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Date post: 26-Mar-2016
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bianco - estasi e paura
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18 Dicembre 2009 N ella sua radice indoeuropea il termine bianco si associa a vivido, pallido e vuoto. Leukós , nell’an- tica Grecia, è utilizzato in riferimento alla neve, all’argento, alla polvere, ai capelli canuti, alla pelle chiara, alla luce e al sole. Per Platone è il colore che più si addi- ce agli dei, secondo Euripide “indossando vesti bianche fuggo la generazione dei mortali”, per Aristotele leukós è l’aria pura. La connotazione divina o ultraterrena del bian- co ricorre anche presso le popolazioni africane: il bianco rappresenta il cielo da cui provengono gli esseri umani e in cui dimorano le divinità. Il bianco è il colore degli antenati e degli spiriti: per tale motivo gli europei vengono accolti con timore ed ostilità presso le popolazioni afri- cane e sudamericane. Del bianco ottenuto dal caolino si dipingono il corpo gli iniziati africani, esseri umani simili agli dei; con piume bianche si adornano i guerrieri atze- chi pronti alla morte e - di conseguenza - al passaggio al mondo degli dei. L’unione al divino viene evocata nelle tribù africane dal colore bianco così come nelle culture europee esso simboleggia ogni percorso iniziatico: candi- de sono le vesti dei comunicandi e delle spose, candidus è il colore del candidato, di colui che si accinge a cambiare il proprio stato. Nell’antichità classica nasce anche la connessione del bianco all’idea della bellezza femminile: Era, Afrodite, Elena, Andromaca, Nausica hanno le braccia bianche, Medea, Ifigenia, Fedra hanno il collo bianco. Candide sono le carnagioni e le vesti delle donne descritte nei so- netti medioevali e nelle poesie dell’800; bianchi sono i corpi nudi delle Veneri distese ritratte da Giorgione, Ti- ziano, Velázquez, di Maya immortalata da Goya, della Grande odalisca dipinta da Ingres, di Olympia raffigurata da Manet e dell’evanescente figura femminile di Sympho- ny in White di James Whistler. “Per un istante la donna è fantasma, angelo, dea della luna, salma. Sposa. Luttuosa, vergine in uno. Ella è pallida come i suoi vestiti” (Harvey). Il bianco connota l’aspetto seduttivo della creatura a cui l’uomo - desideroso della conquista - anela. Per lo stesso motivo bianca è la balena descritta da Melville, poiché “questa qualità fa sì che il pensiero del bianco, quand’esso sia separato da più benigne associazioni e accoppiato con BIANCO. Estasi e paura DANIELA BAILO Il bianco agisce sulla nostra psiche come un grande silenzio che per noi è assoluto. Vassilij Kandinskij Progetti d'autore Progetti d'autore
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Nella sua radice indoeuropea il termine bianco si associa a vivido, pallido e vuoto. Leukós, nell’an-tica Grecia, è utilizzato in riferimento alla neve,

all’argento, alla polvere, ai capelli canuti, alla pelle chiara, alla luce e al sole. Per Platone è il colore che più si addi-ce agli dei, secondo Euripide “indossando vesti bianche fuggo la generazione dei mortali”, per Aristotele leukós è l’aria pura. La connotazione divina o ultraterrena del bian-co ricorre anche presso le popolazioni africane: il bianco rappresenta il cielo da cui provengono gli esseri umani e in cui dimorano le divinità. Il bianco è il colore degli antenati e degli spiriti: per tale motivo gli europei vengono accolti con timore ed ostilità presso le popolazioni afri-cane e sudamericane. Del bianco ottenuto dal caolino si dipingono il corpo gli iniziati africani, esseri umani simili agli dei; con piume bianche si adornano i guerrieri atze-chi pronti alla morte e - di conseguenza - al passaggio al mondo degli dei. L’unione al divino viene evocata nelle tribù africane dal colore bianco così come nelle culture europee esso simboleggia ogni percorso iniziatico: candi-de sono le vesti dei comunicandi e delle spose, candidus è il colore del candidato, di colui che si accinge a cambiare il proprio stato.Nell’antichità classica nasce anche la connessione del bianco all’idea della bellezza femminile: Era, Afrodite, Elena, Andromaca, Nausica hanno le braccia bianche, Medea, Ifigenia, Fedra hanno il collo bianco. Candide sono le carnagioni e le vesti delle donne descritte nei so-netti medioevali e nelle poesie dell’800; bianchi sono i corpi nudi delle Veneri distese ritratte da Giorgione, Ti-ziano, Velázquez, di Maya immortalata da Goya, della Grande odalisca dipinta da Ingres, di Olympia raffigurata da Manet e dell’evanescente figura femminile di Sympho-ny in White di James Whistler. “Per un istante la donna è fantasma, angelo, dea della luna, salma. Sposa. Luttuosa, vergine in uno. Ella è pallida come i suoi vestiti” (Harvey).Il bianco connota l’aspetto seduttivo della creatura a cui l’uomo - desideroso della conquista - anela. Per lo stesso motivo bianca è la balena descritta da Melville, poiché “questa qualità fa sì che il pensiero del bianco, quand’esso sia separato da più benigne associazioni e accoppiato con

Bianco. Estasi e pauraDANIELA BAILO

Il bianco agisce sulla nostra psiche come un grande silenzio che per noi è assoluto.Vassilij Kandinskij

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un qualunque oggetto in se stesso terribile accresca questo terrore fino all’estremo limite”; come se tale colore covasse in sé “qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue” e ancora “è forse ch’essa (la bianchezza) adombra con la sua indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quan-do contempliamo le profondità bianche della Via Lattea? Oppure avviene che nella sua essenza non è tanto un colore quanto l’essenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire?”. Bianche come la neve sono la fronte rugosa e la gobba piramidale di Moby Dick, che la distinguono dagli altri capodogli e evocano al Capitano Achab, “un seno materno, un ritorno ancestrale nelle acque, un percorso regressivo che lo minaccia incessantemente di morte” , in tal senso esso è “oggetto desideroso e minacciante”. Bian-ca, desiderosa e minacciante è anche la Montagna Incantata descritta da Thomas Mann, che con le sue vette innevate, un “attentato allo spirito e al sentimento”, risveglia nel protagonista “sentimenti di elevazione e santità” in un paesaggio “chiuso in una gelida purezza” la cui naturale impurità è ricoperta, “irrigidita nel sogno di una fantastica fantasia di morte”.Ma come può il bianco assumere nel contempo connotazioni negative (come colore associato al mondo dei fantasmi e degli spettri) e connotazioni positive (come colore simbolo di purezza e ver-ginità)? Risponde Alberto Castoldi che sottolinea come il bianco della purezza e della verginità non abbia necessariamente valore positivo, ma indichi piuttosto una condizione neutra, in cui nulla è ancora avvenuto, il non detto, il non espresso, la potenzialità del discorso attoriale prima che essa diventi azione. Il bianco - della tela e del foglio - è luogo della creatività, del divenire, della possibi-lità. La pagina bianca è già potenzialità di tutte le possibili scritture, esso ha una valenza iniziatica in quanto emblema di un’assenza che virtualmente contiene ogni possibile nascita, ogni attualizza-zione.

Bianco tra cromofilia e cromofobiaLa storia dell’arte insegna come il colore sia stato spesso oggetto di pregiudizi o addirittura – come afferma David Batchelor – “sistematicamente tenuto ai margini, vilipeso, sminuito e degradato”, nella paura di essere “contaminati e corrotti da qualcosa di sconosciuto o che appare inconoscibile”. Tale atteggiamento prende il nome di cromofobia e si manifesta nei tanti e vari tentativi di purgare il colore dalla cultura. Alla base della cromofobia vi è l’idea del colore o come valore alieno di cui avere paura – proprio di un mondo estraneo: femminile, orientale, primitivo, selvaggio, infantile, volgare, bizzarro o patologico – o come valore inessenziale, relegato al regno del superficiale, del supplementare, non meritevole di seria considerazione. Da un chiaro atteggiamento cromofobico muove nel XIX secolo il critico d’arte Charles Blanc – mai nome è stato più appropriato – quando afferma che “il colore è la caratteristica peculiare delle forme inferiori della natura, mentre il disegno diventa il mezzo di espressione, tanto più dominante quanto più in alto saliamo nella scala dell’essere”; “il potere del colore […] è di dirci che cosa agita il cuore, mentre il disegno ci mostra quello che passa nella mente, una nuova prova che il disegno è il lato maschile dell’arte, il colore il lato femminile […] “l’unione del disegno e del colore è necessaria per generare la pittura esattamente come è necessaria l’unione dell’uomo e della donna per generare l’umanità, ma il disegno deve conservare il suo predominio sul colore. Altrimenti la pittura precipita verso la sua rovina: cadrà a opera del colore proprio come l’umanità cadde a opera di Eva”. Il pen-siero di Blanc, condiviso dal mondo accademico che persegue il principio che “coloristi si nasce,

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disegnatori si diventa”, ha poi fondamenti antichi da ricercarsi nella filosofia aristotelica, secondo la quale la linea è il luogo deputato del pensiero e tutto il resto non è che ornamento: “se si versano a caso i più bei colori”, scrive Aristotele nella sua Poetica, “non si ottiene lo stesso piacere che se si disegna in bianco un’immagine”. Instabile, femminile, sensuale, inebriante il colore rappresenta una perdita di controllo, la perdita della propria centratura personale, la perdita del sé. Da ciò deriva la similitudine proposta da Batchelor tra la caduta causata dal colore e la “caduta dalla grazia” rappresentata dall’utilizzo delle droghe. Già Aristotele definisce il colore come pharmakon (lett. droga) e al mondo delle droghe si ispira chiaramente Roland Barthes quando afferma “Che cos’è il colore? Un godimento […] una palpebra che si chiude, uno svanire leggero”. L’utilizzo di droghe intensifica l’esperienza del colore. Non è forse un caso che la produzione artistica degli anni sessanta – periodo caratterizzato da un vasto utilizzo di psichedelici da parte di artisti e di musicisti – sia caratterizzata da colori brillanti, acidi e squillanti. Si pensi alla pop art, alle copertine degli album, ai poster, ai testi delle canzoni: alle coloratissime Strawberry fields forewer e Yellow submarine dei Baetles o She comes in coulors dei Rolling Stones. Ne Le porte della percezione - che ha ispirato il nome di un altro gruppo musicale degli anni sessanta, i Doors - Aldous Huxley descrive l’esperienza del colore sotto l’effetto di stupe-facenti, raccontando come le impressioni visive siano grandemente intensificate e l’occhio recuperi “qualcosa dell’innocenza percettiva dell’infanzia, quando il sensibile non era immediatamente e automaticamente subordinato al concetto” e riesca a percepire “le innumerevoli fini sfumature di differenza, a cui, in tempi ordinari, egli è completamente cieco”.

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Fotografie di Alessandro Fasciniwww.flickr.com/photos/alessandrofascini

La scoperta del colore rappresenta una caduta nel mondo sensibile, una perdita di coscienza, un viaggio alla scoperta dell’Io. È proprio un viaggio, infatti, a condurre Dorothy (Judy Garland) dal grigio Kansas allo straordinario, fantastico – e ovviamente coloratissimo – mondo de Il mago di Oz (1939) in cui – non a caso – si diffondono le dolci note di Over the Rainbow (lett. sopra l’arcobale-no). Lo stesso tema torna ne Il cielo sopra Berlino (1986) di Wim Wenders che racconta di un angelo caduto dal regno degli spiriti – raffigurato in bianco e nero – sulla terra – rappresentata a colori. Il colore è interpretato come valore supplementare, relegato al regno del superficiale. L’etimologia stessa della parola è intrinsecamente legata alla dimensione del non-reale: il termine latino color è infatti correlato a celare, nascondere e in inglese to colour viene utilizzato per abbellire, ornare, ma-scherare e travisare. Il colore in tal senso rappresenterebbe – come scrive Barthes – “un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco e del Nero, un belletto, un make-up”. Andy Warhol nella propria opera porta alle estreme conseguenze l’idea del colore come cosmetico: i ritratti di Marylin, di Liz così come gli autoritratti sono omaggi al trucco e alle infinite combinazioni cromatiche. L’ipercromatismo di Warhol sposa perfettamente la sua eccentricità; d’altra parte – sot-tolinea Batchelor – la “normalità” è vestita di bianco e di nero poiché la società contemporanea – citando le parole di Lichtenstein – è erede di “una prospettiva morale metafisica capace di vedere solo un universo in bianco e nero, privo di ornamenti, ripulito da belletti, purificato da tutte le droghe che offendono la mente e intossicano la mente” e come “solo ciò che è insipido, inodore e incolore può fregiarsi del titolo di vero, bello, e buono”. La storia della cultura occidentale è profondamente segnata da atteggiamenti di amore e odio per il colore, da cromofilia e cromofobia. Ciò deriva dal fatto che il colore istintivamente ci provoca sensazioni di piacere o fastidio e reca con sé –sempre e comunque – precisi significati radicati nella nostra cultura o nel nostro inconscio. Esso è “una caduta nella natura, […] una caduta dalla grazia o una caduta nella grazia, […] è una caduta nella decadenza e un recupero di innocenza, […] è disor-dine e libertà; è una droga, ma una droga che può intossicare, avvelenare o curare. Il colore è tutte queste cose, e più ancora, ma molto raramente è solo un colore neutrale”. In tal senso cromofobia e cromofilia per quanto diametralmente opposte sono molto simili: “la cromofobia potrebbe essere vista come una versione debole della cromofilia” poiché in entrambi gli atteggiamenti il colore è interpretato e percepito come un’esperienza totalizzante, la scoperta di un’entità misteriosa che può nel contempo affascinare o spaventare. Entrambi gli atteggiamenti muovono dunque da una chiara presa di coscienza del valore della materia cromatica e in fin dei conti – come conclude Batchelor – “la cromofobia è forse solo cromofilia senza il colore”.

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