − 1.000 €

1.000 €= 16,7%.

205

Tenendo conto di queste considerazioni, possiamo riscrivere l’equazione che

definisce il saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃), sostituendo l’equazione 3) nella

equazione 2):

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Ipotizzando che 𝑌∗, 𝑟∗ ed 𝜀 siano dati, ovvero che si tratti di grandezze esogene, e che

valga, in particolare:

𝜀 = 𝜀̅ → �̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅ ,

l’equazione 2) diventa una equazione in due incognite, 𝑌 e 𝑟.

Assumiamo che l’obiettivo delle autorità di governo sia quello di ottenere l’equilibrio

dei conti con l’estero, che corrisponde al sostanziale pareggio del saldo della bilancia

dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = 0.

Possiamo quindi riscrivere nuovamente l’equazione 2), tenendo conto dell’obiettivo

delle autorità di politica economica:

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗) = 0.

Partendo da questa equazione siamo ora in grado di ricavare tutte le combinazioni dei

valori del reddito (𝑌) e del tasso di interesse (𝑟) che assicurano l’equilibrio del saldo

della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 = 0). L’insieme di tali combinazioni può essere

rappresentato in un grafico che riporta i valori del tasso di interesse (𝑟) sull’asse delle

ordinate e quelli del reddito (𝑌) sull’asse delle ascisse (figura 78).

206

Figura 78 – L’equilibrio del saldo della bilancia dei pagamenti

Consideriamo innanzitutto la combinazione di valori (𝑌0, 𝑟0) in corrispondenza della

quale il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0.

Confrontiamo poi tale combinazione con la coppia di valori (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0), e

chiediamoci come cambia il saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0 ↔ 𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0) ?

Sappiamo che quando il reddito aumenta, il saldo commerciale peggiora:

se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀

𝜀↑ → 𝑁𝑋 ↓.

Di conseguenza, a parità di altre condizioni, anche il saldo della bilancia dei pagamenti

peggiora:

𝑌 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓, e quindi

𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0) < 𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0).

Nell’ipotesi che il reddito sia pari a 𝑌𝐴, come dovrebbe variare il tasso di interesse

(𝑟) perché anche in corrispondenza di 𝑌𝐴 il saldo della bilancia dei pagamenti sia in

equilibrio? In altre parole, stiamo cercando un valore di 𝑟 tale che:

207

𝑟 = 𝑟𝐴 → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴, 𝑟𝐴) = 0.

Guardando al saldo della bilancia dei pagamenti, osserviamo che esso dipende da due

componenti, poiché ne rappresenta, per definizione, la somma:

il saldo delle partite correnti, che è funzione del livello del reddito (𝑌), e

il saldo dei movimenti di capitale, che invece dipende dal valore del tasso di interesse

(𝑟).

Pertanto, quando il reddito aumenta, al fine di ottenere 𝑆𝐵𝑃 = 0, il tasso di interesse

deve crescere in misura tale che il saldo dei movimenti di capitale possa compensare la

variazione del saldo delle partite correnti. In altri termini, 𝑟𝐴 deve provocare un

miglioramento del saldo dei movimenti di capitale di entità tale da bilanciare il

peggioramento del saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) determinato

dall’incremento del livello del reddito.

𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟𝐴 > 𝑟0) = 𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0.

In base a queste considerazioni, è possibile individuare la retta BP che rappresenta

tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con l’equilibrio del saldo della bilancia dei

pagamenti (𝑆𝐵𝑃 = 0). Come emerge dalla figura 79, tutte le combinazioni che non si

trovano sulla curva BP rappresentano situazioni di squilibrio dei conti con l’estero,

ovvero di avanzo o di disavanzo della bilancia dei pagamenti.

In particolare, la combinazione 𝐵 (𝑌0, 𝑟1 > 𝑟0) rappresenta una situazione di avanzo

della bilancia dei pagamenti, perché il tasso di interesse assume un valore maggiore di

quello coerente con l’equilibrio dei conti con l’estero quando il livello del reddito è pari

a 𝑌0 (a fronte di un saldo immutato della bilancia commerciale, il saldo dei movimenti

di capitale migliora).

Al contrario, la combinazione 𝐴 (𝑌𝐴, 𝑟0 < 𝑟1) rappresenta una situazione di disavanzo

della bilancia dei pagamenti, perché il tasso di interesse assume un valore minore di

quello coerente con l’equilibrio dei conti con l’estero quando il livello del reddito è pari

a 𝑌𝐴 (a fronte di un saldo immutato della bilancia commerciale, il saldo dei movimenti

di capitale peggiora).

208

Figura 79 – L’equilibrio e le situazioni di avanzo e di disavanzo

della bilancia dei pagamenti

L’inclinazione della curva BP consente di misurare la dimensione della variazione

del tasso di interesse (𝑟) necessaria a compensare l’effetto prodotto da una variazione

del reddito (𝑌) sul saldo della bilancia dei pagamenti. L’inclinazione della curva BP

dipende dal grado di sensibilità dei movimenti di capitale al tasso di interesse. In

particolare, la figura 80 contiene tre diverse rappresentazioni della curva BP, cui

corrispondono diversi gradi di reattività dei movimenti di capitale alle variazioni del

tasso di interesse.

Figura 80 – L’inclinazione della curva BP

209

Se i movimenti di capitale sono molto sensibili alle variazioni del tasso di interesse,

allora anche solo un piccolo aumento di quest’ultimo sarà sufficiente a compensare gli

effetti di un incremento del reddito. E’ questa la situazione rappresentata nel grafico (𝑏)

della figura 80.

La sensibilità dei movimenti di capitale rispetto al tasso di interesse, e quindi

l’inclinazione della curva BP, dipendono dal grado di mobilità dei capitali, che è tanto

più elevato quanto minori sono gli ostacoli al trasferimento dei capitali da un paese

all’altro. Da questo punto di vista, il grafico (𝑎) della figura 80, che individua una

situazione di maggiore rigidità dei movimenti di capitale in rapporto alle variazioni del

tasso di interesse, dà anche conto delle maggiori difficoltà incontrate dagli operatori

economici a trasferire i capitali oltre la frontiera del loro paese.

Infine, il grafico (𝑐) della figura 80 rappresenta il caso di perfetta mobilità dei

capitali, ovvero una situazione in cui i titoli nazionali e i titoli esteri sono perfetti

sostituti gli uni degli altri. In questo caso, i titoli nazionali e quelli esteri devono avere

lo stesso rendimento e il differenziale di tasso (spread) è quindi nullo (vale la legge del

prezzo unico):

𝑟 − 𝑟∗ = 0.

Come si evince dalla figura 80, per 𝑟 = 𝑟∗ la curva BP è piatta. In corrispondenza del

punto 0 il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

(𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟

∗) = 0.

Cosa accade, quando il livello del reddito aumenta, come per esempio nel punto 1 del

grafico (𝑐)?

Anche in questo caso, il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

(𝑌1 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟

∗) = 0.

Ciò avviene, perché la sensibilità dei movimenti di capitale rispetto al tasso di interesse

tende a infinito. Pertanto, l’incremento necessario a compensare gli effetti prodotti

dall’aumento del livello del reddito sul saldo della bilancia dei pagamenti è così piccolo

da poter essere trascurato.

5.2.5. I fattori che influenzano il valore del tasso di cambio nominale

Per esaminare i fattori che influenzano il livello del tasso di cambio nominale (𝐸),

sottolineiamo, innanzitutto, che esso rappresenta un prezzo, ovvero il prezzo di una

valuta in termini di un’altra valuta.

210

Pertanto, un primo fattore di influenza sul valore del tasso di cambio nominale è

costituito dalle variazioni della domanda e dell’offerta per la valuta nazionale. Più nello

specifico, il livello del tasso di cambio nominale dipende:

dalla domanda di valuta nazionale in cambio di valuta estera o, equivalentemente,

dalla offerta di valuta nazionale in cambio di valuta estera.

Per quanto riguarda la domanda di valuta nazionale (€) in cambio di valuta estera ($),

ricordiamo che essa trae origine:

dalle esportazioni di beni e servizi (𝑋), e

dalla quantità di titoli nazionali acquistati da operatori economici stranieri

(𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇).

Quindi, possiamo scrivere:

Domanda di € in cambio di $ = 𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇.

L’offerta di valuta nazionale (€) in cambio di valuta estera ($) trae invece origine:

dalle importazioni di beni e servizi (𝐼𝑀

𝜀), e

dalla quantità di titoli esteri acquistati da operatori economici nazionali (𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇).

Di conseguenza, abbiamo che:

Offerta di € in cambio di $ =𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Possiamo dunque concludere che il tasso di cambio nominale (𝐸) è stabile, quando

la domanda e l’offerta di valuta nazionale in cambio di valuta estera sono in equilibrio,

ovvero quando:

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 =𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Inoltre, da questa uguaglianza otteniamo:

211

Quando il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio, anche la domanda e

l’offerta della valuta nazionale in cambio di valuta estera sono in equilibrio, e il tasso di

cambio nominale (𝐸) è stabile.

Qualora, invece, il saldo della bilancia dei pagamenti fosse in avanzo, la domanda di

valuta nazionale in cambio di valuta estera eccederebbe l’offerta, e il tasso di cambio

nominale si rivaluterebbe:

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 >𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → 𝐸 ↑.

Infine, se il saldo della bilancia dei pagamenti è in disavanzo, sarebbe l’offerta di

valuta nazionale in cambio di valuta estera ad eccedere la domanda, e il tasso di cambio

nominale si svaluterebbe:

212

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 <𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → 𝐸 ↓.

Il primo fattore che influenza il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è dunque

costituito dal saldo della bilancia dei pagamenti:

se 𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 è stabile,

se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑,

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓.

Il secondo fattore che influenza il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è invece

rappresentato dal comportamento delle autorità monetarie, ovvero dalle decisioni di

politica monetaria della banca centrale. Infatti, in presenza di uno squilibrio tra la

domanda e l’offerta di valuta nazionale, la banca centrale può decidere di intervenire per

impedire una variazione del tasso di cambio nominale (𝐸).

Nel caso in cui:

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 è stabile,

la banca centrale non interviene sul mercato dei cambi.

Viceversa, qualora si presentasse una situazione in cui:

𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑,

le autorità monetarie possono intervenire sul mercato dei cambi per riequilibrare la

discrepanza tra le quantità di valuta nazionale domandate e offerte, offrendo euro (€) e

acquistando dollari ($). In tal caso avremo:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 → 𝑑𝑀 = 𝑑𝑅𝑈.

213

Cerchiamo di chiarire questa conclusione attraverso un semplice esempio numerico.

Supponiamo, in particolare che:

𝑆𝐵𝑃 = 500 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $, con

Domanda di € in cambio di $ = 𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 = 1.500 €, e

Offerta di € in cambio di $ = 𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 1.000 €.

In mancanza di un intervento della banca centrale sul mercato dei cambi, il tasso di

cambio nominale è destinato ad aumentare, ovvero a rivalutarsi (𝐸 ↑). Per evitare

questa variazione del tasso di cambio nominale, le autorità monetarie devono offrire

euro (€) e acquistare dollari ($) in misura pari alla differenza tra la domanda e l’offerta

di euro in cambio di dollari. In altre parole, l’offerta di euro (€) e l’acquisto di dollari

($) deve pareggiare l’avanzo del saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = 500 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 500.

In tal caso, il tasso di cambio nominale (𝐸) rimarrà stabile, anche in presenza di uno

squilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 ≠ 0).

Naturalmente, l’intervento delle autorità monetarie sul mercato dei cambi può essere

anche di segno opposto. Infatti, quando il saldo della bilancia dei pagamenti è in

disavanzo:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓,

la banca centrale può impedire la svalutazione del tasso di cambio nominale

domandando euro (€) e offrendo dollari ($), ovvero cedendo dollari ($) e acquistando

euro (€), in misura pari al disavanzo del saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = −500 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = −500.

Anche in questo caso, il tasso di cambio nominale (𝐸) rimarrà stabile, nonostante

l’esistenza di uno squilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 ≠ 0).

5.2.6. I regimi di cambio

Come abbiamo visto poco sopra, il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è funzione:

del saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃), e

delle decisioni di politica monetaria della banca centrale.

214

In base a questi elementi possiamo distinguere tra due cosiddetti regimi di cambio:

1. Il regime di cambi fissi, caratterizzato dal fatto che le banche centrali dei vari paesi

sono vincolate a intervenire per colmare le differenze tra le domande e le offerte che si

presentano sui mercato di cambio, al fine di stabilizzare i tassi di cambio nominali tra le

diverse valute.

2. Il regime di cambi flessibili, invece caratterizzato dal fatto che le autorità monetarie

si astengono dall’intervenire sui mercati di cambio nei casi in cui si manifestano delle

discrepanze tra le domande e le offerte per le varie valute. In altri termini, in presenza di

un regime di cambi flessibili, il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è libero di

fluttuare in funzione della domanda e dell’offerta di valuta, ed eventuali squilibri nel

saldo della bilancia dei pagamenti che si riflettono in uno squilibrio della domanda e

dell’offerta di valuta vengono eliminati attraverso le variazioni del tasso di cambio

nominale (𝐸).

A quest’ultimo proposito, consideriamo il seguente esempio. Immaginiamo una

situazione in cui il saldo della bilancia dei pagamenti è in avanzo:

𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑.

Che cosa accade al saldo della bilancia dei pagamenti, quando il tasso di cambio

nominale (𝐸) si rivaluta?

𝐸 ↑ → 𝜀 =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓.

La rivalutazione del tasso di cambio nominale provoca una rivalutazione del tasso di

cambio reale, e quindi un peggioramento del saldo commerciale che si traduce in una

riduzione dell’avanzo della bilancia dei pagamenti. Questo meccanismo di

aggiustamento si arresta quando il saldo della bilancia dei pagamenti torna in pareggio.

A quel punto, anche lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di valuta sul mercato dei

cambi sarà stato eliminato.

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $.

Ovviamente, il meccanismo di aggiustamento funziona anche nel caso di un

disavanzo di bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓.

215

In conseguenza della svalutazione del tasso di cambio nominale, si svaluta anche il

tasso di cambio reale, determinando così un miglioramento del saldo commerciale, e

quindi una riduzione del disavanzo di bilancia dei pagamenti.

𝐸 ↓ → 𝜀 =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑.

Anche in questo caso, il meccanismo di aggiustamento si arresta quando il saldo della

bilancia dei pagamenti torna in pareggio e lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di

valuta sul mercato dei cambi è stato eliminato.

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $.

Se consideriamo l’esperienza italiana, nel periodo dal 1945 a oggi si evidenzia una

alternanza di fasi di cambi fissi e di cambi flessibili:

1945-1972 (fase di cambi fissi)

A seguito della firma degli accordi di Bretton Woods, nel luglio del 1944, nel

secondo dopoguerra venne costituito il sistema monetario internazionale fondato sul

dollaro statunitense ($), unica tra tutte le valute dei vari paesi a poter essere

convertita in oro a un tasso di cambio predeterminato. Per effetto di questi accordi, la

Federal Reserve, la banca centrale statunitense, era dunque vincolata a convertire in

oro le riserve in dollari ($) possedute dalle banche centrali degli altri paesi. Il sistema

di Bretton Woods prevedeva non soltanto un tasso di cambio fisso tra il dollaro

statunitense ($) e l’oncia d’oro, ma anche tassi di cambio nominali bilaterali fissi tra

il dollaro e le valute degli altri paesi.

1971-1979 (fase di cambi flessibili)

Nell’agosto del 1971, l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò la

sospensione della convertibilità del dollaro americano ($) in oro. Di lì a poco, il

sistema monetario internazionale basato sugli accordi di Bretton Woods avrebbe

quindi cessato di esistere, e i tassi di cambio della lira italiana nei confronti delle

valute degli altri paesi rimasero liberi di fluttuare.

1979-1992 (fase di cambi fissi nei confronti delle valute dei paesi aderenti al

Sistema monetario europeo (SME))

Nel 1979 l’Italia aderisce al sistema monetario europeo (SME), un accordo di cambio

tra i paesi aderenti alla CEE, che obbligava le banche centrali di tali paesi a

intervenire sul mercato dei cambi per garantire che le oscillazioni dei tassi di cambio

nominali non superassero le bande fissate attorno a una determinata parità centrale.

216

1992-1996 (fase di cambi flessibili)

Nel 1992 il Sistema monetario europeo entra in crisi. A seguito di una serie di

attacchi speculativi, l’Italia esce dallo SME nel mese di settembre, subendo una

svalutazione della propria valuta nei confronti del marco tedesco di oltre il 30%.

1996-1998 (nuova fase di cambi fissi nell’ambito dello SME)

Nel novembre del 1996 l’Italia rientrò nello SME, godendo di bande di oscillazione

attorno alle nuove parità centrali fissate nei confronti delle valute degli altri paesi

europei aderenti agli accordi di cambio maggiori di quelle stabilite nel primo periodo

di permanenza. Lo SME cessò di esistere il 31 dicembre del 1998, in conseguenza

dell’entrata in vigore dell’euro all’inizio del 1999.

1999 ad oggi (fase di adesione all’Unione monetaria europea)

I tassi di cambio tra le valute dei paesi entrati a fare parte dell’Unione economica e

monetaria europea sin dal mese di gennaio del 1999 sono stati determinati dal

Consiglio europeo in base ai loro valori di mercato al 31 dicembre del 1998, in modo

tale che un ECU, l’unità di valuta europea vigente nello SME, fosse pari a un euro. Il

primo gennaio del 1999 l’euro è diventato la nuova moneta ufficiale dell’Italia e di

altri dieci paesi membri dell’Unione europea. Inizialmente, l’euro è stato introdotto

come moneta virtuale per i pagamenti non in contanti e a fini contabili, mentre le

vecchie valute continuavano a essere utilizzate per i pagamenti in contanti e

considerate come “sottounità” dell’euro. Successivamente, dal primo gennaio del

2002, l’euro ha cominciato a circolare anche fisicamente, sotto forma di banconote e

monete metalliche. Attualmente, l’euro è la valuta comune ufficiale dell’Unione

europea (considerata nel suo insieme), e la moneta unica adottata dall’Italia e da altri

18 dei 28 Stati membri dell’Unione aderenti all’Unione economica e monetaria

dell’Unione europea (UEM) (Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia,

Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi

Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna).

217

5.3. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta (modello Mundell-Fleming)

5.3.1. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta in regime di cambi fissi

Ricordando che in un regime di cambi fissi:

𝐸 = �̅� → 𝜀 = 𝜀̅ =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅ ,

possiamo rappresentare il modello IS-LM in una economia aperta in cui le banche

centrali sono vincolate a intervenire per garantire la stabilità dei tassi di cambio

nominali (𝐸) attraverso il seguente sistema di equazioni.

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)̅

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)̅ + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Ipotizzando di essere in presenza di perfetta mobilità dei capitali, ovvero in una

situazione in cui il tasso di interesse interno (𝑟) tende a essere uguale al tasso di

interesse estero (𝑟∗), e quindi in cui il differenziale di tasso (spread) tende a essere

nullo, avremo:

3) 𝑟 = 𝑟∗.

Il modello è completato con l’introduzione dell’equazione LM che definisce l’equilibrio

sul mercato della moneta:

4) 𝑀

�̅�= 𝑓(𝑌, 𝑟).

Come si può notare, a differenza di quanto abbiamo visto nel caso del modello IS-

LM in economia chiusa, nella versione del modello IS-LM riferita a una economia

aperta in regime di cambi fissi, la quantità di moneta è determinata in modo

endogeno in funzione dell’obbligo della banca centrale di intervenire sul mercato dei

cambi per stabilizzare il livello del tasso di cambio nominale (𝐸).

Nel paragrafo precedente è stato mostrato che le variazioni della quantità di moneta

indotte dagli interventi delle autorità monetarie ai fini della stabilizzazione del tasso di

cambio nominale (𝐸) dipendono dal saldo della bilancia dei pagamenti. In particolare:

se 𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0 → 𝑑𝑀 ≠ 0,

218

se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑀 > 0, e

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑀 < 0.

Abbiamo definito un sistema in quattro equazioni e in quattro incognite

(𝑌, 𝑆𝐵𝑃, 𝑟 e 𝑀), che ammette il seguente ordine di soluzione:

dato 𝑟∗, l'equazione 3 → determina 𝑟,

dato 𝑟, l'equazione 1 → determina 𝑌,

dati 𝑟 e 𝑌, l'equazione 2 → determina 𝑆𝐵𝑃, e

dati 𝑟 e 𝑌, l'equazione 4 → determina 𝑀.

Come nel caso dell’economia chiusa, possiamo rappresentare i valori di equilibrio

del reddito e del tasso di interesse tramite un grafico che riporta 𝑌 sull’asse delle ascisse

e 𝑟 sull’asse delle ordinate (figura 81).

Figura 81 – L’equilibrio sul mercato dei beni, sul mercato della moneta e dei conti con

l’estero in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali

Come sappiamo, per determinare la posizione della curva LM sul piano, è necessario

conoscere la quantità di moneta (𝑀). Sappiamo anche che tale quantità è funzione degli

interventi della banca centrale ai fini della stabilizzazione del tasso di cambio nominale

(𝐸).

219

Si può dimostrare che la quantità di moneta (𝑀) creata dalla banca centrale per

stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸) è pari alla quantità di moneta che assicura

l’equilibrio sul mercato della moneta in corrispondenza dei valori di 𝑌 = 𝑌0 e di 𝑟 = 𝑟∗

(punto 0). In particolare, tale quantità di moneta è pari a 𝑀 = 𝑀0.

Qualora

𝑀 = 𝑀1 < 𝑀0,

l’offerta reale di moneta sarebbe pari a:

𝑀1

�̅�<𝑀0

�̅� .

Poiché in corrispondenza di una quantità di moneta uguale a 𝑀0 la curva LM passa per

il punto 0, quando la quantità di moneta diminuisce sino al livello 𝑀1 < 𝑀0, la LM si

sposta verso sinistra (verso l’alto) (figura 82).

Figura 82 – Gli effetti di una riduzione della quantità di moneta in ipotesi

di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali (1)

Come si può notare, in corrispondenza del punto 1:

𝑌1 < 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Ma mentre il punto 1 caratterizza una situazione di equilibrio sia sul mercato dei beni

che sul mercato della moneta, i conti con l’estero non sono in equilibrio. Ricordiamo,

infatti, che tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che si trovano al di sopra della curva BP

220

contraddistinguono i casi in cui la bilancia dei pagamenti si trova in avanzo, e quindi

una condizione in cui la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 < 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Per poter stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸), la banca centrale si vede

obbligata a intervenire sul mercato dei cambi e a offrire euro (€) in cambio dell’acquisto

di dollari ($). Pertanto, le riserve di valuta della banca centrale tendono ad aumentare:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ , e quindi 𝑀2 > 𝑀1 → 𝑀2

�̅�>𝑀1

�̅� .

In conseguenza dell’aumento della quantità di moneta, la LM si sposterà verso destra

(verso il basso) sino a intersecare la curva IS nel punto 2 (figura 83).

Figura 83 – Gli effetti di una riduzione della quantità di moneta in ipotesi

di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali (2)

In corrispondenza del punto 2:

𝑌0 > 𝑌2 > 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche in questo caso, il sistema è caratterizzato da situazione di equilibrio sul mercato

dei beni e sul mercato della moneta, ma da uno squilibrio nei conti con l’estero, perché

221

il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Pertanto, la bilancia dei pagamenti si trova

ancora in avanzo, e la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) continua a eccedere

l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 < 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

La banca centrale prosegue quindi nella sua politica di stabilizzazione del tasso di

cambio nominale (𝐸), offrendo euro (€) e domandando (acquistando) dollari ($) sul

mercato dei cambi. Per effetto di questi interventi, le riserve di valuta della banca

centrale crescono ulteriormente:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 𝑀 ↑ ,

mentre l’aumento della quantità di moneta provoca un nuovo spostamento verso il basso

(verso destra) della curva LM.

Questo meccanismo di aggiustamento si arresta, quando la curva LM interseca le curve

IS e BP in corrispondenza del punto 0 (figura 83), contraddistinto dalla combinazione

(𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗), in cui:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0 , 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

La quantità di moneta creata dalle autorità monetarie ai fini della stabilizzazione del

tasso di cambio nominale (𝐸) è uguale alla quantità di moneta che assicura l’equilibrio

sul mercato della moneta quando i livelli del reddito e del tasso dell’interesse sono pari,

rispettivamente, a 𝑌 = 𝑌0 e a 𝑟 = 𝑟∗.

In conclusione, abbiamo mostrato che, nel caso di una economia aperta in regime di

cambi fissi, esistono dei meccanismi di aggiustamento che determinano la convergenza

del sistema verso una condizione di equilibrio non solo sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta, ma anche nei conti con l’estero.

Tuttavia, come evidenzia la figura 84, tale condizione di equilibrio non corrisponde

necessariamente a un equilibrio di piena occupazione. Infatti, nella figura 84:

𝑌0 ≠ 𝑌𝑃𝑂.

Dobbiamo quindi chiederci, se le autorità di politica economica possono guidare il

sistema verso una situazione di piena occupazione della forza lavoro disponibile, in cui

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂, attraverso l’uso degli strumenti di politica fiscale e politica monetaria.

222

Figura 84 - L’equilibrio del modello IS-LM in economia aperta (in ipotesi di cambi fissi e

di perfetta mobilità dei capitali) e l’equilibrio di piena occupazione

Iniziamo la nostra analisi dagli effetti prodotti dalla politica fiscale. In particolare,

consideriamo gli esiti prodotti da una politica fiscale espansiva consistente in un

aumento della spesa pubblica (𝐺):

𝑑𝐺 > 0 con �̅�1 > �̅�0.

Figura 85 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (1)

223

Come si evince dalla figura 85, quando:

𝐺 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → (a parità di 𝑟) 𝑌 ↑ → la IS si sposta verso l'alto (verso destra).

In corrispondenza del punto 1:

𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Il punto 1 caratterizza una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato

della moneta, ma di squilibrio dei conti con l’estero, perché esso si trova al di sopra

della curva BP. Di conseguenza, la bilancia dei pagamenti si trova in avanzo, e la

domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 > 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Anche in questo caso, dunque, la banca centrale si vede obbligata a intervenire sul

mercato dei cambi e a offrire euro (€) in cambio dell’acquisto di dollari ($).

Figura 86 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (2)

224

Queste operazioni sul mercato dei cambi determinano un aumento delle riserve di valuta

della banca centrale, che si traducono in un aumento della quantità reale di moneta, e

quindi in uno spostamento verso il basso (verso destra) della curva LM (figura 86):

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ , e quindi 𝑀1 > 𝑀0 → 𝑀1

�̅�>𝑀0

�̅� .

Di conseguenza, in corrispondenza del punto 2 avremo:

𝑌2 > 𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 individua una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta, ma di squilibrio nei conti con l’estero. Infatti, esso si trova ancora

al di sopra della curva BP. Pertanto, la bilancia dei pagamenti continua a trovarsi in

avanzo, e la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) supera ancora l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 > 𝑌1 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Figura 87 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Per stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸), la banca centrale prosegue i suoi

interventi sul mercato dei cambi, offrendo euro (€) in cambio di dollari ($). Per effetto

225

di queste operazioni le riserve di valuta della banca centrale continuano ad aumentare,

così come la quantità di moneta.

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ → 𝑀2 > 𝑀1 → 𝑀2

�̅�>𝑀1

�̅� .

L’aumento della quantità reale di moneta provoca un ulteriore spostamento verso il

basso (verso destra) della curva LM, che si arresta quando essa interseca le curve IS e

BP in corrispondenza del punto3 (figura 87).

Il punto 3, caratterizzato dalla combinazione di valori del reddito e del tasso di

interesse (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗), rappresenta una situazione di equilibrio stabile, in cui

all’equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato della moneta corrisponde anche

l’equilibrio dei conti con l’estero. Infatti:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

La prima conclusione della nostra analisi sui risultati prodotti dalla politica

economica in una economia aperta è quindi questa: in regime di cambi fissi, la politica

fiscale è uno strumento efficace per aumentare il livello del reddito e il numero di

lavoratori occupati.

Passiamo ora agli effetti indotti dalla politica monetaria. Come sappiamo,

nell’ambito del modello IS-LM, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria

è il seguente:

𝑀 ↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑.

Supponiamo che la banca centrale decida di porre in atto una politica monetaria

espansiva, e quindi di aumentare la quantità di moneta.

All’aumento della quantità nominale di moneta corrisponde l’incremento della quantità

reale di moneta:

𝑑𝑀 > 0 → 𝑀1

�̅�>𝑀0

�̅� .

Di conseguenza, la curva LM si sposta verso il basso (verso destra) sino a intersecare la

curva IS in coincidenza del punto 1 della figura 88, in cui:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗.

226

Figura 88 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Nel punto 1 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio in

corrispondenza di un livello del reddito compatibile con la piena occupazione della

forza lavoro (𝑌𝑃𝑂). Tuttavia, si registra un disavanzo della bilancia dei pagamenti.

Infatti, il punto 1 si trova al di sotto della curva BP, e sul mercato della moneta l’offerta

di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede la domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Ai fini della stabilizzazione del tasso di cambio nominale (𝐸), in questo caso la banca

centrale interviene sul mercato dei cambi offrendo dollari ($) in cambio di euro (€).

L’intervento delle autorità monetarie si traduce in una diminuzione delle riserve di

valuta, e quindi in una diminuzione della quantità nominale e reale della moneta:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 < 0 → 𝑀 ↓ → 𝑀2 < 𝑀1 → 𝑀2

�̅�<𝑀1

�̅� .

La riduzione della quantità reale di moneta determina uno spostamento verso l’alto

(verso sinistra) della curva LM, sino a quando essa interseca la curva IS in

corrispondenza del punto 2 (figura 89), in cui:

𝑌2 < 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗.

227

Anche nel punto 2 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio.

Ma il saldo della bilancia dei pagamenti continua a essere negativo, perché anche il

punto 2 si trova al di sotto della curva BP. Pertanto, sul mercato della moneta si registra

ancora un eccesso dell’offerta di euro (€) in cambio di dollari ($) rispetto alla domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 < 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Figura 89 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (2)

La ripetuta vendita di dollari ($) in cambio di euro (€) da parte della banca centrale

provoca una ulteriore contrazione del livello delle riserve di valuta, e quindi una

riduzione della quantità nominale e reale della moneta, sino a quando quest’ultima torna

al livello compatibile non solo con l’equilibrio sui mercati dei beni e della moneta, ma

anche con quello dei conti con l’estero:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 < 0 → 𝑀 ↓ → 𝑀2 < 𝑀1 → 𝑀3

�̅�=𝑀0

�̅�<𝑀1

�̅� .

Ciò significa che lo spostamento della curva LM verso l’alto (verso sinistra) si arresta in

corrispondenza del punto 0, in cui la LM interseca sia la curva IS che la curva BP

(figura 90).

228

In particolare, nel punto 0:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 90 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Inoltre, l’equilibrio definito dalla combinazione di 𝑌 e di 𝑟 che contraddistingue il punto

0 è un equilibrio stabile, perché:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

La seconda conclusione della nostra analisi sugli effetti prodotti dagli interventi di

politica economica in una economia aperta agli scambi con l’estero è quindi che, in

regime di cambi fissi, la politica monetaria non è uno strumento efficace ai fini

dell’aumento del livello del reddito e del numero di lavoratori occupati.

229

5.3.2. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta in regime di cambi flessibili

Rappresentiamo il modello IS-LM per una economia aperta in regime di cambi flessibili

attraverso le seguenti equazioni:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Anche in questo caso, ipotizziamo di essere in presenza di perfetta mobilità dei capitali,

ovvero in una situazione in cui il tasso di interesse interno (𝑟) tende a essere uguale al

tasso di interesse estero (𝑟∗), e quindi in cui il differenziale di tasso (spread) tende a

essere nullo. Pertanto, avremo:

3) 𝑟 = 𝑟∗.

Per completare il modello, introduciamo l’equazione LM che definisce l’equilibrio sul

mercato della moneta:

4) �̅�

�̅�= 𝑓(𝑌, 𝑟).

Quando i tassi di cambio sono flessibili, la quantità di moneta è esogena. Essa,

cioè, è funzione delle autonome determinazioni delle autorità monetarie, come nel caso

del modello IS-LM per una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Siamo dunque nuovamente in presenza di un sistema di quattro equazioni in quattro

incognite (𝑌, 𝑆𝐵𝑃, 𝑟 e 𝜀).

Inoltre, anche in questo caso possiamo rappresentare i valori di equilibrio del reddito

(𝑌) e del tasso di interesse (𝑟) tramite un grafico che riporta i livelli di 𝑟 sull’asse delle

ordinate e quelli di 𝑌 sull’asse delle ascisse (figura 91).

Come si può notare, nella figura 91, in corrispondenza del punto 1, caratterizzato

dalla coppia di valori (𝑌 = 𝑌1 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗), l’equilibrio sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta non è accompagnato dall’equilibrio nei conti con l’estero, perché

il saldo della bilancia dei pagamenti è positivo. Infatti, il punto 1 si trova al di sopra

della curva BP. Di conseguenza, la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede

l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌1 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

230

Figura 91 - Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Questo squilibrio determina una rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) che si

traduce in un aumento del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi in una perdita di

competitività dei prodotti nazionali. Il conseguente peggioramento del saldo delle

partite correnti (del saldo commerciale) conduce a una riduzione dell’avanzo nel saldo

della bilancia dei pagamenti:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ .

A seguito dell’aumento del tasso di cambio reale da 𝜀1 a 𝜀2 (𝜀2 > 𝜀1), la curva IS si

sposta verso il basso (verso sinistra), sino a quando interseca la curva LM in

corrispondenza del punto 2 (figura 92).

Nel punto 2:

𝑌2 < 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Quindi, al nuovo equilibrio sul

mercato dei beni e sul mercato della moneta continua a corrispondere una situazione di

avanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di domanda di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

231

Figura 92 – Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Pertanto, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero prosegue.

Alla rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) fa seguito un altro aumento del

tasso di cambio reale (𝜀), che determina una ulteriore perdita di competitività dei

prodotti nazionali. Il saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) continua a

peggiorare, sino a quando l’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti viene

completamente eliminato:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

Graficamente, il ripristino dell’equilibrio nei conti con l’estero è raggiunto quando la IS

termina di spostarsi verso il basso (verso sinistra), cioè quando essa interseca la curva

LM e la curva BP in corrispondenza del punto 0 (figura 93).

Nel punto 0:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗.

In corrispondenza di questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟, il sistema si trova in

una situazione di equilibrio stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è pari a

zero e non ci sono spinte in direzione di una variazione del livello del tasso di cambio

reale (𝜀):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀0 stabile.

232

Anche in regime di cambi flessibili esistono dunque dei meccanismi di aggiustamento

che determinano la convergenza di un sistema economico aperto agli scambi con

l’estero verso una condizione caratterizzata dall’equilibrio sia sul mercato dei beni che

sul mercato della moneta e nei conti con l’estero.

Figura 93 – Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Tuttavia, come nel caso di un regime di cambi fissi, anche in quello di un regime di

cambi flessibili, non è detto che l’equilibrio sul mercato dei beni, sul mercato della

moneta e nei conti con l’estero corrisponda a un equilibrio di piena occupazione della

forza lavoro disponibile (figura 94).

233

Figura 94 - L’equilibrio del modello IS-LM in economia aperta (in ipotesi di cambi

flessibili e di perfetta mobilità dei capitali) e l’equilibrio di piena occupazione

Consideriamo quindi le opzioni a disposizione delle autorità di governo per cercare

di spostare il sistema verso una situazione di equilibrio stabile contraddistinta da un

livello del reddito corrispondente alla piena occupazione (𝑌𝑃𝑂). A tal fine, iniziamo ad

analizzare gli effetti prodotti da una politica fiscale espansiva consistente in un aumento

della spesa pubblica (𝐺):

𝑑𝐺 > 0 con �̅�1 > �̅�0 .

Come si evince dalla figura 95, quando:

𝐺 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → (a parità di 𝑟) 𝑌 ↑ → la IS si sposta verso l'alto (verso destra).

Il nuovo punto di intersezione tra la curva IS e la curva LM (punto 1) corrisponde a

una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato della moneta in cui:

𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Tuttavia, trovandosi sopra la curva BP, il punto 1individua una combinazione di valori

di 𝑌 e di 𝑟 che non è compatibile con l’equilibrio nei conti con l’estero. Infatti, il saldo

della bilancia dei pagamenti è in attivo:

234

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌1 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Figura 95 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Il conseguente eccesso di domanda di € in cambio di $ determina una rivalutazione del

tasso di cambio nominale (𝐸) che si traduce in un aumento del tasso di cambio reale

(𝜀), e quindi in una perdita di competitività dei prodotti nazionali, cui fa seguito un

peggioramento del saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) accompagnato da

una riduzione dell’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ .

La crescita del tasso di cambio reale da 𝜀0 a 𝜀1 (𝜀1 > 𝜀0), provoca uno spostamento

della curva IS verso il basso (verso sinistra), sino a quando essa interseca la curva LM

in corrispondenza del punto 2 (figura 96):

Nel punto 2:

𝑌2 < 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Al nuovo equilibrio sul mercato dei

beni e sul mercato della moneta continua quindi a corrispondere una situazione di

235

avanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di domanda di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Figura 96 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Pertanto, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero non si

ferma. Alla rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) fa seguito un altro aumento

del tasso di cambio reale (𝜀), che determina una ulteriore perdita di competitività dei

prodotti nazionali. Il saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) continua a

peggiorare sino a quando l’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti si annulla:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

Come si evince dalla figura 97, i conti con l’estero tornano in equilibrio quando la IS

termina di spostarsi verso il basso (verso sinistra), cioè quando essa interseca la curva

LM e la curva BP in corrispondenza del punto 0.

236

Figura 97 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Nel punto 0:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗.

In corrispondenza di questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟, il sistema si trova in

una situazione di equilibrio stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è in

equilibrio, e quindi non ci sono spinte in direzione di una variazione del livello del tasso

di cambio reale (𝜀).

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀0 stabile.

In base alle considerazioni precedenti, la nostra prima conclusione riferita al caso di

una economia aperta in cui i cambi sono flessibili, è che la politica fiscale non è in

grado di determinare un incremento permanente del reddito che sposti il sistema in una

condizione di piena occupazione della forza lavoro disponibile.

Consideriamo ora il caso di una politica monetaria espansiva consistente in un

aumento della quantità di moneta creata dalla banca centrale.

All’aumento della quantità nominale di moneta corrisponde l’incremento della quantità

reale di moneta:

𝑑𝑀 > 0 → �̅�1

�̅�>�̅�0

�̅� .

237

Di conseguenza, la curva LM si sposta verso il basso (verso destra) sino a intersecare la

curva IS in coincidenza del punto 1 (figura 98), in cui:

𝑌 = 𝑌1 e 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 98 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Nel punto 1 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio. Tuttavia,

si registra un disavanzo della bilancia dei pagamenti. Infatti, il punto 1 si trova al di

sotto della curva BP. Pertanto, sul mercato della moneta l’offerta di euro (€) in cambio

di dollari ($) eccede la domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Per effetto dell’eccesso di offerta di € in cambio di $ il tasso di cambio nominale (𝐸) si

svaluta, determinando così una diminuzione del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi un

aumento di competitività dei prodotti nazionali, cui fa seguito un miglioramento del

saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) accompagnato da una riduzione del

disavanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti:

𝐸 ↓ → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑ .

238

A seguito della riduzione del tasso di cambio reale da 𝜀0 a 𝜀1 (𝜀1 < 𝜀0), la curva IS si

sposta verso l’alto (verso destra), sino a quando interseca la curva LM in corrispondenza

del punto 2 (figura 99):

Figura 99 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Nel punto 2:

𝑌2 > 𝑌1 e 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sotto della curva BP. Quindi, al nuovo equilibrio sul

mercato dei beni e sul mercato della moneta continua a corrispondere una situazione di

disavanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di offerta di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Di conseguenza, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero

continua. In particolare, il tasso di cambio nominale (𝐸) prosegue la sua discesa,

causando una ulteriore riduzione del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi un continuo

incremento del grado di competitività dei prodotti nazionali. Il saldo delle partite

correnti (il saldo commerciale) migliora ancora, sino a quando il disavanzo nel saldo

della bilancia dei pagamenti viene completamente eliminato:

239

𝐸 ↓ → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

Come si evince dalla figura 100, il processo di aggiustamento termina quando la IS

interseca la curva LM e la curva BP in corrispondenza del punto 3.

Figura 100 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Nel punto 3:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗.

A questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟 corrisponde una situazione di equilibrio

stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio e non ci sono spinte

verso una variazione del livello del tasso di cambio nominale (𝐸), e quindi di quello

reale (𝜀).

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀 = 𝜀2 < 𝜀1 stabile.

Pertanto, con riferimento al caso di una economia aperta in cui i cambi sono

flessibili, la nostra seconda conclusione è che la politica monetaria rappresenta uno

strumento molto efficace ai fini del conseguimento di un incremento permanente del

reddito che sposti il sistema in una condizione di piena occupazione della forza lavoro

disponibile.

Possiamo chiudere l’analisi relativa agli effetti della politica fiscale e della politica

monetaria nel contesto di una economia aperta agli scambi con l’estero, sottolineando

240

come i risultati prodotti da questi interventi di politica economica sui livelli del reddito

e dell’occupazione dipendano dal regime di cambio vigente. Riassumendo:

Regime di cambi fissi

la politica fiscale è efficace, mentre

la politica monetaria è inefficace;

Regime di cambi flessibili

la politica fiscale è inefficace, mentre

la politica monetaria è efficace.

Queste differenze dipendono dai differenti meccanismi di aggiustamento degli squilibri

della bilancia dei pagamenti.

Nel caso dei cambi fissi, un saldo della bilancia dei pagamenti diverso da zero dà

origine a una variazione delle riserve ufficiali, e quindi a una variazione della quantità

nominale e reale della moneta, che incide sulla posizione della curva LM:

𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0 → 𝑑𝑀 ≠ 0.

Nel caso dei cambi flessibili, invece, un saldo della bilancia dei pagamenti diverso da

zero determina una variazione del tasso di cambio nominale, e quindi del tasso di

cambio reale, che influenza la posizione della curva IS:

𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝐸 → 𝑑𝜀.

6. La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips

6.1. Introduzione

Nelle due versioni del modello IS-LM analizzate finora, quella relativa a una economia

chiusa e quella invece relativa a una economia aperta agli scambi con l’estero, i prezzi e

i salari erano fissati esogenamente (𝑃 = �̅� 𝑒 𝑊 = �̅�). Di conseguenza, in entrambi i

modelli il fenomeno dell’inflazione viene trascurato. Tuttavia, negli anni ’60 del secolo

scorso è stata elaborata una versione del modello IS-LM che includeva una relazione

nota come curva di Phillips, in base alla quale era possibile dare una spiegazione

dell’inflazione. La curva di Phillips deve il suo nome all’economista che, nel 1958,

pubblicò un lavoro contenente una analisi empirica sulla relazione tra il tasso di

variazione dei salari monetari e il tasso di disoccupazione osservata in Gran

241

Bretagna nell’arco di un periodo di tempo lungo circa un secolo, che andava dalla metà

dell’800 alla metà del ’900.

Il tasso di variazione dei salari monetari (𝑊𝑡̇ ) può essere definito come il rapporto

tra la differenza tra:

il salario monetario al tempo 𝑡 (𝑊𝑡), e il livello del salario monetario al tempo 𝑡 − 1

(𝑊𝑡−1), e

il livello del salario monetario al tempo 𝑡 − 1 (𝑊𝑡−1), ovvero

𝑊𝑡̇ =𝑊𝑡 −𝑊𝑡−1𝑊𝑡−1

.

Il tasso di disoccupazione (𝑢) corrisponde invece al rapporto tra il numero dei

disoccupati e quello della forza lavoro:

𝑢𝑡 =𝑈𝑡𝐿=𝐿𝑡 − 𝑁𝑡𝐿𝑡

=𝐿𝑡𝐿𝑡−𝑁𝑡𝐿𝑡= 1 −

𝑁𝑡𝐿𝑡

,

con:

𝐿 = forza lavoro

𝑁 = lavoratori occupati

𝑈 = lavoratori disoccupati e

𝐿 = 𝑁 + 𝑈.

In base ai dati relativi alla Gran Bretagna, Phillips individuò una relazione statistica

tra queste due variabili, rappresentata nella figura 101, successivamente divenuta

famosa in letteratura come curva di Phillips. Questa relazione ha due caratteristiche

rilevanti:

1. Essa è inclinata negativamente:

𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

In altri termini, il tasso di variazione dei salari monetari cresce al diminuire del tasso di

disoccupazione.

2. Esiste un valore del tasso di disoccupazione (pari a 𝑢0) in corrispondenza del quale il

tasso di variazione dei salari monetari è pari a zero. In particolare, nel lavoro di Phillips

sui dati relativi alla Gran Bretagna questo valore era uguale al 5,5%. A valori del tasso

di disoccupazione superiori al 5,5% corrispondevano tassi di variazione dei salari

monetari negativi e viceversa.

242

Nel corso degli anni ‘60 sono stati pubblicati lavori simili, nei quali si dimostrava

che la relazione individuata da Phillips era valida anche per paesi diversi dalla Gran

Bretagna, come, per esempio, gli Stati Uniti.

Figura 101 – La curva di Phillips

Queste analisi empiriche hanno spinto gli economisti a inserire la relazione

individuata da Phillips nel modello IS-LM, che, come abbiamo osservato poco sopra,

fino ad allora era basato sull’ipotesi che i prezzi e i salari fossero fissi. Infatti, nei

modelli IS-LM visti sino ad ora, al variare del reddito (𝑌), dell’occupazione (𝑁) e del

tasso di disoccupazione (𝑢) i prezzi e i salari rimanevano costanti. Il lavoro di Phillips e

quello di altri economisti mostrava invece che i salari monetari variano in funzione del

livello del tasso di disoccupazione, e quindi dei livelli del reddito e dell’occupazione.

Effettivamente, dalla espressione analitica della curva di Phillips

𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

è possibile ricavare le seguenti due relazioni:

1.

𝑢𝑡 ↓ → 𝑊𝑡̇ ↑ ,

da cui, ipotizzando che la forza lavoro (𝐿) sia data,

243

𝑢𝑡 ↓ → 𝑁 ↑ → 𝑌 ↑.

2.

𝑢𝑡 ↓ = 1 −𝑁𝑡 ↑

𝐿𝑡 ,

e quindi

𝑁𝑡 ↑ → 𝑌𝑡 ↑ → 𝑊𝑡 .̇

Il significato economico della relazione empirica tra 𝑢𝑡 e 𝑊𝑡̇ può essere spiegato

considerando le caratteristiche del mercato del lavoro. Come si ricorderà,

presentando la teoria neoclassica abbiamo ipotizzato che il mercato del lavoro fosse

perfettamente concorrenziale, ovvero che in esso si confrontassero lavoratori tra loro

omogenei e un numero molto elevato di imprese anch’esse tra loro omogenee. In un

contesto di questo genere, né le decisioni della singola impresa né le decisioni di un

singolo lavoratore possono influenzare il prezzo del lavoro, vale a dire il salario di

equilibrio che si determina per effetto della interazione tra la domanda e l’offerta di

lavoro.

Abbandoniamo ora l’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali, e supponiamo

che sul mercato del lavoro il livello del salario monetario (𝑊𝑡) sia determinato dalla

contrattazione tra i rappresentanti dei lavoratori (i sindacati) da un lato e i rappresentanti

delle imprese (per esempio la Confindustria) dall’altro.

In tal caso, il livello dei salari monetari (𝑊𝑡) dipende dalla forza contrattuale dei

sindacati e delle imprese, ovvero dalla capacità di ciascuna di queste due istituzioni di

ottenere il livello di salario monetario coerente con i propri obiettivi.

Negli anni ’60, la relazione tra il tasso di variazione dei salari monetari e il tasso di

disoccupazione individuata da Phillips ha indotto gli economisti a concludere che la

forza contrattuale dei lavoratori dipendesse dal tasso di disoccupazione. Alti tassi di

disoccupazione inducono i lavoratori a rinunciare a chiedere salari monetari più elevati,

perché la loro preoccupazione fondamentale è quella di conservare il posto di lavoro,

mentre, al contrario, bassi tassi di disoccupazione li spingono a domandare aumenti

salariali.

6.2. Il modello IS-LM con curva di Phillips

Per tenere conto della relazione descritta dalla curva di Phillips è quindi necessario

elaborare una nuova versione del modello IS-LM in cui i salari monetari (𝑊) e i prezzi

(𝑃) sono trattati come variabili endogene.

Le seguenti equazioni 1) e 2) corrispondono alle tradizionali equazioni IS-LM con

due importanti differenze. In primo luogo, introduciamo il tempo (𝑡), perché i salari e i

244

prezzi non sono costanti, ma variano con l’andare del tempo in funzione dei valori del

reddito, del numero dei lavoratori occupati e del tasso di disoccupazione. In secondo

luogo, 𝑃𝑡 diventa una variabile endogena al modello e non una grandezza esogena.

Pertanto, il sistema costituito dalle equazioni 1) e 2) che descrive il modello IS-LM

contiene non più due sole incognite (il livello del reddito e quello del tasso di interesse),

bensì tre incognite date da 𝑌𝑡, 𝑟𝑡 e 𝑃𝑡.

1) 𝑌𝑡 = 𝐶(𝑌𝑡 − 𝑇) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + 𝐺 (equazione IS)

2) �̅�

𝑃𝑡= 𝑀𝑑(𝑌𝑡, 𝑟𝑡) (equazione LM).

Supponiamo che le imprese fissino il livello dei prezzi (𝑃𝑡) in funzione dei costi di

produzione rappresentati dal costo del lavoro. Indichiamo con 𝑊𝑡 il salario monetario

unitario e con 𝐴 la produttività di un singolo lavoratore, ovvero la quantità di prodotto

che, data la tecnologia, viene realizzata dal singolo lavoratore.

Per semplicità, ipotizziamo inoltre che la produttività marginale di ogni lavoratore

sia costante. In altre parole, abbandoniamo l’ipotesi che la produttività marginale del

lavoro sia decrescente. Il costo del lavoro per unità di prodotto diventa quindi:

𝑊𝑡𝐴 .

Presumiamo, per esempio, che risulti:

𝑊𝑡 = 100 unità di moneta

𝐴 = 20 unità di prodotto.

Avremo quindi:

𝑊𝑡𝐴=100

20= 5.

Indichiamo poi con 𝑃𝑡 il prezzo di una unità di prodotto. Questo prezzo viene fissato

dalle imprese in funzione del costo del lavoro per unità di prodotto:

𝑃𝑡 = 𝑓 (𝑊𝑡𝐴) con 𝑓′ > 0.

Possiamo scrivere questa relazione in forma lineare nel modo seguente:

3) 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴

con 𝜇 > 0.

245

L’espressione (1 + 𝜇) rappresenta il margine (mark-up) che serve a coprire le altre voci

di costo dell’impresa e ad assicurarle un determinato profitto. Dati 𝜇 e 𝐴, il livello dei

prezzi (𝑃𝑡) dipende dal livello del salario nominale (𝑊𝑡). Pertanto, l’equazione 3)

definisce il livello dei prezzi in funzione dei salari monetari pagati ai lavoratori.

Per completare il modello, è quindi necessario specificare il livello di questi ultimi. A

tal fine, facciamo ricorso alla relazione descritta dalla curva di Phillips e che trova

espressione nell’equazione 4):

4) 𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

L’equazione 5) definisce il livello dei salari monetari al tempo 𝑡 in funzione del

salario del periodo precedente (𝑊𝑡−1) e del tasso di variazione dei salari monetari

determinato dall’equazione 4):

5) 𝑊𝑡 = 𝑊𝑡−1 ∙ (1 +𝑊𝑡̇ ).

L’equazione 6), invece, esplicita la relazione tra il tasso di disoccupazione e il

numero di lavoratori occupati (𝑁𝑡):

6) 𝑢𝑡 = 1 −𝑁𝑡𝐿𝑡 .

Sappiamo che esiste una relazione tra 𝑁 e 𝑌 definita dalla funzione di produzione:

𝑌 = 𝑓(𝑁,𝐾),

con

𝑁 = occupazione e

𝐾 = stock di capitale.

Poiché 𝐾 è dato, possiamo scrivere:

𝑌 = 𝑓(𝑁).

Inoltre, ricavando la relazione inversa, è possibile ottenere il valore di 𝑁 in funzione di

quello di 𝑌, come nella equazione 7):

7) 𝑁𝑡 = 𝑔(𝑌𝑡).

246

Abbiamo quindi ottenuto un sistema di sette equazioni in sette incognite

(𝑌𝑡, 𝑟𝑡, 𝑃𝑡,𝑊𝑡, 𝑊𝑡̇ , 𝑢𝑡 e 𝑁𝑡). Per illustrare le caratteristiche di questa nuova versione del

modello IS-LM, supponiamo che nel sistema si registri quel particolare valore del tasso

di disoccupazione che, in base alla relazione definita dalla curva di Phillips, corrisponde

a un tasso di variazione dei salari monetari pari a zero:

𝑊𝑡̇ = 0.

Pertanto, risulterà:

𝑢𝑡 = 𝑢0 .

Si noti che nel lavoro originale di Phillips 𝑢0 era pari al 5,5%.

Se 𝑢𝑡 = 𝑢0:

𝑁𝑡 = 𝑁0 → 𝑢0 = 1 −𝑁0𝐿𝑡 .

Indichiamo con 𝑌𝑡 = 𝑌0 il livello di reddito coerente con 𝑁0.

Figura 102 – La condizione di equilibrio del modello IS-LM con curva di Phillips

Inoltre, se:

𝑊𝑡̇ = 0 → 𝑊𝑡 = 𝑊𝑡−1 = 𝑊𝑡−2,

247

allora il livello del salario monetario è stabile (𝑊 = 𝑊0), e anche i prezzi sono stabili.

Questa situazione di equilibrio è rappresentata nella figura 102 di cui sopra.

6.3. Il ‘real balance effect’ e l’efficacia solo temporanea di una politica fiscale

espansiva

Supponiamo che le autorità di governo decidano di attuare una politica fiscale espansiva

per incrementare il livello del reddito. In particolare, consideriamo il caso di un

aumento della spesa pubblica:

𝑑𝐺 > 0 𝑐𝑜𝑛 �̅�1 > �̅�0

La politica fiscale espansiva determina un spostamento della curva IS verso destra

come mostrato nella figura 103, in cui la nuova situazione di equilibrio è caratterizzata

dalla combinazione di valori del reddito e del tasso di interesse (𝑌1 > 𝑌0, 𝑟1 > 𝑟0).

Figura 103 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (1)

La combinazione di valori corrispondente al punto 1 rappresenta la nuova posizione

di equilibrio che il sistema raggiungerebbe nella versione tradizionale del modello IS-

LM, quella cioè in cui i livelli dei prezzi e dei salari sono stabili, e quindi non variano al

crescere del reddito e dell’occupazione.

Tuttavia, se si considera la relazione tra salari, prezzi, occupazione e reddito definita

dalla curva di Phillips, questa conclusione non è più valida. Infatti, la combinazione 1

non rappresenta una posizione di equilibrio stabile, perché l’incremento del reddito e

dell’occupazione, e la corrispettiva riduzione del tasso di disoccupazione, aumentano la

248

forza contrattuale dei lavoratori. Pertanto, in corrispondenza di un livello del reddito

pari a 𝑌1 il tasso di crescita dei salari monetari è superiore a zero, determinando un

equivalente aumento del tasso di variazione dei prezzi, come mostrato nella seguente

tabella 1:

Equilibrio 0 Equilibrio 1

𝑌 = 𝑌0 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0

𝑁 = 𝑁0 𝑁1 > 𝑁0

𝑢 = 𝑢0 𝑢𝑡+1 < 𝑢0

𝑢0 → 𝑊𝑡̇ = 0 𝑢𝑡+1 → �̇�𝑡+1 > 0

�̇�𝑡 = 0 �̇�𝑡+1 > 0

Supponiamo che, per effetto della riduzione del tasso di disoccupazione, in

corrispondenza di 𝑌1 si abbia un aumento dei salari monetari del 10%:

�̇�𝑡+1 = 𝑓(𝑢𝑡+1 < 𝑢0) = 10%.

Quindi risulterà:

𝑊𝑡+1 = 𝑊𝑡 ∙ (1 + 0,1).

L’aumento dei salari monetari provocherà un aumento dei prezzi. Infatti:

�̇�𝑡+1 > 0, con

�̇�𝑡+1 =𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡

𝑃𝑡 , e

𝑃𝑡+1 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+1𝐴 .

Di conseguenza:

�̇�𝑡+1 =

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡+1 −

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡

=𝑊𝑡+1 −𝑊𝑡

𝑊𝑡= �̇�𝑡+1 = 10%.

249

In definitiva, avremo:

𝑃𝑡+1 = 𝑃0 ∙ (1 + �̇�𝑡+1) = 1,1 ∙ 𝑃0.

L’aumento del livello dei prezzi modifica l’equilibrio IS-LM, perché provoca una

riduzione della quantità reale di moneta:

�̅�0𝑃𝑡+1

(quantità reale di moneta al tempo 𝑡 + 1), e

�̅�0𝑃0 (quantità reale di moneta al tempo 𝑡).

E poiché

𝑃𝑡+1 > 𝑃0,

si avrà:

�̅�0𝑃𝑡+1

<�̅�0𝑃0= 𝑀𝑑(𝑌1, 𝑟1) (eccesso di domanda di moneta).

A parità della quantità nominale di moneta immessa nel sistema dalle autorità

monetarie (𝑀0), l’aumento dei prezzi provocato dall’aumento del reddito determina una

riduzione dell’offerta reale di moneta. In corrispondenza della combinazione di valori

(𝑌1, 𝑟1), gli operatori economici esprimono una domanda reale di moneta che eccede

l’offerta reale di moneta. Pertanto, si registrerà un eccesso di domanda di moneta, cui,

come sappiamo, corrisponde un eccesso di offerta di titoli, perché il pubblico cede titoli

per procurarsi la moneta di cui ha bisogno:

eccesso di offerta di titoli → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

In termini di equilibrio IS-LM, la riduzione dell’offerta reale di moneta determinata

dall’aumento dei prezzi provoca uno spostamento della LM verso l’alto (verso sinistra).

Di conseguenza, il sistema raggiungerà la posizione corrispondente al punto 2 (figura

104):

250

Figura 104 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (2)

Anche la posizione di equilibrio corrispondente alla combinazione 2 non è stabile,

perché 𝑌2 > 𝑌0, e quindi 𝑢2 < 𝑢0. Ciò significa che nel periodo 𝑡 + 2, il tasso di

variazione dei salari monetari (�̇�𝑡+2) sarà ancora maggiore di zero, come pure il tasso

di inflazione (�̇�𝑡+2) (tabella 2):

Equilibrio 0 Equilibrio 1 Equilibrio 2

𝑌 = 𝑌0 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0 𝑌 = 𝑌2 > 𝑌0

𝑁 = 𝑁0 𝑁1 > 𝑁0 𝑁0 < 𝑁2 < 𝑁1

𝑢 = 𝑢0 𝑢𝑡+1 < 𝑢0 𝑢𝑡+2 < 𝑢0

𝑢0 → 𝑊𝑡̇ = 0 𝑢𝑡+1 → �̇�𝑡+1 > 0 𝑢𝑡+2 → �̇�𝑡+2 > 0

�̇�𝑡 = 0 �̇�𝑡+1 > 0 �̇�𝑡+2 > 0

L’aumento dei prezzi determina una nuova riduzione dell’offerta reale di moneta, e

quindi un nuovo spostamento della curva LM verso l’alto (verso sinistra). Il processo di

aumento dei salari e dei prezzi, che provoca un progressivo spostamento verso l’alto

della curva LM termina quando il sistema raggiunge il punto 𝐸, caratterizzato da un

livello del reddito pari a 𝑌0 (figura 105). Come sappiamo, in corrispondenza di questo

251

livello del reddito il valore del tasso di disoccupazione (𝑢0) è tale da garantire la

stabilità del livello dei salari monetari (il tasso di variazione dei salari monetari è nullo),

e quindi la stabilità del livello generale dei prezzi. Pertanto, il punto 𝐸 rappresenta un

punto di equilibrio stabile, perché:

𝑌 = 𝑌0 ↔ 𝑢 = 𝑢0 → �̇� = 0 → �̇� = 0.

Figura 105 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (3)

La specificazione della relazione tra salari monetari, prezzi, reddito, occupazione e

tasso di disoccupazione definita dalla curva di Phillips modifica sensibilmente le

conclusioni circa gli effetti della politica fiscale cui portava il tradizionale modello IS-

LM. Infatti, secondo la versione tradizionale di tale modello una politica fiscale

espansiva produce un effetto permanente sul livello del reddito. Al contrario,

l’incorporazione delle relazioni evidenziate dalla curva di Phillips nel modello IS-LM

induce a concludere che una politica fiscale espansiva può incidere soltanto

temporaneamente sul livello di reddito, perché la manovra fiscale espansiva provoca un

aumento del livello generale dei prezzi che retroagisce sui livelli del reddito e

dell’occupazione attraverso l’impatto sull’offerta reale di moneta:

𝑃 ↑ �̅�

𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓.

252

6.4. Il ‘trade-off’ tra reddito e inflazione

Gli economisti dell’ortodossia keynesiana degli anni ‘60 del secolo scorso avevano

individuato una strategia che consentiva di espandere in modo permanente il livello del

reddito anche in un sistema economico in cui valevano le relazioni rappresentate

attraverso la curva di Phillips. Per poter ottenere un livello del reddito costantemente

pari a 𝑌1 era necessario annullare gli effetti dell’aumento dei prezzi sull’offerta reale di

moneta attraverso un incremento della quantità nominale di moneta proporzionale

all’aumento dei prezzi.

Se la crescita del livello del reddito da 𝑌0 a 𝑌1 determina un aumento del tasso di

inflazione del 10% (nella fattispecie dallo 0% al 10%), al fine di mantenere un livello

del reddito costantemente pari a 𝑌1, di periodo in periodo, le autorità monetarie devono

aumentare la quantità di moneta del 10% e accettare un tasso di inflazione del 10%.

In particolare, se in 𝑡 + 1

�̇�𝑡+1 = 10%,

per lasciare invariata l’offerta reale di moneta è necessario che il tasso di variazione

della quantità nominale di moneta (�̇�𝑡+1) sia pari al 10%:

�̅�𝑡+1 = �̅�0 ∙ (1 + 0,1),

𝑃𝑡+1 = 𝑃0 ∙ (1 + 0,1), con

�̅�𝑡+1𝑃𝑡+1

=�̅�0𝑃0 .

Nel periodo 𝑡 + 2, invece, in corrispondenza d un livello del reddito pari a 𝑌1:

�̇�𝑡+2 = 10% → �̇�𝑡+2 = 10% → �̇�𝑡+2 = 10%.

Di conseguenza:

�̅�𝑡+2𝑃𝑡+2

=�̅�0𝑃0 .

E così via per tutti periodi successivi. In questo modo, la posizione della curva LM

non cambia, perché:

�̅�0𝑃0=�̅�𝑡+1𝑃𝑡+1

=�̅�𝑡+2𝑃𝑡+2

= etc. ,

253

e il sistema rimane in equilibrio in corrispondenza del punto 1, con 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0.

Nel modello IS-LM con curva di Phillips le autorità di politica economica possono

quindi aumentare in maniera permanente il livello del reddito, portandolo oltre il livello

coerente con la stabilità dei prezzi (𝑌0), a condizione che esse siano disposte ad

accettare un tasso di inflazione maggiore di 0. Nell’esempio appena esposto, le autorità

di politica economica possono ottenere un reddito pari a 𝑌1 > 𝑌0, se accettano un tasso

di inflazione del 10%.

E’ possibile individuare due distinte versioni della curva di Phillips. La prima di

queste versioni specifica la relazione tra il tasso di variazione dei salari monetari (𝑊)̇ e

il tasso di disoccupazione (𝑢) vista poco sopra. La seconda versione, invece, mette in

evidenza la relazione tra il tasso di inflazione al tempo 𝑡 (�̇�𝑡) e il livello del reddito

reale (𝑌𝑡).

La combinazione 0 del grafico di sinistra della figura 106 corrisponde alla

combinazione 0 del grafico di destra della medesima figura:

Figura 106 – Due distinte versioni della curva di Phillips

Quando:

𝑢 = 𝑢0 → �̇�(𝑢0) = 0 (punto 0).

Se:

𝑢 = 𝑢1 < 𝑢0 → �̇�(𝑢1) > �̇�(𝑢0) = 0 (punto 1).

254

Individuiamo le combinazioni dei valori di �̇� e 𝑌 che corrispondono alle

combinazioni di �̇� e 𝑢 relative ai punti 0 e 1 sul grafico di sinistra della figura 106.

Se:

𝑢 = 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁0 → 𝑢0 = 1 −𝑁0

�̅� .

Quindi, quando:

𝑁 = 𝑁0 → 𝑌 = 𝑌0.

In corrispondenza di 𝑌0, il tasso di inflazione (𝑃)̇ è pari a zero, perché anche il tasso di

variazione dei salari monetari è nullo:

�̇�(𝑢0, 𝑁0) = 0 (punto 0).

Viceversa, quando:

𝑢 = 𝑢1 < 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁1 > 𝑁0 → 𝑌1(𝑁1) > 𝑌0.

In corrispondenza di 𝑌1, il tasso di inflazione (𝑃)̇ è maggiore di zero e pari al tasso di

variazione dei salari monetari (�̇�) associato a 𝑌1. Infatti, se:

𝑌 = 𝑌1 → �̇�(𝑌1, 𝑢1) > 0 → �̇�1(𝑌1) = �̇�(𝑌1, 𝑢1) > 0.

In particolare, se:

�̇�(𝑌1, 𝑢1) = 10% → �̇�1(𝑌1) = 10% (punto 1).

Il modello IS-LM con curva di Phillips presenta 2 caratteristiche fondamentali che lo

differenziano dal modello IS-LM tradizionale con prezzi e salari fissi.

1. In primo luogo, questo modello contiene una spiegazione dell’inflazione che dipende

da due fattori:

a) dal meccanismo di determinazione del livello dei salari monetari. Come abbiamo

visto in precedenza, i salari monetari vengono determinati attraverso la contrattazione

tra lavoratori e imprese. Il loro livello dipende quindi dalla forza contrattuale dei

lavoratori, che, a sua volta, è funzione del tasso di disoccupazione. Pertanto, i prezzi e i

salari non sono stabili, ma variano al variare del reddito reale e dell’occupazione.

255

b) dal comportamento delle autorità monetarie. Affinché si possa mantenere nel tempo

un livello di reddito pari a 𝑌1, di anno in anno la banca centrale deve incrementare la

quantità nominale di moneta del 10% per compensare gli effetti prodotti da un aumento

dei prezzi del 10% sull’offerta reale di moneta.

2) In secondo luogo, nel modello IS-LM con curva di Phillips cambia la specificazione

degli obiettivi delle autorità di politica economica.

Se consideriamo il modello IS-LM tradizionale relativo a una economia chiusa agli

scambi con l’estero, in cui i prezzi e i salari sono fissi, possiamo affermare che le

autorità di politica economica perseguono un unico obiettivo, ovvero quello di garantire

un livello del reddito reale coerente con la piena occupazione della forza lavoro. Il

conseguimento di determinati livelli del reddito e dell’occupazione rappresenta un unico

obiettivo, perché queste due grandezze sono tra loro legate, secondo la relazione:

𝑌 → 𝑁.

Nel modello IS-LM tradizionale è quindi possibile espandere il livello del reddito a

parità di prezzi e di salari.

Invece, nel caso del modello IS-LM con curva di Phillips non è possibile espandere il

reddito mantenendo costante il livello dei prezzi. Il livello del reddito può essere

aumentato in maniera costante, ma soltanto se in cambio si accetta un incremento del

tasso di inflazione (trade-off tra reddito e inflazione). Pertanto, quando si considera il

modello IS-LM che incorpora le relazioni individuate dalla curva di Phillips, le autorità

fiscali e monetarie perseguono due fondamentali obiettivi di politica economica, dati, da

un lato, dal livello del reddito reale (𝑌) e, dall’altro, dal livello del tasso di inflazione

(�̇�). Tra questi due obiettivi esiste una relazione definita dalla curva di Phillips, che

assume il ruolo di una sorta di menu per le decisioni adottate dalle autorità di politica

economica. La curva di Phillips, infatti, indica tutte le combinazioni di 𝑌 e di �̇� che

possono essere scelte dalle autorità fiscali e monetarie. Le autorità di politica economica

possono quindi scegliere la combinazione 0 (𝑌0, �̇� = 0), oppure la combinazione 1

(𝑌1, �̇� = 10% > 0). Tuttavia, esse non possono scegliere la combinazione 𝐴 (𝑌1 >

𝑌0), �̇� = 0) (figura 106).

256

PARTE TERZA

La controrivoluzione monetarista e il ritorno

alle conclusioni della teoria neoclassica

257

1. Introduzione

Il modello IS-LM con curva di Phillips riassumeva i punti fondamentali della teoria

macroeconomica dominante negli anni ‘60 del secolo scorso e rappresentava il modello

generalmente accettato dagli economisti in quel periodo storico.

Questa situazione cambiò radicalmente nel corso degli anni ‘70. Come nel caso della

Grande Depressione degli anni ‘30, anche durante gli anni ‘70 la nuova ‘rivoluzione’

teorica trovava fondamento in un evento economico incoerente con il modello teorico

dominante.

Infatti, nel corso degli anni ‘70 si registrarono valori del tasso di inflazione e del

tasso di disoccupazione che contrastavano con la teoria economica coerente con la curva

di Phillips. L’esistenza di una relazione stabile tra tasso di variazione dei salari nominali

e tasso di disoccupazione (o, equivalentemente, tra tasso di inflazione e livello del

reddito reale) definita dalla curva di Phillips venne messa in forte dubbio dalla

manifestazione di un fenomeno, mai osservato sino ad allora, definito stagflazione,

consistente in una combinazione tra stagnazione economica (basso livello del reddito

reale e alta disoccupazione) e inflazione. Si trattava, con tutta evidenza, di una

combinazione che non era coerente con la relazione descritta dalla curva di Phillips,

che, come abbiamo visto in precedenza, associa la stagnazione economica a bassi tassi

di inflazione, e alti valori del tasso di inflazione a bassa disoccupazione (figura 107).

Figura 107 – La stagflazione

L’apparizione di questo nuovo fenomeno indusse gli economisti, come già nel corso

degli anni ’30 a seguito dello scoppio della Grande Depressione, a mettere in dubbio la

validità della teoria macroeconomica allora dominante. Questi dubbi furono alimentati

258

in particolare dall’analisi condotta da Milton Friedman, il quale tra la fine degli anni ‘60

e l’inizio degli anni ’70 elaborò una critica molto efficace nei confronti del modello

elaborato dalla ortodossia keynesiana dell’epoca, ovvero la versione del modello IS-LM

che incorporava la curva di Phillips.

2. La critica di Friedman alla curva di Phillips

2.1. L’introduzione delle aspettative inflazionistiche e l’ipotesi di illusione monetaria

Milton Friedman ha messo in rilievo una lacuna fondamentale del modello IS-LM con

curva di Phillips, dimostrando che la relazione tra inflazione e tasso di disoccupazione

che caratterizza la curva di Phillips è valida soltanto se si ipotizza che i lavoratori si

comportino in modo irrazionale. Il modello macroeconomico della ortodossia

keynesiana degli anni ’60 non si fondava quindi su solide basi teoriche, perché era

basato sull’assunzione che i lavoratori fossero agenti economici irrazionali.

Possiamo renderci conto del significato della critica di Friedman al modello IS-LM

con curva di Phillips ricordando le caratteristiche salienti di questo modello. In partenza

abbiamo considerato una situazione in cui:

𝑢 = 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁0 → �̇�(𝑢0, 𝑁0) = 0

Successivamente abbiamo descritto gli effetti di una politica fiscale espansiva,

definendo le condizioni necessarie affinché si possa ottenere un livello di reddito pari a

𝑌1 > 𝑌0. La nostra conclusione è stata che, per mantenere un livello di reddito pari a 𝑌1

al tempo 𝑡 + 1, al tempo 𝑡 + 2, etc., le autorità di politica economica dovevano

accettare un tasso di inflazione superiore a zero. Nel nostro esempio numerico il valore

del tasso di inflazione coerente con il mantenimento nel tempo di un livello del reddito

pari a 𝑌1 era uguale al 10%, cui corrispondeva un tasso di variazione dei salari monetari

anch’esso uguale al 10%. In ogni periodo, il livello di reddito sarebbe stato pari a 𝑌1, ma

soltanto a condizione che fosse:

�̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+2 = ⋯⋯⋯ = 10%, e che

�̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+1 = ⋯⋯⋯ = 10%.

A giudizio di Friedman, questo risultato implica un comportamento irrazionale da

parte dei lavoratori. Infatti, in corrispondenza del nuovo equilibrio caratterizzato da un

livello del reddito pari a 𝑌1, i salari monetari e i prezzi crescono nella stessa misura (del

10%). Ciò significa che i salari reali (𝑊/𝑃) rimangono costanti, e quindi che i

lavoratori richiedono aumenti dei salari monetari che non hanno alcun effetto sui salari

reali percepiti. Friedman sottolinea che questo comportamento dei lavoratori è

259

irrazionale, perché l’unica ragione che li può spingere a chiedere aumenti dei salari

monetari è quella di ottenere un aumento del loro reddito reale.

Pertanto, non è ragionevole ipotizzare che i lavoratori chiedano continuamente,

periodo dopo periodo, aumenti dei salari monetari che non hanno alcun effetto sui loro

salari reali. Se, dopo aver chiesto e ottenuto un aumento dei salari monetari del 10%, i

lavoratori osservano che i prezzi sono aumentati del 10%, e che i loro salari reali sono

rimasti invariati, essi cercheranno di reagire a questa situazione. Di conseguenza, nel

periodo successivo essi non saranno disposti ad accettare un aumento dei salari del

10%, i cui effetti sono destinati a essere annullati da un aumento del tasso di inflazione

anch’esso pari al 10%.

Per ovviare a queste incoerenze, Friedman ha quindi elaborato un modello

alternativo, introducendo ipotesi più solide relative al comportamento dei lavoratori. In

particolare, egli parte dall’assunzione che i lavoratori chiedano incrementi dei salari

monetari allo scopo di poter accrescere il loro potere d’acquisto, e che essi non accettino

una situazione in cui gli effetti dell’aumento dei salari monetari siano continuamente

annullati dall’aumento del livello dei prezzi.

Friedman descrive il comportamento dei lavoratori Friedman, ipotizzando che i salari

monetari (𝑊) e i prezzi (𝑃) vengano fissati in istanti temporali diversi. Per illustrare il

pensiero di Friedman consideriamo un intervallo di tempo 𝑡, e supponiamo che esso

corrisponda a un anno:

Assumiamo che nell’istante 0 lavoratori e imprese contrattino il salario monetario

(𝑊𝑡). Il livello dei prezzi (𝑃𝑡) viene invece determinato dalle sole imprese durante il

periodo 𝑡, quando i salari monetari sono già stati fissati. Si tratta di una ipotesi

realistica, perché, di norma, i contratti di lavoro vengono rinnovati ogni due o tre anni,

con la fissazione dei salari monetari che verranno pagati nel corso del periodo della

contrattazione.

Questa ipotesi relativa alle modalità di determinazione dei salari monetari e dei

prezzi ha importanti implicazioni per quanto riguarda la costruzione della funzione di

offerta di lavoro. Finora, infatti, abbiamo considerato la funzione neoclassica di offerta

di lavoro, in base alla quale:

𝑁𝑠 = 𝑓 (𝑊

𝑃) → 𝑁𝑠𝑡 = 𝑓 (

𝑊𝑡𝑃𝑡).

260

La funzione neoclassica di offerta di lavoro si fonda sull’ipotesi che, nel momento in

cui si contrattano i salari monetari (𝑊𝑡), sia noto anche il livello dei prezzi (𝑃𝑡).

Pertanto, se si assume che i prezzi e i salari vengano fissati in istanti temporali diversi,

questa funzione non può più essere valida.

Per questo motivo, Friedman descrive il comportamento dei lavoratori introducendo

il concetto di aspettative inflazionistiche. In particolare, egli indica con 𝑃𝑡𝑒 il livello

dei prezzi atteso dai lavoratori per il periodo 𝑡, specificando la seguente funzione di

offerta di lavoro:

1) 𝑁𝑠𝑡 = 𝑓 (𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒) con

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 salario reale atteso dai lavoratori.

Poiché all’istante 0 i lavoratori non conoscono 𝑃𝑡, nella costruzione di Friedman

l’offerta di lavoro è funzione del salario reale atteso (𝑊𝑡 𝑃𝑡𝑒⁄ ) e non del salario reale

effettivo (𝑊𝑡 𝑃𝑡⁄ ) (figura 108):

Figura 108 – L’offerta di lavoro in funzione del salario reale atteso

Per completare la descrizione del mercato del lavoro dobbiamo specificare la

funzione di domanda di lavoro che, come sappiamo, sintetizza il comportamento delle

imprese. In precedenza abbiamo osservato che, all’istante 0, le imprese contrattano con i

lavoratori i salari monetari (𝑊𝑡), e che solo successivamente, nel corso del periodo 𝑡,

esse fissano il livello dei prezzi (𝑃𝑡). Dal momento che le imprese determinano i prezzi

di vendita quando i salari monetari sono già noti, esse sono in grado di controllare i

salari reali (𝑊𝑡/𝑃𝑡). In altri termini, le imprese sono in grado di fissare il livello dei

prezzi in funzione dei loro obiettivi di profitto.

261

Al fine di specificare le caratteristiche della funzione di domanda di lavoro,

assumiamo che la forza lavoro disponibile sia pari a 𝐿 e che la produttività marginale di

ogni lavoratore sia costante e uguale ad 𝐴. Di conseguenza, 𝑊𝑡 𝐴⁄ rappresenta il costo

del lavoro per unità di prodotto. Inoltre, come abbiamo già visto in precedenza, in

occasione dell’illustrazione delle caratteristiche del modello IS-LM con curva di

Phillips, ipotizziamo che le imprese fissino il livello dei prezzi (𝑃𝑡) applicando un

mark-up al costo del lavoro che è commisurato ai loro obiettivi di profitto. Otteniamo

quindi la seguente equazione dei prezzi:

2) 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 con 𝐴 produttività del lavoro costante.

Possiamo illustrare questa relazione attraverso un semplice esempio numerico.

Supponiamo che risulti:

𝐴 = 100 (una unità di lavoro produce 100 unità di prodotto)

𝑊𝑡 = 100 unità di moneta

𝜇 = 1

𝑃𝑡 = (1 + 1) ∙100

100= 2 ∙ 1 = 2.

Dall’equazione 2) è possibile ricavare il valore del salario reale coerente con gli

obiettivi di profitto delle imprese. Infatti, otteniamo

𝑃𝑡 ∙ 𝐴 = (1 + 𝜇) ∙ 𝑊𝑡,

da cui ricaviamo:

3) 𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇) .

Con riferimento al nostro esempio numerico abbiamo che:

𝑊𝑡𝑃𝑡=100

1 + 1= 50.

Dall’equazione 3) possiamo inoltre ottenere l’espressione della funzione di domanda di

lavoro. Infatti, se vale

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇) ,

262

allora le imprese saranno disposte ad assumere tutti i lavoratori disponibili, perché il

salario reale (𝑊𝑡 𝑃𝑡 = 50)⁄ è inferiore alla produttività di ciascun lavoratore, che

sappiamo essere pari ad 𝐴 = 100. Per livelli del salario reale superiori a 𝑊𝑡 𝑃𝑡 = 50⁄ la

domanda di lavoro sarà invece pari a zero, poiché tali livelli del salario reale non sono

coerenti con gli obiettivi di profitto perseguiti dalle imprese (figura 109):

Figura 109 - La domanda di lavoro delle imprese nell’ipotesi che i prezzi vengano

determinati applicando un mark-up al costo del lavoro per unità di prodotto

Siamo ora in grado di rappresentare il mercato del lavoro disegnando su un unico

grafico sia la funzione di domanda che quella di offerta di lavoro (figura 110):

263

Figura 110 – L’equilibrio sul mercato del lavoro di Friedman

Il mercato del lavoro che trova rappresentazione nella figura 110 presenta due

caratteristiche che differiscono da quelle del mercato del lavoro descritto dalla

tradizione neoclassica.

1. Possiamo osservare che le funzioni di domanda e di offerta di lavoro dipendono da

variabili differenti:

𝑁𝑠 = 𝑓 (𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒) ↔ 𝑁𝑑 = 𝑔 (

𝑊𝑡𝑃𝑡).

Il punto di intersezione tra le due curve indica quel particolare valore di 𝑁 (𝑁 = 𝑁0), in

corrispondenza del quale il salario reale atteso dai lavoratori (𝑊𝑡 𝑃𝑡𝑒⁄ ) è uguale al

salario reale effettivamente pagato dalle imprese (𝑊𝑡/𝑃𝑡). Verifichiamo le

caratteristiche di 𝑁0:

264

Per 𝑁 = 𝑁0 quindi avremo:

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 =

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼.

Di conseguenza, deve essere:

𝑃𝑡𝑒 = 𝑃𝑡.

2. Il livello di occupazione che corrisponde al punto di intersezione delle due curve

riportate nella figura 110 non costituisce l’unico livello di occupazione possibile. Nel

caso del mercato del lavoro tradizionale rappresentato nella figura 111 riportata sotto,

non si può invece ottenere un valore di 𝑁 > 𝑁0. Infatti, per ottenere 𝑁1 devono valere le

seguenti condizioni:

265

Poiché:

𝑊𝑡𝑃𝑡= 𝛽(𝑁𝑠 = 𝑁1) ≠ 𝛾(𝑁𝑑 = 𝑁1),

un livello di occupazione pari a 𝑁1 non può essere ottenuto.

Figura 111 – L’equilibrio sul mercato del lavoro tradizionale

Se si introducono le aspettative inflazionistiche e si assume che la domanda e

l’offerta di lavoro dipendano da variabili differenti, il sistema può invece convergere

verso una situazione caratterizzata da un livello di occupazione 𝑁1 > 𝑁0 (figura 112).

A tal fine, devono valere le seguenti condizioni:

E’ quindi possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1, a condizione che si

abbia

266

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 𝛽 >

𝑊𝑡𝑃𝑡= 𝛼,

ovvero a condizione che valga la seguente disuguaglianza:

𝑃𝑡𝑒 < 𝑃𝑡 .

Figura 112 - La possibilità di ottenere un aumento del livello di occupazione

nel mercato del lavoro di Friedman

In conclusione, la condizione necessaria affinché si ottenga un livello di occupazione

superiore a 𝑁0 è che i lavoratori commettano un errore di previsione e si aspettino un

livello dei prezzi (𝑃𝑡𝑒) inferiore a quello effettivo (𝑃).

Possiamo illustrare questo risultato con un esempio numerico. Supponiamo che nel

periodo 𝑡 si abbia un livello di occupazione pari a 𝑁0, in corrispondenza del quale i

lavoratori non commettono errori di previsione:

267

Calcoliamo il valore del salario nominale (𝑊𝑡) che induce i lavoratori a offrire 𝑁0 unità

di lavoro:

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 𝛼 = 50 → 𝑊𝑡 = 50 ∙ 𝑃𝑡

𝑒 .

Al fine di determinare 𝑊𝑡 è quindi necessario conoscere 𝑃𝑡𝑒. Friedman assume che i

lavoratori elaborino le loro aspettative circa i prezzi futuri sulla base dell’osservazione

dei prezzi passati. Ipotizziamo che in passato si siano registrati prezzi stabili, ovvero

che:

𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = ⋯⋯⋯ = 2.

In tal caso, i lavoratori si aspettano che i prezzi rimangano stabili anche nel periodo 𝑡:

𝑃𝑡𝑒 = 𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = 2.

Pertanto, avremo:

𝑊𝑡 = 50 ∙ 𝑃𝑡𝑒 = 50 ∙ 2 = 100.

I lavoratori offriranno 𝑁0 unità di lavoro a condizione che il salario monetario (𝑊𝑡) sia

pari a 100. Dato un livello di prezzi atteso pari a 2, ciò equivale a un salario reale atteso

pari a 50.

𝑃𝑡𝑒 = 2 →

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 =

100

2= 50 → 𝑁𝑠 = 𝑁0 .

Le imprese assumeranno gli 𝑁0 lavoratori a condizione che il salario reale effettivo sia

pari a:

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼 .

268

Le imprese sono in grado di determinare questo livello del salario reale fissando i prezzi

secondo l’equazione:

𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 → 𝑃𝑡 = (1 + 1) ∙

100

100= 2 .

Di conseguenza avremo:

𝑊𝑡𝑃𝑡=100

2=𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 50 .

In corrispondenza di 𝑁0 i lavoratori non commettono errori di previsione. Infatti:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡𝑒 = 2.

Come sappiamo, in 𝑡 + 1 è possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0

purché i lavoratori commettano un errore di previsione e si aspettino un livello futuro

del salario reale superiore a quello effettivo:

𝑊𝑡𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 >

𝑊𝑡𝑃𝑡+1

= 𝛼 .

In tal caso:

𝑃𝑡+1𝑒 < 𝑃𝑡+1 .

Affinché in 𝑡 + 1 si possa avere un livello di occupazione pari a 𝑁1 si devono realizzare

le seguenti condizioni:

Possiamo calcolare il salario nominale (𝑊𝑡+1) necessario a indurre i lavoratori a offrire

𝑁1 unità di lavoro. Poiché

269

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 = 55,

otteniamo:

𝑊𝑡+1 = 55 ∙ 𝑃𝑡+1𝑒 .

Supponiamo che i lavoratori elaborino le loro previsioni circa i prezzi futuri sulla

base dell’osservazione dei valori assunti nei periodi precedenti, e che in passato i prezzi

fossero stabili:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = ⋯⋯⋯ = 2

In questo caso, risulterà:

𝑃𝑡+1𝑒 = 𝑃𝑡 = 2.

Pertanto, il salario monetario necessario affinché i lavoratori offrano 𝑁1 unità di lavoro

sarà pari a:

𝑊𝑡+1 = 55 ∙ 2 = 110.

𝑃𝑡+1𝑒 = 2 →

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 55 → 𝑁𝑠 = 𝑁1 > 0 .

La seconda condizione necessaria perché si realizzi un livello di occupazione pari a

𝑁1 riguarda le imprese. Queste ultime assumeranno 𝑁1 lavoratori, se il salario reale

effettivo è pari ad 𝛼:

𝑁𝑑 = 𝑁1 se 𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

= 𝛼 = 50.

Le imprese riusciranno a ottenere questo valore del salario reale fissando i prezzi in base

alla solita equazione, ovvero:

270

𝑃𝑡+1 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+1𝐴

= (1 + 1) ∙110

100= 2 ∙ 1,1 = 2,2.

In corrispondenza di un livello di prezzi pari a

𝑃𝑡+1 = 2,2

si otterrà:

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

=110

2,2= 50.

Il salario reale effettivo sarà quindi uguale a 50, e sarà minore del salario reale atteso dai

lavoratori, che, come abbiamo visto poco sopra è pari a 55. Questa discrepanza

corrisponde all’errore di previsione commesso dai lavoratori, che si attendevano un

livello dei prezzi uguale a 2, mentre quello effettivamente registrato è pari a 2,2:

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 = 55 >

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

= 𝛼 = 50 ↔ 𝑃𝑡+1𝑒 = 2 < 𝑃𝑡+1 = 2,2 .

L’errore di previsione commesso dai lavoratori può essere espresso anche in termini

di tasso di inflazione. Infatti, dato 𝑃𝑡+1𝑒 (ovvero il livello dei prezzi atteso dai lavoratori

per il periodo 𝑡 + 1), è possibile calcolare il tasso di inflazione atteso dai lavoratori

(�̇�𝑡+1𝑒 ):

�̇�𝑡+1𝑒 =

𝑃𝑡+1𝑒 − 𝑃𝑡𝑃𝑡

.

Con riferimento al nostro esempio numerico abbiamo che:

𝑃𝑡+1𝑒 = 2 e 𝑃𝑡 = 2 → �̇�𝑡+1

𝑒 =2 − 2

2= 0.

Il tasso di inflazione effettivo è invece pari a:

�̇�𝑡+1 =𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡

𝑃𝑡 .

E poiché

𝑃𝑡+1 = 2,2 e 𝑃𝑡 = 2,

271

otteniamo:

�̇�𝑡+1 =2,2 − 2

2= 10% .

L’errore di previsione compiuto dai lavoratori può quindi essere definito sia in termini

di livelli dei prezzi che in termini di tassi di inflazione:

𝑃𝑡+1⏟2,2

> 𝑃𝑡+1𝑒⏟2

(livelli di prezzo)

�̇�𝑡+1⏟10%

> �̇�𝑡+1𝑒⏟0%

(tassi di inflazione)

2.2. L’instabilità della relazione tra il livello del reddito e il tasso di inflazione

descritta dalla curva di Phillips

L’analisi di Friedman porta a due importanti conclusioni. In primo luogo, egli ha

evidenziato che è possibile ottenere un livello di occupazione superiore a 𝑁0, a

condizione che si crei una discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori e il salario

reale effettivamente pagato dalle imprese. Questa circostanza si determina quando i

lavoratori commettono un errore di previsione circa il tasso di inflazione dei periodi

futuri.

In secondo luogo, Friedman ha mostrato che l’equilibrio corrispondente a un livello

di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0 può essere soltanto un equilibrio temporaneo, e che

l’unico equilibrio stabile è quello caratterizzato da un livello di occupazione pari a 𝑁0.

Intuitivamente, ciò si spiega col fatto che per mantenere il sistema al livello di

occupazione 𝑁1 i lavoratori devono continuare a commettere sempre lo stesso errore di

previsione. In altri termini, occorre che essi persistano nel prevedere un tasso di

inflazione uguale a 0, quando, in realtà, il tasso di inflazione effettivamente registrato in

ogni periodo è invece pari al 10%. Evidentemente non si tratta di un comportamento

razionale. Pertanto, è presumibile che i lavoratori modificheranno le loro aspettative,

cercando di eliminare l’errore di previsione. Nel lungo periodo, quindi, il sistema dovrà

convergere verso l’unico valore di 𝑁 in corrispondenza del quale i lavoratori non

commettono alcun errore di previsione.

Per dimostrare questo risultato, proviamo a definire le condizioni che si devono

realizzare nel periodo 𝑡 + 2 affinché il livello di occupazione sia pari a 𝑁 = 𝑁1.

A tal fine, ricordiamo che in 𝑡 + 1 si è ottenuto 𝑁 = 𝑁1, con un errore di previsione

dato da

�̇�𝑡+1(10%) > �̇�𝑡+1𝑒 (0%),

272

che ha provocato una discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori (𝛽) e il salario

reale effettivamente pagato dalle imprese (𝛼).

Per ottenere lo stesso livello di occupazione in 𝑡 + 2, il divario tra il salario atteso dai

lavoratori e il salario reale effettivamente pagato dalle imprese deve essere uguale a

quello osservato nel periodo precedente. Pertanto:

Condizione necessaria perché anche in 𝑡 + 2 venga impiegato un numero di lavoratori

pari a 𝑁1 è dunque che:

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2𝑒 = 𝛽 = 55 >

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2

= 𝛼 = 50 .

Ciò avverrà, se in 𝑡 + 2 i lavoratori commettono il medesimo errore di previsione già

commesso nel periodo precedente. In altre parole, dovrà risultare che:

�̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 10%.

Per poter determinare il valore del tasso di inflazione che si dovrà registrare in 𝑡 + 2

(�̇�𝑡+2) affinché il livello di occupazione possa essere pari a 𝑁 = 𝑁1, è necessario

specificare il valore del tasso di inflazione atteso (�̇�𝑡+2𝑒 ). Friedman ipotizza che i

lavoratori elaborino le loro previsioni relative al tasso di inflazione sulla base di un

meccanismo di aspettative adattive. Questo meccanismo implica che, in ogni periodo,

i lavoratori modifichino le loro aspettative inflazionistiche rispetto al passato basandosi

sull’errore di previsione commesso nel periodo precedente. Vale quindi la seguente

relazione:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒⏟ )

𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+1

con 0 < 𝜆 ≤ 1.

Se l’errore di previsione fosse pari a 0, si avrebbe:

273

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 .

Qualora, invece, l’errore di previsione fosse uguale a

�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 > 0,

si avrebbe

�̇�𝑡+2𝑒 > �̇�𝑡+1

𝑒 .

Infatti, risulterebbe:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ) > �̇�𝑡+1

𝑒 .

Inoltre, possiamo osservare che, essendo

�̇�𝑡+2𝑒 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ),

la differenza tra la previsione al tempo 𝑡 + 2 e la previsione al tempo 𝑡 + 1 dipende

dall’errore di previsione commesso.

Per semplicità, assumiamo che sia 𝜆 = 1. Avremo quindi:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 1 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ) = �̇�𝑡+1

𝑒 + �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 = �̇�𝑡+1.

In questo caso, il meccanismo di formazione delle aspettative è molto semplice, perché

il tasso di inflazione atteso per un dato periodo è pari al tasso di inflazione

effettivamente registrato nel periodo precedente. Pertanto, se consideriamo i valori

numerici utilizzati nel nostro esempio, si avrà:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10%.

Una volta determinato �̇�𝑡+2𝑒 possiamo calcolare il valore del tasso di inflazione che si

deve registrare in 𝑡 + 2 per mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁 = 𝑁1. Questo

valore dovrà essere tale da provocare lo stesso errore di previsione già registrato nel

periodo 𝑡 + 1, ovvero un errore di previsione pari a 10 punti percentuali. In 𝑡 + 1 il

tasso di inflazione atteso dai lavoratori era pari a 0, mentre il valore del tasso di

inflazione effettivo era uguale al 10%. Poiché nel periodo 𝑡 + 2 il tasso di inflazione

atteso dai lavoratori è pari al 10%, il tasso di inflazione effettivo che assicura un errore

di10 punti percentuali dovrà essere uguale al 20%:

�̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 10% ↔ (20% − 10%) = (10% − 0%) = 10%.

274

Verifichiamo questo risultato usando il solito esempio e considerando il periodo

𝑡 + 2. Come abbiamo visto sopra, per ottenere anche nel periodo 𝑡 + 2 un livello di

occupazione pari a 𝑁1, è necessario che si crei una discrepanza tra il salario reale atteso

dai lavoratori e il salario effettivo pari a (𝛽 – 𝛼):

Pertanto, il salario monetario necessario a indurre i lavoratori a offrire 𝑁1 unità di lavoro

è uguale a:

𝑊𝑡+2 = 𝛽 ∙ 𝑃𝑡+2𝑒 .

Per calcolare 𝑊𝑡+2 è quindi necessario conoscere �̇�𝑡+2𝑒 . Possiamo determinare il livello

atteso dei prezzi facendo ricorso al meccanismo delle aspettative adattive, ricordando

che:

𝑃𝑡+2𝑒 = 𝑃𝑡+1

𝑒 ∙ (1 + �̇�𝑡+2𝑒 ) .

Sappiamo che

𝑃𝑡+1 = 2,2 ,

e che in base al meccanismo delle aspettative adattive (con 𝜆 = 1), risulta:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% .

Pertanto, avremo:

𝑃𝑡+2𝑒 = 2,2 ∙ (1 + 0,1) = 2,2 ∙ 1,1 = 2,42 .

A questo punto, possiamo finalmente calcolare il valore di 𝑊𝑡+2:

275

𝑊𝑡+2 = 𝛽 ∙ 𝑃𝑡+2𝑒 = 55 ∙ 2,42 = 132.

Il tassodi variazione dei salari monetari è quindi pari a:

�̇�𝑡+2 =𝑊𝑡+2 −𝑊𝑡+1

𝑊𝑡+1=132 − 110

110= 20% .

La seconda condizione perché si realizzi un livello di occupazione uguale a 𝑁1 è che

le imprese domandino proprio 𝑁1 unità di lavoro. Come sappiamo, 𝑁𝑑 = 𝑁1 se:

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2

=𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼 = 50 .

Da questa espressione è possibile ricavare il livello dei prezzi che consente alle imprese

di pagare un salario reale pari a 𝛼. Infatti:

𝑃𝑡+2 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+2𝐴 .

Con:

𝜆 = 1

𝑊𝑡+2 = 132

𝐴 = 100

si ottiene

𝑃𝑡+2 = (1 + 1) ∙132

100= 2 ∙ 1,32 = 2,64 .

Il tasso di inflazione effettivo relativo al periodo 𝑡 + 2 sarà quindi pari a:

�̇�𝑡+2 =𝑃𝑡+2 − 𝑃𝑡+1

𝑃𝑡+1=2,64 − 2,2

2,2= 20% .

Possiamo seguire lo stesso procedimento per specificare le condizioni che si devono

realizzare in 𝑡 + 3 per ottenere 𝑁 = 𝑁1. Anche in questo caso, il divario tra il salario

reale atteso (𝛽) e il salario reale effettivo (𝛼) deve restare immutato. Di conseguenza:

276

Dovrà quindi risultare:

𝑊𝑡+3𝑃𝑡+3𝑒 >

𝑊𝑡+3𝑃𝑡+3

→ 𝑃𝑡+3𝑒 < 𝑃𝑡+3 → �̇�𝑡+3

𝑒 < �̇�𝑡+3 .

In altri termini, i lavoratori devono commettere lo stesso errore di previsione già

registrato nei periodi 𝑡 + 1 e 𝑡 + 2:

�̇�𝑡+3 − �̇�𝑡+3𝑒

⏟ 𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+3

= �̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒

⏟ 𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+2

= �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒⏟

𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+1

.

Con �̇�𝑡+1𝑒 = 0 → �̇�𝑡+1 = 10% e con �̇�𝑡+2

𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+2 = 20% .

Pertanto, il valore di �̇�𝑡+3 dipende da �̇�𝑡+3𝑒 , che è definito in base al meccanismo delle

aspettative adattive visto sopra:

�̇�𝑡+3𝑒 = �̇�𝑡+2 = 20%.

In definitiva, il valore di �̇�𝑡+3 è quindi pari a:

�̇�𝑡+3𝑒 = 30% .

Sulla base dello stesso ragionamento possiamo calcolare anche il tasso di inflazione

effettivo che si deve realizzare in 𝑡 + 4 affinché il livello di occupazione rimanga

costante in corrispondenza di 𝑁 = 𝑁1. Poiché risulta:

�̇�𝑡+4𝑒 = �̇�𝑡+3 = 30% ,

si avrà

�̇�𝑡+4 = 40%.

277

La conclusione raggiunta da Friedman è che nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2, 𝑡 + 3 etc. è

possibile raggiungere e mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0, ma solo a

condizione che il tasso di inflazione aumenti costantemente nel tempo secondo la

sequenza:

𝑡 + 1 → �̇�𝑡+1 → 10%

𝑡 + 2 → �̇�𝑡+2 → 20%

𝑡 + 3 → �̇�𝑡+3 → 30%

𝑡 + 4⏟ ⋮⋮

→ �̇�𝑡+4⏟⋮⋮

→ 40%⏟ ⋮⋮

.

Il risultato dell’analisi di Friedman si distacca quindi nettamente da quello emerso

dall’esame del modello keynesiano con curva di Phillips, secondo cui è possibile

ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 in presenza di un tasso di inflazione

costante (figura 113).

Figura 113 – L’instabilità della relazione tra reddito e tasso di inflazione

Il grafico di sinistra della figura 113 illustra il mercato del lavoro, mentre quello di

destra rappresenta la curva di Phillips nella versione riferita alla relazione tra il reddito

reale e il tasso di inflazione. Il punto 0 sul grafico di sinistra indica il valore

dell’occupazione coerente con la stabilità dei prezzi e corrisponde al punto 0 sulla curva

di Phillips. Un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0 corrisponde a un livello di reddito

pari a 𝑌1 > 𝑌0. Secondo il modello keynesiano con curva di Phillips è possibile ottenere

278

un livello di occupazione pari a 𝑁1 e un livello di reddito pari a 𝑌1 con un tasso di

inflazione costante, come, ad esempio, quello pari al 10% indicato nel punto 1del

grafico di sinistra della figura 113.

A giudizio di Friedman, invece, è possibile mantenere un livello di occupazione

uguale a 𝑁1 soltanto con un tasso di inflazione crescente. Egli ha mostrato che un

risultato compatibile con la curva di Phillips può essere ottenuto soltanto ipotizzando

che i lavoratori si comportino in modo irrazionale. Poco sopra abbiamo visto che è

possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 solo se si manifesta una

discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori (𝛽) e quello effettivo (𝛼). Questa

discrepanza si realizza quando i lavoratori commettono un errore di previsione che, nel

nostro esempio numerico, è dato da una differenza tra il tasso di inflazione effettivo e

quello atteso pari a 10 punti percentuali.

Infatti, affinché si abbia 𝑁1 nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2 e 𝑡 + 3 occorre che:

�̇�𝑡+1⏟10%

− �̇�𝑡+1𝑒⏟0

= 10%

�̇�𝑡+2⏟10%

− �̇�𝑡+2𝑒⏟0

= 10%

�̇�𝑡+3⏟10%

− �̇�𝑡+3𝑒⏟0

= 10% .

Si può quindi osservare che, nei diversi periodi presi in considerazione, a un errore di

previsione costantemente pari al 10% corrisponde un tasso di inflazione anch’esso pari

al 10% a condizione che il tasso di inflazione atteso non vari nel tempo. In altri termini,

affinché nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2 e 𝑡 + 3 si abbia un errore di previsione pari a 10 punti

percentuali e un tasso di inflazione costante di pari entità, è necessario che il tasso di

inflazione atteso sia sempre uguale a zero:

�̇�𝑡+1𝑒 = �̇�𝑡+2

𝑒 = �̇�𝑡+3𝑒 = 0.

Occorre, cioè, che, durante una successione di periodi in cui si registra un tasso di

inflazione uguale del 10%, i lavoratori continuino a prevedere un tasso di inflazione

nullo. Con tutta evidenza, si tratta di un comportamento irrazionale. I lavoratori, infatti,

si accorgeranno dell’errore di previsione commesso, e cercheranno quindi di

correggerlo nei periodi di tempo successivi a quello in cui si è manifestata la

discrepanza tra aspettativa di inflazione e tasso di inflazione effettivo. Friedman ipotizza

che questa correzione avvenga in base al meccanismo delle aspettative adattive.

Se 𝜆 = 1, i lavoratori si aspettano un tasso di inflazione uguale all’ultimo tasso di

inflazione osservato. Come abbiamo visto poco sopra, in questo caso un livello di

279

occupazione pari a 𝑁1 e un livello di reddito pari a 𝑌1 potranno essere ottenuti soltanto

in corrispondenza di un tasso di inflazione crescente.

Friedman ha quindi concluso che la relazione tra reddito reale e tasso di inflazione

definita da Phillips, ovvero

1) 𝑌 = 𝑓(�̇�)

debba essere sostituita dalla relazione seguente:

2) 𝑌 = 𝑔(�̇� − �̇�𝑒).

Pertanto, secondo Friedman il livello del reddito non è funzione del tasso di inflazione,

bensì dell’errore di previsione commesso dai lavoratori: non esiste alcuna relazione tra

il tasso di inflazione e il reddito reale. Quest’ultimo, invece, dipende esclusivamente

dall’errore commesso dai lavoratori in sede di stima del livello futuro del tasso di

inflazione. Di conseguenza, la relazione individuata dalla curva di Phillips vale soltanto

quando, in ogni periodo, �̇�𝑒 = 0, ovvero quando i lavoratori persistono nell’attendersi

un tasso di inflazione nullo nonostante quello effettivo sia maggiore di zero. La

precedente relazione 2) può anche essere espressa in termini lineari:

3) 𝑌 = 𝑌0 + 𝑔(�̇� − �̇�𝑒) con 𝑔 > 0.

Quando:

�̇� − �̇�𝑒 = 0 → 𝑌 = 𝑌0 con 𝑌0 = 𝑌(𝑁0).

Soltanto se:

�̇� − �̇�𝑒 > 0 → 𝑌 > 𝑌0 .

Con riferimento al nostro esempio numerico avremo che:

𝑌 = 𝑌1 → 𝑌1 = 𝑌(𝑁1) se �̇� − �̇�𝑒 = 10% .

La relazione 3) può essere rappresentata graficamente sul piano (𝑌, �̇�) utilizzato in

precedenza per descrivere la curva di Phillips, tenendo conto del fatto che ora la

relazione tra 𝑌 e �̇� dipende dal valore del tasso di inflazione atteso (�̇�𝑒) (figura 114).

280

Figura 114 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (1)

Abbiamo visto che per ottenere 𝑁1 e 𝑌1, nel periodo 𝑡 + 1 è necessario che si abbia:

�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 = 10%.

In particolare, se:

�̇�𝑡+1𝑒 = 0 → �̇�𝑡+1 = 10% (punto 1 nella figura 114) .

Tuttavia, la relazione tra �̇� e 𝑌 non e stabile, perché, nel tempo, il valore del tasso di

inflazione atteso (�̇�𝑒) si modifica.

In 𝑡 + 2 il tasso di inflazione coerente con 𝑌1 è uguale al 10% soltanto se i lavoratori

continuano a prevedere un tasso di inflazione pari a zero (�̇�𝑡+2𝑒 = 0). Ma se le

aspettative di inflazione variano secondo il meccanismo delle aspettative adattive

descritto nelle pagine precedenti, in 𝑡 + 2si avrebbe:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+2 = 20% .

In questo caso, in corrispondenza di un livello del reddito uguale a 𝑌1 il tasso di

inflazione non sarebbe più pari al 10%, bensì al 20% (punto 2 della figura 115).

281

Figura 115 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (2)

Poiché in ogni periodo il tasso di inflazione atteso varia in funzione dell’errore di

previsione commesso nel periodo precedente, in 𝑡 + 3 avremo che:

�̇�𝑡+3𝑒 = �̇�𝑡+2 = 20% .

Pertanto, in 𝑡 + 3 il tasso di inflazione coerente con un livello del reddito uguale a 𝑌1

sarà pari a �̇�𝑡+3 = 30% (punto 3 della figura 116).

282

Figura 116 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (3)

2.3. La curva di Phillips di lungo periodo e la riaffermazione di validità della teoria

quantitativa della moneta

Concludiamo l’analisi della critica di Friedman alla curva di Phillips, ricordando gli

effetti di un aumento dei prezzi sull’offerta reale di moneta. Come abbiamo visto in

precedenza, quando il livello generale dei prezzi aumenta, a parità di offerta di moneta

nominale, l’offerta di moneta reale diminuisce:

𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ .

La riduzione dell’offerta reale di moneta produce un effetto restrittivo sul reddito.

Infatti, sul mercato della moneta si registra un eccesso di domanda di moneta che, in

base ai meccanismi descritti dal modello IS-LM, si traduce in un rialzo del valore del

tasso di interesse, cui fa seguito una caduta degli investimenti e del reddito:

�̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝐷𝐴 ↓ → 𝑌 ↓ .

Per mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 e un livello del reddito uguale a 𝑌1, le

autorità monetarie devono annullare gli effetti restrittivi prodotti dall’aumento dei prezzi

attraverso un aumento della quantità di moneta nominale pari al tasso di inflazione. Nel

283

tempo, esse devono quindi essere disposte ad accettare un tasso di inflazione crescente,

e quindi ad aumentare continuamente il tasso di crescita della quantità di moneta.

Nell’esempio numerico utilizzato in precedenza, l’incremento dell’offerta nominale di

moneta avviene secondo la seguente progressione:

in 𝑡 + 1: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+1 = 10% ,

in 𝑡 + 2: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+2 = 20% → �̇�𝑡+2 = �̇�𝑡+2 = 20% , e

in 𝑡 + 3: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+3 = 30% → �̇�𝑡+3 = �̇�𝑡+3 = 30%.

Tuttavia, un comportamento di questo tipo da parte delle autorità monetarie non è

realisticamente ipotizzabile. Infatti, nessun sistema economico può sopportare un tasso

di inflazione costantemente crescente. Milton Friedman è perciò giunto alla conclusione

che è possibile raggiungere livelli di occupazione maggiori di 𝑁0 e livelli di reddito

superiori a 𝑌0 soltanto nel breve periodo, e che gli unici valori di equilibrio di lungo

periodo sono proprio 𝑌0 e 𝑁0.

Abbiamo appena visto che, a parità di reddito e di occupazione, la presenza di un

tasso di inflazione crescente richiede la disponibilità delle autorità monetarie a

espandere la quantità di moneta a un tasso anch’esso via via crescente. Proviamo ora a

valutare gli effetti prodotti dalla decisione delle autorità monetarie di espandere la

quantità di moneta a un tasso costante, pari, per esempio, al 10%:

�̇� = 10% → �̇�𝑡 = �̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+2 = �̇�𝑡+3 = ⋯⋯⋯ = 10%

Possiamo specificare gli effetti prodotti da questa decisione in base alle seguenti

considerazioni:

1. In primo luogo, osserviamo che, nel caso di un tasso di crescita della quantità di

moneta nominale costante, il tasso di inflazione non può aumentare all’infinito, perché

ciò avviene soltanto quando le autorità monetarie decidono di espandere la quantità di

moneta a un tasso crescente.

2. Se il tasso di inflazione tende a un valore finito, allora l’errore di previsione

commesso dai lavoratori tenderà a zero. Infatti, poiché, di periodo in periodo, i

lavoratori elaborano le loro stime sulla base di un meccanismo di aspettative adattive,

essi correggeranno continuamente i loro errori di previsione, avvicinandosi così

progressivamente al valore effettivo del tasso di inflazione.

3. Se l’errore di previsione tende a zero, allora il reddito converge a 𝑌0. Vale infatti la

relazione:

284

𝑌 = 𝑌0 + 𝑔(�̇� − �̇�𝑒).

Pertanto, se �̇� − �̇�𝑒 = 0, si avrà:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑁 = 𝑁0 .

4. Se il livello del reddito converge a 𝑌0, l’unico effetto permanente prodotto dalla

variazione della quantità di moneta a un tasso costante riguarda l’inflazione. Tale effetto

può essere misurato facendo riferimento all’equazione degli scambi di Fisher:

𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑃 ∙ 𝑌 .

Questa equazione può essere riscritta in termini di tasso di variazione. Avremo quindi:

�̇�⏟10%

+ �̇�⏟0

≅ �̇�⏟10%

+ �̇�⏟0

.

Assumendo che la velocità di circolazione della moneta sia indipendente dalla quantità

di moneta, avremo �̇� = 0. Inoltre, �̇� = 0. Pertanto, l’unico effetto permanente di una

variazione della massa monetaria è quello di determinare un tasso di inflazione uguale

al tasso di variazione della quantità di moneta.

In definitiva, la decisione di espandere la quantità di moneta a un tasso costante può

produrre soltanto un effetto temporaneo sul reddito reale e sull’occupazione. Nel lungo

periodo, gli unici effetti riguarderanno il tasso di inflazione. Per sottolineare questo

punto, Friedman distingue tra gli effetti di breve periodo e di lungo periodo di una

politica monetaria espansiva. Nel breve periodo, una politica monetaria espansiva può

produrre degli effetti sul reddito reale e sull’occupazione in quanto induce i lavoratori a

commettere degli errori di previsione. Ma nel lungo periodo, l’aumento della quantità di

moneta non avrà alcun effetto sul reddito e sull’occupazione. Possiamo quindi

distinguere tra una curva di Phillips di breve periodo inclinata positivamente sul piano

(𝑌, �̇�), e una curva di Phillips di lungo periodo verticale in corrispondenza di un livello

del reddito pari a 𝑌0. Scegliendo il tasso di crescita della quantità di moneta, nel lungo

periodo le autorità monetarie determinano il tasso di inflazione coerente con 𝑌0. Se, per

esempio, scegliessero di non far crescere affatto la quantità nominale di moneta

(�̇� = 0), il tasso di inflazione sarebbe nullo. Viceversa, se scegliessero un tasso di

espansione della quantità di moneta uguale a �̇� = 10%, nel lungo periodo il tasso di

inflazione sarebbe pari al 10% (punto 𝐸 figura 117).

285

Figura 117 – Le curve di Phillips di breve e di lungo periodo

3. La spiegazione della stagflazione nell’ambito del quadro teorico descritto da

Friedman

L’analisi di Friedman, oltre ad aver messo in rilievo i limiti del modello keynesiano con

la curva di Phillips, ha anche consentito di elaborare una spiegazione del fenomeno

della stagflazione. Come accennato in precedenza, questo fenomeno è emerso nel corso

degli anni ’70 del secolo scorso, quando entrò in crisi il modello di sviluppo che si era

affermato negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, e che, nel

trentennio 1945-1975, aveva consentito una forte crescita dell’economia mondiale. Tale

modello di sviluppo si basava su tre punti (GB, capitolo 8, paragrafo 2.4, pp.171-174).

In primo luogo, esso era caratterizzato da una significativa presenza del settore pubblico

nell’economia. Tale presenza garantiva il sostegno al livello domanda aggregata e la

produzione di tutta una serie di servizi che davano vita al sistema di welfare. In secondo

luogo, il modello di sviluppo del secondo dopoguerra era contraddistinto da un patto

sociale tra imprese e lavoratori che, da un lato, consentiva alle imprese di dare vita a un

sistema industriale basato sulla creazione di fabbriche di grandi dimensioni, allo scopo

di poter sfruttare gli effetti delle economie di scala relativi alla produzione di beni di

largo consumo e, dall’altro, assicurava ai lavoratori salari che crescevano in funzione

dei guadagni di produttività. Infine, il trentennio successivo alla fine della seconda

guerra mondiale è stato caratterizzato dall’esistenza del sistema monetario

internazionale definito dagli accordi di Bretton Woods stipulati nel mese di luglio del

1944. Questo sistema era centrato sull’impiego del dollaro statunitense come mezzo di

286

pagamento internazionale. Inoltre, il dollaro era l’unica valuta internazionale a poter

essere convertita in oro, mentre tutte le altre valute erano legate alla divisa statunitense

attraverso un sistema di cambi fissi.

A partire dalla seconda metà degli anni ’60, il modello di sviluppo della cosiddetta

golden age cominciò a entrare in crisi. Il segnale di crisi più evidente venne dal forte

aumento della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito, che ebbe una doppia

dimensione:

la conflittualità relativa alla distribuzione del reddito all’interno dei paesi

industrializzati, e

la conflittualità tra paesi esportatori e importatori di petrolio.

Per quanto riguarda la crescente conflittualità per la distribuzione del reddito

all’interno dei paesi industrializzati, è bene rammentare come il periodo compreso tra

gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso sia stato un periodo di forte crescita per l’economia

mondiale, tanto che in molti paesi si era raggiunta una condizione di sostanziale piena

occupazione che aveva fortemente accresciuto il potere contrattuale dei lavoratori:

Forte crescita dell'economia

Piena occupazione

Crescita del potere contrattuale dei lavoratori.

Questo fenomeno è stato particolarmente intenso in Italia. Gli anni ’50 e ‘60 sono infatti

stati caratterizzati dal cosiddetto Miracolo economico. Con questa espressione si indica

la profonda trasformazione subita in quegli anni dall’economia italiana, che da

economia tipicamente agricola diventò una delle maggiori economie industriali

dell’Occidente.

Tuttavia, il processo di trasformazione dell’economia italiana non fu indolore, ma

comportò degli ingenti costi sociali. A questo proposito, basta ricordare come gli anni

del Miracolo economico furono caratterizzati dalla migrazione di milioni di persone che

si spostarono dalle aree più arretrate delle regioni meridionali e orientali del paese verso

quelle industriali del Nord Ovest. Queste ultime non erano attrezzate per accogliere i

nuovi arrivati, perché mancavano case, scuole, ospedali, etc. . Accanto alla creazione di

milioni di posti di lavoro nelle grandi fabbriche del Nord Ovest, lo sviluppo industriale

italiano fu quindi accompagnato da condizioni di lavoro e di vita fuori dalle fabbriche

molto pesanti. Questo aspetto del processo di sviluppo del nostro paese è alla radice

della fase di conflittualità iniziata alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso e dell’ondata

di rivendicazioni da parte dei sindacati dei lavoratori, che chiedevano un significativo

miglioramento delle condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche e anche di quelle di

vita esterne alle fabbriche stesse. Questa fase di rivendicazioni non riguardò soltanto

287

l’Italia, ma coinvolse anche tutti i paesi industriali che nel trentennio successivo alla

fine della seconda guerra mondiale registrarono uno straordinario periodo di crescita

economica.

L’intensificazione della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito all’interno

delle economie industrializzate permette di illustrare il fenomeno della stagflazione. A

questo scopo, supponiamo che il sistema si trovi nella condizione di equilibrio di lungo

periodo descritta da Friedman, cui corrisponde il punto 0 nella figura 118. L’aumento

della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito, dovuto all’aumento della forza

contrattuale dei lavoratori, può essere rappresentato attraverso uno spostamento verso

l’alto (verso sinistra) della funzione di offerta di lavoro. Infatti, questo spostamento

segnala che, a parità di offerta di lavoro, i lavoratori chiedono un salario reale atteso più

elevato. In particolare, nella figura 118 la nuova curva di offerta di lavoro diventa

𝑁𝑠′(𝑊 𝑃𝑒⁄ ).

Figura 118 – Gli effetti di un aumento della conflittualità relativa alla distribuzione del

reddito sugli equilibri del mercato del lavoro descritto da Friedman

In questo caso, 𝑁0 non rappresenta più un equilibrio stabile, perché il salario reale atteso

che i lavoratori chiedono per offrire 𝑁0 unità di lavoro è pari a 𝛽 ed è maggiore di

quello (𝛼) che le imprese sono disposte a pagare per assumere proprio quel numero di

lavoratori. Questa discrepanza implica che per mantenere un livello di occupazione pari

a 𝑁0 si dovrà registrare un tasso di inflazione crescente. Tuttavia, abbiamo visto che nel

lungo periodo ciò non è possibile. Pertanto, il sistema convergerà verso il punto 1

caratterizzato da un minor livello di occupazione e di reddito. Questa fase di recessione

sarà accompagnata da un incremento dell’inflazione, poiché fino a quando 𝑁 > 𝑁1 il

salario reale atteso dai lavoratori sarà maggiore del salario effettivamente pagato dalle

288

imprese. Come sappiamo, questo è possibile a condizione che i lavoratori commettano

un errore di previsione, e che il tasso di inflazione effettivo sia superiore a quello atteso.

Infine, osserviamo che il processo che spinge il sistema dalla posizione di equilibrio

0 alla posizione 1 è contraddistinto dalla combinazione di stagnazione economica

(caduta dei livelli del reddito e dell’occupazione) e di inflazione, una combinazione di

fenomeni divenuta nota per l’appunto con il termine di stagflazione.

In secondo luogo, l’aumento di conflittualità relativo alla distribuzione del reddito

registrato all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso ebbe per oggetto la

contrapposizione tra paesi importatori e paesi produttori di petrolio. Infatti, tra il 1973 e

il 1974 il cartello dei paesi produttori di petrolio aumentò il prezzo del petrolio di

quattro volte.

Per definire gli effetti di questa crisi petrolifera prendiamo come riferimento

l’equazione dei prezzi vista in precedenza:

𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 .

Come sappiamo, il termine (1 + 𝜇) corrisponde al mark-up che le imprese applicano al

costo del lavoro, al fine di coprire gli altri costi di produzione e di garantirsi un margine

di profitto. Possiamo quindi ipotizzare che 𝜇 copra anche i costi per l’acquisto del

petrolio, e che un aumento del prezzo del greggio induca le imprese ad aumentare il

valore di 𝜇.

Di conseguenza, indichiamo con (1 + 𝜇0) il valore del mark-up prima di una crisi

petrolifera, mentre il valore del mark-up dopo l’inizio di una crisi petrolifera è dato da:

(1 + 𝜇1) > (1 + 𝜇0).

Tenendo conto di queste considerazioni, il nuovo livello dei prezzi sarà quindi pari a:

𝑃𝑡′ = (1 + 𝜇1) ∙

𝑊𝑡𝐴> 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇0) ∙

𝑊𝑡𝐴 .

Partendo da questa espressione, possiamo ricavare il valore del salario reale effettivo

che le imprese sono disposte a pagare per assumere la forza lavoro disponibile:

𝑊𝑡𝑃𝑡′ =

𝐴

(1 + 𝜇1)<𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇0) .

Gli effetti di un aumento del prezzo del petrolio possono essere illustrati con l’aiuto

della figura 119. Il punto 0 rappresenta la condizione di equilibrio prima dello scoppio

della crisi petrolifera. L’aumento del prezzo del petrolio determina una riduzione del

salario reale effettivo che le imprese sono disposte a pagare ai lavoratori.

289

Ne consegue, che la funzione di domanda di lavoro si sposta verso il basso in

corrispondenza di un valore del salario reale effettivo pari a:

𝑊

𝑃′= 𝛾 .

Figura 119 - Gli effetti dell’aumento del prezzo del petrolio sugli equilibri

del mercato del lavoro descritto da Friedman

Il livello di occupazione 𝑁0 non rappresenta più una posizione di equilibrio stabile e

può essere mantenuto soltanto nel breve periodo, ma a costo di una inflazione crescente.

Nel lungo periodo il sistema si sposterà dalla posizione 0 alla posizione 1. Anche in

questo caso, quindi, si registrerà una fase di recessione accompagnata da inflazione,

perché in corrispondenza dei valori compresi tra 𝑁0 e 𝑁1, si registra una discrepanza tra

il salario reale atteso dai lavoratori e quello pagato dalle imprese. Questa discrepanza

corrisponde a un errore di previsione dei lavoratori dovuto al fatto che il tasso di

inflazione effettivo è maggiore di quello atteso. In conclusione, pure il processo di

aggiustamento che si mette in moto dopo una crisi petrolifera è caratterizzato dalla

presenza di stagflazione.

290

4. Friedman, la Nuova Macroeconomia Classica e il ritorno alle conclusioni della

teoria neoclassica

Nel corso degli anni ’70, l’impatto del lavoro di Friedman sulla comunità degli

economisti fu molto forte. La sua analisi, infatti, presentava due punti di forza che

indussero gli economisti ad abbandonare il modello teorico di ispirazione keynesiana

elaborato negli anni precedenti. In primo luogo, Friedman mostrò i limiti della relazione

descritta dalla curva di Phillips, una relazione implicitamente basata sulla assunzione

che i lavoratori continuano a prevedere un tasso di inflazione pari a zero anche nei

periodi in cui l’inflazione è maggiore di zero. In secondo luogo, il lavoro di Friedman

permetteva di spiegare un fenomeno che sembrava incompatibile con le conclusioni

dedotte dalla curva di Phillips: la stagflazione.

La teoria sviluppata da Friedman prese il nome di monetarismo. Nel corso degli

anni ’80 e ’90, l’analisi di Friedman venne rielaborata e ulteriormente sviluppata grazie,

in particolare, al fondamentale contributo di Robert Lucas. Il lavoro di Lucas e dei suoi

coautori ha dato origine a un nuovo filone di letteratura macroeconomica divenuto noto

con il termine di Nuova Macroeconomia Classica (NMC).

In realtà, quella iniziata da Friedman e poi proseguita da Lucas non rappresentò una

vera e propria rivoluzione teorica, quanto piuttosto una controrivoluzione, perché,

ponendo fine al periodo dominato dalla ortodossia della ‘sintesi neoclassica’

keynesiana, il monetarismo e la Nuova Macroeconomia Classica, riproposero le

conclusioni fondamentali della teoria neoclassica sviluppata tra la fine dell’800 e i primi

decenni del ‘900.

A questo proposito, possiamo individuare tre punti fondamentali che accomunano la

Nuova Macroeconomia Classica e la teoria neoclassica.

1. Entrambi gli approcci accettano la teoria quantitativa della moneta

Friedman ha riaffermato il principio della neutralità della moneta elaborando una nuova

versione della teoria quantitativa della moneta che distingue tra gli effetti di breve e di

lungo periodo prodotti da una variazione della quantità nominale di moneta.

Nel breve periodo, una politica monetaria espansiva può avere effetti sul reddito e

sull’occupazione, perché può provocare un errore di previsione da parte dei lavoratori. I

lavoratori, infatti, formulano le loro aspettative circa il valore futuro del tasso di

inflazione sulla base dei valori osservati in passato, mentre una politica monetaria

espansiva determina un incremento dell’inflazione corrente. Nel breve periodo, quindi,

una politica espansiva può provocare un errore di previsione:

�̇� ↑ → �̇� → (�̇� − �̇�𝑒) > 0 → 𝑁 > 𝑁0 → 𝑌 > 𝑌0 .

Tuttavia, questi effetti sono soltanto temporanei, perché le autorità monetarie non

possono accettare di espandere la quantità di moneta a un tasso continuamente crescente

291

che determinerebbe una dinamica esplosiva dell’inflazione. Inoltre, come abbiamo visto

in precedenza, nel lungo periodo la decisione di aumentare la quantità di moneta a un

tasso costante causa unicamente un equivalente aumento del tasso di inflazione.

2. L’inefficacia delle politiche economiche di ispirazione keynesiana

Friedman ha dimostrato che, in un mondo in cui l’offerta di lavoro è una funzione

crescente del salario reale atteso, le politiche fiscali e monetarie keynesiane sono

inefficaci. Nel lungo periodo, infatti, il sistema converge verso la posizione di equilibrio

definita dall’intersezione tra le curve di domanda e di offerta di lavoro. L’analisi di

Friedman ha indotto gli economisti a riabilitare le conclusioni della teoria neoclassica

sulla base di un ragionamento apparentemente semplice: se le politiche keynesiane non

sono in grado di influenzare i valori del reddito e dell’occupazione, allora si deve

concludere che questi valori dipendono dalle sole forze del mercato, le cui dinamiche

trovano sintetica espressione nelle funzioni di domanda e di offerta, anche nel caso del

mercato del lavoro.

Figura 120 - La disoccupazione naturale nel mercato del lavoro descritto da Friedman

In particolare, Friedman ha definito il livello di occupazione corrispondente al punto

0 nella figura 120 con l’aggettivo naturale, per sottolineare che:

a) il livello dell’occupazione dipende esclusivamente dalla interazione tra la domanda e

l’offerta di lavoro;

b) il livello naturale è l’unico livello di occupazione in corrispondenza del quale i

lavoratori non commettono errori di previsione;

c) esso è coerente con prezzi stabili e un tasso di inflazione pari a zero, e

292

d) esso non è influenzato dalle politiche keynesiane di espansione della domanda

aggregata.

Friedman ha associato l’aggettivo naturale anche al livello di reddito (𝑌0)

corrispondente a un livello di occupazione pari a 𝑁0. Inoltre, egli ha definito tasso

naturale di disoccupazione il tasso di disoccupazione coerente con i livello di

occupazione 𝑁0. Con riferimento alla figura 120, data la forza di lavoro (�̅�), �̅� − 𝑁0

coincide con la disoccupazione cosiddetta naturale, mentre 𝑢0 = (�̅� − 𝑁0)/�̅�

rappresenta il tasso naturale di disoccupazione.

Il concetto di tasso naturale di disoccupazione può sembrare strano, perché quando

abbiamo presentato la teoria neoclassica abbiamo usato l’espressione equilibrio di

piena occupazione per indicare il livello di occupazione individuato dal punto di

intersezione tra le funzioni di domanda e di offerta di lavoro. In quel caso, la

disoccupazione registrata sul mercato del lavoro è volontaria, perché costituita dai

lavoratori che scelgono deliberatamente di non lavorare alle condizioni di mercato

(figura 121).

Figura 121 - La disoccupazione volontaria nel mercato del lavoro

della tradizione neoclassica

Come sappiamo, nella teoria neoclassica il mercato del lavoro è considerato

perfettamente concorrenziale, perché composto da imprese omogenee e da lavoratori

omogenei, che differiscono soltanto in relazione alle preferenze circa il tempo di lavoro

e il reddito. Il concetto di tasso naturale di disoccupazione si applica invece a un

mercato del lavoro che non ha caratteristiche perfettamente concorrenziali. In un

mercato del lavoro di questo tipo è possibile definire la forza di lavoro (�̅�) come

l’insieme degli individui che devono lavorare per poter vivere, e assume rilevanza il

293

concetto di forza contrattuale dei lavoratori, perché sia le condizioni di lavoro che il

livello del salario derivano dalla contrattazione tra le istituzioni che rappresentano i

lavoratori e quelle che rappresentano le imprese. In questo caso, la funzione di offerta di

lavoro riflette le scelte contrattuali dei sindacati e dei lavoratori, e Friedman e i

sostenitori della Nuova Macroeconomia Classica possono concludere che il tasso

naturale di disoccupazione è una conseguenza del comportamento dei sindacati che

chiedono salari incoerenti con un tasso di disoccupazione naturale pari a zero (si veda il

punto A della figura 122, cui corrisponde un livello del salario reale atteso pari a 𝛽, e si

confronti la citazione di Luigi Zingales a p. 194 GB).

Figura 122 - Gli effetti della moderazione salariale sul livello della disoccupazione naturale

nel mercato del lavoro descritto da Friedman

L’ovvio corollario di questa conclusione è che, se i salari fossero perfettamente

flessibili e i sindacati fossero disposti ad accettare un livello del salario reale coerente

con un tasso di disoccupazione naturale pari a zero, si arriverebbe ad azzerare la

disoccupazione. Come si evince dalla figura 122, in tal caso la curva di offerta di lavoro

si sposterebbe verso destra (verso il basso) passando per il punto 𝐸. Nel punto E il

sistema raggiungerebbe un nuovo equilibrio caratterizzato da un tasso di disoccupazione

pari a zero, in cui tutta la forza di lavoro disponibile sarebbe occupata (sui limiti di

questa analisi si veda GB, appendice 3, pp. 247-252, e appendice 4, pp. 253-258).

294

3. Sia per il monetarismo che per la Nuova Macroeconomia Classica vale la legge di

Say

In altri termini, sia per Friedman che per Lucas e i loro epigoni le decisioni di

produzione determinano le condizioni che assicurano la presenza di un livello di

domanda aggregata tale da consentire l’assorbimento di tutti i beni e servizi prodotti.

Come abbiamo visto in precedenza, secondo la teoria neoclassica il meccanismo che

assicura la validità della legge di Say è dato dalla flessibilità del tasso di interesse. A

giudizio dei sostenitori della scuola neoclassica esiste sempre un valore positivo del

tasso di interesse che spinge le imprese a realizzare un flusso di investimenti tale da

assorbire i risparmi di piena occupazione.

Anche gli economisti che si riconoscono nel filone di pensiero della Nuova

Macroeconomia Classica assumono che esista questo valore del tasso di interesse.

Tuttavia, nella Nuova Macroeconomia Classica il meccanismo che assicura il

raggiungimento di questo particolare valore del tasso di interesse viene specificato in

modo diverso. Nel caso della teoria neoclassica, infatti, il tasso di interesse viene

considerato come la remunerazione del risparmio, e quindi come il prezzo che mette in

equilibrio il mercato dei capitali, ovvero il mercato nel quale si scambiano le risorse

risparmiate. Nel caso della Nuova Macroeconomia Classica, invece, il meccanismo di

convergenza del tasso di interesse verso il valore coerente con le conclusioni della legge

di Say viene definito considerando la relazione tra il livello dei prezzi (𝑃), la quantità

reale di moneta (𝑊 𝑃⁄ ) e il tasso di interesse (𝑟) che caratterizza il modello teorico

keynesiano:

se 𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓ , mentre

se 𝑃 ↓ → �̅�0𝑃↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑ .

295

Figura 123 - La flessibilità dei prezzi alla base del meccanismo di

aggiustamento automatico verso l’equilibrio naturale (1)

I sostenitori della NMC osservano che quando 𝑁 ≠ 𝑁0 e il sistema si trova al di fuori

del suo equilibrio naturale, si registra una variazione del livello dei prezzi che determina

il ritorno alla situazione di equilibrio naturale. Supponiamo che sia 𝑁1 > 𝑁0 (figura

123). Come abbiamo visto in precedenza, nel breve periodo ciò è possibile a condizione

che si registri un tasso di inflazione crescente:

𝑊

𝑃𝑒>𝑊

𝑃 → �̇� > �̇�𝑒 .

L’aumento dei prezzi spinge il sistema verso l’equilibrio naturale, perché provoca una

riduzione dell’offerta reale di moneta che ha un effetto restrittivo sul tasso di interesse, e

quindi sul livello della domanda aggregata:

𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓ → 𝑁 ↓ sino ad arrivare a 𝑁0 .

Il processo di aggiustamento si arresta quando l’occupazione raggiunge il suo livello

cosiddetto naturale (𝑁0).

Naturalmente, questo meccanismo funziona anche nel caso opposto, quando il

sistema si trova in una condizione in cui il livello di occupazione è inferiore a quello

naturale (𝑁2 < 𝑁0) (figura 124).

296

Figura 124 - La flessibilità dei prezzi alla base del meccanismo di

aggiustamento automatico verso l’equilibrio naturale (2)

In questo caso, la presenza di un elevato livello di disoccupazione provoca una

riduzione dei salari monetari (𝑊), e quindi dei prezzi (𝑃), che produce un effetto

espansivo legato all’aumento dell’offerta reale di moneta e alla conseguente riduzione

del valore del tasso di interesse:

𝑊 ↓ → 𝑃 ↓ → �̅�0𝑃↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑ → 𝑁 ↑ sino ad arrivare a 𝑁0 .

Pertanto, la flessibilità dei prezzi garantisce che il tasso di interesse raggiunga il valore

coerente con l’equilibrio naturale e il rispetto della legge di Say.

Come è stato sottolineato in precedenza, l’ipotesi che esista un valore positivo del

tasso di interesse capace di spingere le imprese a realizzare un livello di investimenti

coerente con la piena occupazione (o con il livello naturale di occupazione) vale

all’interno di una economia grano, in cui le decisioni di investimento vengono prese in

condizioni di certezza. Questa ipotesi non è valida se, invece, si considera l’economia

monetaria di Keynes o l’economia capitalista di Schumpeter. Secondo Keynes e

Schumpeter le moderne economie di mercato sono intrinsecamente instabili, e quindi

soggette a fluttuazioni anche molto forti dei livelli dell’occupazione e del reddito.

Inoltre, non esistono meccanismi automatici di aggiustamento che assicurano la

presenza di un flusso di domanda aggregata capace di assorbire il livello di reddito

coerente con una occupazione pari a 𝑁0 (a questo proposito si veda GB, capitolo 7,

paragrafi 1.2 e 1.3, pp. 142-150, e le appendici 3 e 4).


Recommended