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Bianca Casa - la Repubblica - News in tempo...

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Casa Bianca Alla vigilia dell’insediamento di Obama esploriamo la dimora dei presidenti Usa Un labirinto di storie, personaggi e guai DOMENICA 11 GENNAIO 2009 D omenica La di Repubblica i protagonisti “Io, Jan Palach, la torcia ” ANDREA TARQUINI cultura Fallaci, l’arte feroce dell’intervista i sapori LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA spettacoli l’incontro Werner Herzog, l’ultimo visionario LEONETTA BENTIVOGLIO la memoria VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON S otto lo sguardo sbalordito di Kenneth Galbraith, che l’aveva accompagnato nella nuova casa fresco di insediamento, John Fitzgerald Kennedy si gettò pancia a terra sul parquet e cominciò a frugare sot- to il mobilio della Casa Bianca, come un bambino che avesse perduto la pallina. «Bah — si rialzò Kennedy spolverandosi la giacca dopo avere studiato con cura il fondo di credenze e comò — tutta robaccia. Non c’è un mobile autentico, qui den- tro. Jackie avrà molto da fare». Probabilmente senza neppure saperlo John Kennedy, il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti e il trentaquat- tresimo inquilino di quella villotta che il primo presidente, Washington, non vide mai finita, si era aggiunto a una pro- cessione di “primi cittadini” e di “prime signore” che dal 2 no- vembre 1800, quando la inaugurarono John e Abigail Adams, avevano trovato inospitale, brutta, scomoda, fredda, sgan- gherata, irrazionale e cadente la casa conosciuta nel mondo come «the White House». Ora prossima ad accogliere, con la stessa sorniona ospita- lità da grande cortigiana che accetta tutti senza mai darsi a nessuno, la prima famiglia nera sotto le proprie vernici bian- che. (segue nelle pagine successive) con un disegno di MIRCO TANGHERLINI SIEGMUND GINZBERG ORIANA FALLACI e LAURA LAURENZI Braccio di Ferro da una crisi all’altra LUCA RAFFAELLI e MICHELE SERRA Mandarino, storia di un aristofrutto L’odissea degli “spaesati” d’Europa FOTO ERIC DRAPER/GETTY IMAGES MARIO CALABRESI WASHINGTON A nita McBride è la memoria storica della vita sociale al- la Casa Bianca: per 18 anni ha passato ogni sua gior- nata nell’ala est, opposta a quella dove c’è lo Studio Ovale. È entrata nel 1984 con Ronald Reagan, c’è ri- masta con George Bush padre fino alla mattina in cui è entrato Bill Clinton, poi è tornata nel 2001 per gli otto anni di Bush figlio con due incarichi: capo dello staff della First Lady e responsabile dell’ufficio che organizza gli eventi della presidenza. Di origini italiane, Anita è la donna che ha convinto George W. Bush ad indossare il frac per ri- spettare il galateo quando è arrivata la regina Elisabetta. Quanti eventi sociali ci sono in una presidenza, tra ricevimenti, feste, cene e pranzi? «Impossibile tenere il conto. In questi ultimi otto anni la Casa Bian- ca ha ospitato più di ottanta capi di Stato per pranzi ufficiali e molti di questi sono rimasti a dormire alla Blair House, la foresteria per gli ospiti stranieri. E poi centinaia e centinaia di colazioni, pranzi e cene di lavoro». Chi resta a dormire alla Casa Bianca? «Ci sono molti ospiti ogni mese, parenti che vengono per rimane- re qualche giorno e soprattutto amici in visita». Qual è il periodo più ricco di ricevimenti? «Sicuramente Natale. È il momento in cui ci sono più impegni, in 18 giorni arriviamo ad avere anche 24 eventi». (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale
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Page 1: Bianca Casa - la Repubblica - News in tempo realedownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/11012009.pdf · 2009. 1. 11. · di lana e alla silenziosa protesta del-le segretarie che

CasaBianca

Alla vigilia dell’insediamento di Obamaesploriamo la dimora dei presidenti UsaUn labirinto di storie, personaggi e guai

DOMENICA 11GENNAIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i protagonisti

“Io, Jan Palach, la torcia ”ANDREA TARQUINI

cultura

Fallaci, l’arte feroce dell’intervista

i sapori

LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

spettacoli

l’incontro

Werner Herzog, l’ultimo visionarioLEONETTA BENTIVOGLIO

la memoria

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON

Sotto lo sguardo sbalordito di Kenneth Galbraith,che l’aveva accompagnato nella nuova casa frescodi insediamento, John Fitzgerald Kennedy si gettòpancia a terra sul parquet e cominciò a frugare sot-

to il mobilio della Casa Bianca, come un bambino che avesseperduto la pallina. «Bah — si rialzò Kennedy spolverandosi lagiacca dopo avere studiato con cura il fondo di credenze ecomò — tutta robaccia. Non c’è un mobile autentico, qui den-tro. Jackie avrà molto da fare».

Probabilmente senza neppure saperlo John Kennedy, iltrentacinquesimo presidente degli Stati Uniti e il trentaquat-tresimo inquilino di quella villotta che il primo presidente,Washington, non vide mai finita, si era aggiunto a una pro-cessione di “primi cittadini” e di “prime signore” che dal 2 no-vembre 1800, quando la inaugurarono John e Abigail Adams,avevano trovato inospitale, brutta, scomoda, fredda, sgan-gherata, irrazionale e cadente la casa conosciuta nel mondocome «the White House».

Ora prossima ad accogliere, con la stessa sorniona ospita-lità da grande cortigiana che accetta tutti senza mai darsi anessuno, la prima famiglia nera sotto le proprie vernici bian-che.

(segue nelle pagine successive)con un disegno di MIRCO TANGHERLINI

SIEGMUND GINZBERG

ORIANA FALLACI e LAURA LAURENZI

Braccio di Ferro da una crisi all’altraLUCA RAFFAELLI e MICHELE SERRA

Mandarino, storia di un aristofrutto

L’odissea degli “spaesati” d’Europa

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MARIO CALABRESI

WASHINGTON

Anita McBride è la memoria storica della vita sociale al-la Casa Bianca: per 18 anni ha passato ogni sua gior-nata nell’ala est, opposta a quella dove c’è lo StudioOvale. È entrata nel 1984 con Ronald Reagan, c’è ri-

masta con George Bush padre fino alla mattina in cui è entrato BillClinton, poi è tornata nel 2001 per gli otto anni di Bush figlio con dueincarichi: capo dello staff della First Lady e responsabile dell’ufficioche organizza gli eventi della presidenza. Di origini italiane, Anita è ladonna che ha convinto George W. Bush ad indossare il frac per ri-spettare il galateo quando è arrivata la regina Elisabetta.

Quanti eventi sociali ci sono in una presidenza, tra ricevimenti,feste, cene e pranzi?

«Impossibile tenere il conto. In questi ultimi otto anni la Casa Bian-ca ha ospitato più di ottanta capi di Stato per pranzi ufficiali e molti diquesti sono rimasti a dormire alla Blair House, la foresteria per gliospiti stranieri. E poi centinaia e centinaia di colazioni, pranzi e cenedi lavoro».

Chi resta a dormire alla Casa Bianca?«Ci sono molti ospiti ogni mese, parenti che vengono per rimane-

re qualche giorno e soprattutto amici in visita».Qual è il periodo più ricco di ricevimenti?«Sicuramente Natale. È il momento in cui ci sono più impegni, in

18 giorni arriviamo ad avere anche 24 eventi».(segue nelle pagine successive)

Repubblica Nazionale

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26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

la copertinaSimboli

VITTORIO ZUCCONI

Il 20 gennaio il primo capo di Stato nero nella storia degli Stati Unitiandrà ad abitare e a lavorare nella bizzarra villona progettatada un architetto irlandese e tirata su da operai-schiavi 209 anni faEcco curiosità e segreti dell’edificio più ambito e disprezzato d’America

CASA BIANCA

le, allora non ancora blindate come ora, percontrollare che gli odiati scoiattoli non glielorovinassero. I ragazzoni del servizio segretotrascorrevano le ore a dar la caccia a Cip e Ciop.

FDR volle la piscina riscaldata sotterranea,per le nuotate necessarie a lenire i guasti dellapoliomielite, costruita proprio sotto la vecchiasala stampa dove noi giornalisti venivamo pe-riodicamente avvolti da ondate di umidità dabagno turco. Nixon, il misantropo solitario, ot-tenne una corsia da bowling, dove trascorrevaore nella notte giocando sempre da solo e fa-cendo strage di avversarsi politici nei metafo-rici birilli. Nancy Reagan, inorridita dalla brut-tezza dei servizi da pranzo, decimati e spaiatidai furti che tutti gli ospiti ufficiali della CasaBianca compiono (la moglie di un capo di sta-to straniero conobbe l’imbarazzo di perdere ipezzi dell’argenteria che si era infilati sotto lagonna e che tintinnarono a terra scendendo lascalinata d’onore), ordinò porcellane nuove.Le dovettero finanziare ricchi amici e ammira-tori del marito, perché con i cinquantamiladollari all’anno concessi alla prima famigliaper le spese varie, i diciannovemila per la “rap-presentanza” e i quattrocentomila (lordi) diappannaggio, pari al minimo contrattuale diun giocatore di football brocco, un servizio diclasse per i cento ospiti delle cene ufficiali erafuori portata. Ed è già noto che Barack Obamavorrà un mezzo campo di basket sotterraneo.

Se nessuno osò mai rivoluzionare l’arreda-mento, come fece Jackie Kennedy riportandoin quella casa mobili d’epoca prestati dai mu-sei al posto delle patacche scoperte dal marito,antiquario dilettante, o sbudellare tutta lastruttura interna come dovette fare Harry Tru-man quando l’adorata moglie Margaret strim-pellando al pianoforte a coda sprofondò al pia-no di sotto per il cedimento delle travi fradice,nell’eterno dilemma fra la «reggia» e la «casadel popolo», la White House incassa, scrolla leali est e ovest, e sopravvive. Neppure gli inglesivendicativi, che nel 1814 tornarono e la incen-diarono, riuscirono ad abbatterla.

Non la distrussero le soldataglie delle trup-pe nordiste, che bivaccavano in quella che ora

è la sala dei ricevimenti ufficiali prima di anda-re al massacro sulla riva opposta del Potomac,nel 1861. La altera cortigiana bianca, arrivataalla ventiseiesima mano di vernice sulla fac-ciata prima del restauro radicale negli anni No-vanta, si scrollò facilmente di dosso anche lafrenesia pauperista di Jimmy Carter, che avevascoperto con orrore che in casa c’erano tre-centocinquanta televisori, li fece ridurrea dieci per contenere la bolletta elet-trica e abbassò il termostato delriscaldamento a diciotto gra-di di giorno e dodici di not-te. Rimase sordo, il buonpastore, alle implorazionidella moglie Rosalynn che,da onesta sudista, rabbrividi-va a letto in mutandoni e magliedi lana e alla silenziosa protesta del-le segretarie che battevano a macchinacon i guanti.

La vecchia casa che davvero può dire diaverle viste tutte, anche jumbo jet probabil-mente diretti contro di lei un giorno di settem-bre e un kamikaze cristianissimo che schiantòil proprio monomotore Piper contro la came-ra da letto di Clinton (dormivano separati) sde-gnato per i suoi colloqui carnali, regge perchéconosce il segreto della nazione che simboleg-gia e delle persone che la disprezzano, ma sol-tanto fino al giorno in cui la devono lasciare eallora la rimpiangono. Possono fare di lei quel-lo che vogliono, ma dopo quattro anni, otto almassimo, si devono togliere dai piedi. Lei, ladama bianca, esiste da 209 anni. Loro, i suoi ef-fimeri amanti, sono tutti destinati a divenirefantasmi, come quel Lincoln che persinoChurchill giurava di avere incontrato nei pianialti, o scadenti ritratti a olio appesi alle pareti.Guardatela bene, quando le telecamere la in-quadreranno il 20 gennaio, perché con queilunghi denti bianchi sembra che sorrida, comese volesse dirci che la cortigiana non è lei, macoloro che, sotto i suoi abiti candidi da sposasempre vergine, passano e vanno, lasciandosidietro al massimo una boccia da bowling e unazuppiera nuova.

(seguedalla copertina)

La quasi unanime deprecazionedella villotta progettata da un ar-chitetto irlandese emigrato inAmerica, James Hoban, a imita-zione della Leinester House diDublino, e costata 232.371 dollari

e 83 cent, quattro milioni di oggi, un affarone,proclama il delizioso paradosso di un edificioche da 209 anni è insieme il più ambito e il piùdisprezzato d’America. È difficilissimo trovareuno dei suoi inquilini, da Adams nel 1800 aGeorge W Bush, e soprattutto una delle inqui-line, le First Ladies, che non abbiano avuto cri-tiche feroci e che non abbiano tentato di cam-biarla e migliorarla. L’unico che non abbiaavuto nulla da obiettare né da cambiare fu Ge-rald Ford, il solo presidente americano che vifosse entrato senza volerlo e senza essere statoeletto. Se proprio si vuol trovare un compli-mento, si deve ricorrere alla sarcastica e obli-qua osservazione sempre di Kennedy: «La pa-ga è modesta, l’alloggio è scomodo, ma alme-no si può andare in ufficio a piedi».

E senza mai bagnarsi se piove, o sudare sel’afa attanaglia Washington, perché i quartieriprivati del Presidente e della sua famiglia, se neha una (anche scapoli, vedovi e single la abita-rono), sono al terzo dei cinque piani della vil-lotta, tre sopra il livello della strada e due inter-rati, inclusa quella leggendaria SituationRoom dove il capo i suoi consiglieri si riunisco-no nei momenti di emergenza nazionale e unrifugio segretissimo a prova di attacchi «ato-mici, biologici e chimici» nella roccia profon-da sotto il terriccio alluvionale del fiume Poto-mac. Anch’essa, la Situation Room, completa-mente rifatta dopo l’11 settembre, perché giu-dicata «uno scantinato umido e soffocante chesarebbe inadatto anche a ospitare una birreriadi provincia», secondo Henry Kissinger che,essendo tedesco, di birrerie s’intendeva.

Sembra che quanto più la si desideri, tantopiù essa deluda chi finalmente la possiede e lavede dal di dentro. Si mostrò senza trucco, de-solante come un letto sfatto, alla prima delle“prime signore”, ad Abigail Adams, che vi en-trò soltanto per scoprire che appena quattrodelle trentacinque stanze erano state comple-tate e dipinte dagli schiavi mandati a costruir-la. Il suo umore non migliorò quando vide cheper salire in camera, aggrappata a un moccoloin mancanza di candelabri, avrebbe dovuto ar-rampicarsi su una scala di legno da muratori,provvisoria e traballante.

E che il progetto, la concezione stessa di que-sta casa costruita a dispetto di un Congresso, diun Parlamento, di mercanti e piantatori malfi-denti e taccagni che non vedevano la necessitàdi una «reggia», come la chiamavano, fossesbagliato, apparve subito evidente. La casa erabrutta, chiattona, incongrua per una città dicasupole che nel 1800 contava appena 363 abi-tazioni in tutto, delle quali soltanto la metà inmuratura, e il Parlamento doveva riunirsi inuna chiesa episcopale, facendo a turno con lefunzioni religiose. Per ingentilirla, nel corso delDiciannovesimo secolo, saranno aggiunti ilpronao, il timpano retto da quattro colonnedavanti, e poi il portico semiellittico sul retro,con vista sul giardino, quello che fa da sfondoalle cerimonie di benvenuto e permetterà a Ba-rack di uscire a fumare di nascosto una di quel-le sigarette che sostiene di avere abbandonato,come Laura Bush e Bill Clinton, con i sigaribanditi da Hillary.

Ma poiché la Casa Bianca deve servire nonsoltanto da abitazione, ma da sede del gover-no e degli uffici di una presidenza ormai impe-riale che conta settemila impiegati, oltre ai cin-quantatré fra valletti, uscieri, cucinieri e ca-merlenghi, si dovette presto aggiungere un’A-la Est, e poi la celeberrima West Wing, voluta daTheodore Roosevelt nel 1902 per ospitare il fa-moso e famigerato Studio Ovale con la scriva-nia di legno intarsiato regalata dalla regina Vit-toria e ricavata dal fasciame della nave da guer-ra inglese “Resolute”, e gli uffici dei collabora-tori più importanti. Un’espansione resa im-prorogabile dai sei figli che disturbavano il la-voro del presidente. «Mi sento come undomatore dentro una gabbia di scimmie», eraesploso Roosevelt, trovandosene un altro fra ipiedi, e non per le pose fotografiche di bambi-ni sotto la scrivania in tenero stile John JohnKennedy, sessant’anni dopo.

Tutti gli inquilini cercano di cambiarla, diaggiungere un dettaglio che serva a lenire ilsenso della loro provvisorietà con qualche bri-ciola di permanenza, come i nomi incisi sullepanchine di legno da dubbiosi amanti. Lyn-don Johnson pretese che la propria doccia per-sonale fosse trasformata in una cabina multi-getto ad alta pressione, costringendo gli idrau-lici a rivoluzionare le vetuste tubature, ma sen-za mai risolvere il problema della pressione,che frustava gli utenti di altri bagni con im-provvise piogge di acqua gelida. Eisenhowervolle costruire un putting green, una buca dagolf, ben in vista dalle finestre dello Studio Ova-

SALA DIPLOMATICAAll’ingresso sud,accoglie l’arrivodegli ambasciatori

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SALA DORATAQuesto salottoraccoglie i ritrattidi sette first lady

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BIBLIOTECAIn stile primo ’800,ha alle pareti ritrattidi nativi americani

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SALA DEL GABINETTO

Dal 1934 ospita le riunionidello staff presidenziale

ala ovest

secondo piano

Brutta, fredda, cadentema resta la First House

SALA OVALE GIALLAIn stile Luigi XVI,è usata per riceverei Capi di Stato

SALA DEI TRATTATIQui, da due secoli,i presidenti firmanoi trattati di pace

STANZA LINCOLNVittoriana, la salettaconserva quattrosedie di Mrs Lincoln

SUITE DELLA REGINARosa e bianca,ospita le reginein visita a Washington

SALA DA PRANZOFino a 140 ospitisi attovagliano quiper le cene di Stato

SALA ROSSARossa per il colorealle pareti, dal 1962è in stile impero

SALA BLUDal 1837 il satinblu domina questasala di ricevimento

SALA ESTLe sue portesi aprono per danzee dopocena

SALA DELLE MAPPERoosevelt seguivaqui l’evolversi dellaII guerra mondiale

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ILLUSTRAZIONE DI M

IRCO TANG

HERLINI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 11GENNAIO 2009

“A tavola col presidente”

(segue dalla copertina)

Quali sono stati gli ospiti più illustri?«La Regina Elisabetta ad aprile del 2007 e PapaBenedetto XVI nel 2008, ma nessuno dei due è

rimasto a dormire».Qual’è stata la visita più complicata da organiz-

zare?«Quella del Papa. È stata la più grande cerimonia

d’arrivo nella storia della Casa Bianca: c’erano 13.500persone, la logistica è stata difficilissima».

A che ora cominciano le cene alla Casa Bianca?«Ad un italiano potrà far sorridere ma si comincia

sempre alle 19 e di solito per le 20.30 abbiamo finito esi passa all’intrattenimento».

Quante persone lavorano in cucina?«Quando ci sono solo il presidente e la famiglia ci

sono uno chef e due assistenti. Per le cene di lavoro siaggiungono altri due cuochi».

A che ora inizia il lavoro?«Ogni mattina alle 7.30 nell’Ala Ovest c’è una riu-

nione dei direttori di tutti i servizi con il capo dellostaff del presidente. Dura mezz’ora e mi piace che tut-ti i giorni, quando faccio il percorso per tornare nelmio ufficio, incontro scolaresche e turisti, perché no-nostante le esigenze di sicurezza la Casa Bianca èsempre aperta al pubblico. È divertente sentire la rea-zione della gente quando vede il ritratto di Jackie Ken-nedy o quando incontra il cane Barney».

È vero che ci sono ospiti che si portano via oggetticome souvenir?

«La gente di solito prende i tovaglioli con lo stem-

ma del presidente o porta via gli asciugamani del ba-gno, che hanno il marchio presidenziale. A volte do-po una cena spariscono i segnaposti, che sono fatti aforma di aquila. Penso che la gente non si renda con-to che non si possono prendere».

In questi giorni si è saputo che la First Lady hacomprato un nuovo servizio di piatti di porcellanacinese.

«Sì, uno è per la residenza privata, per l’uso quoti-diano della First Family. È un servizio con il disegnodi uno degli alberi più famosi della Casa Bianca: lamagnolia piantata da Andrew Jackson. L’altro è pereventi di Stato».

Ma George e Laura Bush hanno fatto a tempo ausarli o saranno solo per gli Obama?

«Con il servizio della magnolia stanno cenandotutti i giorni, l’altro è stato inaugurato quando il se-gretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon è venuto apranzo questa settimana. Abbiamo ancora molti al-tri eventi negli ultimi dieci giorni. Ma non importa, laCasa Bianca è un museo, questi servizi diventerannopezzi di storia. La First Lady ha lasciato un bel regaloper la nuova famiglia, anche Hillary Clinton comprònel 2000, quando stava per andarsene, un nuovo ser-vizio di piatti, quello del Millennio».

Chi gestisce la Casa Bianca?«Il direttore della residenza e il maggiordomo ca-

po, che governano uno staff di 90 persone. Da dueanni il maggiordono è un ammiraglio in pensionedella Guardia costiera, Steve Rochon. Il suo prede-cessore, Gary J. Walter, è stato qui per quasi venti-sette anni».

MARIO CALABRESI

THOMAS JEFFERSONSecondo presidentea vivere alla CasaBianca (1801-09),fa costruire i porticatiagli ingressi nord e sud

THEODORE ROOSEVELTRivoltosi agli architettiMcKim, Mead e White,rinnova il pianoterradell’edificio e nel 1902aggiunge la West Wing

FRANKLIN ROOSEVELTPresidente dal 1933al 1945, fa trasferirelo Studio Ovale dovesi trova oggi: accantoal Rose Garden

HARRY S. TRUMANDal 1948 promuovela ristrutturazionecompleta degli interni,riportandoli ai progettineoclassici originari

JOHN KENNEDYÈ la moglie Jackiea imporre il suo gustodecorando ogni stanzasecondo uno stileda Luigi XVI a Impero

BILL CLINTONRosso, blu e oroi colori scelti da Hillaryper lo Studio OvaleLa first lady rinnovaanche le altre stanze

GEORGE W. BUSHLui appende quadriwestern alle paretidello Studio OvaleLaura idea tappetie moquette chiare

i presidenti

IL RECINTO

edificio principaleala ovestala eststudio ovale

piscinagiardino delle rosemini golfparco giochi

STANZA DA LETTO PRESIDENZIALE LINCOLN

È possibile che Lincoln non abbia mai dormito qui comefanno invece ospiti e amici della famiglia presidenziale

SALA VERDE

Jefferson cenava qui; le paretidal 1971 sono di seta verde

STUDIO OVALE

Ogni Presidente lo personalizza; i piccoli Carolinee John John Kennedy entravano a giocarci

SALA DELLA PORCELLANA CINESE

Nel 1917, Mrs Wilson la scelseper raccogliere le porcellane cinesi

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Le confidenze di Anita McBride, capo dello staff della First Lady

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i protagonistiQuarant’anni dopo

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

ANDREA TARQUINI

PRAGA

Aveva vent’anni, il gentileJan Palach, quando il 16gennaio 1969 si cosparsedi benzina e si diede fuo-

co in piazza San Venceslao, il cuore diPraga. Così quello studente di filosofiatimido, introverso, tutto buone letture eriflessioni profonde, volle protestarecontro l’invasione russa che avevastroncato le riforme e le speranze della“Primavera”, e contro lapassività d’una nazioneche s’era rassegnata allasconfitta. Il sacrificio estre-mo, tra dolori atroci, perpurificare il popolo, quasicome in una tragedia greca.Quarant’anni dopo, eccociqui, nella Praga ora prospe-ra e libera che lui sognava, laCittà d’oro resa ancora piùbella dalla neve, a incontra-re e ascoltare i suoi miglioriamici, i compagni di studi,oggi anziani ex ragazzi delSessantotto praghese.

«Jan non era il tipico stu-dente», dice Štepán Bittner,che fu suo compagno di stu-di. «Non lo interessavano fe-ste, party, divertimenti. Pen-sava a studiare e basta. Loavevamo soprannominato“lo studioso”, oppure “il ri-cercatore”. Era estrema-mente intelligente, ma pienodi modestia, totalmente pri-vo di ogni ambizione di salirealla ribalta o diventare lea-der». Fa freddo, fuori dall’ele-gante Café Slavia di fronte al Národní Di-vadlo, il teatro nazionale, dove ascoltoBittner. Fuori, la vita scorre: più Bmw eMercedes che a Roma, famiglie e cop-piette a passeggio, allegri gruppi di gio-vani turisti italiani, ragazze giapponesiprese dallo shopping. «E ades-so», continua Bittner, «adesso ri-penso all’ultima volta che ci ve-demmo, nell’ostello dell’univer-sità. Era l’inizio di gennaio 1969,io e gli altri ragazzi avevamo or-ganizzato un party, aspettava-mo tante ragazze da corteggiare.Lui arrivò improvvisamente, in-dossava come sempre il suo lun-go cappotto marrone e un ber-retto nero. Era serio, ci disse: “macome fate a festeggiare con i tem-pi che corrono?”».

I tempi che correvano eranocupi. Il 21 agosto 1968, seicento-mila soldati, seimila panzer ecentinaia di jet del Patto di Var-savia avevano stroncato con l’in-vasione l’esperimento demo-cratico di Alexander Dubcek (al-lora leader riformatore del Pc ce-coslovacco): il “socialismo dalvolto umano”. La notte neostali-niana stava tornando a scenderesu Praga. «Ma dai, Jan, gli dicem-mo, ci si deve pur divertire… Luitacque un attimo, poi rispose:“Vi saluto, amici. Se mi accadràqualcosa, abbiate un buon ricor-

do di me…”». Lo sguardo e la voce di Bitt-ner trattengono le lacrime. «Non lo ca-pimmo a tempo, era la sua visita d’addio.Se lo avessimo capito, avremmo forsepotuto fermarlo. Ci penso sempre».

Pochi giorni dopo, la mattina del 16gennaio, Jan Palach inviò una cartolinaall’altro suo grande amico all’università,Hubert Bystrican. Una cartolina pano-ramica della Città d’oro, con poche pa-role scritte in elegante cèco arcaico: «Tiporge i suoi saluti il tuo Hus». Hus: JanHus, l’eretico riformatore religioso cècoche finì sul rogo. La cartolina fu imbuca-ta da Palach poche ore prima del suici-dio. Poi Jan scrisse una lettera, ad altridue amici e all’unione degli scrittori. «Lasituazione disperata rende necessarioche qualcuno si sacrifichi per salvare ilnostro popolo. Ho avuto l’onore di esse-re scelto per primo, altri seguiranno, po-tranno essere i vostri amici o i vostri cari.Firmato, la torcia numero uno». Bystri-can ricevette la cartolina d’addio soloqualche giorno dopo, «quel 16 gennaiointanto avevo già saputo della sua mor-te da radio e tv, e sulle prime non volevocrederci. Parlavamo spesso di politica,ma non aveva mai alluso a forme radica-li di protesta».

Il vento soffia a nove sotto zero sullevetrate del Café Slavia, e suona il piani-sta, mentre ascolto Bystrican e Bittner.Narrano chi era l’uomo Jan Palach, quelplacido e serissimo giovane gentile chescelse di morire per i princìpi. «Jan era unragazzo dolce, sempre pronto ad aiuta-re tutti, sempre fedele alla parola data ealla coerenza», racconta Bystrican.«Non riesco a ricordarmi di una sua liti-gata con qualcuno. E non era né un rivo-luzionario, né uno che volesse spiccarecome leader… sembrava un filosofo na-to, leggeva e rifletteva». «Sì», convieneBittner, «su Kant o Nietzsche sapeva piùdi ogni altro». Prendeva sul serio gli stu-di, e l’impegno sociale. «Detestava l’in-giustizia. Una volta un nostro compa-gno di studi odiato dal titolare di una cat-tedra, pur essendo preparatissimo, fubocciato all’esame. Jan andò dal profes-sore a chiedere spiegazioni».

Era l’anno a cavallo tra il 1967 e il 1968.L’arcigna, esausta dittatura dello stalini-sta Antonín Novotny stava tramontan-do, i giovani riformatori guidati da Dub-cek stavano per espugnare il Partito co-munista. Via la censura, libertà di stam-pa e di viaggio, dibattito aperto sul futu-ro tra potere e società. «Eravamo tutti so-

stenitori del nuovo corso», dicono Bitt-ner e Bystrican, «ma lui non voleva im-pegnarsi in prima fila, non scriveva suigiornali studenteschi, non parlava inpubblico, non cercava la ribalta. Conti-nuava a prendere sul serio gli studi, nonvoleva trascurarli». Il primo grande slan-cio d’impegno lo ebbe partecipandocon funzioni chiave alle brigate giovani-li volontarie di lavoro in Urss. La primavolta nel 1967, la seconda nel ‘68, fino al17 agosto, pochi giorni prima dell’inva-sione. «Era entusiasta, nel 1967 lavo-rammo in un clima fraterno insieme astudenti di Leningrado. Avevamo l’im-pressione che i russi fossero gente comenoi, scherzavamo con loro, ci racconta-

vamo barzellette sul sistema. Una soladifferenza lo colpiva: quando un giova-ne russo veniva promosso, cambiava,smetteva di scherzare».

Jan era affascinato, entusiasta dellaRussia, conviene Bittner. «Della gentecomune e della natura di quel grandepaese, non del sistema. Anche allora,non aveva voglia di impegnarsi nella po-litica. Narrava invece della bellezza sel-vaggia della natura in Kazakhstan o in Si-beria, o dei dischi che acquistava». Il suounico impegno, ricorda Bystrican, eratenere unita la brigata, aiutare i più de-boli in condizioni di lavoro dure, garan-tire che tutti sarebbero tornati sani a ca-sa. «Venne poi la seconda brigata in Rus-sia, nel 1968. Lui aveva un ruolo dirigen-te, e là notò che l’atteggiamento dei rus-si verso noi cèchi era cambiato del tutto.Influenzati dalla loro propaganda con-tro la nostra Primavera, diffidavano dinoi. Forse per lui fu una prima scossa, sifece più triste».

Qualcosa, convengono gli ex ragazzidel Sessantotto di Praga, lo aveva ferito.«Cominciò a confidarci che non credevapiù in un socialismo dal volto umano,finché al potere sono gli stessi», affermaBittner. Poi, dopo l’invasione — narra

Bystrican — andò ancora in una brigatadi lavoro giovanile, ma questa volta inFrancia, per aiutare nella vendemmia».Là i suoi occhi si aprirono: «Vide un pae-se normale, diverso dal nostro paese oc-cupato. Una società che sceglieva da so-la come vivere», nota Bystrican. «Con-fessava paragoni amari tra il destino deifrancesi e il nostro. Una volta disse “sa-pevo che un lieto fine per noi era impos-sibile”».

Jan era ancora il serio, tranquillo stu-dente, o almeno così sembrava. Nonparlava mai della sua vita privata, maiaccennava a ragazze, amichette, amori.Qualcuno disse poi che era legato a unabella slovacca, Eva Bednáriková, altriche la sua amica del cuore era HelenaZahradníková, poliomielitica. «Comun-que pensava sempre a sua mamma Li-buše Palachová, rimasta vedova», notaBittner. «Andava a trovarla a Všetatyogni weekend». Ma nel suo intimo eracominciato quel doloroso itinerariummentis che lo avrebbe spinto al sacrificioestremo. Bystrican comprava bigliettiper prime teatrali ambite per lui e per sé,e lui disertava l’appuntamento. Alle fe-ste di Capodanno, tra gli studenti tesi efrustrati per l’invasione ma ancora pieni

I CAMPI DI LAVORO/2Accanto e sopra, due scenedi gruppo riprese nei campidi lavoro in Unione Sovieticafrequentati da Palachalla fine degli anni Sessanta© Hubert Bystrican

IL MARTIREA destra e sotto,due immaginidello studente cècoJan Palach,che il 16 gennaio1969 si bruciònel cuore di Pragaper protestacontro l’invasionedelle truppedel Patto di Varsavia

All’inizio di gennaiofacemmo una festaLui venne e protestò:“Come fate, coi tempiche corrono?”

I CAMPI DI LAVORO/1Le due foto sopra sono state scattate

al tempo dei campi di lavoro in Ursscui Jan Palach prese parte. Palach

(nei cerchi) contratta per acquistareuna pelle di cammello e mangia un gelato

© Hubert Bystrican

“Io, Palach, la torcia numero uno”

La fiammata in piazza San Venceslao, il 16 gennaio 1969,si portò via la vita del ventenne Jan e denunciò l’ottusaferocia dei sovietici che avevano riportato l’“ordine” a PragaSiamo tornati nella Città d’oro per parlare con gli amicidi quel ragazzo e ricostruire, attraverso foto e documenti,come maturò la sua decisione di immolarsi per la libertà

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 11GENNAIO 2009

di voglia di vivere, lui fu il grande assen-te. «Forse non sopportava la visione diquei giovani soldati sovietici, spediti inarmi dalle steppe dove lui aveva lavora-to volontario a dettare legge a Praga», di-ce Bittner.

La notizia arrivò improvvisa, pochigiorni dopo quella visita d’addio di Jan alparty. «Qui Radio Praga, oggi un giovanesi è dato fuoco a piazza San Venceslao».Bittner e Bystrican l’appresero così neltardo pomeriggio di quel 16 gennaio. So-lo all’una di notte, qualcuno entrò neldormitorio dell’ostello universitario egridò: «Il suicida era Jan». Bittner corsealla redazione del giornale studentesco,scrisse subito un lancio stampa. Poi arri-

varono le sue lettere d’ad-dio. «Torcia numero

uno», si firmava, e lasciava pensare a ungruppo di giovani pronti a seguirlo nelsuicidio.

Esisteva o no, il “gruppo delle torce”,questa task force di kamikaze della li-bertà? La domanda faceva tremare il re-gime. Furono interrogati a lungo, Bystri-can e Bittner, noti alla polizia segreta perle loro corrispondenze con Jan. Più tar-di, gli fu consentito di sopravvivere conumili lavori, ma vietati ogni ulteriorecursus di studi e ogni carriera. «Così fuipunito anch’io», narra Olbram Zoubek,uno dei più famosi scultori praghesi diallora, lontano parente di Palach. Si offrìvolontario per fare la maschera mortua-ria e il monumento tombale di Jan. Riu-scì a fatica a entrare nella morgue dove lasalma era custodita. «Mi occupai da ar-tista della memoria di lui, e di Jan Zajíc, ilprimo dei ragazzi che lo seguì nell’esem-pio del suicidio col fuoco». Il 25 gennaio,i funerali di Jan Palach paralizzaronoPraga. «La città era piena come mai pri-ma», sussurra Bittner. «Molti piangeva-no, dominava il silenzio, quando la barapassò davanti all’università fu cantatol’inno nazionale. Temevamo provoca-

zioni, organizzammo un servizio d’ordi-ne degli studenti. Bohdan Mikolašek, unfamoso cantautore d’allora, scrisse Il si-lenzio, una canzone per Palach. Gli fuvietato ogni concerto.

«Io costruii la sua lapide tombale»,narra Zoubek. «Diciotto giorni dopo, lapolizia segreta inviò a Libuše Pala-chová, la mamma di Jan, l’ordine di ri-muoverla subito. La lettera arrivò tardi.Una notte, un commando speciale ri-mosse il monumento dal cimitero, nonavevano rispetto neanche per i morti».La tomba fu profanata senza pietà, perordine dall’alto. Quel giovane timido eintroverso faceva paura al regime, an-che dopo morto. Gli agenti speciali por-tarono via la lapide-monumento for-giata da Zoubek, e la fecero fondere. DiJan doveva sparire ogni ricordo. «Io fuibrutalmente interrogato dalla Stb, lapolizia politica», narra Zoubek, «vole-vano sapere se dietro il suicidio c’era ungruppo “antistatale”, come dicevanoloro, pronto ad agire».

Le stesse domande, alla centrale dellapolizia, furono poste a Bystrican e Bitt-ner in molti interrogatori. Vennero glianni più bui: mamma Libuše si assunseil ruolo della madre del martire, resistet-

te alle pressioni del regime e a quelle delsecondo figlio, deciso a non procurarsigrane con la dittatura. Libuše morì a ses-santaquattro anni, non ebbe la gioia divedere la svolta democratica dell’89. Laprofanazione di Stato della tomba con-tinuò: la salma di Jan fu traslata e crema-ta in segreto. Solo quattro mesi dopo, leceneri furono consegnate alla mamma,e inumate nel suo villaggio, Všetaty. Làsono rimaste fino al 1991, quando, con lademocrazia, furono riportate al cimite-ro Olšany di Praga.

«Per i cèchi», dice Zoubek, «quello diPalach fu un gesto grande, una luce nelbuio. Svegliò la gente, mostrò che valevala pena di sacrificarsi». Ma il regime el’Urss erano troppo forti e senza scrupo-li, convengono Bystrican e Bittner: pre-sto tornò la rassegnazione, «lo spirito dipigrizia astuta del “buon soldato Švejk”,come lo descrive il cantautore Miko-lašek. «Per me», conclude Bittner, lui fuforse il più grande cèco di tutti i tempi,ma a fronte del suo sacrificio i cèchi si ri-velarono peggiori del previsto. E oggi,nella libertà che Jan sognò ma non visse,i giovani, di lui, sanno poco o nulla».

(Ha collaborato Petr Piša)

‘‘Nella strada fluisconoil silenzio e la gente

E in pochi, solo in pochi hanno risoIl marciapiede inerte

si è tolto il berrettoe il silenzio, il silenzio continua

la sua corsa in avanti

***Sfila nei ranghi il silenzio, e qualcuno

ha posto la serietà negli sguardiCome la sete sospinta verso l’acqua

il silenzio, il silenzio continuala sua corsa in avanti

***Nella strada fluiscono

il silenzio e la gentee tutti hanno rinunciato al riso

Ma il silenzio è soltantouna linea divisoria

Poi viene il grido - ed è venuto,divampata la fiamma

***Fuoco, luce e fumo,

e con essi una breve vitahanno arso a lungoe a lungo arderanno

Fiamma delle altrui colpe -e io come voi tutti conosco la notizia:

un uomo vivo è mortoe i morti sono rimasti in vita

***Sono rimasti in vita, ma tutti un po’

sanno il perché -perché chi giaceva ora è in piediMa io, io chiedo anche perché

perché mai costò così caroquel fuoco

***Perché mai per pensare

alla vita si aspettadi vedersela morire dinanzi agli occhi

Il perché incalza e non dà treguaperché, perché mai costò

così caro quel fuoco

***Poi sulla piazza San Venceslao

di quel silenzio ognuno s’è portato via un frammento

E il museo nazionale, con gli occhigià orbati dal fuoco degli spari,

vede il silenzio continuarela sua corsa in avanti

***Che nessuno l’applauda,

questa canzone,che ognuno tacendo digerisca

il silenzioE che il silenzio -

solo il quieto parlante silenzioprosegua sommesso il racconto

Il Silenzio

di BOHDAN MIKOLAŠEK

Traduzione di Elisabetta Horvat

I DOCUMENTIQui sopra, l’ultima cartolina di Palachall’amico Hubert Bystrican, firmata Jan HusIn alto, le due pagine dell’ultima lettera, firmata“La torcia numero uno”. In alto e a sinistra,il manoscritto, parole e musica, della canzone“Il Silenzio” composta da Bohdan Mikolašek© Archiv Bezpecnostních Slozek

“Andò a un campodi lavoro in Franciae vide le differenzeAl ritorno ci disse:un lieto fine per noiè impossibile”

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So qualcosadi cosa vuol dire trovarsi spae-sati. Avevo otto anni quando arrivai in unpaese, nel cuore dell’Europa, di cui nonconoscevo la lingua, dove ero additatocome diverso e straniero, in provenienzada un altro paese, che era il mio, ma dove

pure venivamo additati come diversi e stranieri. IlNovecento, si sa, è stato il secolo degli stermini e deimassacri in Europa. Ma anche quello dei profughi,dei rifugiati, dei deportati. Quel che si tende a di-menticare è che non successe solo durante le dueguerre mondiali. Continuò anche dopo, ben adden-tro gli anni Cinquanta.

Non si trattava più solo di perseguitati, di popola-zioni in fuga dalla guerra. Non erano prigionieri.Non era gente cacciata a forza dal proprio paese edalle proprie case. Erano persone che più semplice-mente non potevano o non volevano tornare a casa.Persone senza più patria, documenti, nazionalità.Senza nemmeno quel minimo di dignità e onore chedà l’essere riconosciuti come vittime, perché permolti di loro non era neanche provato che fosserovittime del nazifascismo. Non erano né carne né pe-sce. Anzi aleggiava nei loro confronti il sospetto diaver simpatizzato o addirittura collaborato con i na-zisti, cioè con i persecutori o i massacratori. Alcuniavevano lasciato il loro paese al seguito dei tedeschiin ritirata. Altri perché temevano l’avanzata dell’Ar-mata rossa. Alcuni avevano addirittura combattutocon la Wehrmacht, in reparti speciali di Ss, o in mili-zie alleate dei nazisti. Oggi forse sarebbero bollati co-me sospetti terroristi. Di alcuni non si sapeva nem-meno esattamente il paese di origine, la guerra ave-va confuso i confini, e i documenti che gli erano sta-ti forniti dai nazisti quando erano stati reclutati arimpiazzare la mano d’opera al fronte avevanostampigliato in nero sotto la foto solo “Ost”, la gene-rica provenienza da Est.

Gli alleati avevano dovuto addirittura inventareper loro una nuova definizione: “Displaced per-sons”. Spiazzati, spostati, spaesati. Clandestini perdefinizione, a meno che non riuscissero a produrreuna caterva di documenti, che non avevano o nonpotevano o non volevano produrre. Prima dellaguerra li chiamavano apolidi, e si trattava in generedi persone sfuggite alla persecuzione nazi-fascista.Ora, come osservò Hannah Arendt nel 1951, «erapeggiorata persino la terminologia»: «Il termine“apolide” riconosceva, se non altro, che certi indivi-dui avevano perso la protezione del loro governo»,mentre «il termine postbellico “displaced persons”fu inventato durante la guerra con l’esplicito inten-to di liquidare una volta per sempre l’apolidicitàignorandone l’esistenza».

A questi “altri” dispersi è dedicato uno studio diSilvia Salvatici, appena pubblicato dal Mulino: Sen-za casa e senza paese. Profughi europei nel secondodopoguerra. Si stima che negli anni tra il 1939 e 1945le persone deportate, evacuate, costrette ad abban-donare il proprio paese siano state in totale cin-

quanta milioni, un abitante d’Europa su dieci. Quelche la memoria selettiva tende a rimuovere è il se-guito del dramma, che proseguì ben addentro gli an-ni Cinquanta. Non c’erano solo i liberati dai campidi concentramento. Nell’autunno del 1944 in Ger-mania si trovavano circa sei milioni di lavoratoricoatti provenienti in larga misura dall’Europa cen-tro-orientale e balcanica (sovietici, polacchi, ceco-slovacchi, jugoslavi), ma anche dai territori conqui-stati a occidente (francesi, belgi, olandesi). Poi arri-varono i circa dodici milioni di tedeschi, scappaticon l’avanzare dell’Armata rossa o espulsi dai terri-tori orientali. Con loro, confluirono i profughi dai

paesi baltici — lituani, estoni, lettoni — che Stalinaveva annesso, più polacchi, ungheresi, rumeni cheavevano volontariamente o meno collaborato congli occupanti nazisti e che non volevano tornare a vi-vere sotto i russi o semplicemente si erano trovati inmezzo e non sapevano più che fare. C’erano croaticompromessi con il regime fascista di Ante Pavelic,ed ex collaborazionisti della Milizia nazionale slove-na, o ucraini che avevano fatto parte della DivisioneSs Galizia. Capitò anche che coloro che collaborava-no, o potevano essere sospettati di aver collaboratocoi carnefici, finissero accanto alle loro vittime di untempo. Gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio

e ancora privi di sistemazione erano relativamentepochi, qualche centinaio di migliaia. Ma a questi siaggiunsero presto quelli che avevano cercato di tor-nare a casa e avevano dovuto nuovamente scappa-re dopo le esplosioni di antisemitismo (il pogrom diKielce, nella Polonia già comunista, dove venneromassacrati una quarantina di sopravvissuti, avven-ne un anno dopo la liberazione dai campi).

Non era solo un immane problema di assistenzaumanitaria. La miscela divenne presto un rompica-po. Uno studio condotto alcuni anni dopo l’avreb-be definita addirittura come «la più pericolosabomba a orologeria lasciata da Hitler». Il novantu-no per cento di tutte le displaced persons che nel di-cembre 1945 caddero sotto il mandato dell’Orga-nizzazione per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unr-ra) si trovavano nelle regioni tedesche occidentali,in particolare nelle zone sotto amministrazione mi-litare americana e britannica. Integrarle nella disa-strata economia tedesca era impossibile. La massi-ma aspirazione di gran parte dei displaced,emigra-re negli Stati Uniti per rifarsi una vita, veniva accol-ta col contagocce. Così come i britannici cercavanodi impedire l’emigrazione degli ebrei verso la Pale-stina sotto il loro mandato per non esacerbare i pro-blemi con gli arabi. Si creò il paradosso di nuovicampi di concentramento per questo nuovo tipo diprofughi, dove il problema diventava non impedi-re la fuga degli internati, ma allontanare gli “infil-trati”, quelli che volevano accedervi senza averne irequisiti e il diritto. Ci si trovò a fronteggiare rivolteviolente nei campi e a fare i conti con l’ostilità dellepopolazioni locali che vedevano di malocchio gliospiti indesiderati, li incolpavano di portargli via illavoro se volevano uscire e mettere in piedi qualcheattività. Ad altri fu trovato un lavoro nelle fabbrichevicine, e rifiutarono di presentarsi.

Furono accusati di essere delinquenti, di orga-nizzarsi in bande, di rubacchiare nei dintorni, di im-moralità nei costumi, persino di diffondere il tifo ealtre malattie. Forse ci sarebbero stati linciaggi senon ci fossero stati i soldati a difenderli. Un sondag-gio di allora mostra che vengono giudicati “crimi-nali” e solo il quindici per cento dei tedeschi ritienedi avere un qualsiasi obbligo di assistenza nei lororiguardi. Uno psicologo estone, lui stesso displacedprima di approdare in un’università americana, au-tore di uno studio Unesco sull’argomento, li difen-de sostenendo che «se i displacedavessero osserva-to rigidamente tutte le regole imposte loro, la mag-gior parte sarebbe morta per fame o per malattiecausate dalla malnutrizione… Perfino una personadotata delle migliori intenzioni non può rispettaretutte le regole se vuole mantenersi in vita…».

Silvia Salvatici non si limita a fornire dati e cifre,ma a questi «altri spaesati» dà nomi e volti. Rac-conta alcune storie emblematiche, e il libro è cor-redato da belle foto. In quei campi successero co-se terribili, ma si celebrarono anche matrimoni,nacquero bambini, molti ne uscirono per riunirsiai familiari che erano riusciti a emigrare oltreo-ceano e a rifarsi una vita.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 11GENNAIO 2009

IL LIBRO

Senza casae senza paeseProfughieuropeinel secondodopoguerra

(349 pagine, 25 euro)di Silvia Salvatici,è edito dal Mulinonella sua Bibliotecastorica e sarà in libreriadal 15 gennaio. Le foto,i documenti e le vignettepubblicate in questa paginasono tratte dal libro

SIEGMUND GINZBERG

Gli “spaesati” d’Europauna tragedia rimossa

LE IMMAGINIBambini condotti a scuola nel campo

profughi di Wiesbaden. Sopra,deportate russe nel campo di Wetzlar

nel 1945. I documenti e le vignettesono di “displaced persons”

la memoriaVittime e carnefici

Fu definita “la bomba a orologeria lasciata da Hitler”:cinquanta milioni di “displaced persons” in fugadal proprio paese o messe nell’impossibilità di tornarciOra un libro di Silvia Salvatici racconta la storia e le storiedi un dopoguerra durato fino ben dentro gli anni Cinquanta

NATIONAL GEOGRAPHIC DI GENNAIO

IN EDICOLA

IL PREZZO DELL’OROGALILEO, L’UOMO CHE SCOPRÌ IL CIELO

LA PALMA, UN’ISOLA TRA LE STELLE

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Quanta adrenalina scorre nel sangue degli antipatici. E nelsangue di chi riesce a provocarli. Si ride molto in questolibro, spesso si sorride, e più spesso ancora si riflette. Tor-na in libreria quarantasei anni dopo la prima edizioneGli antipatici di Oriana Fallaci. Incontri, e spesso scon-tri, in cui la giovane autrice, già molto assertiva, già nar-

cisista, sembra scaldarsi i muscoli in vista dei futuri faccia a facciacon i grandi della Terra.

I presupposti ci sono tutti: nessuna smanceria, nessun conformi-smo, una certa inclinazione al maltrattamento e al politicamente scor-retto, il tentativo di mostrare il malcapitato in tutta la sua vulnerabilità.La giornalista sputa le sue domande senza girarci attorno, e a volte ledomande sono meglio delle risposte; i ruoli si capovolgono e sin dallaprima riga è chiaro a tutti che lei non farà da spalla. È pugnace, è osti-nata, è abrasiva. Oriana non sfuma, non attenua, non smorza: è già laFallaci. Si entusiasma, si indigna, si accalora. Fa reprimende terribili. Avolte usa il fioretto, ma sa tirare fuori il machete. Entra nei salotti, pas-seggia sui set, è ospite nei castelli come andasse alla guerra, con l’el-metto in testa e la cintura piena di bombe a mano. Anche se indossa ilsuo migliore abitino Chanel e si fa pettinare da Alexander.

Aveva trentaquattro anni e veniva spedita a intervistare miliardari eplayboy come Baby Pignatari e Porfirio Rubirosa, toreri come AntonioOrdoñez, calciatori come il giovanissimo Gianni Rivera, attrici dicias-settenni che le appaiono indisponenti come Catherine Spaak, nobil-donne oberate da titoli, da Rubens e da cinquanta castelli come la du-chessa d’Alba, che farà la figura della perfetta cretina. Celebrità assor-tite, insidiose da raccontare, ma non certo personaggi minori. Sfila da-

vanti ai nostri occhi un superbo campionariodi mostri sacri. Registi da Oscar come Fellini oHitchcock, poeti premiati con il Nobel comeQuasimodo, dalla «bocca a coltello, maligna»,dive di fama quali la Magnani, Arletty ormaicieca, Jeanne Moreau dalle «guance consun-te», Ingrid Bergman «spettinata e senza ci-pria». Compositori come Giancarlo Menotti,scrittrici d’alto profilo come Natalia Ginzburg,parlamentari come Nilde Iotti, «volto di ba-dessa», divini mondani come “Fabiolo”, l’irri-verente fratello della regina del Belgio.

Antipatici per eccesso di visibilità, perchétroppo noti, troppo presenti sui giornali e in te-levisione, sottolinea la stessa Fallaci spiegan-do, prima ancora che i suoi lettori possano do-mandarselo, come mai non si sia a sua volta in-clusa nella categoria: «Non mi ci son messaperché non sono celebre e di conseguenza so-no simpatica».

Le diciotto interviste agli antipatici («quasisempre simpaticissimi» strizza l’occhio lei)uscirono tutte sull’Europeo diretto da GiorgioFattori, concentrate in pochi mesi, dal dicem-bre del ‘62 al luglio del ‘63: mezzo anno o pocopiù, una stagione breve quanto fervida e crea-tiva, in cui l’inviato di costume Fallaci si spostada Milano a Buenos Aires, da Roma a Siviglia,da Cannes a Madrid a Spoleto e soprattutto aParigi inseguendo con passo elastico le sueprede, che spesso le fanno fare lunghe antica-mere.

Il libro non contiene solo le interviste uscitesull’Europeo, ma anche il resoconto di comeandò ogni singolo incontro, di come si com-portò l’antipatico, di come reagì. Insomma: ildietro le quinte, i retroscena, the making of.Veri e propri ritratti. Ogni capitolo dunque haun suo prologo scritto appositamente quandoil reportage diventò libro. E ogni prologo con-tiene esplicitamente un giudizio. «Ciò nonpiacerà ai cultori del giornalismo obiettivo peri quali il giudizio è mancanza di obiettività —osserva Oriana Fallaci —: ma la cosa mi turbapochissimo. Quel che essi chiamano obietti-vità non esiste. L’obiettività è ipocrisia, pre-sunzione [...] Esiste, può esistere dunque, solol’onestà di chi fornisce la notizia o il ritratto».

LAURA LAURENZI

Star del cinema, calciatori, premi Nobel e grandi registi,nobildonne, playboy: in sei mesi, tra il 1962 e il ’63,la trentaquattrenne Fallaci sottopone diciotto celebritàa domande che sono spesso migliori delle risposteFu un libro di successo, che l’editore Rizzoli riproponedopo 46 anni con una nuova prefazione di Laura Laurenzi

CULTURA*

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

L’arte ferocedell’intervista

Orianae gli

antipatici

IL LIBRO

L’editore Rizzoliultimerà entro il 2009la ristampadelle opere di OrianaFallaci in una nuovacollana della BurOgni volumeè presentatoda una prefazioneoriginaleIl 16 gennaiosarà nelle librerieGli antipatici(prefazione di LauraLaurenzi, 370 pagine,10 euro), dal qualesono tratti i due testidella pagina accantoTra i titoli giàdisponibili, Intervistacon la storia,con prefazionedi Federico Rampini

www.edizionidedalo.it

Dan Hooper

Il lato oscurodell’UniversoDove si nascondono energia e materia

Una presentazione illuminantedel più grande mistero della cosmologia moderna.

J.-P. Uzan - B. Leclercq

L’importanzadi essere costante

I pilastri della fisica sono davvero solidi?

prefazione di Françoise Combes

Cosa sono le costanti fisiche? Sono davvero costanti? Un’in -dagine che ripercorre le tappe più importanti del la fisica.

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Mentirei se affermassi che l’incontro con Porfi-rio Rubirosa mi lasciava del tutto indifferen-te. Sebbene il signor Rubirosa mi abbia sem-

pre turbato pochissimo, anzi per niente, un poco ec-citata lo ero: ammettiamolo. È bruttacchiolo, e va be-ne. Ha un profilo da negroide, e va bene, gli occhi pic-coli come fragoline di bosco, e va bene. Se non sa-pessi che è Rubirosa non mi girerei neanche aguardarlo, e va bene. Ma qualcosa, pensavo, devepur avere questo Porfirio se gli basta l’alzata di unsopracciglio per portarsi a letto tutte le donne chevuole e sposarsi tutte le miliardarie che crede.Qualcosa che prescinde, è evidente, dal suo aspet-to fisico e magari dalle sue capacità di amatore:dopotutto esistono uomini che al primo sguardonon ti dicono nulla e dopo dieci minuti ti fannoperder la testa. Sicché per incontrarlo (non si samai) m’ero messa il mio migliore Chanel, m’erofatta la messa in piega da Alexandre, avevo cu-rato fino allo spasimo il mio maquillage. E il pro-fumo! Avreste dovuto sentire il profumo. Comeun fiore, olezzavo. [...]

La casa di Rubi (le sue donne lo chiaman co-sì) è a Marnes-la-Coquette, venti minuti d’au-to da Parigi. Lasciai Parigi un’ora prima del-l’appuntamento, giunsi a Marnes-la-Coquet-te con quaranta minuti di anticipo. Aspettainel salotto cinquantacinque minuti giacchéegli scese con un certo ritardo. E quando en-trò soffocato dal mio profumo di fiori, soffo-candomi col suo odor di lavanda, tanto sti-rato e perfetto che nessuno avrebbe potutorimproverargli una piegolina, un capellofuoriposto, un bottone sganciato, arrossiileggermente. Così dice il fotografo. Del re-sto anche Rubi arrossì: un rossore, dice ilfotografo, che stava al mio come un po-modoro maturo sta a un guscio d’uovo.

Ciò, conquistandomi, mi rinfrancò a un tale pun-to che cominciai subito a sistemare il magnetofono, a fa-re le prove: «Pronto, pronto. Prova uno-due-tre-quattro.Prova uno-due-tre-quattro». Poi alzai la testa, con un bel

sorriso, e il sorriso si spense: il pomodoro maturoera stinto in qualcosa che stavatra il guscio dell’uovo ed il torlo.Quanto alle fragoline di boscofissavano il vuoto, perdute, comese, avendo trascinato in alcovaElizabeth Taylor, Rubi si fosse ri-trovato fra le braccia che so io,Nikita Krusciov.

Apriva la bocca, la richiudeva. In-ghiottiva saliva, espirava. Si stringe-

va con mani di tenaglia i ginocchi, tremava quanto ho vi-sto tremare soltanto il mio Yorkshire Terrier che è il canepiù freddoloso del mondo: il giorno in cui lo lavai in un tor-rente e lo misi ad asciugare sotto un pallido sole. E non so-lo tremava, sudava: goccioloni di ansia che dalle tempiepercorrevano in rivoli il volto abbronzato e cadevanodentro il colletto a due o tre per volta, toc-toc, toc-toc-toc.Nel silenzio totale che era caduto tra lui e il mio stuporesembrava quasi di udir quel toc-toc: mi sentivo come unastrega che sevizia un bimbo innocente e non comprendel’infamia che sta commettendo. Cercai di spiegargli chenon gli avrei fatto del male: da un punto di vista patologi-co, anzi, la conversazione sarebbe stata del tutto indolo-re. Rispose che il magnetofono lo innervosiva, se non lochiudevo non avrebbe incominciato a parlare. Chiusi ilmagnetofono, presi penna e taccuino. Non ottenni nulladi più. Riaprii il magnetofono, incoraggiai e supplicai. Ri-spose che non aveva niente da dire. Gli chiesi perché al-lora mi avesse dato l’appuntamento. Tacque e ritacque.Poi smise di tacere per dirmi che non capivo il riguardoche mi aveva usato: detesta i giornalisti, i giornalisti sonostupidi, i giornalisti sono bugiardi, i giornalisti sono infa-mi, mai nella sua vita aveva accettato di parlare con ungiornalista, tale eccezione era un sacrificio per me... e poitacque. Tacque e ritacque. Impiegammo quasi due oreper incidere un nastro di trenta minuti. L’intervista cheleggerete è il più eroico lavoro di cucitura che sia mai sta-to fatto dal tempo in cui i cavernicoli si cucivan le pelli conle spine di pesce. Cucitura? Mosaico. Da allora, quandovo in San Vitale a Ravenna, esclamo orgogliosa: «Sì. Peròio ho composto l’intervista con Rubi». Nemmeno la du-chessa d’Alba mi fece tanto soffrire: persi in questa inter-vista tre chili, quanti ne ha persi Gordon Cooper nel suoviaggio spaziale, quanti ne perde un obeso che per duesettimane sta a frutta e caffè. Il ritratto che segue non èesattamente il ritratto di Porfirio Rubirosa: se avessi do-vuto riportare la conversazione nel modo in cui si svolse,il mio direttore mi avrebbe cacciato. Però non mi pentodi aver presentato Rubi più loquace di quello che sia: i suoiamici mi giurano che con gli altri la conversazione di Ru-bi è squisita, si sta ad ascoltarlo quasi fosse Demostene.Alcuni suoi amici sono, strano a dirsi, miei amici. E mi ve-do costretta a non dubitarne.

Finito il tormento andammo in giardino dove c’era laquinta moglie di Rubi, Odile Rodin, e un’ospite di Rubi,Elsa Martinelli. Colpita dal mio scoramento la Martinellispiegò che Rubi è assai timido e la timidezza è una virtùmolto chic. Poi mi chiese quali altre virtù avessi colto inlui. Risposi non so, non saprei, e perché diavolo piace tan-to alle donne? La Martinelli osservò che è un tale brav’uo-mo. Aggiunse che, siccome era un tale brav’uomo, avreb-be accettato di rivedermi. Grazie a Dio, non accettò.

© 1963-2009 RCS Libri S. p. A., Milano

Porfirio Rubirosa, il seduttore noiosoche aveva paura delle donne

L’invito di Ordoñez era alla finca diValcargado, la grande proprietàdove alleva i suoi tori, duecento

chilometri da Siviglia, passato Jerez, nel-l’estremo Sud della Spagna. L’appunta-mento era a un bivio, nel punto dove la stra-da diventa viottolo e proseguir senza guidaè impossibile: qui Ordoñez avrebbe aspet-tato con la Land Rover per condurre alla fin-ca me e la cuadrilla. Coloro che Ordoñezchiamava cuadrilla, termine con cui viene in-dicato in Spagna il gruppo che accompagna iltorero, erano i miei amici: Marco, il fotografo,e Mercedes, la fidanzata di Marco. Glieli ave-vo presentati a Madrid, qui infatti dovevamofar l’intervista. Ma un toro s’era ammalato eOrdoñez era corso a curarlo. [...]

Lo trovammo al bivio, con la sua Land Ro-ver. Era vestito da contadino, stivali di pelle,cappellaccio di paglia, irriconoscibile, e ilsuo sguardo era ancora più puro, il suo sor-riso ancor più innocente. Quando fummoscesi dalla nostra automobile ci caricò sul-la sua, mormorò Buenos días, e partì. Du-rante il viaggio ruppe il silenzio solo per ac-cennare con un movimento di testa a unamandria: «Toros». A Valcargado, una casabianca di calce, posata su una collina disassi, frenò e indicando sei uomini disse:«Amigos». [...] Quando gli chiesi come sta-va il suo toro rispose «Mejor, muchas gra-cias, mejor»; e nient’altro. Avrebbe dovu-to parlarmi più tardi, non vedeva ragioniper sprecare parole anzitempo. Riaprìbocca solo per annunciare che il pranzoera pronto e farci passare in un salonetappezzato con teste di toro: i trofei del-le sue migliori corride. [...] D’un trattovoltò a tutti le spalle e mi disse «Vamos ahablar».

Fu una strana intervista. Ogni rispo-sta era preceduta da un lungo pensare,un raccoglimento che aveva il saporedi un rito, e solo dopo quel rito pro-nunciava la frase: lentamente, inequi-vocabilmente, con la voce bassa eprofonda che, ora capivo, ricordava ilmuggito di un toro. Parlando mi fis-sava nelle pupille, quasi fossi stata unpericolo da non perder di vista. [...]Dicendo: «Usted es una mujer, nopuede entender» si torceva le dita inuno scricchiolare di nocche e lo di-

ceva col tono d’aver fatto una scoperta abbagliante, al-lo stesso tempo un po’ sconveniente. Il sangue andalu-so gli bolle addosso come il cattolicesimo, la tentazio-ne di lasciarsi andare al peccato lo buca come l’orror delpeccato; tutti gli anni si ritira dieci giorni coi preti a fargli esercizi spirituali e si batte il petto con la stessa vio-lenza con cui batterebbe un covone di grano. Malgra-do ciò è molto buono, di rado ho incontrato qualcuno

che avesse una così cieca fiducia nel Paradiso, un cosìirrazionale ottimismo negli uomini, nelle bestie, neglialberi, nell’intero creato. Uomini e tori sono tutti figli diDio, quando muoiono volano al Cielo: e nessuno mi le-va il sospetto che in tanta francescana bontà uccida i to-ri per vedergli spuntare le ali, salire tra i martiri e suonartrombe d’oro. Il mondo, per lui, non è forse un immen-so animale con quattro zampe e due corna? He-mingway non lo amava forse per questo? [...] Il discor-so mutò. E si concluse con la decisione di venire a Sivi-glia. [...]

Lo trovammo alle sette, con una lussuosissima Ben-tley, tutto vestito di blu ma senza cravatta, ci demmo al-la scorribanda con lui e altri due toreri, «mi amigos».Osterie, e poi ancora osterie, e poi ancora osterie: e uncielo stellato, una deliziosa Siviglia. Don Antonio era al-legro, perfetto. [...] Capitava ogni tanto che il suo sorri-so tornasse un po’ meno innocente, il suo sguardo unpo’ meno puro, però mai, proprio mai, egli fece qual-cosa che potesse irritarmi. Se la notte si fosse conclusacon la coerenza dei tori, sembravan dire i suoi occhi, co-me di regola si conclude la compagnia un po’ prolun-gata di un toro maschio e di un toro femmina, tanto me-glio: lui non chiedeva un bel niente, non offendeva il Si-gnore. Invece, inaspettata, esplose la rissa.

Uscendo dall’albergo avevamo fatto una scommes-sa, io e lui: se mi fossi divertita, cosa di cui dubitavo, gliavrei pagato duemila pesetas. E alle due del mattino,mentre in una osteria di toreri assistevamo a un fla-menco, fu chiaro che non avrei potuto non dargli leduemila pesetas. I suonatori di flamenco che lui avevascelto erano tra i migliori di Spagna, le loro dita sfiora-vano le chitarre come le dita degli angeli, la loro voce ar-rivava alle viscere. Cantando sembravano vomitare l’a-nima e il cuore ed ogni strofa mi riportava alla Spagnache avevo imparato ad amare con le poesie di GarcíaLorca e i racconti di Hemingway. Ballavano inoltre co-me non ho mai visto ballare il flamenco, si dimentica-va guardandoli che erano brutti e vestiti da poveri; e mifacevan pensare, chissà perché, ai poveri che sulle bar-ricate di Barcellona o Bilbao erano morti gridando Vi-va la Libertad. Mi voltai verso Antonio per dirgli è stra-no, lo sai a chi mi fanno pensare? Ai poveri che sulle bar-ricate di Barcellona o Bilbao morivan gridando Viva laLibertad. Don Antonio stava frugando nella mia borsa,afferrando tutti i soldi che v’erano dentro: un bel po’ dipesetas, più delle duemila che aveva ormai vinto. E pri-ma ancora che potessi impedirlo gridò: «Mi son guada-gnato la sera e da questo momento fo tutto gratis. Te-nete, bevete. Alle americane di Boston fo pagare di più».Poi lanciò il mucchietto di fogli che si librarono alti co-me coriandoli, planarono lenti come aquiloni. Le chi-tarre caddero rumorosamente per terra, le pesetas spa-rirono dentro mani avide, uno schiaffo sonoro si ab-batté sulla guancia rasata del torero más grande deEspaña mentre gridavo: «Vaccaro, fascista!». Poi mi al-zai seguita da Marco e Mercedes, il volto olivastro di luiera diventato color della cera. Marco e Mercedes tenta-vano inutilmente di spiegarmi che aveva bevuto un po’troppo, avevamo tutti bevuto un po’ troppo.

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FACCIA A FACCIADall’alto in basso,tre interviste“d’epoca” di Oriana Fallaci:Alfred Hitchcock,Porfirio Rubirosa,Antonio OrdoñezA sinistra, un ritrattodella giornalista nel 1963

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 11GENNAIO 2009

Uno schiaffo al grande Ordoñez,torero dal sangue andaluso

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Il 17 gennaio del 1929 un marinaio orbo e sdentato,ma con due avambracci portentosi, apparve come personaggiominore nella striscia “The Thimble Theatre” di Elzie Crisler

Segar. In pochi mesi, grazie alle pressanti richieste dei lettori, Popeye assurseal ruolo di protagonista. Ecco la storia di un outsider del fumettoche scacciò i fantasmi della Grande Depressione

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

Per certi tratti quelladi Popeye, Braccio diFerro da noi, asso-miglia alla storia diCenerentola. Per-ché insegna in modo

esemplare come il successonon premi solo i personaggicostruiti e pianificati per ot-tenerlo. Si può arrivare allafama anche per caso, o me-glio, per selezione naturale,grazie a un fascino irresisti-bile. Dunque. È il 17 gennaiodel 1929. Nella striscia TheThimble Theatre (nata nel 1919)il personaggio Castor Oyl (cioè,sgrammaticamente, “olio di rici-no”, fratello di Olive) cerca un equi-paggio per un lungo viaggio in nave.Lo trova (tutto) in un solo marinaio dalnaso lunghissimo, sdentato e senza unocchio, mingherlino ma con due avam-bracci portentosi e tatuati con un’an-cora ciascuno, con la pipa quasi sem-

pre in bocca e un linguaggio da semia-nalfabeta. Nessuno avrebbe mai dise-gnato così un personaggio destinato adiventare una star. A Castor che glichiede se fosse un marinaio, lui rispon-de (nella magnifica traduzione di Lu-ciano Guidobaldi): «Che ti credi che eroun cowboy?».

Da quel giorno e fino al 25 giugno,Popeye accompagna Castor, Olive eHam Gravy (il primo fidanzato diOlive) in un’avventura sganghera-tamente poetica, scritta e disegna-ta dall’allora trentacinquenne El-zie Crisler Segar seguendo il corsodelle proprie invenzioni (sedicianni prima lo stile di Segar non era

affatto piaciuto a Chaplin, cheaveva fatto chiudere la striscia,da lui realizzata, su Charlot).In quest’avventura Popeye,dopo essersi rivelato scontro-so, coraggioso e fortissimo, siritrova sedici pallottole in

corpo. Sedici ferite invisibili(non c’è traccia di sangue) per le

quali il marinaio chiede di essere

lasciato morire sul ponte della nave.Quattro giorni dopo, come se nientefosse, partecipa alla striscia che festeg-gia il ritorno dei personaggi a casa.

Nelle strisce successive del ThimbleTheatre di Popeye non si ha più traccia.Segar probabilmente lo avrebbe fattoscomparire come tanti altri suoi perso-naggi, semplici comparse nel suo tea-trino disegnato. Ma ai lettori dei quoti-diani di Hearst quel personaggio eraentrato nel cuore. Le redazioni ricevet-tero migliaia di lettere per rivederlo.Forse proprio perché Braccio non ave-va nessuna presunzione («Io sono quelche sono e questo è tutto quel che sono»è il suo motto), forse perché dietro lasua scorza selvaggia nascondeva unasincera, selvaggia saggezza. Insomma,ai primi d’agosto riecco Castor sullebanchine del porto alla ricerca di Po-peye, da allora protagonista assolutodella striscia. Con lui Segar continua araccontare storie avventurose e bizzar-re in un’America fantastica e senza leg-gi, dominata dalle paure e dai fantasmidella crisi, che Popeye combatte con unatteggiamento rilassato e disincantato.E qui arriviamo alla seconda parte del-la storia.

Nel 1933 Max Fleischer, produttoredi cartoni animati, realizza un corto-metraggio per verificare la riuscita diPopeye sullo schermo. Lo fa senza lacollaborazione di Segar. Già in questoprimo film, ovviamente in bianco e ne-

LUCA RAFFAELLI

Ottant’anni di spinaci

IN COPERTINAA destra,Braccio di Ferrocon l’inseparabilepipa in boccain una stampadegli anni Trenta;a sinistra, Popeyecon gli spinacisulla copertinadi un albo a fumettiche celebra i suoicinquant’anni

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 11GENNAIO 2009

ro, c’è tutto quello che avrebbe dato alpersonaggio la grande popolarità cine-matografica: il motivetto «I’m Popeyethe sailor man», con le due note suona-te con la pipa, la simpatia e la forza diBraccio (che a un certo punto tira su lacamicia di marinaio e mostra un cor-petto da donna), la corte con Olivia e lalotta con Bluto a suon di spettacolaricazzotti, il gran finale con la scatola dispinaci (e, prima, la partecipazionestraordinaria di Betty Boop che si esibi-sce in un balletto con il marinaio, con iseni coperti da una collana di perle).

L’avventura lineare alla Mark Twaindi Segar diventa con Fleischer un effi-cace gioco di ripetizioni. Bluto (da noiBruto), che nei fumetti è solo un perso-naggio tra i tanti, nei cartoni viene elet-to avversario fisso di Popeye. E poi ci so-no gli spinaci, mai apparsi nei fumetti

di Segar come elemento fondamen-tale per la sua vittoria finale. Nel-

le strisce di Segar, Popeye di-chiara occasionalmente di

aver ottenuto la sua forzamicidiale osservando

una dieta vegetarianaa base di spinaci. E

sono in molti a so-stenere (e non èun azzardo) chel’autore abbiautilizzato la pa-rola spinach

per riferirsi alla marijuana, come si fa-ceva in certo slang dell’epoca.

Ma ritorniamo alla rivincita di Cene-rentola. Nel mondo del cartone anima-to americano la scuola dei Fleischer,con sede a New York, era di serie B ri-spetto a quella californiana. Tra Hol-lywood e Burbank c’erano gli studi del-la Warner e dell’Mgm, e soprattuttoWalt Disney, che non vuol dire soloMickey Mouse. Disney dall’inizio deglianni Trenta porta avanti i suoi studi sul-l’animazione realistica, fondamentaliper realizzare nel 1937 il primo lungo-metraggio animato, Biancaneve e i set-te nani. Roy Disney, fratello di Walt,spesso attende all’uscita dello studioFleischer gli animatori, per offrir lorosull’altra costa un impiego al doppio diquanto prendono a Broadway. Poi l’ot-timismo creativo del topo disneyanoimpazza in quegli anni di crisi e vannoa ruba tutti gli oggetti con le sue orec-chie sopra. Eppure, Popeye la Cene-rentola nel 1935 viene dichiarato il per-sonaggio più simpatico in un sondag-gio tra i bambini americani. Più di To-polino. E, poco tempo dopo, lo stessodicono anche i gestori dei cinema, esembra quasi un’eresia. Incredibile.

La popolarità e la fortuna di Popeyedurano ancora oggi, nonostante lamorte di Segar a soli quarantaquattroanni, nonostante una gestione del per-sonaggio assai meno attenta di quelladi Topolino, nonostante il fallimento diFleischer quando cercò di copiare lostile Disney, nonostante l’incapacitàdei tanti autori che ne hanno ripreso ifumetti (anche certi bravi italiani) diavvicinarsi all’originaria poesia di Se-gar. E anche nonostante quello che èforse il più brutto film di Robert Alt-man, realizzato nel 1980 cercando conRobin Williams di dare vita a un perso-naggio a metà tra fumetto e cartone.Ora, a ottant’anni dall’esordio del per-sonaggio e a settanta dalla morte delsuo autore (settantuno, per la precisio-ne), Popeye in Europa è un personag-gio libero dai diritti. A chiunque vogliaapprofittarne serva da monito quantodisse il suo autore: «Popeye per me èuna persona molto seria. Il divertimen-to di Popeye sta proprio nel vedere unapersona seria che fa qualcosa di buffo».

La vera poetica di Popeye, ciò che lorende unico e appassionante, è lastraordinaria bruttezza. Una bruttez-

za epica e quasi mitologica, portata con ve-ro e proprio orgoglio proletario in quell’an-giporto rude e contundente che è la vita.Fatta di corpi bitorzoluti, volti sformati, vo-ci ridicole, contese grottesche.

Nel mondo paffuto dei cartoons, dove glispigoli sono una rarità e l’egemonia di-sneyana ha poi definitivamente consacra-to la morbidezza come virtù suprema, Po-peye è un vero e proprio miracolo. Ai limitidell’inspiegabilità: se si leggono le primelunghe storie del creatore di Popeye, ElzieCrisler Segar, prima che il suo marinaio di-ventasse un cartone di enorme successo, sirimane sbalorditi dallo spirito decisamen-te “noir” di racconti di mare visionari e in-quietanti, con effetti comici molto diradatirispetto al futuro Popeye, star dell’anima-zione. E un gusto straordinario per la di-storsione, l’apparizione misteriosa, la sur-realtà: tanto da far riconsiderare al lettoremoderno, con qualche valido indizio inpiù, il vecchio pettegolezzo secondo il qua-le i famosi spinaci erano un’allusione di Se-gar alla cannabis.

Comunque sia, che il primo Popeye aves-se qualcosa di allucinogeno è allegramen-te confermato dallo stravagante rovescia-mento delle proporzioni tra bicipiti eavambracci: rachitici i primi, che sono in-vece il tradizionale segno anatomico dellaforza, enormi i secondi, con un effetto di in-congrua prestanza che sfugge perfino ai ca-noni usuali della caricatura, e allude piut-tosto all’arte di immaginare mostri. Mostrisono anche Bluto, il gigante scimunito checontende a Popeye la fidanzata Olivia. E na-turalmente la stessa Olivia, anzi Olivia piùdi ogni altro, una pupazza filiforme e gom-mosa, incarnazione forse insuperata del-l’archetipo della Racchia che sia Segar sia(soprattutto) il cartoonist Fleischer hannosottoposto a torture le più varie ed efferate,dall’affettamento all’attorcigliamento ec-cetera (Olivia fa di Popeye il cartoon più mi-sogino della storia, e rimanda a “come fan-no i marinai” secondo Dalla-De Gregori:restano veri uomini anche se si baciano tradi loro, perché di baciare Olivia non se neparla proprio).

Brutti a scopo esilarante, per divertiregrandi e bambini come tocca a tutti gli eroidi Cartoonia, i personaggi di questa sagahanno però, visibilmente, un tocco in più.Nel senso che non sono solo “buffi” (e dun-que non sono solo consolatori). La bruttez-za di Popeye, con quella pipa ficcata nellabocca sdentata e inghiottita dal mento e dalnaso a melanzana; della sua orrenda fidan-zata che pare ricavata da una gomena ab-bandonata in porto; del suo rivale Bluto,una specie di Polifemo vestito alla marina-retta; del suo invertebrato amico Poldo, giàdrogato di hamburger quando ancora labulimia non era argomento corrente: beh,questa somma di fisionomie alterate nonappartiene solamente alla tradizione deicartoon. Sfiora, per esempio, la straziantepoesia di Freaks, lo straordinario film cheTod Browning girava nel 1932, stessi anniche videro nascere Popeye. Allude alla mi-norità anche fisica dei poveri, alla fame, al-la durezza della Grande Depressione, dise-gna un’America decisamente disagiata,neanche prova ad azzardare il decoro pic-colo borghese degli eroi di Disney, quellecasette ordinate, quelle palizzate bianche equei prati da rasare.

Popeye e gli altri freaks della sua saga simuovono tra vecchie gru, cargo rugginosi,paesaggi portuali disadorni, tristissimi lu-na-park di periferia. La casa di Olivia è unastamberga di angiporto con le assi del plan-cito che si sollevano, rimanda a colpi d’oc-chio chapliniani. Popeye e Bluto si massa-crano allegramente usando a piene mani ibulloni, le travi, i ferri e i legni del lavoro difabbrica.

Chissà se Segar si è reso conto, quandoinventò Popeye, di avere aggiunto al gothadegli eroi mitologici di tutti i tempi un veroe proprio inedito: un marinaio deforme,ignorante e rissoso, ma così ignaro dellasua bruttezza e della sua miseria, e così fie-ro della sua vecchia pipa, da regolare ilmondo a sganassoni.

Eroi poveri e bruttidell’America in crisi

MICHELE SERRA

LE LOCANDINESopra, la locandina di Popeye,il film di Robert Altman (1980)dedicato a Braccio di Ferrocon Robin Williams e Shelley Duvall;più sopra, un’edizione francesedelle avventure del marinaio

BRACCIO DI FERROProfessione marinaio, scarsacultura ma grande coraggio

OLIVIAEterna fidanzata di Popeye,determinata e capricciosa

POLDOAmico di Popeye, il suo sololavoro è divorare hamburger

BRUTODa sempre rivale di Bracciononché spasimante di Olivia

PISELLINOOrfanello, non si separa maida Popeye che gli fa da papà

LA STREGA DEL MARETerrore di tutti i mari

e nemica giurata di Popeye

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Ipiù piccoli tra gli agrumi, i piùprofumati: impossibile contarequanti ne abbiamo sbucciatidurante le feste di fine anno,dopo il panettone e prima delcaffè, inconsapevoli benefat-

tori di stomaco e intestino, di cui sti-molano motilità e benessere. Del re-sto, in Cina, terra d’origine, li hannobattezzati così per la loro “saggezzabotanica”, mutuando la parola daquella dei funzionari governativi,saggi consiglieri dell’impero. Nonmeno caratterizzante il nome “cle-mentina”, attribuito a frate Cle-mente, che — missionario in Algeria— scoprì la delizia dell’incrocio tramandarino comune e arancio ama-ro, tutto succo e niente semi.

Difficile trovare un frutto che as-sommi tante qualità nel volume di unapolpettina: alto tasso zuccherino a calo-rie dimezzate (merito della quota ridottadi acido citrico), vitamina C da vendere, al-to contenuto di limonene, campione degliantidepressivi, e di aldeidi con funzione depu-rativa. Delizioso nella polpa, pregiato nella buc-cia: i più importanti “nasi” dell’industria profu-miera si contendono i raccolti delle zone privile-giate — Sud Italia, Provenza, Brasile — per im-preziosire le loro creazioni in boccetta. Dai pro-fumi ai liquori, il passo è breve e affascinante.Molto prima che le nostre tavole fossero invasedalle bottiglie di limoncello — da quello meravi-glioso, originale della costiera amalfitana e sor-rentina, a quello disastroso al sapore di detersivo

per piatti — il Mandarinetto Isolabella è stato unsimbolo dell’Italia alcolica. Tramontato il fasci-no da liquore chic anni Sessanta, le sue qualitàaromatiche gli hanno garantito sopravvivenza edignità fino ai giorni nostri, come ingrediente dacocktail.

Dovremmo portarli in palmo di mano, questipiccoli campioni della frutticoltura mediterra-nea. E invece in Italia la produzione è in calo co-stante (meno 14 per cento nelle ultime tre cam-pagne), soppiantata dalle produzioni spagnole enordafricane, che garantiscono prezzi più bassia fronte di coltivazioni super-intensive. È fatico-so accettare che una varietà di frutta così squisi-ta finisca schiacciata sotto i cingoli dei trattori olasciata marcire sugli alberi, tanto sono risibili icompensi e contorti i meccanismi di accesso al-la grande distribuzione. Così un gruppo semprepiù vasto di coltivatori affida a Internet le propriepiccole fortune, saltando a pie’ pari le interme-diazioni di grossisti e distributori: spesso, si trat-ta di agricoltori biologici, a cui non viene ricono-sciuto il plusvalore di una produzione sana.

Individuato il sito e verificato che si tratti pro-prio dei mandarini/clementine più golosi, unamanciata risicata di giorni separa la richiesta viamail dall’arrivo a domicilio di una cassetta (più omeno grande, secondo richiesta) a prezzi conte-nuti ma piena di colore, profumo e salubrità, daappoggiare sul terrazzino di casa, dove le tempe-rature invernali garantiscono una conservazio-ne perfetta, a patto di allargare i frutti senza so-vrapporli.

Per gli chef impegnati a esaltare il valore dellematerie prime, i mandarini rappresentano deiveri testimonial di eleganza gustativa, tanto da at-traversare il menù per intero, dall’antipasto aldolce, che si tratti di delicate tartare di pesce, ri-sotti profumati, insalate variegate o gelati irresi-stibili. Dove non arrivano succhi e spicchi, sonogli oli essenziali a fare la differenza, sia in versio-ne spray, sia nell’originale extravergine (di matri-ce marchigiana), realizzato spremendo insiemeolive e clementine, con cui battezzare ricci di ma-re o tortini al cioccolato. A fine pasto, per i nostal-gici, d’obbligo gettare le scorze nel fuoco del ca-mino e aprire un libro di fiabe.

i saporiDolce inverno

Sono buoni, sani, digestiviSono base pregiata di essenze,liquori, piatti raffinatiDovremmo tenerceli carie invece la produzioneitaliana è in calo costanteEcco come rimediare...

LICIA GRANELLO

Su InternetLa stagione dei mandariniha già raggiunto il punto

più alto. Sul web abbondano i siti di coltivatori

che consegnano a domicilio:eccellenti freschezza e qualità, economiche le spese di spedizione

Inferiore il livello della produzione spagnola

e algerina, che arriveràsui nostri mercati a febbraio

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

MandariniSottola bucciatutto

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itinerariNadia e SilvioCavallaronon sonoagricoltoridi mestiereMa durante

la stagione invernalespediscono arancee clementine coltivatecon metodi naturalinei due ettari di campagnatra la piana di Cataniae l’Etna. Informazionisu www.arancedagustare.it

La clementinatarantina Igpè il fiore all’occhiellodella produzionedi agrumi pugliesi:due milioni di quintaliTrulli e masserie,reinventati a deliziosirelais immersi

negli agrumeti, ospitano corsi di cucina,con arance e mandarini protagonisti invernali

DOVE DORMIRETENUTA MONACELLEContrada AraticoTel. 080-9309942Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMASSERIA TORRE MAIZZA (con camere)Contrada CoccaroTel. 080-4827838Senza chiusura, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO DON SANTE (con camere)Contrada Martucci Tel. 080-4427103

Fasano (Br)Il terzo comunedella Calabriavanta ancora una grandeimpronta agricolaIntorno,le tre pianure – Sibari, Sant’Eufemia e Gioia Tauro –

sono il fertile terreno di coltura dei tre quartidelle clementine italiane, protette dall’Igp

DOVE DORMIREVILLA DONNAMAZZAVia Riccardo LombardiTel. 0968-462555Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARENOVECENTOLargo Sant’Antonio 5 Tel. 0968-448625Chiuso sabato a pranzo e domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA FRAGIACOMO Contrada Canneto 18 Tel. 335-8217619

Lamezia Terme (Cz)

Storia degli aristofruttiprestati alla politica

MARINO NIOLA

Mandarini si nasce. Clementine si diventa. Il più profumato degli agrumi è quel che si dice unvero signore della tavola. E un fiore all’occhiello del centrotavola. Annunciato immancabil-mente da una nuvola di profumo, si lascia dietro una scia di inconfondibile fragranza. Un

aristofrutto con quattro quarti di nobiltà. Niente a che spartire con i suoi figli cadetti come manda-ranci e clementine che del nobile genoma paterno hanno appena la metà.

L’antico lignaggio del citrus reticulata, tale è il suo nome scientifico, dà al mandarino uno statutoda grande antenato. Alcuni botanici lo considerano più antico di arance e limoni. Quel che è certo èche accanto alle ben note proprietà organolettiche possiede altrettante proprietà simboliche. Alpunto da diventare il nome di una lingua e l’emblema di una élite. Il termine mandarino deriva, in-fatti, dal colore dell’abito arancione dorato dei sapientissimi dignitari imperiali dell’antica Cina cheinterpretavano i voleri del cielo e li trasmettevano all’imperatore. I famosi mandarini erano lettera-ti e poeti che l’educazione raffinata rendeva depositari di una saggezza superiore a ogni sapere tec-nico. Esattamente il contrario dei nostri specialisti che spesso sanno tutto e non capiscono nulla.

Furono i portoghesi a coniare la parola mandarim volgarizzando il sanscrito mantrim che signi-fica ministro e a sua volta deriva addirittura da mantra. Ma in realtà il termine originale cinese eraGuan e designava il dignitario addetto alla riscossione dei mandarini di grossa taglia offerti comeprezioso tributo all’imperatore. Ma oltre a una casta di altissimi funzionari, una burocrazia celeste,il termine passò a indicare anche la lingua, altrettanto elitaria, del Nord della Cina. Come se ci fosseinsomma una sorta di affinità elettiva tra la nobiltà della carica e quella del frutto, tra l’eccellenza delsapere e quella del sapore. Un’analogia che anche da noi è diventata senso comune. Al punto chescrittori come Simone de Beauvoir e Noam Chomsky si riferivano ai nostri intellettuali come ai nuo-vi mandarini, abilissimi nel trasformare la conoscenza in privilegio e potere. E i prestigiosi burocra-ti dell’Ena, la scuola di amministrazione voluta da De Gaulle, furono definiti dal leader socialista fran-cese Jean-Pierre Chevénement i mandarini della società borghese.

Forse la forza evocativa del citrus reticulataviene prima di tutto dal suo profumo, insuperabile nelmettere in moto la macchina del ricordo. Il suo aroma dolcemente imperioso ci fa socchiudere gliocchi consegnandoci proustianamente all’onda nostalgica di un passato prossimo che parla anco-ra ai nostri sensi e al nostro cuore. Se il punch al mandarinofu la panacea consolatoria dell’Italia po-st bellica, non da meno fu il mandarinetto, voluttà orientale distillata dalle mani di fata delle nostrenonne. E l’odore delle bucce gettate nel camino resta impresso a caratteri indelebili nel nostro im-maginario sentimentale. Nella mitologia festosa della nostra infanzia perduta, nel sogno incantatodi una notte di mezzo inverno. Quando i bambini italiani offrivano mandarini a sua Maestà la Befa-na, proprio come i cinesi all’imperatore.

Dalle fantasie dei piccoli a quelle dei grandi, dalle tradizioni alle rivoluzioni, il frutto dell’Orientenon ha mai smesso di sedurre l’immaginario dell’Occidente. Colorando di giallo-arancione le utopiegiovanili degli anni Sessanta. Dalla folgorazione psichedelica dei Beatles di Sergent Peppers, con laluccicante Lucy in the sky with diamonds immersa in foreste di mandarini e cieli di marmellata, ai ber-linesi Tangerine Dream, profeti del rock cosmico che mescolarono la suggestione color mandarinodei ragazzi di Liverpool con i suoni avveniristici dei Pink Floyd. Per non dire del favoloso quanto mi-sterioso protagonista del Mandarino meravigliosodi Bela Bartok. Un autentico Mr mandarin man.

ComuneZuccherino, succoso, aromatico,

dissetante, ha forma globosa e un poco schiacciata ai poli,

buccia ricca di oli essenziali, polpadelicata. La varietà Avana, coltivata

sulla piana di Paternò (Catania),raggiunge il suo massimo

tra dicembre e febbraio

TardivoComincia a maturare nei prossimi

giorni il frutto prodotto da una mutazione gemmaria

del mandarino comune Rispetto a quello originario, ha calibro

inferiore e colore più pallido sia sulla buccia, sia nella polpa

Il gusto è dolce, pochi i semi

Clementina Di origini nordafricane – da cui

il nome anglosassone tangerine – è frutto di un incrocio

tra mandarino e arancia amara (mentre il mandarancio deriva

da mandarino e arancia comune)Vanta buccia colorata e sottile,

polpa succosa, niente semi

CineseArriva dalla Cina meridionale

il piccolo mandarino dal nomescientifico suadente (Fortunella

margarita). Piccolo, oblungo,profumato, il kumquat ha scorza dolce,

che si gusta insieme alla polpaacidula e compatta

Perfetto per canditure e sottospiriti

Soufflé di clementine VITTORIO FUSARI,“LA DISPENSA” DI TORBIATO (BRESCIA) Nuvola di profumo agrumato per il dessert dello chef di Iseo: biancod’uovo montato a neve, arricchito con marmellata di clementine bioDopo la cottura a bagnomaria, si servecon il suo sorbetto e polvere di canditi

Gelo CICCIO SULTANO,“IL DUOMO” DI RAGUSAIl pre-dessert del ristorante sicilianoè antico e semplicissimo: succodi mandarino frullato con la bucciagrattugiata (senza bianco), filtrato,zuccherato e bollito per far addensarel’amido. Dodici ore di riposo in frigo

Come una cassataNICOLA PORTINARI,“LA PECA” DI LONIGO (VICENZA)Mandarino in tre versioni: candito con zucchero e ricotta per la farcitura,olio essenziale per imbibire il biscotto-base, succo per la ricetta della cialdache accoglie il gelato di pistacchi di Bronte, con capperi disidratati

Gamberi e clementineANTHONY GENOVESE,“IL PAGLIACCIO” DI ROMAUnione inconsueta tra tartare di gamberi, profumata con lime, menta,coriandolo e il succo di clementinefrullato e filtrato. Anice e pepe per aromatizzare. A fianco, quenelle

di mascarpone pepato e zuccherato

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 11GENNAIO 2009

Alle porte della cittàsiciliana, orfanadella Conca d’Oro –consumataper oltre l’ottanta per centodall’urbanizzazioneselvaggia – , resistonole borgate di Ciaculli

e Croceverde Giardina, dove si coltivanoi mandarini tardivi, protetti dal presidio Slow Food

DOVE DORMIREALLA KALACorso Vittorio Emanuele 71 Tel. 091-7434763Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEI VESPRI Piazza Croce dei Vespri 6 Tel. 091-6171631Chiuso domenica, menù da 40 euro

DOVE COMPRARECONSORZIO IL TARDIVO DI CIACULLICorso dei Mille 1788 Tel. 091-6301769

Palermo

Repubblica Nazionale

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le tendenzeNuova leggerezza

Questi tempi di crisi, di tagli e ribassi si rivelanoun’opportunità per l’industria dei “complementid’arredo”. Gli oggetti più umili si liberanodelle ambizioni sbagliate di griffe e progettisti-divie scelgono di reinventarsi con semplicità e ironiaSposando volentieri la virtù del giusto prezzo

Un umile cavatappi,un portariviste,un set di coltelli,

tovaglie e stoviglie:la ricerca del piacerebada al quotidiano

AURELIO MAGISTÀ

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 11GENNAIO 2009

Downsizing: ridimensio-niamoci. La parola d’ordi-ne di questi giorni raccon-ta un mondo che taglia, ri-duce, ribassa. Eppure an-che un mondo più piccolo

e più leggero per colpa della crisi ha le suequalità. Occorre solo guardare meglio. Selo sguardo del design si china verso il bas-so, infatti, finisce sui piccoli oggetti cheaffollano la vita quotidiana. Sono i muticompagni su cui contiamo ogni giorno,che in genere non riescono a sollevarsi aldi sopra della nostra soglia d’attenzione.È quindi il design a metterceli sotto gli oc-chi e a rivelarceli. Tra le prove più clamo-rose dell’attenzione selettiva per i picco-li oggetti domestici c’è questa: nei giorniprima di Natale tra i pochi negozi affolla-ti si registravano proprio quelli di piccoliaccessori della casa. Abbiamo visto dipersona un commesso che regolava l’af-flusso dei clienti davanti a un negozio Vi-

ceversa, consentendo nuovi ingressi so-lo quando qualcuno usciva.

Tra l’altro giusto in questi giorni,alla fiera di Milano, si prepara il Ma-cef, il salone internazionale della ca-sa (www. macef. it) che esibisce lenovità dei piccoli oggetti — i cosid-detti complementi d’arredo — e cheaprirà venerdì 16. Diversi gli approfondi-menti, tra i quali si sottolinea il settore ta-vola e cucina, dalle stoviglie alle tovaglie.Anche qui, tuttavia, il pragmatismo delmangiare per nutrirsi e quindi sopravvi-vere, si stempera nell’iniziativaArt&Flower, ovvero l’arte di ingentilire lacasa con i fiori, e quindi, in cucina, men-tre la bocca si nutre, l’occhio si addolci-sce. La ricerca del piacere estetico, la vo-glia di godere della bellezza, si concentrasui dettagli quotidiani: un umile cava-tappi, un portariviste, un set di coltelli,imparano grazie al design a regalarci unsorriso e perfino a reinterpretare il biso-gno di stringere la cinghia con ironia eleggerezza. Una leggerezza che si ritrova

anche nella virtù del giusto prezzo: lagente è ancora disposta a spendere per laqualità, ma dice basta alla tassa pagataper le ambizioni sbagliate di una griffe odi un designer promosso a divo.

In fondo, è proprio nei piccoli oggettiche appare più clamorosa la rivoluzioneimposta dal design al prodotto indu-striale e seriale, ovvero al modello pro-duttivo tipico del capitalismo fin dallasua nascita. Le buone cose di pessimogusto che Guido Gozzano descrivevanella poesia L’amica di nonna Speranza,ritratto di un salotto-tempio del bric-à-brac inutile e kitsch («Loreto impagliatoe il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori incornice... il caminetto un po’ tetro, le sca-tole senza confetti, i frutti di marmo pro-tetti dalle campane di vetro, un qualcheraro balocco, gli scrigni fatti di valve»,scriveva guardando il dagherrotipo di unsalotto del 1850), grazie al design diven-tano degli oggetti sempre più creativi e“giocati”, senza per questo perdere la lo-ro utilità.

Giocano, per esempio, con le metafo-re: il ceppo portacoltelli è un cuore trafit-to dalle lame simbolo di pene d’amore...Ma ancor più, gli oggetti giocano con l’ef-fetto sorpresa, simulano quello che nonsono: un elefante che invece è tavolinoper bambini ma anche sgabello (tra l’al-tro si tratta della riedizione di un pezzostorico: Plywood Elephant, inventatonel 1945 da Charles e Ray Eames per Vi-tra), la silhouette di uno struzzo che si faconsole, il secchio per spegnere gli in-cendi che con una capriola creativa sitrasforma in barbecue portatile, mentreil cavatappi-Arlecchino fa parte dei tan-ti oggetti antropomorfi prodotti da Ales-si. Tutto fatto con più sensibilità perl’ambiente: si punta sul legno, sul ferro,perfino sul cartone pressato che dimo-stra inusitata robustezza. Se proprio si ri-corre alla plastica, è di nuovo per spiritoludico e parsimonia: un foglio argentato,in ingannevole forma di abat-jour, è in-vece uno specchio da incollare dove sivuole. E costa meno di undici euro.

IL MONDO IN UNA STANZALa cartografia del mappamondoFull Circle Vision di Atmospherecontiene 1100 dati geograficitra città, oceani, mari e montagneL’asse su cui ruota riproducel’inclinazione del pianeta. 160 euro

(NON) SCHERZARE CON IL FUOCOHa tutto l’aspetto di un secchio

per spegnere incendi il barbecueportatile Fire Bucket, alimentato

a carbonella e facile da trasportareViene distribuito in Italia

da NomadeDesign e costa 48 euro

L’ABC DEL LETTOREIl tempo da dedicare alla letturanon è mai abbastanzaPer conservare libri e giornalic’è il capiente portariviste Abcfirmato Arti&Mestieri. In ferroverniciato, costa 65 euro

AMORE PER LA CUCINAPer veri amanti della buona tavola,una divertente proposta di ArtistaVisitatore: un ceppo portacoltelli

a forma di cuore trafittocon cinque lame di diverse

dimensioni. Prezzo: 80 euro

FAUNA DA SALOTTOLa silhouette, inconfondibile,è quella di uno struzzo visto dal colloin giù. In realtà, Déco Autruche Divaè una consolle realizzata dal marchiofrancese Ibride in cartone pressatoEccentrica ma resistente, 285 euro

SPECCHIO A SORPRESASi maschera da abat-jour

lo specchio in plastica di MaiugualiUn’idea divertente, facile

da posizionare, grazie al biadesivo,e anche economica:

costa solo 10,80 euro

PER L’ARTEIl costume da Arlecchinoarricchisce il guardarobadel cavatappi AlessandroM., prodotto da anniin diverse decorazioniParte dei proventidella vendita (54 euro)sono destinati da Alessial Comune di Veneziaper restauri d’arte

Piccole coseper farcisorridere

ELEFANTI IN GIOCORiporta la mente ai giocattoli d’altri tempi,la riedizione del Plywood Elephant, disegnatoda Charles e Ray Eames nel 1945Da usare come tavolino o nella stanzadei bambini,di legno in cinque coloriVitra, 179 euro

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11GENNAIO 2009

l’incontro

‘‘

‘‘Visionari

Non è uno scherzo. Seduto nel suocamerino dell’avveniristica Opera diValencia, dove ha appena montato laregia di un nuovo Parsifaldiretto da Lo-rin Maazel, Herzog parla con estremaserietà. D’altronde lo fa sempre. Maiche sorrida, o suggerisca squarci di hu-mour, o si conceda un attimo di sensoleggero della vita. Niente incrina il mu-ro della sua furia fredda, della sua fana-tica (e molto germanica) concentrazio-ne sui propri obiettivi, della sua bramainsaziabile di eccessi. Anche per que-sto, dice, ama la dimensione della liri-ca, un mondo che degli eccessi ha fattola sua linfa: «La prima opera che vidi,molti anni fa, fu Ernani alla Scala, pen-savo a un rito e invece fu un gran ma-cello, un cantante aveva problemi divoce e scoppiò la gazzarra, con spetta-tori scatenati che gridavano insulti ver-so il palcoscenico. Mi affascinò quellapazzia ingiustificata, quella corrida diartisti mandati allo sbaraglio come gla-diatori, pronti a farsi divorare da unpubblico sadico, eccitabile, assetato dimassacri».

Herzog prese ad allestire opere liri-che relativamente tardi, a metà anniOttanta, quand’era già famoso comecineasta, e una delle sue prime produ-zioni operistiche fu un Lohengrin neltempio wagneriano di Bayreuth:«Wolfgang Wagner, direttore del festi-val, mi chiamò per propormi di mon-tarla. Risposi: non ne so niente, ho soloil vago ricordo che nella trama ci sia dimezzo un cigno, dunque lasciamo per-dere, ho altro da fare. Lui non potevacredere che rifiutassi di lavorare nel re-gno sacro della musica tedesca. Cosìvolle mandarmi la sua registrazionepreferita dell’opera e mi avvertì: se do-po aver sentito questo disco sei dellastessa opinione non insisto più. Eascoltando il preludio il mio cuore sifermò».

Tuttora la bella musica lo inebria e loesalta, anche quella di Parsifal, mes-saggero di salvezza e puro folle destina-to a redimere l’umanità, immesso daHerzog in uno spettacolo netto e son-tuoso siglato da un finale genere StarWars, con lancio di astronave nellospazio quando l’eroe scopre il SantoGraal. Traduce Wagner in fantascienzaperché la sua musica, sostiene, «ha unastraordinaria potenza profetica e futu-ristica: va oltre il Ventesimo secolo, vo-la persino al di là del tempo».

Anche Herzog, che è nato a Monacodi Baviera nel 1942, e oggi vive a Los An-geles con la sua ultima, graziosa moglieLena Pisetski («è americana ma origi-naria della Siberia»), insegue fin da gio-vane e senza mai fermarsi il proprioSanto Graal. Non a caso, all’epoca deisuoi film più apocalittici e imponenti,qualcuno lo definì «il Parsifal bavare-se». Figlio di due biologi e cresciuto inpiena campagna, da enfant sauvageimmerso nella natura e ignaro di ogni

pietra, scritto con Messner, dove gliscalatori puntano alla conquista delCerro Torre, in Patagonia. Opere leg-gendarie ed estranee ad etichette, chehanno finito per sottrarlo al filone del“Nuovo cinema tedesco”, pur tanto va-go nell’eterogeneità dei suoi frutti, chevanno dalla passionalità iconoclasta diFassbinder alle parabole cerebrali diWim Wenders. Herzog è un autore aparte, misterioso ed elusivo, avido diutopie, sospinto dalla ricerca maniaca-le di quella «verità estatica» (lui la chia-ma così) che non la cronaca e la realtàma solo la reinvenzione e stilizzazionedel cinema e della letteratura possonorestituirci.

Rispetto ai granitici kolossal di untempo, talmente intrepidi ed este-nuanti da far correre il pericolo diconfondere ogni film con la storia dellasua realizzazione, oggi il lavoro di Her-zog si è fatto molto più agile e fram-mentato. Negli ultimi anni, oltre alleregie di lirica, crea soprattutto sensa-zionali documentari, dallo sconvol-gente Apocalisse nel deserto, viaggio nelKuwait martoriato dalla Guerra delGolfo, a Grizzly Man, dedicato a Ti-mothy Treadwell, ritiratosi nel ‘90 inAlaska per osservare la vita degli orsibruni americani da cui finì sbranato; daL’ignoto spazio profondo, sui tesori psi-chedelici dei fondali marini, alle rivela-zioni abbaglianti di Encounters at theEnd of the World, girato al Polo Sud, «làdove il tempo non esiste più, e cinquemesi sono come un giorno solo. Il soleti gira attorno, guardi in un punto e so-no le dieci del mattino, ti volti un pocoe sono le sei di sera, ti muovi ancora esono le ventitré. I fusi orari convergo-no, scegli quello che vuoi, e ciascunadelle direzioni verso cui guardi è sem-pre nord. Non c’è alcun tempo defini-bile, spazio e tempo si scambiano e sifondono. Stesso clima del Parsifal: nel-la confraternita del Graal i cavalieri siuniscono nei loro rituali, e non esistepiù nulla del mondo esterno e delle sueconvenzioni spazio-temporali».

Attualmente impegnato nella post-produzione del film The Bad Lieute-nant, girato a New Orleans (è un re-make de Il cattivo tenentedi Abel Ferra-ra, con Nicolas Cage nella parte che fudi Harvey Keitel), Herzog detesta che sidistinguano i suoi documentari dallefiction: «Sono tutti film, e probabil-mente il migliore tra i miei documenta-ri è stato Fitzcarraldo». D’altra parteogni autentico paesaggio «non è solo larappresentazione di un deserto o diuna foresta. Mostra uno stato dellamente, orizzonti interiori, ed è l’animoumano il protagonista dei paesaggi delmio cinema».

Col suo spirito romantico (dunqueprivo d’ironia), vive i suoi panorami pa-radisiaci ed infernali come motori diquel magico triangolo che lega la natu-ra, lo sguardo di chi la osserva e la per-

strumento tecnologico («solo da adul-to conobbi radio e televisione, non vidiun’automobile fino all’età di dodici an-ni e feci la mia prima telefonata a di-ciassette»), dagli anni Settanta ha con-cepito un cinema grandioso e impe-gnativo nell’aspirazione a una Naturamaiuscola, tanto aggressiva quantospettacolare coi suoi ghiacciai inacces-sibili, le sue aggrovigliate foreste amaz-zoniche, i suoi oceani da svelare comemitiche galassie.

Luoghi angoscianti per metafisicabellezza, fotografati ed esplorati in filmdi culto come Aguirre, furore di Dio, na-to da una lavorazione in Perù talmentepiena di avversità da indurlo a puntareuna pistola su Klaus Kinski, che volevaabbandonare le riprese; o Fitzcarraldo,il cui protagonista — ancora Kinski, di-venuto suo attore feticcio — fa traspor-tare agli indios una nave oltre unamontagna, nel mezzo della giunglabrasiliana; o Cobra Verde, con un sem-pre più allucinato Kinski nel ruolo di unferoce mercante di schiavi; o Grido di

cezione di una divinità diffusa; e sa be-ne che da esso colse grande nutrimen-to il romanticismo degli artisti suoiconnazionali ed antenati. A questoproposito conferma di essere semprestato sedotto dall’invisibile, «da quellacerta luce essenziale che vibra dietroalle immagini di un film, un palpitoineffabile che a volte illumina anche laletteratura». In questa crede moltissi-mo, «perché i film non hanno vita lun-ga, si deteriorano troppo, mentre Virgi-lio, Hölderlin e Rimbaud, quando tuttofinirà, saranno l’ultima cosa a scompa-rire».

Anch’egli è autore di libri, tra cui pre-dilige La conquista dell’inutile (Mon-dadori, 2007), ed è giunto alla conclu-sione che «scrivere è quello che so faremeglio, il che mi piace, vista la resisten-za delle opere scritte». Dice che ha ap-pena rivisto un suo vecchio film, LaSoufrière, «girato in un’isola caraibicache stava per essere distrutta da un’e-ruzione: lo realizzai sulla cima del vul-cano, e l’intera pellicola ha perso i suoicolori tranne il rosa. Lo feci solotrent’anni fa ed è questo il risultato cherimane: un film rosa. C’è più stabilitànella letteratura che nel cinema cosìcome le spugne sono più resistenti del-l’uomo. Di certo ci sopravviveranno, alpari di scarafaggi e rettili, tanto più an-tichi e robusti di noi».

Sulle sorti del genere umano è ovvia-mente pessimista, nel senso che consi-dera evidente che «la nostra esistenzasu questo pianeta è insostenibile. Sia-mo creature instabili, e notoriamentela terra è soggetta a cicli di estinzioni.Non so se ce ne andremo tra due secolio duecentomila anni, e aggiungo chenon m’importa né mi rende nervoso. Almomento mi preoccupa di più il desti-no di certi meravigliosi fossili comel’ammonite».

I film non hannovita lunga,si deteriorano troppoMentre Virgilio,Hölderlin e Rimbaud,quando tutto finirà,saranno l’ultima cosaa scomparire

Radicale, ossessivo, segnatoda una brama insaziabile di eccessi,il regista di “Aguirre”e “Fitzcarraldo” si dedica adessoalla lirica. “La prima volta

che andai all’opera”,racconta, “fu alla ScalaIl cantante fu insultatodal pubblico,mi affascinò quellapazzia”. Misterioso,elusivo, avido di utopie,a 67 anni coltiva

un progetto segreto: mettere in scenaWagner a Sciacca,“in un teatrofantasma che non è mai stato aperto”

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LEONETTA BENTIVOGLIO

Werner Herzog

VALENCIA

Grande visionario, radica-le e ossessivo, voglioso diforzare i limiti del possi-bile, calamitato dai disa-

stri per vocazione congenita. Il registatedesco Werner Herzog è così: attrattoirresistibilmente dalle catastrofi. Perquesto ha progettato di mettere in sce-na le opere di Richard Wagner in quel-l’obbrobrio senza storia né identità cheè il teatro di Sciacca in Sicilia, «edifica-to qualche anno fa probabilmente coni soldi della mafia», racconta. «È un tea-tro fantasma che non è mai stato aper-to: nessuno lo gestisce, nessuno ci la-vora, nessuno lo ha inaugurato; non hapassato né presente né futuro. Sorgecome un gigante di cemento ricopertoda erbacce e circondato da una retemetallica come un lager. Perfetto per ilwagneriano Anello del Nibelungo, inparticolare per il capitolo conclusivodella saga, Il crepuscolo degli dei, dovele fiamme divorano il Walhalla decre-tando la fine di ogni olimpo. Ho sogna-to di realizzare proprio a Sciacca lamessinscena del ciclo, e se il progettofosse andato in porto avrei fatto saltarein aria l’edificio prima dell’ultimo attodel “Crepuscolo”, dopo aver sistematopubblico, orchestra e cantanti a una di-stanza di sicurezza. Una volta scesa lacortina di polvere, gli interpreti avreb-bero rappresentato il finale sopra le ro-vine. Avevo già contattato un team diesperti di demolizioni che sarebberoarrivati apposta dal New Jersey. Ma ilcemento con cui è fatto il teatro è cosìsolido, pesante e abbondante che civorrebbe una quantità mostruosa di di-namite per buttarlo giù, e si distrugge-rebbe mezza città».

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