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Bollettino n. 6

Date post: 09-Mar-2016
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Bollettino di SOS scuola n. 6 A.s. 2010/2011 ITC “V. Cosentino”
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Bollettino di SOS scuola n. 6

A.s. 2010/2011

ITC “V. Cosentino”

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Per saperne di più http://www.sos-scuola.it Finito di stampare: settembre 2011 Impaginazione a cura di Chiara Marra

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Indice

SOS scuola all’inizio del secondo lustro p. 1 Aspettative e passioni, ansie e preoccupazioni dei giovani d’oggi 5 Famiglia Aperta, associazione ancora d’avanguardia 11 La dignità della donna al tempo di S.B. 14 Le mafie e il movimento antimafia in Italia 18 Emigrazione e immigrazione: due facce della stessa medaglia 24 L’Unità d’Italia all’ITC “V. Cosentino” 27 Il Risorgimento italiano 150 anni dopo 28 L’Unità d’Italia e il brigantaggio. Lotta a gruppi di assassini o guerra civile? 31 Il Mezzogiorno nell’Italia unita. Economia e società tra realtà e rappresentazione 33 Il cinema racconta 35 Ricerca Famiglia Aperta, contributo VAM 41 Ricerca Famiglia Aperta, contributo VBM 51 Ricerca Famiglia Aperta, contributo VCM 60 Ricerca Famiglia Aperta, contributo IVFM 70 Ricerca Famiglia Aperta, contributo IIIBM 73 Visita guidata al Pollino 77 SOScafè 80 Segni sulla sabbia di Tommaso Cariati 81 Emilia-Romagna, dove gli opposti si armonizzano 82 Liguria, arco teso tra la pianura e il mare 88 Piemonte, il mondo come tenacia e volontà 94

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SOS scuola all’inizio del secondo lustro

(Appunti a cura dei coniugi Chiara Marra e Tommaso Cariati dalla riunione di SOS scuola del 20 settembre 2010)

1. Il lavoro svolto l’anno scorso

L’anno scorso siamo partiti dall’idea che fosse opportuno fare una pausa di riflessione, interrogandoci sul senso di quello che facciamo e su come “leggere” e interpretare la realtà che ci circonda. Abbiamo suddiviso i saperi in nove ambi-ti: saperi letterari-storici-filosofici, saperi estetici e delle arti, saperi linguistici, saperi sociali-economici-politici, saperi giuridici e della convivenza, saperi fisi-co-matematici, saperi dell’informazione, saperi biologici, saperi teologico-spirituali e trascendenti.

Alla fine abbiamo deciso di invitare quattro studiosi perché ci aiutassero, partendo ciascuno dal proprio ambito disciplinare e dal proprio vissuto, a capire che cosa si debba intendere oggi per “cultura” ed “educazione”: il tema che ab-biamo lanciato era proprio “Fare cultura ed educare oggi”. Tra un incontro e l’altro con gli studiosi volevamo intervallare incontri inter nos e qualche gita.

Nei fatti: abbiamo partecipato al convegno organizzato dalla Fondazione Rubbettino con don Carlo Molari, teologo, Antonino Papisca, esperto di diritti umani, Margherita Scarlato, economista; abbiamo avuto un incontro con Pino Caminiti, letterato e poeta, sul ruolo dei classici nella cultura e nell’educazione; abbiamo discusso con Tommaso Cariati del riordino degli studi secondari di se-condo grado; abbiamo ascoltato il punto di vista biblico di p. Pino Stancari; ab-biamo incontrato Biagio Politano, magistrato, sui temi della giustizia e Enrico Vena, informatico, su quelli delle nuove tecnologie; abbiamo incontrato e inter-vistato Silvano Petrosino, filosofo, a partire dal suo libro sull’“umano” e abbia-mo discusso sul libro di Tommaso La scuola fuori registro. Oltre a ciò ricordia-mo una gita a monte Cocuzzo e due incontri inter nos, uno in preparazione del convegno della Fondazione Rubbettino sulla “Complessità della società” e uno con Emilia intorno ai suoi viaggi in Turchia e in America.

Abbiamo fatto moltissimo, ma alcuni incontri si sono svolti di mattina, e se, da un lato, è stata favorita la partecipazione degli studenti, dall’altro per alcuni di noi è stato impossibile partecipare; gli incontri tra noi, preziosissimi per crescere insieme, sono stati pochi, anche se l’incontro sulla riforma e quello sul libro di Tommaso sono stati praticamente incontri tra noi; una sola gita, poi, è stata vera-mente poca cosa.

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2. Dibattito

Rosa: abbiamo fatto un ottimo lavoro, soprattutto per gli insegnanti. Per questa via però diamo al nostro gruppo un taglio intellettuale. Se vogliamo coin-volgere gli studenti dobbiamo proporre attività che consentano ai ragazzi di e-sprimersi e di essere ascoltati. Per esempio, anche alle uscite si potrebbe pro-grammare un po’ di lavoro che li renda protagonisti. Iole: dovremmo dare anche noi il credito scolastico agli studenti, per attirarli, come si fa con i progetti finanziati. Le uscite, le gite, sono molto interessanti, purché senza pernottamento. Si potrebbero lanciare dei temi da dibattere in più tappe, lasciando aperto il dibattito.

Alfio: dobbiamo chiederci: perché il gruppo è nato? Questo ci porta a risco-prire le motivazioni originarie. SOS doveva dare un contributo alle tematiche generali della scuola: attualità, didattica, educazione. L’esperienza maturata in questi anni è stata valida: ci siamo conosciuti meglio e siamo cresciuti insieme. Potremmo partire alla riscoperta del mondo intorno a noi: il tema dell’acqua e dell’ambiente, quello dell’energia e del nucleare sono vastissimi e di grande at-tualità, e potrebbero suscitare l’interesse generale.

Cristina: nella mia esperienza di insegnante di lettere ho constatato che i ragazzi si appassionano al sapere quando l’approccio parte dalle cose che li ri-guardano da vicino. Per esempio, se si parla loro della scelta di Crotone come polo industriale o di Arcavacata come sede per l’Università della Calabria, l’interesse o la curiosità sono elevati. Da qui si può poi partire per parlare di Cassa per il Mezzogiorno o di “questione meridionale”, e di storia in generale.

Emilia: certo i giovani sono misteriosi. Dovremmo promuovere una ricerca con questionario per capire quali sono i loro sogni, i loro interessi, le loro paure e aspettative.

Chiara: io credo che anche se SOS diventasse un gruppo di insegnanti che si incontra regolarmente per un progetto di autoformazione, non sarebbe male, sa-rebbe sempre un valido spazio di esercizio della cittadinanza. Però facciamo be-ne a interrogarci su che cosa sia opportuno fare per interessare i ragazzi in modo che il gruppo prosegua il suo cammino secondo le indicazioni originarie. Mi pa-re che nei ragazzi ci sia sempre una ricerca di senso espressa in termini di do-mande semplici a cui spesso nessun adulto dà risposta. Io eviterei gli incontri rivolti esclusivamente a un pubblico di studenti da fare la mattina, perché non aiutano il gruppo a crescere come comunità. Dobbiamo ritornare a dare il giusto peso agli incontri tra noi, vissuti nella semplicità. Dovremmo poi programmare tre uscite rendendo noto con largo anticipo almeno il periodo in cui si svolgeran-no (propongo che la prima si faccia nel parco nazionale della Sila domenica 3 ottobre). Propongo inoltre la partecipazione del gruppo o di alcune classi anima-

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te da componenti del gruppo alla prossima tappa di ricerca dell’associazione Fa-miglia Aperta sul tema “Primato delle persone nella società multietnica”.

Giuliano: io credo che potremmo scegliere dei libri che parlano di scuola o di problemi del mondo della scuola, come quello di Vittorino Andreoli Lettera a un insegnante e lavorarci insieme, lasciandoci interpellare seriamente.

Tommaso: io credo che il lavoro avviato lo scorso anno sul tema generale “Fare cultura ed educare oggi” sia valido. Quest’anno potremmo dargli una con-notazione che ci permetta di richiamare il grande evento del centocinquantesimo anniversario dell’unità del Paese. Quanto ai contenuti, potremmo affrontare temi che ci permettano, con l’aiuto di studiosi o da soli, di fotografare l’Italia 150 an-ni dopo la stagione del Risorgimento. A me piacerebbe esplorare alcuni temi quali il lavoro e le relazioni sindacali, compresa la sicurezza e le morti sul lavoro (non passa giorno che non muoia qualcuno sul lavoro, come alcuni giorni fa gli operai di Capua, morti asfissiati in una cisterna, l’operaio schiacciato da una pressa per ferraglia in Toscana, o la signora morta con la testa schiacciata da un ascensore il suo primo giorno di lavoro con un’impresa di pulizie; inquietano le vicende della Fiat-ex Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, dove è stato imposto un contratto che segna la cancellazione di decenni e decenni di conquiste civili, e dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, licenziati, reintegrati dal giudice ma tenuti lontani dal lavoro dall’azienda); l’istruzione in tempo di crisi (l’avvio del nuovo anno scolastico si sta rivelando più difficile e doloroso del previsto: basta consi-derare la confusione nel processo di avvio della riforma e i tagli operati sul per-sonale); le riforme e i cambiamenti istituzionali (la giustizia, il federalismo, la legge elettorale, la costituzione); le mafie e la legalità (sono trascorsi solo alcuni giorni dall’assassinio del sindaco di Pollica-Acciaroli Angelo Vassallo); l’immigrazione clandestina, l’accoglienza e i “respingimenti”; la famiglia; la lingua. Concordo che occorra ritrovare il gusto di riunirci tra noi ma purtroppo le questioni spesso sono troppo grandi perché possiamo affrontarle senza l’aiuto di specialisti: dobbiamo trovare il giusto equilibrio, specialmente se vogliamo inte-ressare gli studenti.

Propongo che per quest’anno il tema generale sia: “Fare cultura ed educare 150 anni dopo l’unità”; che il gruppo ritorni a fare incontri vissuti nella sempli-cità, magari intorno a film o a documentari; che programmi tre gite come ha pro-posto Chiara; che gli insegnanti del gruppo propongano alle proprie classi la ri-cerca di Famiglia Aperta sul tema della società multietnica; che SOS scuola of-fra alla scuola, agli studenti e ai docenti, eventualmente anche di mattina, tre o quattro incontri qualificanti con personalità significative come Dora Ciotta, fon-datrice e animatrice dell’associazione nazionale Famiglia Aperta, Umberto San-tino, fondatore del centro di documentazione antimafia “Peppino Impastato” di Palermo, Piercarlo Maggiolini, docente di sistemi informativi del politecnico di Milano e presbitero, curatore di un’opera per i tipi di Franco Angeli sui temi

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dell’etica e delle tecnologie, Giuseppe Limone, docente di filosofia del diritto dell’università Federico II di Napoli.

Chiara: propongo di rinviare la conclusione di questo incontro a domenica 3 ottobre nel parco nazionale della Sila.

Tommaso: se siete d’accordo, per me va bene. Io chiederei però ad Alfio di preparare un incontro sul quadro storico del Risorgimento, magari ricorrendo anche ad un approccio multimediale, per esempio, usando i documentari de “La grande storia” o di “Italiani” di Corrado Augias e Lucio Villari, di prossima u-scita con «la Repubblica».

3. Programma

Il 3 ottobre in Sila ci si trova in cinque. La giornata è magnifica. Si cammi-

na, si mangia, si trova qualche fungo, si discute. La sera a casa di Chiara e Tom-maso si cucinano e si condividono i funghi, e si definisce il seguente program-ma: a) Gite ulteriori: in gennaio a Corigliano, in marzo a San Giovanni in Fio-re, in aprile o in maggio a Riace, paese ripopolato dagli immigrati; b) incontri tra noi: metà ottobre, diamo la parola a quattro studenti e stu-dentesse sul tema “Sogni, speranze e aspettative dei giovani d’oggi dalla loro viva voce”; metà dicembre con Alfio Moccia e Luigi De Novellis, giovane stu-dente di scienze politiche di Arcavacata, tracciamo il quadro del Risorgimento con modalità multimediale; in gennaio Giuliano Albrizio presenta una bibliogra-fia ragionata e commentata sulla scuola; in febbraio Tommaso Cariati offre una riflessione sulla lingua; in marzo Rosa Filippelli ed Emilia Florio conversano sulla famiglia; in aprile Chiara Marra ed America Oliva presentano, in prepara-zione alla gita a Riace, alcuni film-documentari sull’immigrazione; in maggio Giuliano Albrizio e Tommaso Cariati affrontano il tema della circolazione della cultura nell’era digitale, a partire dall’e-book Segni sulla sabbia. Viaggio nelle regioni 150 anni dopo l’unità; c) incontri con personalità: 24 novembre incontro con Dora Ciotta, in gen-naio incontro con Umberto Santino; d) lavoro con le classi in collegamento con il “progetto cittadinanza”: cin-que o sei classi, animate alcune da Tommaso Cariati, altre da Rosa Filippelli e altre ancora da Angela Girone, si cimenteranno con la ricerca di Famiglia Aperta (Chiara farà la stessa cosa a Corigliano); Rosa, Iole e Angela in altre tre classi cureranno una rassegna stampa ragionata e commentata sui temi dell’unità d’Italia che, in primavera, potrà dare luogo a una mostra nei locali della scuola.

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Aspettative e passioni, ansie e preoccupazioni dei giovani d’oggi

(Incontro del 12 novembre 2010 del gruppo SOS scuola)

Ettore Colella

Premetto che quest’incontro è stato una bellissima quanto appassionante esperienza, sin da quando il professore Cariati ha chiesto agli studenti se c’erano volontari che volessero partecipare alla riunione. In pochi si sono fatti avanti, mentre nella mia testa è balenato il pensiero che finalmente potevo esprimere le mie sensazioni e opinioni a coloro che alla fine giudicheranno il mio operato scolastico. Mi chiamo Ettore Colella, ho 18 anni e sono uno studente della classe V A Mercurio, ho scelto questa scuola nel modo più sbagliato forse, seguendo gli amici che avevo paura di perdere, finite le scuole medie. Per mia fortuna nel corso di questi anni questa si è rivelata la scuola che probabilmente avrei scelto anche con il famoso senno di poi. Da tempo speravo ci fosse qualcuno pronto ad ascoltare e scambiare opinioni e idee con gli studenti: dopo tutto questo tempo pensavo che le mie speranze non interessassero a nessuno, per questo ho subito accettato di partecipare alla riunione. A proposito della mia città, si potrebbero dire tante cose belle, però sfortunatamente altrettante, o forse più, sono le cose che non vanno bene. Sia chiaro, parlo per me: io mi sento davvero limitato a li-vello di possibilità lavorative, culturali e artistiche, e come per una buona parte di calabresi si fa in me avanti, per forza di cose, il desiderio di partire. Io trovo che funzioni meglio l’espressione “andare via da questa terra stupenda ma altret-tanto maledetta”. Drastico? Forse un po’ sì.

Per cambiare discorso, passo a dire che faccio parte di quella minima parte di ragazzi che pratica sport, il tennis. È uno sport che richiede molti sacrifici se si vuole arrivare in alto, e bisognerebbe praticarlo da quando si è davvero picco-li; purtroppo per me, io ho iniziato tardi, ma credo di aver raggiunto un buon livello agonistico. C’è però un’altra cosa che mi completa, che mi fa credere che grazie ad essa un giorno arriverò in cima, facendo sì che tutti conoscano il mio nome, questa compagna di vita si chiama “musica”. Molte persone sottovalutano il potere che è racchiuso in essa, con la musica si può comunicare, diffondere e fare arrivare dritto al cuore delle persone tutto ciò che riteniamo valga la pena di trasmettere. Come la poesia che era appunto “eternatrice dei valori dell’uomo”.

Simona Arpino

Buona sera! Sono Simona Arpino della V A Mercurio e sono contenta di partecipare a questo incontro, perché è un’ottima occasione per confrontare idee

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e scambiare opinioni. Frequento questa scuola da cinque anni e ho fatto questa scelta perché ho un particolare interesse per le materie giuridiche ed economi-che. In questa scuola ho avuto la possibilità non solo di studiare ma anche di partecipare a numerosi progetti e iniziative che hanno arricchito profondamente il mio bagaglio culturale.

Per quel che riguarda il tema di oggi, vorrei iniziare con una riflessione. Le ansie, le preoccupazioni caratterizzano ogni età. Si comincia nella fase

della pre-adolescenza che inizia intorno ai dodici o tredici anni. In questo perio-do della vita i ragazzi sentono l’esigenza di apparire più belli per piacere, non più solo a sé stessi, ma anche agli altri, o per essere accettati dal “gruppo”. Si cerca di imitare gli atteggiamenti più stravaganti, di essere sempre vestiti alla moda o di imitare l’idolo televisivo del momento, e tutto questo per non rimane-re soli. Ma a volte capita anche di essere allontanati, quasi rifiutati dai propri coetanei e ciò crea nei giovani tristezza e solitudine. Alcuni, infatti, diventano introversi, altri stentano a relazionarsi poiché ossessionati dai complessi. In que-sti momenti è fondamentale il sostegno e l’appoggio della famiglia, unica sicu-rezza e conforto dei giovani.

Poi si cresce e si entra nella fase dell’adolescenza. Io posso raccontare in prima persona le ansie, le preoccupazioni di questa splendida fascia d’età che va dai quattordici ai diciannove anni. Secondo me, il pensiero più importante è il lavoro, l’esigenza di avere una propria indipendenza, di sentirsi realizzati. Però il problema è proprio questo, nonostante la volontà di fare le cose si rischia, dopo diversi anni di studio, di rimanere senza l’occupazione desiderata. Nasce di con-seguenza l’esigenza di trasferirsi e lasciare la propria città, la propria famiglia, nonostante ciò sia molto faticoso.

Alcuni di noi pensano che la possibilità di avere un posto di lavoro sia con-dizionata da conoscenze o strette amicizie, e purtroppo a volte questo viene con-fermato, perché l’aiuto di qualcuno prevale sulla meritocrazia. Io in futuro vorrei diventare ispettore di polizia, per cui credo che dopo essermi laureata mi trasferirò in un’altra regione per poter partecipare al concorso che dovrebbe aprirmi la carriera in polizia.

Il problema della disoccupazione si potrebbe risolvere considerando il lavo-ro in modo diverso, non una condanna, ma un impegno serio e soprattutto creati-vo, dove ciascuno esprime la propria personalità. Non ci dovrebbe essere più la cultura ad oltranza del posto fisso, a cui si accedeva per diritto, senza avere ma-gari nessun requisito, ma maggiori flessibilità e impegno, maggiore volontà di raggiungere dei risultati, di porsi al servizio di individui e comunità, in modo intelligente e utile. Guido Attanasi

Mi chiamo Guido Daniele Attanasi e frequento la classe VA Mercurio dell’ITC “V. Cosentino” di Rende. Ho scelto di frequentare questa scuola perché

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mi piacciono materie come informatica, matematica ed economia, e, facendo un confronto con i licei, penso che queste materie siano più importanti di latino, greco e arte.

Per il mio futuro ho le idee ancora un po’ confuse. Il prossimo anno vorrei iscrivermi all’università, qui a Cosenza, anche se sono indeciso su quale facoltà scegliere. Mi piacerebbe frequentare Economia Aziendale perché vorrei lavorare in banca o in un altro tipo di azienda. Potrei però studiare anche Informatica o Ingegneria Informatica, un’altra materia che mi piace, che offre forse maggiori possibilità di lavoro. Per lavorare, dopo la laurea, potrei anche trasferirmi lonta-no da casa, ma con l’intenzione di tornare in Calabria e crearmi una famiglia, perché penso che al primo posto non debba stare il lavoro, ma la famiglia.

Come ultima alternativa mi piacerebbe fare lo speaker radiofonico, perché mi piace molto ascoltare la radio, un mezzo di comunicazione molto diverso dal-la televisione. Alla radio si trasmette molta musica, che riesce a sdrammatizzare anche i momenti seri: le notizie e le curiosità sono commentate con maggiore serenità e c’è spazio per l’immaginazione.

Penso che oggi i giovani abbiano molti problemi, perché forse “si stava me-glio quando si stava peggio”: cinquanta anni fa certamente le condizioni di vita erano peggiori rispetto a quelle di oggi, ma c’era più rispetto per i valori fonda-mentali della famiglia e verso il prossimo, mentre oggi non è più così. L’esempio che viene dato a noi giovani, da chi non è più giovane, spesso è sba-gliato. Ciò si può facilmente constatare guardando l’ambiente che ci circonda. Che esempio possono dare ai giovani quanti gettano carte e spazzatura per terra? Non capiscono che fanno un male a se stessi, perché l’ambiente è di tutti, e c’è bisogno di tutti per costruire un mondo migliore?

Vorrei terminare con una frase: “Ieri è storia, domani è un mistero, ma oggi è un dono e per questo si chiama presente”.

Dibattito (a cura di Rosa Filippelli)

Ettore: ha scelto la scuola perché consigliato dagli amici ma poi gli è pia-ciuta. Ha avuto l’invito a partecipare a quest’incontro ed è stato meravigliato che nella scuola ci siano anche queste iniziative di confronto. Trova interessante il progetto di Famiglia Aperta sull’immigrazione, che sta proseguendo senza in-tralciare i programmi scolastici.

Tommaso: come vedi il futuro? Ettore: se lo guardo partendo dal presente, non mi sembra molto roseo. Di-

pende dalle persone. Tommaso: sei ottimista? Ettore: la prospettiva cambia se siamo in tanti. Se siamo qui vuol dire che

c’è qualcuno che cerca di cambiare le cose. I giovani sono recettivi: c’è qualche

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buon esempio. Dopo il diploma spero di fare l’università lontano da Cosenza, una città che non mi rappresenta.

Tommaso: quali passioni hai? Ettore: la musica; ho iniziato a suonare la batteria ma poi ho proseguito con

la composizione e con l’attività di DJ. Simona: ho frequentato questa scuola e mi sono trovata bene. Sono contenta

di avere l’opportunità di scambiare idee. Le preoccupazioni iniziano a dodici anni quando si vuole essere accettati dal gruppo. Sono impegnata con il volonta-riato e questo mi rende contenta. Ho iniziato da due anni con la C.R.I. I ragazzi registrano contemporaneamente una crescita fisica e una intellettiva, e gradual-mente ci si rende conto di doversi assumere delle responsabilità. Preoccupazione principale è il lavoro. Frequenterò l’università trasferendomi lontano da Cosen-za.

Guido: progetti futuri: idee confuse a causa di una scarsa prospettiva di la-voro per i giovani. Spero di frequentare l’università a Cosenza. Nella vita la cosa più importante è una bella famiglia. Ho una preoccupazione per l’inquinamento e il degrado dell’ambiente. Mi piace la radio più che la televisione. Molte perso-ne in gamba sono emigrate al Nord: spero di non dover seguire le loro orme.

Emilia: mi occupo di orientamento. Mi hanno colpito gli interventi dei ra-gazzi, che mi sono sembrati molto motivati. I ragazzi devono comprendere che più c’è cultura, più c’è dialogo. A Simona, che ha parlato dell’adolescenza, dico che ogni età ha i suoi problemi.

Angela: sono privilegiata a essere qui (io sono australiana, figlia di calabre-si). Mi è piaciuto il confronto che ho avuto con voi nelle classi sui temi dell’immigrazione, partendo dalle domande di Famiglia Aperta. Sono qui da tre settimane e ho sentito molte cose sulla Calabria. In Australia siamo tutti immi-grati ma ognuno ha creato il proprio futuro. La cosa che mi colpisce di più della Calabria è questo sentire che non c’è prospettiva. Molti vorrebbero andare via, ma se restassero potrebbero cambiare il destino della loro terra.

Steliana: sono stata accolta bene nella scuola e nella mia classe (io non sono italiana). Voi pensate che lasciare la vostra terra e andarvene sia tutto positivo. Invece quando si è lontani da casa ci si scontra con molti problemi.

Marianna: sono contenta di partecipare a questo incontro. Mi piace la scuo-la e vorrei studiare giurisprudenza, o entrare in polizia. Bisognerebbe incontrare gli immigrati per avere con loro uno scambio di idee. Anche questo incontro fa-vorisce lo scambio tra tutti noi.

Serafina: per il futuro non ho ancora deciso. Penso che sia sbagliato andare via; ci sono preconcetti che vanno superati. Io vorrei avere anche una vita qui.

Cristina: sono approdata qui dopo aver tentato il liceo classico. Sono confu-sa per il futuro. Mi piacerebbe studiare archeologia. Vorrei però andare via da Cosenza.

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Laura: i ragazzi oggi sono molto confusi. I problemi però partono dalla fa-miglia. La vita è diventata più difficile e i giovani sono più insicuri. C’è bisogno di punti di riferimento. Servono maggiori contatti tra i giovani e gli adulti.

Irene: questo incontro è interessante perché dialogando ci si conosce. Il la-voro oggi è un problema. Il mio futuro non è l’università perché non mi sento portata per lo studio prolungato.

Iole: ho vissuto l’adolescenza e so che è difficile. Nei miei momenti di soli-tudine ascoltavo la radio e facevo contemporaneamente altro. Ho studiato a Fi-renze e ne sono contenta: un’esperienza di lontananza da casa la consiglio per-ché è formativa.

Francesco: la paura più grande per noi giovani è legata al lavoro. Questa paura ci viene inculcata però dagli adulti. Secondo me il lavoro qui da noi c’è; certo, non bisogna pretendere che tutti stiamo seduti dietro a una scrivania. A me piacerebbe aprire un’impresa edile: potrei fare alcuni anni di apprendistato per imparare il mestiere, e poi creare la società. Purtroppo però qui da noi tutte le imprese sono in mano alla mafia, almeno così si dice.

Cosimo A.: mi fa piacere che si parli. Credo sia normale avere delle aspira-zioni ma anche incontrare degli ostacoli. Bisogna mantenersi in equilibrio, e ci si riesce se si ha cura anche di se stessi, della propria preparazione.

Patrizia: ho studiato a Cosenza ma ho insegnato a Torino per molti anni. Mi sono trovata bene ma ho voluto ritornare. Il lavoro qui manca. Credo che chi studia vada avanti.

Giuliano: ho lavorato sempre in Calabria. Mi sento privilegiato perché molti miei amici hanno lasciato la nostra terra e non hanno intenzione di tornare.

Cosimo M.: due punti mi hanno colpito: Francesco ha parlato della preoc-cupazione del lavoro in modo responsabile. Il dubbio è se potrà fare quello che desidera, e per questo chiede aiuto a noi, alla società, alle istituzioni.

Chiara: tra i ragazzi delle superiori e quelle delle medie c’è molta differen-za, di questo mi rendo conto insegnando alle medie e partecipando a questi in-contri di SOS. Per la mia famiglia l’esperienza è stata questa: chi si impegna, il lavoro lo trova. Il posto fisso è un’utopia che inculchiamo noi adulti. Ho molto apprezzato l’intervento di Francesco perché pensa di crearsi un lavoro con il suo impegno e rischiando in prima persona. Mi sembra importante riuscire a creare un rapporto positivo tra gli alunni e gli adulti.

America: alcuni anni fa in un tema tutti i ragazzi hanno scritto che le loro aspirazioni erano diventare veline e calciatori. La società purtroppo crea queste illusioni. Ma il linguaggio ha un potere che i ragazzi stasera hanno manifestato raccontando di sé. Ringrazio gli alunni che ci hanno comunicato i loro bisogni e hanno fatto comprendere i loro sforzi. L’esperienza fuori di casa è una cosa posi-tiva perché apre gli orizzonti, e io la raccomando anche se costa sacrifici.

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Riflessioni fatte da Colella dopo l’incontro Ormai avevo acquisito sicurezza nel parlare cercando di tirar fuori più cose

possibili da dire ai docenti. Certo ora non potevo parlare solo io, e difatti ha pre-so la parola la suocera del mio professore di informatica che praticamente con poche parole mi ha letto dentro come se fossi un libro aperto, commentando le mie intenzioni di andare via dalla Calabria, e io non ho potuto fare altro che ac-consentire con un sorriso pieno di gioia, che credo sicuramente avrà capito, co-me il resto delle mie parole. Ora, il punto non è la bravura nel leggermi o capire le mie sensazioni o intenzioni; il punto è che trovandomi in quella circostanza è stato davvero costruttivo ricevere un parere e, soprattutto, essere capito da qual-cuno che non avevo mai visto prima.

A quel punto ha preso la parola anche un altro docente di informatica che mi ha illuminato particolarmente su una diramazione dell’ingegneria informati-ca, e mi ha detto che potevo diventare anche ingegnere del suono. La notizia mi ha spinto, poi, la sera, a documentarmi meglio, ma, lì per lì, l’incontro procedeva come desideravo: ho espresso quello che avevo da dire e soprattutto ne sono u-scito con qualcosa in più. Nella parte conclusiva ho spiegato ai docenti presenti come componevo la mia musica: nessuno mai si era interessato più di tanto all’argomento. Infine sono rimasto ad ascoltare gli altri ragazzi, li ho seguiti tutti con lo stesso interesse. E proprio quando ci si trova in queste situazioni si capi-sce quanto sia importante il dialogo. Io sono stato fortunato, ma penso anche a chi questo dialogo non può averlo: la negazione della libertà di pensiero è una delle più grandi proibizioni che secondo me si può fare ad una persona. Ringra-zio per questa fantastica ed appassionante giornata tutti i professori presenti all’incontro.

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Famiglia Aperta, associazione ancora d’avanguardia

(Note di Dora Ciotta per la riunione di SOS scuola del 24 novembre 2010)

Dopo aver salutato il gruppo dei presenti di SOS Scuola lodandolo per la

qualità educativa che lo caratterizza, e cioè il rapporto circolare consapevole tra insegnanti genitori e studenti, Dora Ciotta, attraverso il racconto della storia qua-si quarantennale, sempre carico per lei di emozione, presenta lo specifico di Fa-miglia Aperta.

La nascita dell’associazione Famiglia Aperta coincide infatti con la sua par-tenza da Assisi nel 1976 e dal suo doloroso distacco dalla Pro Civitate Christia-na, comunità di laici della quale aveva fatto parte con entusiasmo per 23 anni. Distacco per lei dolorosissimo, ma fecondo di vita nuova, come il taglio pene-trante di un innesto di diversità su di un albero vivente. Dora quindi spiega gli aspetti di discontinuità di Famiglia Aperta rispetto alla Pro Civitate Christiana, esplicitati e stabiliti dai primi due articoli, gli unici pro-pri di Famiglia Aperta, dello Statuto delle associazioni culturali, che il notaio di Assisi fissò nel 1976.

Non più una comunità evangelizzatrice di celibi, ma un’associazione cultu-rale di persone e famiglie; non più la finalità di “fare cristiana la città”, ma l’educazione permanente a crescere aprendosi e a impegnarsi concretamente sul proprio territorio, con un approfondimento culturale laico e pluralista, come as-sociazione, ma senza alcun appoggio istituzionale. Non più una sede unica e comoda per tutte le attività e un’unica città per le resi-denze di tutti, ma una sede mobile, di regione in regione, sempre da ricercare e da pagare, con l’unico collegamento fisso d’una casella postale per l’associazione: c.p. 1 Spoleto (PG) e mobile per le attività di animazione territo-riale: Bari, Genova, Fidenza, Monopoli, Mortara.

Non più l’annuncio chiaro, e approfondito nel dialogo culturale, del Vange-lo e del Credo cristiano, ma il metodo alternativo della ricerca educativa, a parti-re dalle esperienze delle singole persone e famiglie, valorizzate negli aspetti po-sitivi e negativi, dalla riflessione successiva alla comunicazione in gruppo e dal confronto multidisciplinare e interdisciplinare della serie dei convegni di studio. (Vedi sito www.famiglia-aperta.org)

Dora infine fa notare che la XVI tappa in corso nel biennio 2010/2011 nel territorio lomellino e che si concluderà con il convegno di studi sul tema: “Primato delle persone nella società multietnica”, sia per il contesto sociocultu-rale e istituzionale in cui si svolge, sia per la scottante attualità sociale e politica

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del tema, sia per la sua radicalità evangelica, rappresenta la verifica di un cam-mino associativo nella ricerca educativa, arduo e faticoso, vissuto sempre in po-vertà e libertà, ma fedele alle sue radici. Un cammino ancora d’avanguardia nella società italiana.

Dibattito (a cura di Simona Arpino)

Tommaso: la metodologia da voi usata è semplice ma veramente straordina-ria perché permette alle persone coinvolte di interagire e a voi di raccogliere ma-teriale di base prezioso per la ricerca. Ti chiedo: come siete pervenuti a mettere a punto il vostro metodo?

Dora: è stato impostato ad Assisi, ed è nato dalla riflessione, dalla verifica dei fatti, ascoltando le coppie. Mi auguro di poter trasmettere questa eredità per evitare che Famiglia Aperta venga ricordata solo nei libri.

Rosa: è urgente avere qualcuno che faccia del dissenso contro questa realtà che tende alla discriminazione. Infatti, dai dibattiti fatti in classe, inizialmente i ragazzi sembravano duri, poi, invece, è scaturita una riflessione che li ha portati ad essere più elastici. Per cui, considerati i risultati positivi, ritengo che attività come quelle promosse da Famiglia Aperta dovrebbero essere svolte spesso nelle scuole.

Iole: credo che ci sia una vera e propria crisi, perché noto che adesso c’è difficoltà a creare una famiglia; i giovani appaiono come impauriti. Invito Dora a sostenere simili argomenti e a tornare a parlare del matrimonio.

Laura: mi ha colpito molto la volontà che Dora Ciotta ha dimostrato nel mantenere la propria idea. Sicuramente è stato un esempio positivo, soprattutto per i giovani, che a volte si scoraggiano alla minima difficoltà e rinunciano a cercare di ottenere ciò che vogliono.

Irene: ho apprezzato molto la costanza che è stata dimostrata nel raggiunge-re un obiettivo. La testimonianza di Dora Ciotta è stato un esempio di vita per tutti noi.

Guido: mi ha colpito la tenacia di questa associazione. Vorrei proporre di portare Famiglia Aperta anche all’estero.

Giuliano: vorrei fare una riflessione a proposito della famiglia. Di recente, mi è capitato di andare ad un matrimonio. Mentre partecipavo alla festa mi è venuta in mente la foto delle nozze dei miei genitori, e ho paragonato i due ma-trimoni, notando una differenza enorme. Oggi, infatti, il matrimonio viene af-frontato con superficialità e leggerezza. Mi auguro che attraverso queste iniziati-ve e sostenuti dalla fede in Cristo, la famiglia possa ritornare ad essere il nucleo fondamentale della società.

Simona: vorrei ringraziare Dora Ciotta per la sua testimonianza, che ha su-scitato una grande riflessione. Noi giovani, infatti, facilmente ci lasciamo anda-re, soprattutto quando incontriamo difficoltà, e ci sentiamo soli. Partecipare a

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questo incontro è stato sicuramente positivo. Abbiamo potuto comprendere tante cose. Io ho compreso che non dobbiamo mai scoraggiarci, anche perché a gui-darci c’è sempre la fede in Dio.

Maria Rosaria: mi ha colpito la capacità di Dora di ascoltare gli altri, ma anche il coraggio che ha dimostrato per esempio quando ha deciso di lasciare la Pro Civitate Christiana. In seguito ha dimostrato di possedere una capacità non comune di adattamento alle diverse situazioni regionali, nelle quali ha saputo creare relazioni autentiche e forti. Il suo esempio può essere utile per tutti noi educatori.

Chiara: durante l’incontro-dibattito con i giovani è sorta una questione: “Andare via dalla Calabria o restare?”. Ebbene, Dora, con la sua vita, ci ha dato una risposta: lei ha traslocato trentacinque volte, mai per fuggire un ambiente poco favorevole: lei cambiava luogo di residenza per disseminare l’esperienza via via maturata e per costruire qualcosa mettendo radici e lasciando un segno in termini di nuove relazioni. Ho inteso bene?

Dora: esatto. In ogni posto ho cercato di mettere un seme e di far crescere un germoglio che diventasse un albero rigoglioso e produttivo. Lasciare un posto per andare altrove, non sempre per scelta in verità, è servito a diffondere espe-rienza e conoscenza, ma sempre continuando a coltivare le relazioni precedenti, mediante i normali mezzi di comunicazione.

Angela: ammiro la determinazione e il coraggio di Dora, che sono d’esempio per tutti noi. Mi ha colpito la parola “laicità” perché lei pur mante-nendo un rapporto forte con la fede cristiana ha deciso di operare nel mondo, in mezzo alle famiglie. Per esempio, noi in Australia, lavoriamo in una scuola cat-tolica e cerchiamo di trasmettere ai giovani determinati valori, ma laicamente.

Dora: io ho fatto l’esperienza della comunità ma poi ho cambiato strada per rifiuto delle costrizioni e per spirito di libertà, ma anche per seguire una vocazio-ne particolare con Famiglia Aperta.

Rosanna: collaboro con Famiglia Aperta da moltissimi anni. Trovo che sia bello il confronto leale e aperto che abbiamo sempre sperimentato nei gruppi di lavoro: il confronto suggeriva nuovi spunti di riflessione e proposte per il futuro. Come esperta di grafica ho potuto mettermi a disposizione dell’Associazione quando si è trattato di disegnare una copertina o il logo di un convegno, come abbiamo cercato di fare questa mattina qui al “Cosentino”, coinvolgendo gli stu-denti. Vi ringrazio per avermi dato l’opportunità di visitare questa parte d’Italia e confrontarmi con voi.

Dora: sono rimasta sorpresa dalla vostra realtà calabrese. Vi auguro di pro-seguire senza paura sulla strada tracciata.

Tommaso: grazie a tutti per la partecipazione appassionata al dibattito con Dora Ciotta, la quale ha sfidato il freddo e la pioggia per raggiungerci da Morta-ra, cittadina della provincia di Pavia. Ora ci trasferiamo in pizzeria, dove il dia-logo continuerà davanti a un boccale di birra e a una pizza fumante.

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La dignità della donna al tempo di S.B. Introduzione di Nelia Politano

(Appunti a cura di Simona Arpino dalla riunione di SOS scuola

del 17 febbraio 2011)

Quello di oggi non è un dibattito politico ma un incontro in cui si vogliono offrire spunti di riflessione sulla dignità della donna ai nostri giorni. È un argo-mento che suscita sentimenti di rabbia, di preoccupazione, ma anche di insoffe-renza. Oggi, più che mai, siamo bombardati da prototipi di donne che mettono in mostra ed esibiscono il loro corpo per vari scopi e finalità. Il problema è serio poiché simili atteggiamenti condizionano i giovani, e in particolare, gli adole-scenti. Il giudizio altrui, soprattutto in questo periodo della vita, è fondamentale, per cui si cerca di imitare l’idolo del momento sia per essere accettati, sia per evitare di rimanere da soli trascurando o calpestando la propria dignità che ap-partiene agli esseri umani e merita di essere rispettata. Attualmente però, nono-stante il nostro tempo sia caratterizzato da un notevole progresso scientifico-tecnologico, non è detto che tale progresso vada di pari passo con la consapevo-lezza e la coscienza di sé. La dignità, spesso, rappresenta un optional per molte persone, in realtà è un valore da conquistare e tutelare. Testimonianze di ciò ci arrivano da un lontano passato in cui alta è la considerazione con cui erano tenu-te le donne (matriarcato). Con il passare del tempo la società diventa maschilista. L’uomo, infatti, è considerato il valoroso guerriero, di personalità forte; la donna debole custode della casa, coltivatrice della terra ma depositaria del valore dell’affetto familiare. Dal Medioevo, però, le cose cambiano: c’è la donna ca-stellana, chiamata così perché responsabile assoluta del feudo. Nel castello or-mai la donna non comanda più solo le figlie e le serve, ma tiene il governo della corte, e non è un compito facile. Restano naturalmente anche i lavori femminili tradizionali. Troviamo poi la donna vista come essere spirituale: la vita spiritua-le, se ben disposta, è un elemento nuovo capace di rendere l’uomo più ricco, bel-lo, profondo. Vivere nell’ambito della spiritualità in maniera costante, significa avere un contatto profondo e reale con il mondo divino senza limitarsi alle sole cose esteriori che spesso appagano. Arriviamo alla donna angelo, sottomessa, nella tradizione medioevale, perché simbolo di immoralità, la donna acquisisce caratteri angelici e capacità di salvare l’anima dell’uomo. Il dolce stilnovo si assumerà il compito di definire le caratteristiche di questa nuova figura femmini-le che verrà riconosciuta come donna angelo. Per Dante la donna per eccellenza sarà Beatrice, molte sono state le ipotesi sulla vera identità di Beatrice e ancora permangono perplessità, certo è però che Dante fa di lei la protagonista di tutta la sua produzione amorosa. Come dimenticare le donne “Streghe” (bruciate sul

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rogo) come Giovanna D’Arco, perché depositarie di sapere o figure carismatiche capaci di trascinare il popolo. Nel Rinascimento la donna diventa dama. Il fatto che in questo periodo le donne iniziarono ad acquisire una posizione sociale più importante, si manifestò anche nell’abbigliamento, che iniziò a differenziarsi maggiormente da quello maschile. Per questo periodo, si può parlare di una vera e propria rivoluzione estetica; le donne acquistarono un linguaggio espressivo del tutto nuovo, che si manifestò nell’abbigliamento, nella cura del corpo e nel comportamento. Tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, i canoni della bellezza femminile cambiarono radicalmente. Nel ’600 le donne con Sha-kespeare diventano attrici, cosa proibita nei secoli precedenti quando gli uomini interpretavano anche ruoli femminili. In tempi più recenti vediamo le donne an-che protagonista della storia che non è fatta solo da eroi! Con il trascorrere dei secoli, quindi, le donne iniziano a prendere coscienza e consapevolezza di sé e si rendono conto di quanto sono importanti in famiglia e non solo (rivoluzione in-dustriale, donna operaia). Ricordiamo, in merito, l’eccidio delle operaie avvenu-to l’8 marzo 1908. Migliaia di donne furono rinchiuse all’interno della fabbrica, per la sola colpa di aver partecipato ad uno sciopero. Sfortunatamente a causa di un incendio persero la vita. Questa data, quindi, non è la festa commerciale che è diventata, ma la commemorazione di quelle donne che hanno saputo battersi per i propri diritti. Anche il femminismo va inteso come cammino per far valere i propri diritti e la propria dignità e non la lotta contro l’uomo, anche se c’è ancora una dicotomia fra universo maschile e femminile. La dignità va difesa in ogni circostanza e non dobbiamo aspettarci che siano gli altri a farla valere, dobbiamo essere noi a farla rispettare sempre e in ogni ambiente: in famiglia, nel mondo del lavoro, nell’ambiente sociale.

Nell’attuale società si deve parlare di dignità dell’essere umano, poiché si assiste spesso a situazioni in cui le condizioni di vita non sono degne degli “uomini” e in cui il corpo, soprattutto quello femminile, viene esibito con volga-rità. I motivi che incoraggiano le giovani donne a compiere esibizioni, simili a quelle viste nel filmato “Il corpo della donne”, sono il successo, la possibilità di avere un lavoro... Condizionate da queste aspettative, le donne sono disposte anche ad “alterare” il loro fisico, ad indossare delle vere e proprie maschere. La vera preoccupazione, però, è che tutto questo fa audience. Le vicende degli ulti-mi mesi, infatti, testimoniano tutto ciò e sottolineano che la donna viene ancora vista come oggetto di piacere. La dignità è un dote così preziosa e dobbiamo preservarla ad ogni costo. E in quest’ottica, le manifestazioni che si sono svolte nelle 117 città italiane, sono un segnale di ribellione.

Non si vogliono dare giudizi politici, né essere bigotti, tradizionalisti, mora-listi, bacchettoni ma si vuole inculcare nei giovani l’idea che valgono, che non hanno bisogno di mostrarsi, di vendersi per essere notati ed apprezzati. Questo discorso vale soprattutto per le donne che troppo spesso si sentono inadeguate per colpa della società che propone l’immagine di donne giovani, belle, piacenti.

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Apprezzabili, invece, sono i contributi di grandi donne come: Madre Teresa di Calcutta, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Rosy Bindi, donne che portano avanti i loro ideali e che non si riconoscono negli stereotipi pubblicizzati e il contributo di tante donne “comuni” che scrivono la storia della nostra epoca.

Dibattito Alfio: la situazione attuale è veramente preoccupante, anche se, fortunata-

mente, la maggior parte delle donne non sono come quelle che appaiono e domi-nano in televisione. Con il tempo il concetto di etica si è modificato. Vorrei pre-cisare, però, la differenza tra il concetto di etica e quello di estetica. L’estetica, non è l’arte del bello. In origine è una scienza, precisamente un ramo della filo-sofia, che permette di conosce il mondo attraverso i sensi. Noi, invece, ne faccia-mo un concetto di bellezza. Prima, a differenza di oggi, le donne “trasgressive” non erano da imitare, anzi venivano isolate. Oggi è il contrario. Il problema ha alla base l’educazione in ogni ambito (scuola, famiglia..) e rischia di contamina-re l’uomo. I modelli che ci vengono proposti sono da combattere e non da pren-dere ad esempio. È scorretto che passi l’idea che chi ha un bel fisico, abbia un potere. La donna ha anche sogni, virtù, emozioni da coltivare. Educhiamoci, quindi, alle cose belle.

Cosimo: questa realtà, purtroppo, mostra il marcio. La manifestazione delle donne nelle 117 piazze italiane è stata importante perché è un segnale di ribellio-ne. Quando parliamo di prostituzione occorre stare attenti. Noi, in effetti, ci pro-stituiamo quando non diciamo quello che pensiamo , quando non ci dissociamo. Purtroppo fare la lotta a questo è difficile perché prevalgono gli idoli poco edu-cativi.

Rosa: negli anni ’70, periodo in cui ho vissuto la mia giovinezza, lo Stato ha tentato di offrire diverse possibilità, soprattutto in campo lavorativo alle don-ne, anche se poi non tutte sono state realizzate. Chi ha vissuto in quel periodo ha ancora la voglia di avere quanto era stato promesso. Però mi chiedo, era più di-gnitosa la donna di ieri o quella di oggi? Noi abbiamo dovuto combattere per arrivare a questo punto e per far capire ai giovani valori importanti. Pensiamo al sacrificio tra conciliare il lavoro e i figli, al rischio di perdere il proprio impiego nonostante la legge tuteli la madre lavoratrice. È impensabile che una donna debba scegliere tra lavoro e figli. Dovrebbe esserci un intervento più costante da parte dello Stato.

Davide: sono disgustato della donna per come viene rappresentata oggi. Ad esempio, la Cipriani (che partecipa al G.F.) si è sottoposta ad un intervento di chirurgia-estetica per avere più possibilità nel mondo televisivo. Anche la TV, i cartoni animati, prima, avevano un fine educativo a differenza di oggi.

Serafina: la TV non è fondamentale, nonostante sono in tanti a guardarla, me compresa. Però, comunque, pur guardando programmi poco educativi resto

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delle mie idee. Alcuni miei coetanei ignorano valori veramente importanti. An-che i genitori, a volte, invogliano i figli a fare reality, o altri programmi televisi-vi simili, perché è la via più semplice per avere successo e un buon guadagno. Vedo tanto che non mi piace. Anche la TV, soprattutto in questo periodo, non dà l’input ad evitare queste cose, anzi ci invoglia a farle.

Simona: la realtà che stiamo vivendo non è per niente rosea. Per fortuna però le donne non sono tutte come quelle che i programmi televisivi propongo-no. Infatti, questo è testimoniato dalle manifestazioni che si sono svolte e dai diversi movimenti di ribellione. Ma questa realtà, che tutti disapproviamo, nasce dal piccolo, dal comportamento scorretto di ognuno di noi. È necessario, secon-do me, per cercare di risolvere il problema, avere più cultura ma soprattutto più educazione ed evitare di sottovalutare le difficoltà che sembrano più futili per evitare che si trasformino in macro-preoccupazioni.

Giuliano: le donne si prostituiscono o per scelta o per costrizione. Chi lo fa per scelta è portato a farlo solo per avere una carriera, una chiave di accesso. Non tutti però vendono la dignità, per fortuna ci sono anche donne che difendo-no questo grande valore.

Cosimo A.: la dignità delle donne al tempo di S.B. rappresenta un momen-to. Il problema grave è che questo è ritenuto positivo. Però nonostante tutto ci sono cose che danno dignità alla donna.

Iole: stiamo parlando delle donne, ma c’è anche l’uomo che compare. È noto che agli inizi degli anni ’70 rispetto ad oggi, la donna-lavoratrice era più tutelata. Nel nostro tempo, infatti, il tasso di natalità è diminuito; probabilmente perché è difficile conciliare lavoro e famiglia, ma anche perché non si ha un’occupazione stabile. Avrei voluto essere un uomo perché sicuramente avrei avuto più diritti. È doveroso menzionare che. ancora oggi, migliaia di donne so-no costrette ad indossare il burqa per non mostrare il loro volto. Ricordiamo, infatti, che nel tango la donna balla marciando indietro.

Tommaso: L’uomo nella vita ha sempre avuto un particolare successo: si trova spesso al potere, ad essere popolare... Questo vuol dire che i talenti femmi-nili non sono molto valorizzati. Io credo che ogni essere umano ha diritti inalie-nabili e per questo tutti dovremmo collaborare affinché siano tutelati e rispettati.

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Le mafie e il movimento antimafia in Italia

Umberto Santino Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”

www.centroimpastato.it

(Appunti a cura di Simona Arpino, Guido Daniele Attanasi e Simone Colace per l’incontro-dibattito del 23 febbraio 2011)

Vi propongo una riflessione a partire da alcune indicazioni sull’attività del

nostro Centro di documentazione, sullo studio della mafia e sulla lotta contro di essa.

Se aprite L’agenda dell’antimafia 2011 al mese di dicembre trovate alcune informazioni sulle varie mafie: cosa nostra siciliana, la ’ndrangheta calabrese e la camorra campana. La prima conta circa 6000 affiliati; ciò significa che c’è un mafioso ogni 913 abitanti. La ’ndrangheta calabrese ha più di 6.000 affiliati, ma in rapporto agli abitanti la percentuale è maggiore, infatti, un calabrese su 346 è un affiliato. La camorra ha circa 7.000 affiliati con un rapporto di uno ogni 864 abitanti. Se il problema fossero solo le organizzazioni criminali, ci troveremmo davanti un fenomeno quantitativamente limitato, in tutto alcune migliaia di per-sone, capaci di esercitare uno scarso condizionamento sul quadro sociale, un fenomeno delinquenziale di competenza dei magistrati e delle forze dell’ordine. Invece, il problema diventa più complesso se si considera quello che ho chiama-to “sistema di rapporti”.

Con questo termine non intendo criminalizzare l’intero contesto sociale, ma evidenziare che ci sono soggetti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni che condividono con i mafiosi interessi e modelli culturali. È il sistema di rapporti che fonda il potere di cosa nostra, della ’ndrangheta, della camorra. Le organizzazioni crimi-nali possono contare su un blocco sociale molto ampio, che va dagli strati popo-lari agli strati più alti, quelli che chiamo “borghesie mafiose”. Il rapporto con l’economia, con il contesto sociale e politico è un dato costitutivo del fenomeno mafioso. Senza di esso le mafie conterebbero molto meno. Se esse hanno un ruo-lo negli appalti di opere pubbliche, nella sanità, lo hanno grazie a questi rapporti. Se le mafie riescono a impiegare grandi masse di capitali nell’economia legale lo fanno grazie all’ausilio del sistema finanziario, attraverso cui avviene il riciclag-gio, la pulitura del denaro sporco, accumulato attraverso attività illegali. Ed è questo aspetto che si dovrebbe sottolineare all’interno del mondo della scuola: questo intreccio tra interessi e comportamenti, tra crimine e società.

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Ho visto che nel vostro istituto ci sono delle mostre. Vi suggerisco di realiz-zare una mostra per raccontare la storia della Calabria. Dentro questa storia c’è la ’ndrangheta, ma ci sono pure le lotte popolari, le lotte contadine che ci furono sia in Sicilia che in Calabria, con un contributo significativo delle donne. Chi di voi ricorda le lotte contadine del secondo dopoguerra, chi sa chi era Giuditta Le-vato uccisa da un campiere il 28 ottobre 1946, chi conosce la strage di Melissa del 29 ottobre 1949? Ricostruite assieme ai vostri docenti questa storia. È l’unico modo per capire la realtà in cui viviamo: il presente è figlio di quel pas-sato.

Le lotte contro la mafia non sono una novità degli ultimi anni. Fino ad oggi il soggetto più importante è stato il movimento contadino, soprattutto in Sicilia. I contadini non si limitavano a fare qualche manifestazione contro la mafia, ma si scontravano con i proprietari terrieri e i mafiosi, lottando per l’occupazione, i miglioramenti del salario e delle condizioni di vita, il diritto al voto. Si lavorava dal sorgere del sole fino al tramonto (come si diceva “da suli a suli”). Ottennero la riduzione dell’orario lavorativo a 8 ore, e alcuni diritti elementari. Voglio ri-cordare che nel 1861, alla nascita dello Stato italiano, solo l’1,9% della popola-zione godeva del diritto di voto, limitato per censo.

Nei primi anni ’90 dell’Ottocento si svilupparono i Fasci siciliani che rac-colsero centinaia di migliaia di persone. I proprietari terrieri del Sud, il governo cominciarono a preoccuparsi della crescita di questo movimento e ci fu una san-guinosa repressione, con 108 morti dal gennaio 1893 al gennaio del 1894, con i processi ai dirigenti e ai militanti. E quella stagione di lotte si concluse con un milione di emigrati. Anche le successive ondate del movimento contadino, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, e poi negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso innescarono la violenza mafiosa con decine di morti. Tutti questi delitti sono rimasti impuniti, perché la violenza serviva a mantenere un determinato assetto di potere. La riforma agraria, che si cominciò a fare dopo la strage di Melissa del ’49, fu in gran parte una beffa e milioni di meridionali emigrarono. Quello che è accaduto dopo, in quasi mezzo secolo di potere della Democrazia cristiana, deriva da questa sconfitta storica. Ma alcuni principi fon-damentali della nostra costituzione, come l’eguaglianza di tutti i cittadini di fron-te alla legge sancito dall’articolo 3, sono figli della Resistenza antifascista e delle lotte popolari del nostro Mezzogiorno.

Dopo la sconfitta delle lotte contadine, la lotta contro la mafia è fatta da minoranze, dalle forze di opposizione, da associazioni, comitati. E negli anni ’70 particolarmente significativa è l’esperienza di Peppino Impastato. A cui abbiano dedicato il Centro, per due ragioni. La prima è che Peppino la mafia non l’aveva a cento passi, come ormai milioni di persone pensano, ma proveniva da una fa-miglia mafiosa e ha cominciato a lottare contro la mafia a partire dalla rottura con il padre e con la parentela. E questo quando aveva la vostra età. Nella storia della lotta contro la mafia è un caso unico. La seconda è che egli aveva un’idea

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di mafia e antimafia molto vicina alla nostra. La mafia non solo come organizza-zione criminale ma come fenomeno sociale e politico, l’antimafia come impegno quotidiano fatto di analisi, denunce, informazione, mobilitazione: l’antimafia sociale.

Negli ultimi decenni le mafie si sono rafforzate con i traffici internazionali. La mafia siciliana, dopo i grandi delitti e le stragi ha ricevuto dei colpi, con arre-sti e condanne, mentre la ’ndrangheta che ha lavorato più nell’ombra ha accre-sciuto il suo ruolo e investe i proventi dell’accumulazione illegale soprattutto al Nord. Anche la camorra è cresciuta e sono nati altri gruppi criminali. Dobbiamo chiederci perché. La risposta va cercata nei grandi affari dell’economia illegale, nella debolezza dell’economia legale, nei rapporti con il quadro sociale e politi-co. Sono questi rapporti che spiegano l’impunità dei grandi delitti e delle stragi che hanno insanguinato il nostro paese. Sono impuniti, e i mandanti non vengo-no mai colpiti, perché sono il frutto di interazioni complesse, che passano attra-verso settori delle istituzioni.

Per quanto riguarda l’antimafia, nella mia Storia del movimento antimafia, esaminando le iniziative degli ultimi anni, guardo soprattutto a quelle che hanno una certa continuità: le attività nelle scuole, le associazioni antiracket, l’uso so-ciale dei beni confiscati.

Nelle scuole si è cominciato a parlare di mafia dopo l’assassinio del presi-dente della regione siciliana Piersanti Mattarella nel 1980, in seguito le iniziative si sono estese alla Calabria e ad altre regioni e dopo le stragi del ’92 e del ’93 a tutta l’Italia. Si parla di “educazione alla legalità” e troppe volte ci si limita a una legalità formale: il rispetto delle leggi. Bisognerebbe almeno aggiungere gli ag-gettivi “costituzionale” o “democratica” perché anche leggi razziste del nazifa-scismo e le attuali leggi ad personam formalmente sono legalità. Bisogna guar-dare ai contenuti, a cominciare dal rispetto dei principi fondamentali della costi-tuzione. Come Centro Impastato lavoriamo nelle scuole dai primi anni ’80 e fin dall’inizio abbiamo detto che non ci si può limitare a iniziative sporadiche ma bisogna affrontare questi temi nei programmi, cioè nella scuola quotidiana. Ma oggi la scuola pubblica è gravemente minacciata da una riforma che favorisce le scuole private.

Le associazioni antiracket si sono sviluppate soprattutto dopo l’assassinio dell’imprenditore Libero Grassi nel 1991, che ha detto no al pizzo, e attualmente ci sono un centinaio di associazioni e qualche migliaio di soci, quasi tutti nell’Italia meridionale. Estorsioni e usura sono diffuse in tutta l’Italia e bisogne-rebbe estendere l’associazionismo a tutto il Paese, ma nel Nord domina la cultu-ra leghista che privilegia l’iniziativa individuale.

L’uso sociale dei beni confiscati nasce dalla legge 106 del 1990, che segue alla legge antimafia del 1982, approvata dieci giorni dopo l’assassinio del prefet-to di Palermo Dalla Chiesa. Si sono formate alcune decine di cooperative con alcune centinaia di soci. Bisogna incrementare le confische, assegnare in tempi

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brevi i beni confiscati (attualmente i tempi sono troppo lunghi) e questa può di-ventare la via maestra dell’antimafia sociale perché la lega all’occupazione in attività pulite e all’uso razionale delle risorse. Questo può essere uno sbocco concreto dopo i vostri studi, altrimenti sarà difficile trovare un lavoro dignitoso.

La lotta alla mafia dev’essere uno dei terreni decisivi della lotta per la de-mocrazia. Particolarmente difficile oggi, perché viviamo un periodo di vera e propria crisi della democrazia. Le leggi ad personam di Berlusconi sono fuori dai principi fondamentali della costituzione, la ricerca dell’impunità ad ogni co-sto, l’attacco alla magistratura sono un favore alle mafie. E la democrazia non si salva se non c’è una consapevolezza diffusa e una capacità di vigilanza e di par-tecipazione, che passa attraverso il voto per persone che non abbiano legami con le mafie e soprattutto attraverso comportamenti coerenti nella vita quotidiana.

Dibattito (a cura di Simona Arpino, Guido D. Attanasi, Simone Colace)

Jessica: secondo lei, la legalità è un principio che noi giovani viviamo in

questa società, oppure molte sono le sollecitazioni esterne che ci discostano da tale enunciato?

Amedeo: abbiamo avuto un periodo storico in cui molti magistrati hanno lottato e anche perso la vita per ideali come la giustizia e il senso del dovere. Oggi, spesso, assistiamo a film e trasmissioni televisive che non sono basati su tali principi ma su concetti di audience e di realtà molto comuni e fuori dalla legalità. Che cosa ne pensa?

Francesco: assistiamo in quest’ultimo periodo a molti attacchi al concetto di democrazia e di libertà. Non le sembra che il nostro sistema politico sia inade-guato a confrontarsi con questa realtà?

Guido: quali sono le motivazioni per cui ha fondato il centro siciliano di documentazione “P.Impastato”?

Serafina: a quali scopi puntava l’associazione, appena fondata? Oggi, sono diversi da allora?

Davide: da quando ha fondato il centro “P.Impastato” ha notato dei cambia-menti nelle persone e nella loro mentalità? Non ha paura di essere vittima di ri-vendicazioni o intimidazioni da parte della mafia? Come si può pretendere di combattere la mafia se ci sono infiltrazioni nella politica e nei media?

Cosimo A.: che influenza hanno sulla cultura e sui comportamenti quotidia-ni le mafie?

Alfio: spesso tra i giovani si dice: “La mafia non ci interessa”; però respiria-mo nella vita di ogni giorno un esempio di cultura mafiosa: la raccomandazione. Come si può formare una cultura antimafiosa nel quotidiano? Come possono i giovani riconquistare la fiducia?

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Risposte

A Jessica. Riguardo alla legalità le sollecitazioni sono contraddittorie. Per

un verso ci sono le iniziative nelle scuole sull’educazione alla legalità, con i li-miti che già indicavo. Per un altro verso dall’alto, in particolare da Berlusconi e dai suoi alleati, giungono quotidianamente non solo le dichiarazioni contro i ma-gistrati, i progetti di riforma della giustizia punitivi soprattutto per quei magistra-ti che hanno osato indagare su di lui e altri uomini di potere ma soprattutto deci-sioni che sono una vera e propria legalizzazione dell’illegalità, per sottrarlo alle inchieste e ai processi e una continua violazione dei principi fondamentali della costituzione. Il problema è che Berlusconi ha goduto finora di un ampio consen-so elettorale che dimostra che molti italiani si riconoscono nei suoi comporta-menti. Non per caso siamo un paese con tantissimi evasori fiscali. Questo si spiega con una fragilità della cultura democratica nel nostro paese. Non per caso in Italia c’è stato il fascismo, c’è stato un potere democristiano, senza alternati-va, per mezzo secolo e oggi c’è il berlusconismo.

Ad Amedeo. Non posso che ribadire quello che dicevo prima. I magistrati più seri e coraggiosi si celebrano da morti, ma sono isolati e denigrati da vivi. I magistrati vanno bene per molti quando processano Riina, Provenzano e gli altri mafiosi, mentre quando indagano sul terreno imprenditoriale e politico, quando toccano gli strati più alti, gli uomini di potere sono “toghe rosse” e “comunisti”.

A Francesco. Sì, ritengo che la democrazia in Italia corra seri rischi, do-vremmo pensarci non solo quando andiamo a votare ma ogni giorno, cercando di costruire consapevolezza e partecipazione, cioè vivendo la democrazia.

A Guido, Serafina e Davide. Ho già parlato del Centro. L’ho fondato non perché ho l’hobby dell’antimafia ma perché penso di far parte di una storia che è quella della Sicilia che ha lottato per liberarsi dalla mafia, dalle lotte contadine alle iniziative di oggi. L’intitolazione del Centro a Peppino Impastato, militante nei gruppi di Nuova Sinistra e ucciso per il suo impegno radicale contro la ma-fia, fu vista male poiché egli era considerato da molti un terrorista, un suicida. Solo per l’impegno dei familiari, che ruppero con la parentela mafiosa, di alcuni compagni di militanza e di noi del Centro, si è affermata la verità. Io non cono-scevo bene Peppino, avevo 9 anni in più, ho militato in gruppi politici diversi da quelli in cui ha militato lui. Il mio rapporto con lui nacque subito dopo la sua morte, solo allora ho saputo che proveniva da una famiglia mafiosa. Gli abbiamo dedicato il Centro per questa sua specificità che ne fa un caso unico nella storia delle lotte contro la mafia e per la complessità della sua analisi e della sua attivi-tà, che coniugava impegno politico, sociale e culturale. Gli scopi del Centro era-no lo studio, la ricerca, la mobilitazione, e sono validi ancora oggi, forse ancora più di ieri. Quando abbiamo fondato il Centro la mafia ufficialmente non esiste-va come struttura organizzativa e come sistema di rapporti, ma veniva considera-

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ta solo una subcultura dei siciliani. E il nostro lavoro era ed è rimasto controcor-rente. Ancora oggi circolano stereotipi e idee inadeguate.

In questi anni c’è stata una presa di coscienza, soprattutto dopo i grandi de-litti e le stragi, ma l’antimafia come pratica condivisa è ancora minoritaria. E, se non si lega la lotta alle mafie alla lotta per l’occupazione e per l’uso razionale delle risorse, lo resterà.

La paura di attentati c’è, ma si governa se si è insieme con altri, perché la lotta solitaria è sicuramente perdente. La lotta contro la mafia dev’essere una lotta corale.

Per quanto riguarda le infiltrazioni, per me si tratta di un rapporto organico con la politica da parte di mafia e ’ndrangheta, che si è sviluppato nel passato e continua nella realtà attuale.

Ai professori, Cosimo e Alfio. Le mafie condizionano la nostra vita quoti-diana non solo con la violenza e l’intimidazione ma soprattutto con l’aspirazione all’arricchimento facile e l’assuefazione alla passività. Sono grandi macchine di corruzione e di espropriazione delle libertà e della democrazia.

La raccomandazione è una delle forme di perpetuazione del clientelismo e contribuisce a costruire quella che ho chiamato la “società mafiogena”, un grem-bo ospitale per lo sviluppo delle mafie. Alcuni suoi caratteri: l’accettazione dell’illegalità da buona parte della popolazione, la fragilità dell’economia legale e del tessuto civile, la cultura della sfiducia e del fatalismo, l’aggressività nei comportamenti della vita quotidiana. Una cultura antimafiosa si costruisce con rapporti fondati sulla convivenza e non sulla competitività, sulla responsabilizza-zione e non sulla rinuncia e l’indifferenza. La scuola pubblica dovrebbe essere l’esempio di una democrazia quotidiana e il luogo di formazione di una coscien-za critica. E non per caso vogliono mortificarla e ridurla a una succursale squali-ficata delle scuole private.

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Emigrazione e immigrazione: due facce della stessa medaglia

(appunti a cura di Chiara Marra e America Oliva per la riunione di SOS scuola

del 10 marzo 2011)

L’incontro prende le mosse dalla visione del documentario Polenta e mac-caroni. Quando gli altri eravamo noi trasmesso dalla Rai nella puntata del 27 agosto 2010 de La grande storia.

Riportiamo una parte della recensione sul documentario pubblicata sul sito www.lagrandestoria.rai.it a proposito del documentario: «“Occhio zio Sam sbar-cano i sorci!” così titola una vignetta pubblicata su un giornale americano nel 1903. Quei sorci, rappresentati mentre schizzano correndo fuori da una stiva, sono solo alcuni tra le migliaia e migliaia di italiani che si riversarono negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

L’avanguardia di una massa di migranti che tra il 1876 e il 1976 porterà fuori dai confini nazionali in cerca di un lavoro, ben 27.000.000 di persone. Una massa di individui poveri, affamati, impauriti, facile preda di agenti cui vendere le proprie braccia e i propri figli. Bambini di appena sette otto anni, ce-duti per 100 lire a trafficanti senza scrupoli, per mendicare nelle piazze al co-mando di orchi ambulanti o lavorare davanti fuoco delle vetrerie francesi.

E ancora centinaia di migliaia di clandestini sulle navi per le Americhe o tra i sentieri delle Alpi.

E poi emigranti con tanto di passaporto e biglietto, ma accusati di essere ladri di posti di lavoro e crumiri. Linciati perché bastardi dal sangue nero. Consi-derati tutti anarchici, mafiosi, criminali.

Disprezzati nelle miniere del Belgio perché considerati ancora alleati del nemico nazista. Vittime della xenofobia svizzera, che considera reato non grave l’omicidio di un italiano. Obbligati a nascondere i figli, a rintanarli in casa, a costringerli al silenzio per non essere espulsi.

Il documentario si propone di raccontare alcune di queste storie, alcuni di questi episodi tra i più difficili, brutali, inquietanti. Dai viaggi in nave verso l’America ai massacri di New Orleans o della fabbrica Triangle di New York. Dall’accusa di essere neri nel sangue a quella di esprime-re un cattolicesimo primitivo e pagano.

Dall’emigrazione fascista nelle colonie africane all’emigrazione del dopo-guerra propagandata dal governo come contributo individuale alla ricostruzione dell’economia nazionale.

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Una storia fatta di storie, raccontata con l’ausilio di linguaggi diversi: la memoria delle testimonianze, il racconto delle immagini di repertorio, l’affabulazione di un narratore, i flash di una fiction d’epoca cinematografica o televisiva».

La visione del documentario diventa l’occasione per riflettere su questi te-mi.

Consideriamo che nella storia i fenomeni migratori (che hanno riguardato i Greci, gli Ebrei, i popoli “barbari” verso occidente, gli europei verso le Ameri-che nel XX secolo) si sono verificati, fondamentalmente, a causa di sovrappopo-lamento (per quanto riguarda l’epoca antica) e di mancanza di risorse per la so-pravvivenza.

I fenomeni migratori recenti, che vedono l’Italia come terra di approdo di migliaia di africani disperati che affrontano il mare a rischio della vita, ci inter-rogano tutti in quanto cittadini: è possibile arginare questi fenomeni? Con quali interventi? E se non è possibile arginarli, quali possono essere le modalità di accoglienza di quanti vengono a cercare lavoro e condizioni di vita migliori nel nostro Paese? Come la nostra legislazione contribuisce a favorire i processi di accoglienza?

Dibattito

Nelia: mi riferisco alla legge Bossi-Fini: le quote di immigrati per l’agricoltura sono troppo basse, perciò spesso le aziende sono costrette a prende-re gente in nero.

Alfio: prima di vedere cosa fare, dobbiamo tenere presente che il problema è politico, economico, sociale, ma anche culturale ed etico. Vediamo prima co-me ci poniamo rispetto al diverso. Come abituiamo i nostri ragazzi? A casa dei miei genitori, da che avevo una badante, ora ho con me tutta una famiglia. Dob-biamo lavorare per la convivenza pacifica. Occorre distinguere tra chi resta e chi vuole ritornare nel proprio paese. Così si semina la pace.

Dominique: il problema dell’immigrazione, a mio avviso, va analizzato su più livelli: quante persone? Come? Perché? Quanti lavoratori servono? Con qua-li contratti? L’Islam può convivere con l’occidente laico? A mio avviso no.

Cosimo A.: siamo in presenza di un fenomeno molto complesso. Certo i paesi più ricchi sono quelli che attirano di più. Le possibili soluzioni vanno in-sieme alle nostre paure. È sempre un problema interagire con il diverso. È im-portante il livello educativo, ma la sostenibilità del fenomeno va comunque pre-sa in considerazione. Forse le soluzioni devono essere dinamiche, flessibili e globali.

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Rosa: non mi sento minacciata dalla presenza degli immigrati. La situazione attuale è una situazione di caos. Certo ci vuole una regolamentazione, ma non filtrata dalla paura.

Giovanna: l’accoglienza non può essere all’infinito, non ci vuole buonismo. America: l’accoglienza non può basarsi sull’iniziativa personale. Mio padre

era felice di essere emigrato in Venezuela. Si era trovato bene con le persone con cui è entrato in contatto, anche se di cultura diversa dalla sua. La sofferenza più forte viene dal fatto di avere la famiglia divisa, perché alcuni sono tornati in Ita-lia, e altri sono rimasti in America. Chi emigra si porta dietro questa sofferenza della divisione.

Iole: quello che sta accadendo in nord Africa è una cosa particolare. Chi viene in Italia deve rispettare le regole che trova. Ora pare che arrivino prevalen-temente uomini, giovani, di buon livello culturale.

Tommaso: certo il fenomeno non può essere arginato. Tutti noi, se abbiamo raggiunto un certo livello di benessere, vogliamo mantenerlo. Ma un essere uma-no, dal momento in cui nasce, è portatore di diritti inalienabili: nutrimento, abbi-gliamento, cure mediche, istruzione, ecc. I clandestini sono tali perché le nostre leggi li definiscono in questo modo. Ma questa gente non rischierebbe la vita se alle spalle non avesse situazioni di sofferenza, di guerra, di miseria, di assenza totale di libertà. Noi siamo troppo benestanti e non siamo capaci di metterci, an-che per un istante, nei loro panni: ci piacerebbe sfruttarne le capacità lavorative, usandoli come macchine da lavoro, ma non vogliamo fare i conti con loro in quanto uomini e donne che hanno bisogni, sentimenti, aspirazioni. Bisognerebbe vedere in che modo accogliere questa gente. Questo fenomeno va affrontato in modo più deciso dai nostri governanti, stanziando anche risorse finanziarie ade-guate.

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L’Unità d’Italia all’ITC “V. Cosentino”

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Il Risorgimento italiano 150 anni dopo

(appunti a cura di Tommaso Cariati dalla riunione di SOS scuola dell’11 gennaio 2011)

Dibattito seguito all’introduzione di Alfio Moccia

Tommaso: ringraziamo Alfio per la sua breve relazione, comunque suffi-

ciente a delineare il quadro del Risorgimento e i personaggi. Un punto vorrei però che fosse approfondito: in quale misura l’unità d’Italia è stata resa possibile dal clima culturale italiano ed europeo di quegli anni? In che senso, per esempio, il Risorgimento è stato frutto del romanticismo?

Alfio: il moto risorgimentale è stato preparato sul piano culturale forse nella stessa misura della rivoluzione francese. Bisognerebbe distinguere però tra ro-manticismo e romanticismo, tra quello di Manzoni e quello di Leopardi, ma cer-tamente l’ideale di libertà coltivato da tutti quei giovani capaci di lasciare le loro occupazioni e correre, a rischio della vita, da una regione all’altra del paese ha avuto un ruolo decisivo. Mameli, l’autore del testo del nostro inno nazionale, era ligure, e aveva una ventina d’anni quando perse la vita a causa di una grave feri-ta riportata mentre combatteva al Gianicolo per la repubblica romana, alla fine degli anni ’40.

Rosa: io non so se i giovani hanno ricevuto una luce in questa nebbia e nella confusione di oggi. Io non credevo che avremmo sperimentato una così grande involuzione.

Emilia: Alfio è stato bravo a tracciare un orizzonte. Dal punto di vista stori-co i giudizi di merito possono e devono essere dati: la storia non è neutra. Osser-vo che noi siamo stati educati ai valori della patria, del tricolore ecc. per esempio partendo dalla costituzione, oggi non so se ci sia lo stesso impegno educativo. Osservo anche che la storia deve essere studiata ed amata, leggendo anche libri diversi dal libro di testo. Alfio ha toccato di striscio anche Dante: pensiamo a tutti gli elementi che formano una nazione.

Francesco: mi è piaciuto quello che ha detto Alfio, per esempio quando ha affermato che l’unità d’Italia forse non è stata mai compiuta. Qualcosa certo è stato fatto e occorre andare avanti, ma io credo che l’unità d’Italia non sia mai fatta veramente.

Alfio: d’accordo che l’opera non sia compiuta, ma dobbiamo valorizzare quello che c’è di positivo, perché, vedete, Bossi e gli altri leghisti passeranno; il problema si porrebbe seriamente se la mentalità antiunitaria si diffondesse tra la gente e diventasse sentimento comune diffusissimo.

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Laura: penso che l’Italia rischia di non essere più unita perché negli italiani l’individualismo ha preso il sopravvento sull’altruismo. L’italiano è italiano solo quando c’è la partita della nazionale e si canta l’inno.

Irene: io penso che nelle varie regioni ci sia un particolare modo di vivere e di pensare e non ci sia la possibilità di uniformarsi a dei valori comuni nazionali, magari elaborati da qualcuno a tavolino.

Simona: l’unità d’Italia è stata iniziata nell’’800 ma deve essere continuata da noi e dalle generazioni future. Purtroppo la mancanza di senso di responsabi-lità e di educazione adeguata fa temere il peggio, ma io credo che il processo storico sia irreversibile.

Alfio: lo stato della Chiesa, la religione cattolica, il Vaticano, in tutto l’arco temporale che va dal 1848 a oggi, hanno comportato condizionamenti sul paese (tutti i partiti che vogliono governare devono tenere conto dei voti dei cattolici). Però anche la religione costituisce un forte collante per l’unità nazionale.

Chiara: per me l’Italia è una ed unita. Io non credo che le polemiche dei leghisti porteranno mai a qualcosa. A me sono stati utili i libri di testimonianza come quelli di Nuto Revelli. Mi sono servite anche le visite ai luoghi della me-moria, per esempio a Bezzecca della Battaglia: consiglio ai giovani gli uni e le altre.

Iole: io ho iniziato ad amare la storia attraverso i romanzi. Ritorno al 1848 e mi chiedo: tanti giovani sono morti, ma a quale classe sociale appartenevano? Sapevano leggere e scrivere?

Alfio: il Risorgimento, nelle punte avanzate del movimento, è stato fatto dagli intellettuali. A differenza però, ad esempio, della repubblica partenopea, il Risorgimento ha saputo mobilitare il popolo. Cavour inoltre ha capito subito che c’era bisogno di un esercito regolare comandato da ufficiali borghesi ma capaci di organizzare e muovere la gente. Bisogna però tenere conto che “popolo” a quel tempo non aveva la stessa accezione che ha oggi. Madame de Stael, per esempio, definisce “popolo” quella classe che ha la cultura e il potere economico ma non ha il potere politico: era la borghesia emergente che voleva rovesciare l’aristocrazia. Non dimenticate mai che i cosiddetti plebisciti sono stati eventi in cui un’infima minoranza poteva esprimere il voto, e sono stati anche pilotati.

Guido: io mi chiedo: festeggiamo l’unità d’Italia o ci limitiamo a celebrar-la? Perché se guardiamo alle polemiche intorno alla festa nazionale del 17 mar-zo, mi pare che di festeggiare non ce ne sia la voglia.

Alfio: ci sono forze politiche che polemizzano e non partecipano. Per alcuni partiti non è una festa ed è vero anche che alcune iniziative sono puramente reto-riche. Però chiediti: io come mi sento? Come sono arrivato all’età di diciotto anni, da italiano o da cosa? Che cosa vuol dire essere e sentirsi italiani?

Cosimo: noi parliamo di unità d’Italia, però oggi c’è la globalizzazione, c’è l’unità europea… in futuro avrà ancora senso l’unità d’Italia?

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Alfio: io penso che il futuro sarà come il passato se chi entra in contatto con gli altri lo fa soltanto per assoggettarli, colonizzarli e sfruttarli. Sarà diverso se entriamo in relazione con gli altri alla pari: nel nostro Sud le cose non hanno funzionato perché il Mezzogiorno è stato visto dai piemontesi come mercato, come serbatoio di braccianti e di sodati. Dall’unità infatti si parla di questione meridionale, individuata già da Cavour (sul letto di morte disse che l’Italia aveva “tre quistioni”: quella di Napoli, quella romana e quella veneta).

Tommaso: l’anno scorso con una classe abbiamo prodotto uno spot sull’identità italiana. Le poche parole usate, divise in tre gruppi, erano: “l’Italia l’abbiamo fatta; guai a chi la tocca; quanto agli italiani… ci stiamo lavorando”. L’obiettivo era quello di sostenere un sentimento di italianità in fieri. Pensate che nel 1911 i festeggiamenti dell’unità sono stati incentrati sul tema di “Roma capitale”; nel 1961, dopo l’ubriacatura fascista e imperialista, e due grandi guer-re, certi temi erano anacronistici e si puntò sul mito del progresso economico e tecnologico, perciò i festeggiamenti si concentrarono a Torino come capitale industriale; quest’anno capofila nei festeggiamenti è il Piemonte ma le istituzioni sembrano imbarazzate o contraddittorie, se non apertamente polemiche: ci sono iniziative di fondazioni private e di associazioni culturali ma manca l’impronta forte da parte dello Stato. Si sente che siamo divisi e disorientati: per giunta l’evento cade nel bel mezzo di una crisi economica mondiale, non come il ’61 in tempi di vacche grasse.

In tanta tiepidezza come riusciremo a sciogliere nei prossimi anni i molti nodi venuti al pettine? Quello delle mafie che condizionano la vita democratica, quello della Chiesa che continua a fare politica, quello del divario crescente tra Nord e Sud, quello del conflitto di interesse o dell’interesse privato in atti d’ufficio, quello della decadenza sociale, politica e culturale; come scioglierli?

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L’Unità d’Italia e il brigantaggio. Lotta a gruppi di assassini o guerra civile?

Relazione di Mario De Bonis

(Appunti a cura di Simona Arpino e Simone Colace, 16 marzo 2011)

Il 17 marzo 1861 venne proclamato il regno d’Italia. Un giovane intellettua-le, Massimo D’Azeglio disse “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani”; un intento difficile da attuare considerando i numerosi problemi che caratterizza-vano l’Italia in quel periodo. Tra le tante difficoltà emergeva l’analfabetismo che rappresentava circa il 94% della popolazione. Gli impegni del Governo di garan-tire, ad esempio, a tutti un minimo di istruzione non furono attuati, e il divario tra Nord e Sud era sempre più evidente. Godevano di questo diritto soltanto il 6% della popolazione del Nord poiché il Sud non era molto considerato. Proprio in questa diversità nasce il brigantaggio, termine latino che significa “guerra combattuta”. Con la dominazione austriaca del Nord si iniziarono a creare scuo-le, per cui la popolazione settentrionale era più acculturata, mentre quella meri-dionale era abbandonata a se stessa. In base ad una legge costituzionale i giovani con una età compresa tra i 21 e i 26 anni, erano obbligati a svolgere il servizio militare, ciò significava privare le famiglie della forza lavoro. L’agricoltura co-stituiva l’attività principale di quel tempo, che permetteva la sopravvivenza. Il brigantaggio, presente anche nei Balcani, in California, in Germania e in Spagna, nasce al tempo della Repubblica Romana. Nel periodo del brigantaggio ebbero un peso importante anche le donne; infatti, persino una calabrese di Pedace so-stituì il marito Pietro Monaco, per continuare la lotta contro gli ufficiali.

Il fenomeno della “brigata” che fece seguito all’unificazione d’Italia fu un movimento misto di ribellione politica delle campagne, che si sviluppò nel Meri-dione. Le bande dei briganti si allargarono rapidamente per creare movimenti insurrezionali. I contadini del tempo non avevano alternativa, erano costretti a partecipare al brigantaggio o dovevano emigrare. Infatti, i critici del tempo dice-vano “o emigrante o brigante”. Ma essere brigante significava avere un crudele destino. Essi avevano una formula di giuramento e dei comandamenti, i più im-portanti erano: cercare di colpire gli ufficiali e i graduati; esponi la vita per sal-vare quella di un compagno; uccidilo se ferito e non lasciarlo in mano ai nemici; nei combattimenti corpo a corpo si doveva infilare la spada e girarla per provo-care più dolore. I briganti credevano nella libertà, nella fratellanza e nel riscatto e sostenevano che era meglio morire in piedi che in ginocchio.

A San Marco anche un signore fu coinvolto nel fenomeno del brigantaggio: il Barone Campagna per proteggere le proprie terre si avvalse dell’aiuto dei bri-

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ganti. Ad arrestarlo fu Pietro Fumel, che rimase “famoso” anche per aver distrut-to altre bande calabresi. Il nuovo Stato italiano costrinse il barone Campagna a 10 anni di lavori forzati. Fumel, inoltre, aveva sconfitto alcune bande, anche nel salernitano. In seguito venne mandato in Calabria come Ispettore della Guardia nazionale mobile. Fumel adottò i metodi della tortura e del terrore per reprimere in modo definitivo il brigantaggio. Agiva senza tenere conto di alcuna garanzia legale, fucilava i briganti e le esecuzioni più crudeli le faceva in pubblica piazza e lungo le strade. Diceva: “Chi dà ricovero e sussistenza ai briganti, sarà imme-diatamente fucilato”. Le sue ferocissime punizioni sradicarono facilmente il pri-mo brigantaggio. Per sopprimere definitivamente questo fenomeno lo Stato ema-nò nuove leggi, come la legge “Pica” del 15/08/1863 il cui obiettivo era quello di estirpare il cancro del brigantaggio in Italia. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più crudele e feroce. La legge “Pica” rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei tribunali milita-ri e alle procedure del codice penale militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge “Pica”, il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e de-portati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai la-vori forzati a vita 83, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile.

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Il Mezzogiorno nell’Italia unita. Economia e società tra realtà e rappresentazione

(Incontro-dibattito con Domenico Cersosimo, del 24 maggio 2011.

Appunti a cura di S. Arpino, G. Attanasi, S. Colace)

Appunti dalla relazione L’Italia viene vista come un sistema dualistico, distinta quindi in due entità:

il Nord ed il Sud. Quando diciamo “Mezzogiorno” non abbiamo tutti la stessa idea. Chiediamoci, per esempio, quali sono le regioni che ne fanno parte? Il ter-mine “Mezzogiorno d’Italia” o “Sud Italia” o anche “Meridione” definisce co-munemente, dal punto di vista geografico, ma soprattutto economico e sociale, il territorio che comprende la parte meridionale della penisola italiana. Si compone di 8 regioni e precisamente: Sicilia, Sardegna, Calabria, Basilicata, Puglia, Moli-se, Abruzzo, Campania. L’Italia però viene solitamente distinta in: Nord e Sud. Il Nord sviluppato, moderno, dinamico ed efficiente a differenza del Sud. Il Nord è produttivo, le persone sono civili, hanno senso civico, rispettano i beni collettivi, al Sud invece, sono scansafatiche, non rispettano i beni pubblici. Il Nord è attento alle famiglie, mentre il Sud ha interesse solo per la propria fami-glia. Il Nord dà agio ai meritevoli, il Sud impiega i giovani attraverso raccoman-dazioni e conoscenze personali. Ma è proprio rigidamente così?

Il Mezzogiorno, è vero, ha molti problemi che risultano anche più gravi e urgenti rispetto al Nord, ma non è un altro paese. Il Mezzogiorno è un luogo di rappresentazione sia in Italia che all’estero.

Solitamente una macro-regione può essere analizzata attraverso due dimen-sioni: sincronica e diacronica. La prima analizza il Mezzogiorno di oggi e lo confronta con un’altra realtà. Da questa analisi è emerso che il reddito pro capite corrisponde ad ½ di quello del Nord, così come il Pil. La diacronia non confron-ta due regioni nello stesso istante, ma le considera in un intervallo di tempo. Ad esempio, pensiamo ai soldati di leva del Mezzogiorno: un tempo avevano una statura di 6/7 cm in meno rispetto a quelli del Nord. Questo testimoniava che al Sud si cresceva di meno. Così come l’aspettativa di vita: circa sessanta anni fa era 50 anni. Oggi invece, per le donne è intorno a 84 anni, per gli uomini vicino agli 80. Mentre i bambini al momento hanno un’aspettativa di vita di 100 anni sia al Sud che al Nord. Mentre in passato chi era povero si vedeva anche dal comportamento, oggi la maggior parte delle persone sono molto simili. Quindi da questo possiamo dire che non c’è corrispondenza tra il reddito e il comporta-mento.

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Il Mezzogiorno però va tutelato anche nelle situazioni di difficoltà per pro-teggere ciò che c’è di buono, ciò che funziona. Pensiamo ad esempio al più gran-de polo aerospaziale di Napoli, al grande porto di Gioia Tauro, al centro siderur-gico Ilva di Taranto. Il Nord a differenza del Sud è più compatto, interconnesso. Quindi la felicità individuale diventa felicità dell’area.

Il problema del Sud oggi non è tanto il divario economico, ma quello civile, la qualità delle classi dirigenti e della classe attiva che non è interessata a cam-biare il sistema di funzionamento. Per migliorare le cose occorre, dunque, cam-biare il contesto, migliorare i servizi essenziali dei cittadini. Il Sud è un’area di-versa dal Nord, ma non è un inferno, così come il Nord non è un paradiso.

Dibattito Davide: La mafia ha contribuito ad aumentare le differenze in Italia? Guido: Come contribuiscono i mass media a differenziare il Nord e il Sud? Francesco: C’è per noi una speranza di cambiamento? Simone: In che cosa consiste il processo di omologazione? Mattia: Secondo voi, il federalismo migliorerà o peggiorerà la situazione

della Calabria? Risposte La mafia ha contribuito molto ad accentuare le differenze tra Nord e Sud,

ma adesso non ha più un peso determinante. A volte è usata come un paravento per evitare di cambiare la situazione e fare il nostro dovere. La legalità quotidia-na è importante. Ciò che facciamo oggi è importante per il futuro. Nel nostro piccolo possiamo combattere gli aspetti negativi, quali raccomandazione e nega-zione dei diritti fondamentali.

I mass media non ci aiutano, anzi evidenziano ancora di più il divario tra Nord e Sud Italia. Spesso questi mezzi di comunicazione evidenziano gli episodi negativi nascondendo le buone pratiche per quanto riguarda il Meridione.

La speranza di cambiamento che va attuata nel Mezzogiorno è nei giovani, essendo una riserva crescente di opportunità, ma i giovani devono essere aiutati, guidati e incentivati.

Oggi più che in passato tutti i cittadini riescono a “omologarsi”, cioè posso-no vestire e comportarsi allo stesso modo indipendentemente dalla fascia di red-dito a cui appartengono. Questo fenomeno è legato al mercato globalizzato.

Il federalismo provocherà probabilmente molti tagli e un peggioramento delle condizioni di vita al Sud.

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Il cinema racconta Raccolta di recensioni

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Nel dramma la leggerezza

(Recensione del film Le cinque giornate, redatta dalla classe V A Mercurio, dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata dal prof. Tommaso Cariati, alla

fine della proiezione effettuata il 3 giugno 2011 al cinema Modernissimo-Citrigno di Cosenza, nell’ambito del progetto “Il cinema racconta”)

Il film Le cinque giornate di Dario Argento, con Adriano Celentano, a di-

spetto del titolo, non è un film storico sulle vicende del 1848 conosciute come “Le cinque giornate di Milano”. Addirittura alcuni di coloro che hanno avuto qualche parte, non secondaria, in quella pagina di storia, come Carlo Alberto e il papa Pio IX, non vengono neppure mostrati. Sia per trama, sia per tecnica cine-matografica, sia per mezzi impiegati è un film ben diverso dai colossal hollywo-odiani.

Nel film, su una rievocazione storica in costume de “Le cinque giornate di Milano”, appiccicati in modo posticcio, si muovono due personaggi, tale Caivaz-za, ladruncolo della capitale lombarda, e Romolo, oriundo di Roma, che sembra-no capitati lì per puro caso, visto che il moto rivoluzionario, le barricate, la lotta per la libertà non li coinvolgono e non li infiammano. Molte scene si svolgono nelle strade e nelle piazze di una città che potrebbe essere la Milano della metà del XIX secolo; altre si svolgono all’interno di case e palazzi; i due giovani ve-stono in modo più moderno di come vestono tutti gli altri e parlano una lingua che non è né il dialetto milanese, usato spesso dagli altri, né l’italiano dei notabi-li lombardi, anch’essi ben rappresentati.

Molti elementi ci inducono a pensare che Romolo e Caivazza non siano stati affatto messi lì a caso, né siano stati inseriti soltanto per mostrare una certa indifferenza, un certo individualismo, perfino un certo cinismo degli italiani del-le diverse latitudini. I due giovani compari potrebbero svolgere, e in effetti svol-gono, una duplice funzione. Da una parte, restando neutrali o indifferenti, assu-mono il punto di vista di noi osservatori moderni, calati freddamente come sono nella scena, simili a un Piero Angela miniaturizzato nel corpo umano dei docu-mentari di «Quark», dall’altra pongono in risalto una presunta ma notevole diffe-renza tra gli italiani dei primi anni settanta del Novecento, qualunquisti e oppor-tunisti quant’altri mai, e quelli dell’epoca risorgimentale, eroici e fieri, che lotta-rono e morirono per la Patria.

Il film, nell’insieme, sembra una commedia all’italiana in cui l’elemento comico o grottesco, a volte esagerato e gratuito, svolge l’ufficio di alleggerire il dramma della storia. Nel corso degli avvenimenti però Caivazza e Romolo non riescono a mantenersi totalmente neutrali, infatti, specialmente in due scene, essi prendono posizione netta. In una scena nella quale una giovane milanese, rea di

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essere l’amante di un soldato austriaco, sta per essere violentata da un barone rivoluzionario che si fa chiamare “duce” dai suoi seguaci, vediamo Romolo rea-gire con impeto e coraggio contro questo singolare atto di violenza e il barone-duce, come un sacco di letame, finisce nelle scale del palazzo. Nella scena con-clusiva, invece, è Caivazza che diventa protagonista. I notabili di Milano si alter-nano su un palco, rivolgendo la parola alla folla schierata lì davanti. Caivazza accetta di salire a dire la propria, e dopo molte esitazioni, come uno che è stordi-to o che ha appena fatto una clamorosa scoperta, esclama: “Ci hanno fregato”, cioè: “Io e voi, il popolo, siamo stati buggerati da questi signori schierati sul pal-co”. Al di là del significato politico, qui il Caivazza, abbandonata l’indifferenza, è chiaramente dalla parte del popolo.

Il film, se non narra “Le cinque giornate di Milano”, ci dice molto del dramma degli italiani d’oggi e di quelli del 1973, non meno di quelli del 1848, ma con leggerezza.

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Tutto è possibile quando cambia il vento della storia

(Recensione del film Correva l’anno di grazia 1870, redatta dalla classe V A Mercurio, dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata dal prof. Tommaso Cariati, alla fine della proiezione effettuata il 6 giugno 2011 al cinema Moder-nissimo-Citrigno di Cosenza, nell’ambito del progetto “Il cinema racconta”)

Il film Correva l’anno di grazia 1870 di Alfredo Giannetti, con Marcello

Mastroianni e Anna Magnani, può essere letto su due distinti piani, quello della vita privata, sul quale emergono gli affetti, le idee e i sentimenti dei personaggi, e quello storico-politico. Il film, grazie alla grande bravura degli attori, riesce a mostrare in modo nitido ed inequivocabile idee e sentimenti veri e genuini. La coerenza e la fermezza di Augusto, irriducibile detenuto politico in lotta contro lo Stato della Chiesa, sono esemplari, così come esemplari ed insieme umanissi-mi risultano i sentimenti di Teresa e quelli di don Aldo. Naturalmente, il film mette bene in evidenza anche la circostanza secondo cui le posizioni che le per-sone assumono sul piano privato e le scelte che esse fanno possono avere conse-guenze e ripercussioni anche in ambito pubblico, non solo nella sfera privata. Infatti, chi tradisce un amico impegnato in un’insurrezione potrebbe essere causa del fallimento dell’iniziativa politica da cui spesso dipende il bene di un’intera comunità.

Sul piano storico-politico, il film si limita a rievocare la lotta per la conqui-sta di Roma e dello Stato della Chiesa da parte dei Piemontesi. Addirittura non mostra neppure la famosa azione della Breccia di Porta Pia. Da questo punto di vista, lo spettatore che fosse ignaro della situazione storica e delle forze in cam-po, sia a livello di Penisola, sia a livello delle potenze europee, potrebbe credere che Augusto, con un pugno di detenuti politici, e Teresa, grazie alla loro tenacia, malgrado il voltafaccia del notaio, del calzolaio, della marchesa, abbiano liberato la città eterna da un feroce tiranno. Il film non mostra nulla circa il fatto che il potente alleato dei Piemontesi, Napoleone III, era allo stesso tempo il paladino del Papa, e che ciò determinava il nocciolo della cosiddetta “questione romana” dell’Italia postunitaria (solo qualche anno prima Garibaldi in marcia verso Roma era stato fermato a Mentana). Ma il colpo di mano che non riuscì a Garibaldi diventa poco più di una passeggiata per i bersaglieri piemontesi quando Napole-one III, coinvolto nella guerra contro la Prussia, ritira le sue guarnigioni da Ro-ma, viene sconfitto e abbandona il Papa al suo destino.

Diremmo allora che tutto è possibile quando l’iniziativa dei patrioti è in sintonia con il vento della Storia.

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Uomini contro ovvero gli orrori e le follie della guerra

di Tommaso Cariati

Quando ero sottotenente, indossando l’uniforme da combattimento, portavo

una pistola Beretta alla cintura. Un giorno mi spiegarono che la pistola non era un’arma idonea contro il nemico, serviva per minacciare i soldati che si fossero rifiutati di eseguire gli ordini. Nel film Uomini contro di Francesco Rosi, sulle dinamiche che hanno preso corpo sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale, situazioni di insubordinazione, di ammutinamento, di autolesionismo, di diserzione ce ne sono innumerevoli, e ogni volta i comandanti inetti, invasati, pazzi o fuori dalla realtà cercano di risolvere con la minaccia di passare tutti per le armi i numerosi contrasti e le quotidiane divergenze. Il titolo, Uomini contro, rimanda proprio all’assurda situazione in cui si trovano ufficiali superiori e sol-dati, gli uni contro gli altri appunto, proprio mentre il nemico li incalza da pres-so.

Tra gli ufficiali presentati nel film in verità occorre distinguere. La miopia, l’inettitudine e la follia sembrano essere direttamente proporzionali al livello gerarchico al quale sono giunti e al numero di stellette che portano sulla spalla: i sottotenenti mantengono di più i piedi sulla terra, il capitano è mediamente folle, il generale comandante di divisione è affetto da follia al sommo grado. Possiamo stare tranquilli con questi comandanti? Come vengono selezionati gli ufficiali? Come funziona: più si è invasati, tarati, anacronistici fino al ridicolo più fanno carriera?

In questo film si vedono soldati, e perfino ufficiali, mandati a morire contro ogni buonsenso; si vedono soldati bardati con corazze ridicole perché “i Romani erano bravi con la corazza”; si sente il generale di divisione chiedere agli ufficia-li subalterni se i soldati hanno o no un coltello, da tenere tra i denti, perché in combattimento ambo le mani sono occupate a tenere il fucile; si vedono gli au-striaci che, stanchi di uccidere gente inerme, gridano: “Ritornate nei vostri rifu-gi, non vogliamo uccidervi in questo modo”; si vedono ufficiali litigare intorno a come applicare il regolamento. Ci si chiede: ma a quale scuola di guerra è stato formato quel generale Leone? Perché gli sfugge il particolare che i Romani non venivano cannoneggiati? Suggerisce di tenere il coltello tra i denti perché crede di trovarsi in un mondo primitivo in cui si combatte a calci e pugni, e il coltello offre un vantaggio competitivo?

Tre o quattro circostanze colpiscono moltissimo lo spettatore. La prima ri-guarda la battuta pronunciata da quel sottotenente interpretato da Gian Maria

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Volonté il quale mette in evidenza che si tratta di una guerra combattuta da am-bo le parti da contadini e pastori analfabeti o quasi analfabeti. La seconda è l’enorme carneficina alla quale i poveri italiani, provenienti da ogni regione, so-no sottoposti dai comandanti di grado superiore, nella totale indifferenza anzi con smisurato cinismo. La terza riguarda le speculazioni che i faccendieri della guerra fanno sulle forniture militari: le scarpe dei soldati, per esempio, avevano il fondo di cartone. La quarta si trova nelle scene conclusive: il comandante, in un ufficio in tutti i sensi smisurato per mettere maglio il malcapitato in una con-dizione di disagio imposto dal sistema di potere, interroga un sottotenente so-pravvissuto, e gli chiede se ami la guerra e conclude che uno che ama la pace non può fare bene la guerra, e con questi argomenti, il povero sottotenente, senza processo, si ritrova in una cava di marmo, vastissima e con pareti verticali im-mense, davanti a un plotone di esecuzione che lo fa secco: il suo corpo resta ab-bandonato in quella cava quasi si trattasse di un’esecuzione mafiosa.

Uomini contro è un bel film sugli orrori e le follie della guerra, forse di ogni guerra.

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Contributo della classe V A Mercurio dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata da T. Cariati,

alla ricerca di Famiglia Aperta, dal titolo: “Primato delle persone nella società multietnica”, pista n. 5 - per tutti, in quanto portatori di diritti e

di doveri

(Appunti a cura di Simona Arpino e Guido Attanasi)

Quale opinione hai sugli immigrati (in particolare badanti e mediatori cul-turali) in Italia?

Penso che gli immigrati vengono in Italia perché hanno problemi nel loro paese d’origine, come per il lavoro e lo studio. Quelli che non trovano lavoro spesso sono costretti a chiedere l’elemosina, anche troppo insistentemente. Le badanti sono madri di famiglia che lavorano in Italia per problemi famigliari ad esempio per pagare un mutuo o far studiare i figli, ma alcune di loro sono inaffi-dabili. Per quanto riguarda i mediatori culturali, secondo me sono molto utili perché permettono una maggiore integrazione degli immigrati.

Penso che gli immigrati siano persone in cerca di lavoro. Le badanti rag-

giungono il nostro paese perché hanno difficoltà e problemi. Sono ben accolti nella società.

Sono contrario perché rubano il lavoro agli italiani e alcuni sono violenti e a

volte commettono reati. Per le badanti è diverso perché è un lavoro che vorreb-bero fare in pochi. Sono pienamente a favore dei mediatori culturali.

Gli immigrati si trasferiscono a causa di guerre o di motivi politici, o sono

costretti a fuggire da condanne come la lapidazione e la pena di morte. Scelgono di venire in Italia perché qui vige una Costituzione democratica, con leggi più permissive. Anche se in Italia vengono a fare lavori umili, spesso al nero.

Gli immigrati vengono soprattutto per lavoro. Ma non tutti si comportano

bene. Sono favorevole alle badanti, perché gli italiani si rifiutano di fare il lavoro di cura degli anziani. Secondo me però sono di più gli aspetti negativi.

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È un problema che varia da etnia a etnia. Alcuni riescono ad inserirsi bene, mentre altri no. Sono contrario all’immigrazione anche perché il denaro che gua-dagnano verrà speso nel loro paese, e ciò è negativo per l’economia italiana. I mediatori culturali non sono utili perché se gli immigrati hanno un certo tipo di cultura incontreranno comunque difficoltà nel relazionarsi.

Ci sono aspetti positivi e negativi, a seconda della provenienza. Ad esempio

i cinesi hanno invaso la nostra società, riducendo le possibilità di lavoro per noi italiani. Chi non si integra tende a comportarsi in modo scorretto, commettendo stupri, rapine, ecc. Sono favorevole alle badanti perché quello della cura degli anziani è un lavoro che gli italiani non sono disposti a fare. Secondo me i media-tori culturali sono utili. Nel complesso sono favorevole al 60%.

Gli immigrati provocano disagio all’economia perché accettano di lavorare

a prezzi bassi. Anche nelle scuole i bambini immigrati possono creare difficoltà. Le badanti sono comunque da ammirare perché si trovano in un ambiente sociale diverso dal loro e non si scompongono.

Le badanti è una fortuna che ci siano, perché gli italiani si rifiutano di svol-

gere questo lavoro. Si accontentano di poco denaro, ma non mi sembra giusto che lo investano nel loro paese d’origine. Per me i lati positivi e negativi sono 50% e 50%.

Secondo me ci sono più aspetti negativi che positivi perché sono persone

violente, infatti si sente spesso parlare di casi di violenza commessi dagli immi-grati. Sono a favore delle badanti perché la loro presenza non incide sul proble-ma della disoccupazione.

Per me è un fenomeno totalmente negativo sia per la società che per

l’economia. Le badanti rubano il lavoro agli italiani, perché alcuni italiani, messi alle strette, quel lavoro lo farebbero, però vengono fregati dagli immigrati perché si accontentano di una paga inferiore.

Penso che sia negativo perché pretendono che noi ci adeguiamo alle loro

abitudini. L’aspetto positivo è che si accontentano di fare qualsiasi lavoro in mo-do flessibile.

Sono favorevole all’immigrazione perché anche noi italiani siamo stati im-

migrati in passato come ancora oggi. Ci sono persone che non si comportano bene e vanno punite, come i cittadini italiani, ma ce ne sono altre che vanno am-mirate perché fanno i lavori più umili, come le badanti.

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Secondo me è un fenomeno negativo, perché se molti stranieri non ci fosse-ro, anche i lavori più umili verrebbero svolti dagli italiani, se costretti dalla ne-cessità.

Il fenomeno dell’immigrazione è negativo per gli italiani, perché se qualcu-

no di noi ha veramente bisogno si accontenta di fare qualsiasi lavoro, ma se ci sono gli immigrati, il lavoro non è più disponibile.

Per me prevalgono gli aspetti negativi, perché gli immigrati prendono il

lavoro a basso prezzo. Però sono ammirevoli perché hanno il coraggio di avven-turarsi in mondi sconosciuti e correre dei rischi. Sono favorevole alle badanti.

Sono a favore dell’immigrazione perché aiuta lo sviluppo della società.

Penso però che le badanti rubano il lavoro agli italiani. Per quanto riguarda la delinquenza, anche tra loro ci sono persone buone e cattive.

Sono contraria perché le badanti rubano solo i soldi e trattano male gli an-

ziani. Molti commettono furti e violenze. Gli immigrati rischiano la vita spinti dai bisogni elementari: mangiare, ve-

stirsi, curarsi. Essi vengono in Italia per non morire, ma anche noi abbiamo biso-gno di loro, perché noi, troppo benestanti, un sacco di lavori umili non vogliamo più farli. Niente paura però: l’umanità è migrante, è sempre stata in movimento, nomade. Per esempio, noi meridionali continuiamo a emigrare: gli studenti, i laureati continuano ad andare al Nord e all’estero. Certo, l’incontro con altre genti ci mette alla prova, ma dobbiamo percorrere la via dell’accoglienza e con-vivere con loro, adattando anche la legislazione alla nuova realtà.

Conosci qualche persona straniera più da vicino? Conosco una badante che assiste una persona che abita vicino a casa mia.

Ha trentasei anni, è rumena, abita con la signora per la quale lavora e ci tiene a farla stare bene; è assunta e pagata regolarmente. Il marito e la figlia di sedici anni vivono in Romania. È venuta in Italia per pagare il mutuo che ha dovuto chiedere per curare il marito malato da dieci anni.

Ho conosciuto un carpentiere rumeno di trentacinque anni, in un bar. Presu-

mo che sia solo in Italia. Mi ha colpito il fatto che si ubriacava tutte le sere. Non conosco nessun immigrato da vicino. Conosco una coppia di polacchi. Hanno intorno a trentacinque anni e non

hanno figli. La moglie, inizialmente, faceva la donna delle pulizie e il marito

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l’imbianchino. Io ho lavorato per due giorni con lui. È una persona solare e pre-cisa sul lavoro. Adesso ha aperto un’agenzia d’import-export tra Italia e Polonia.

Ho conosciuto una famiglia immigrata a Zambrone (VV). Lei era la badante

di mia nonna, poi in Romania ha conosciuto un ragazzo e si sono sposati. Torna-ti in Italia, hanno avuto un figlio, e dopo la morte di mia nonna si sono trasferiti definitivamente qui. Il marito è una brava persona e ora fa il muratore.

Di fronte casa mia abita una signora anziana che ha avuto diverse badanti

ad assisterla. Una in particolare era una ragazza madre di ventotto anni circa, con un figlio di quattordici anni. È venuta a lavorare in Italia per aiutare i figli che vivono in Romania con la nonna.

Ho visto due ragazze albanesi sui venti anni che scappavano dopo aver rapi-

nato casa di mia nonna. Ho conosciuto una signora russa che adesso è sposata con mio zio. Ha tren-

totto anni, ed è venuta dalla Russia per pagare i debiti del marito, da cui poi ha divorziato. In seguito si è sposata con mio zio e adesso hanno tre figli. Lei ha anche un figlio avuto dal precedente matrimonio, che adesso ha diciannove anni e studia in Italia.

Conosco un albanese che lavora come operaio con mio zio. Lavora tantissi-

mo per avere i soldi necessari a costruire una casa in Romania, e poi tornare lì con la moglie e i figli, che intanto vanno a scuola in Italia.

Conosco una signora rumena di trentotto anni che lavora da mia mamma

come donna delle pulizie. Parla italiano ed è sola in Italia. Vicino a casa mia abita una signora rumena di cinquanta anni che convive

con un italiano da quasi cinque anni. In precedenza era stata già sposata. A volte parte per la Romania per andare a trovare i figli. Di pomeriggio fa la baby-sitter. Si è inserita molto bene e ha anche un ottimo rapporto con tutti gli inquilini del palazzo.

Conosco solo i venditori ambulanti sulle spiagge. Conosco solo i lavavetri ai semafori. Non conosco nessun immigrato.

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I miei genitori hanno conosciuto una coppia di albanesi inizialmente arriva-ta in Italia clandestinamente. Sono brave persone e lavorano entrambi regolar-mente. Si sono sposati in Albania con un matrimonio combinato dalle famiglie. Adesso stanno per avere il quarto figlio. I miei genitori hanno battezzato il loro primo figlio.

C’è una famiglia di albanesi che abita vicino a casa mia da dieci anni. Han-

no un buon rapporto con la mia famiglia. Sono arrivati in Italia da clandestini e poi si sono messi in regola. Adesso le due figlie sono laureate e sposate. Una si è sposata in Albania con rito cattolico e la mia famiglia è stata invitata al matrimo-nio.

La primavera scorsa, mentre mio padre era ricoverato in ospedale, ho cono-

sciuto una signora straniera e la figlia. Entrambe facevano le badanti. Erano mol-to gentili: quando mio padre si trovava solo e aveva bisogno di qualcosa lo aiuta-vano, anche se non lavoravano per noi. Quando ero studente sono stato per un breve periodo a Londra dove ho lavorato in una pizzeria: il proprietario era spa-gnolo e aveva vissuto in Francia, il manager e le cameriere erano polacchi e in cucina c’era un collaboratore delle isole Mauritius. Spesso di mattina vedo delle persone di colore che lavorano in una fabbrica di mattoni che si trova vicino a casa mia: l’umanità è multietnica. Ti sembrano giuste tutte le normative in vigore sugli immigrati? Perché sì o per-ché no.

Secondo me alcune normative andrebbero modificate, mentre altre vanno bene così; ad esempio il reato di immigrazione clandestina nel complesso è giu-sto, ma vanno esaminati separatamente i casi dei rifugiati politici. Sono d’accordo sul fatto che anche i bambini stranieri siano inseriti nella scuola italia-na, ma le classi non dovrebbero essere formate solo da immigrati. Il permesso di soggiorno non andrebbe rilasciato troppo facilmente, ma solo per seri motivi.

Premesso che non conosco bene la normativa vigente, non ho idee precise

al riguardo. Sono contrario perché le normative riguardano gli extracomunitari, cioè

coloro che non fanno parte dell’Unione Europea, ma non altri popoli come i ru-meni; l’inutilità è confermata da quanto successo nei giorni scorsi durante la par-tita Italia-Serbia, sospesa per incidenti nello stadio causati da una parte di “tifosi” serbi per motivi politici: a queste persone infatti andrebbe negato il rien-tro in Italia. Comunque non condivido il fatto che le norme non vengano rispet-tate.

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Sono favorevole ai respingimenti; ad esempio gli africani che entrano irre-golarmente non dovrebbero essere accolti, né si dovrebbe permettere a queste persone di “rubare” il lavoro agli italiani. Va bene che si conceda la cittadinanza italiana per matrimonio.

Premesso che ho un po’ di confusione, non sono favorevole ai respingimen-

ti, perché se queste persone vengono in Italia significa che hanno bisogno di aiu-to e per questo noi dovremmo accoglierle.

Preferisco non esprimere la mia opinione. Ho poche conoscenze sulla normativa vigente, ma in generale sono favore-

vole ai respingimenti. Sono d’accordo con le normative vigenti, anche se, secondo me, i gover-

nanti non dovrebbero permettere a tutti gli stranieri di entrare in Italia. Non sono d’accordo che queste persone entrino clandestinamente nel nostro

paese. Sarei invece favorevole all’adozione dei bimbi, perché aiutano la forma-zione delle classi; apprezzo che siano accolti in apposite strutture.

Sono favorevole all’espulsione. Sono favorevole ai respingimenti e sono contrario alle norme che permetto-

no di acquisire la cittadinanza per matrimonio, perché potrebbe essere combina-to.

Sono contraria all’immigrazione clandestina come reato. Se io incontrassi

una persona straniera in difficoltà l’aiuterei volentieri, ed è anche giusto che le classi siano formate da bambini sia italiani che stranieri.

Non conosco la normativa. Sul respingimento non sono completamente d’accordo; alcuni immigrati,

infatti, vengono solo per lavorare; sono favorevole alle classi con bambini stra-nieri.

Sono d’accordo che vengano accolti gli stranieri entrati in Italia “alla luce

del sole” e non clandestinamente. Per quanto riguarda il problema dei bambini stranieri nelle scuole, secondo me andrebbero raggruppati tutti in una classe.

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Conosco le norme e le condivido, anche se l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio andrebbe controllata maggiormente; penso che agli immigrati debbano essere riconosciuti i nostri stessi diritti.

Sono per l’accoglienza, sempre, ma non nei cosiddetti campi di accoglien-

za, simili ai lager. Mi disturba il fatto che queste persone siano costrette a entrare nel nostro paese clandestinamente, e condanno fermamente il traffico di persone. Penso che gli immigrati che arrivano su un gommone o aggrappati ai ferri sotto un tir siano da considerare come eroi.

Quali nuove proposte in campo civile e sociale vorresti avanzare? La cittadinanza, secondo me, dovrebbe essere acquisita automaticamente al

momento del ritrovamento di neonati “abbandonati” in Italia; mentre ai genitori, qualora espulsi, si dovrebbe dare la possibilità di scegliere se far rimanere in Ita-lia i loro bambini, perché ricevano un’educazione e un’istruzione. La polizia dovrebbe avere maggiori poteri e mezzi, per assicurare più vigilanza.

Bisognerebbe diminuire il flusso dell’immigrazione; gli immigrati che tro-

vano un lavoro possono avere il permesso di soggiorno, mentre chi non lavora deve essere espulso.

Sono favorevole al fatto che persone che rischiano la vita per venire in Italia

siano accolte, ma non si può concedere a tutti il permesso di soggiorno. Ultima-mente sono stato a Napoli e lì la situazione è insostenibile; ho visto un rumeno che picchiava una ragazza e nessuno l’ha difesa, finché lei ha chiamato la polizia per chiedere aiuto. Per i bambini, secondo me, va loro riconosciuta la cittadinan-za, se ancora in età infantile.

Secondo me un minorenne senza genitori non può essere espulso dall’Italia,

ma si deve aspettare la maggiore età; per quanto riguarda il permesso di soggior-no andrebbe concesso dopo un periodo di osservazione del comportamento degli immigrati.

Io penso che se queste persone vengono qua, nel loro paese non stanno be-

ne, e, come noi siamo stati accolti all’estero, anche loro devono essere accolti in Italia. Secondo me si dovrebbero fare delle distinzioni e non dare subito la citta-dinanza, ma dopo un periodo di almeno tre anni, perché se non rispettano le re-gole vanno rimandati nel loro paese.

Gli immigrati non dovrebbero avere la cittadinanza italiana, se non dopo

molti anni di lavoro stabile.

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La cittadinanza dovrebbero averla tutti coloro che nascono in Italia. Si do-vrebbero fare più controlli per conoscere le vere intenzioni degli immigrati e poi aiutarli ad inserirsi nella società.

Non ho idee al riguardo. Sono favorevole a fare maggiori controlli, per dare il permesso di soggiorno

solo dopo l’accertamento dello stato di salute e un periodo di osservazione, per-ché non è facile capire se sono malfattori; lo stato dovrebbe creare dei centri ap-positi in cui gli immigrati possano vivere, lavorare e imparare la lingua.

Gli immigrati devono essere tenuti sotto controllo, perché chi arriva non è

sicuramente un malvivente, ma bisogna esserne certi; mentre i bambini devono essere inseriti in classi differenziate.

Se una persona viene in Italia vuol dire che prima viveva nel disagio, per

questo c’è bisogno di una legge per sapere chi viene con buone intenzioni e chi no; i bambini devono essere avviati a una scuola particolare perché imparino la lingua e la costituzione.

Io proporrei di non fare entrare più immigrati in Italia, perché credo che

vivremmo meglio e ci sarebbe più lavoro. Si deve tollerare il fenomeno, anche perché sbagliamo noi italiani a preferi-

re di assumere uno straniero al posto di un italiano per pagarlo di meno. L’entrata di immigrati va regolata in modo da farla diminuire; per quanto

riguarda i bambini penso sia meglio inserirli in classi miste con gli italiani per facilitare l’apprendimento della lingua.

Il governo italiano dovrebbe fare una legge con cui proibire lo sfruttamento

degli immigrati. Non è giusto avere un periodo di osservazione perché quando termina e non si sono comportati bene, che si fa? Vengono rimandati nel loro paese in cui sono in pericolo? Non è umano e non è giusto, perché hanno biso-gno di aiuto. Dovrebbe esistere una collaborazione tra i governi, per risolvere questo problema. Per i bambini, l’idea di creare classi differenziate è buona, an-che se mi sembra una discriminazione.

L’immigrazione è un problema che si deve affrontare, perché non è colpa

loro se gli immigrati si trovano in questa situazione. Ad esempio, si potrebbe prevedere di affidare queste persone alle famiglie italiane, per favorire la loro accoglienza e l’integrazione.

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CONFRONTO SUL TEMA: “FORMARSI ALL’INTERCULTURA: sette vie per una formazione interculturale” (dalla tesi di laurea di Alberto Ranzini)

“Formarsi all’interpretazione” è ricercare ciò che unisce e non ciò che divi-

de, perché è necessario un dialogo per conoscersi meglio e confrontarsi con gli altri, per trovare i punti comuni delle nostre culture e religioni.

“Formarsi alla narrazione e all’ascolto”, perché deve essere data la possibi-

lità ai bambini stranieri di mantenere vivo il ricordo delle loro origini, storie e tradizioni.

“Formarsi al senso di appartenenza e al dialogo”, dobbiamo cercare di com-

prendere i disagi, le difficoltà e gli ostacoli, anche religiosi, che incontrano gli stranieri nell’inserirsi in Italia.

I miei nonni sono emigrati in Australia molti anni fa e si sono inseriti bene,

anche perché l’Australia è un paese multietnico. “Formarsi all’equilibrio fra uguaglianza e differenza”, sia nel lavoro sia

nella scuola gli stranieri non devono essere discriminati o emarginati, ma aiutati a emanciparsi.

“Formarsi al senso d’appartenenza e al dialogo”, non dobbiamo fermarci

all’apparenza e avere pregiudizi, ma guardare oltre e cercare di capire quali sono i disagi che incontrano gli stranieri.

“Avere fiducia nella comunicazione interculturale”, è necessario scambiarsi

le idee, parlare con gli stranieri, per conoscerli meglio e creare di conseguenza uno scambio interculturale.

“Formarsi al senso di appartenenza e al dialogo”, noi ragazzi di solito ten-

diamo a emarginare e discriminare gli immigrati, ma dobbiamo sforzarci di inte-grare chi ha cultura, lingua e storia diverse dalle nostre.

“Formarsi alla complessità”, spesso lo straniero è considerato un ‘diverso’;

per cambiare questo stato di cose è necessario uno scambio fra culture, che au-menti il nostro bagaglio culturale e permetta una convivenza migliore.

“Formarsi all’equilibrio fra uguaglianza e differenza” in contesti come la

scuola o il lavoro; secondo me gli insegnanti, oltre alle tradizionali lezioni, do-

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vrebbero far comprendere agli studenti valori più importanti come l’uguaglianza e il rispetto del prossimo.

“Formarsi al senso d’appartenenza e al dialogo”, quando vediamo stranieri

spesso ci allontaniamo perché li consideriamo diversi, ma così si chiudono anco-ra di più in se stessi perché si sentono a disagio; dovremmo invece avere uno sguardo più aperto per cercare di farli adattare meglio.

“Avere fiducia nella comunicazione interculturale”, dobbiamo dialogare

con tutti gli stranieri, perché questo ci permette di conoscere le loro culture e instaurare di conseguenza uno scambio di notizie utili a tutti.

“Formarsi all’interpretazione” e non all’apparenza; dobbiamo considerare

che siamo tutte persone, e per questo dobbiamo evitare le discriminazioni. “Formarsi alla narrazione e all’ascolto”, il problema principale è che gli

stranieri si trovano a disagio, si sentono esclusi perché spesso non siamo corretti nei loro confronti, si chiudono in se stessi e non riescono a inserirsi nella nostra società; per questo bisognerebbe intervenire per favorire l’integrazione.

In Australia siamo tutti immigrati. Io e la mia famiglia abbiamo vissuto una

parte di questa immigrazione. Negli anni ’50 il governo australiano aveva deciso tramite una legge che tutti gli immigrati dovevano abbandonare la propria identi-tà culturale e uniformarsi a quella inglese; questo però non era possibile, perché le persone erano molto legate alle proprie origini, e, infatti, oggi questa legge è stata abolita, perché abbiamo capito che dobbiamo “formarci all’equilibrio fra uguaglianza e differenza”. Il nostro governo ha capito che possiamo imparare tanto dalle altre culture, e per questo tutti noi siamo diventati più aperti. Ancora oggi coloro che si trasferiscono in Australia sono ben disposti a condividere la loro cultura con noi. È necessario aprire questo dialogo, ma per realizzarlo dob-biamo “avere fiducia nella comunicazione interculturale”; è una cosa fattibile cercare di vivere bene e interagire con tutti; quello a cui aspiriamo riuscirà a rea-lizzarsi se lo vogliamo.

In Italia, nel nostro stesso paese, se da un lato vi sono elementi che formano

la nostra identità comune, ce ne sono molti altri che ci distinguono o ci dividono. L’identità è infatti in continuo movimento: si tratta di un processo che deve esse-re continuamente alimentato e mai ha fine. A volte abbiamo paura del diverso, ma questo accade perché non siamo sicuri di chi siamo noi. È necessario interro-garsi continuamente per potersi poi confrontare con gli altri; è necessario essere veramente uomini e donne per accogliere gli stranieri e permettere la loro inte-grazione.

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Contributo della classe V B Mercurio dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata da T. Cariati,

alla ricerca di Famiglia Aperta, dal titolo: “Primato delle persone nella società multietnica”, pista n. 5 - per tutti, in quanto portatori di diritti e

di doveri

(Appunti a cura di Monica Petrasso e Irene Lanzino)

Quale opinione hai sugli immigrati (in particolare badanti e mediatori cul-turali) in Italia?

Io penso che se queste persone hanno intenzioni positive, gli immigrati pos-sono essere molto importanti per noi e per il nostro paese. Per le badanti l’opinione è la stessa: da noi stessi vengono visti come "persone misteriose" e non diamo loro fiducia. Penso che se queste persone affrontano viaggi lunghi, costosi e rischiosi, siano persone che vengono per lavorare. I mediatori culturali sono utili.

Penso che siano ottime le badanti, sopratutto se in regola, per l’aiuto che

danno con gli anziani. Le badanti vengono viste con occhio di riguardo; ma in genere vengono giudicate negativamente sulla base di informazioni che ci ven-gono date dai mass-media, giudicandole non come persone da conoscere una per una ma nell’insieme.

Gli immigrati sono visti come persone poco affidabili. Le badanti sono mol-

to importanti per le persone diversamente abili o anziane. Le badanti sono utili per le famiglie più povere perché si accontentano di

una bassa retribuzione e dimostrano impegno e volontà. Degli extracomunitari abbiamo in genere paura, perché quello dell’immigrazione è un fenomeno nuo-vo, qui da noi in Italia. I mediatori culturali sono importanti perché facilitano le cose e in più ci permettono di conoscere altre culture.

Gli extracomunitari non sono tutti uguali: ci sono, anche se poche, persone

che lavorano onestamente. I mediatori culturali sanno molte cose sulla nostra cultura, più di quanto sappiamo noi di loro.

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Penso che gli extracomunitari vengano da noi per cercare di migliorare eco-nomicamente. I mediatori culturali sono necessari per gli stranieri che sono nel nostro paese.

Secondo me gli immigrati, con la loro cultura, ci possono arricchire, e biso-

gna tener conto che anche noi italiani siamo stati immigrati. Ci sono persone che vengono davvero per aiutare la propria famiglia, spes-

so rimasta nel loro paese di origine. Ci sono però anche quelli che rubano appro-fittando di persone indifese. Con gli immigrati ci sono pro e contro, ma sono importanti anche perché favoriscono la nostra apertura mentale.

Non tutti sono uguali ed è sbagliato pensare che siano tutti da evitare. Non mi spiego come queste persone possano sperare di trovare fortuna in

un paese in crisi con tanti disoccupati. Può succedere che, non trovando lavoro, diventino delinquenti. Dovrebbero essere controllati.

Mi chiedo che vita facevano prima se si accontentano di quello che trovano

qui. Tra questi immigrati ci sono anche quelli che non sono venuti solo per tro-vare lavoro. Sulle badanti penso che siano utili sia per le persone che loro accu-discono, sia per le famiglie che hanno anziani da accudire e non possono farlo. Le badanti, noi italiani le “sfruttiamo” in quanto lavorano per pochi soldi.

L’incontro con l’“altro” fa sempre un po’ paura. Ma l’incontro avviene

sempre con l’“altro”, non con un clone di noi stessi. Spesso noi siamo portati a credere che le persone che ci somigliano (per colore della pelle o per tipo di ca-pelli o per lingua) siano come noi, mentre il nero o il giallo sia “straniero” o “barbaro”: da una parte anche gli “stranieri” sono persone, dall’altra il vicino di pianerottolo che incontriamo ogni giorno per una vita può essere nostro nemico. Se gli immigrati si avventurano in mezzo al Mediterraneo su un gommone o su una “carretta del mare” per venire da noi, lo fanno perché se non partono rischia-no lo stesso la pelle, e se qui riescono a sopravvivere vuol dire che davvero an-che per loro da noi ci sono delle possibilità. Bisogna soltanto che impariamo a convivere. In questo senso, i mediatori culturali sono fondamentali.

Conosci qualche persone straniera più da vicino? Conosco una donna brasiliana di venticinque o trent’anni sposata con mio

zio. Lei è venuta qui per lavorare, si sono conosciuti e si sono sposati. Si tratta di una ragazza madre e quindi è venuta qui per trovare lavoro, per dar da mangiare ai figli. È una ragazza tranquilla e si dà molto da fare. È una donna dinamica e una persona molto accogliente e confidenziale.

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Conosco una rumena che fa servizio da badante a mio nonno e ha all’incirca

40 anni. Ha due figli, una ragazza di 20 anni e un maschio che vive in Italia. So-no gentili nei confronti degli anziani. Ci siamo incontrati recentemente e abbia-mo confrontato i nostri usi e costumi e si è meravigliata che io a 18 anni vado ancora a scuola. I componenti della famiglia sono tutti a carico della madre per-ché il padre non lavora.

Conosco il caso di un italiano che si è fidanzato con una rumena qui in Ca-

labria e dopo un po’ di tempo l’ha seguita in Romania, dove ha investito tutti i suoi risparmi: dopo poco tempo però abbiamo avuto la sorpresa di vederlo ritor-nare da solo e senza soldi. Conosco un altro caso: mio zio convive con una ru-mena che ha due figli, ma io non ho molta fiducia in questo rapporto.

Conosco il caso di un indiano venuto in Italia con la moglie. Si tratta di una

persona istruita che qui in Italia ha un buon lavoro. Io conosco bene il loro figlio che frequenta un liceo di Cosenza e sembra ben inserito.

Quando ero un ragazzino ho sentito raccontare di una ragazza, figlia di un

amico di mio padre, che avrebbe subito violenze e anche molestie a sfondo ses-suale da parte di una baby-sitter immigrata. Questa baby-sitter è stata denunciata e mandata via. La ragazza, che ormai è cresciuta, ancora oggi non è completa-mente serena.

Conosco un ragazzo rumeno di 19 anni che vive in Italia da un anno. È or-

fano di entrambi i genitori, lavora con una ditta di costruzioni. Abita vicino casa mia con i suoi zii, lavora molto anche di domenica, ma probabilmente al nero e sottopagato.

Conosco un marocchino di nome Aziz di 25-26 anni. È scappato dal Maroc-

co ed è venuto qua al tempo della guerra tra Marocco e Mauritania. Non lavora: dorme all’aperto con un suo amico e con i pochi soldi che riesce a racimolare si compra da bere. Io l’ho conosciuto per caso e ci ha raccontato di aver perso i contatti con tutti i suoi familiari, prima di venire in Italia. Probabilmente è arri-vato clandestinamente con mezzi di fortuna, attraverso il Mediterraneo.

Quando sono stato allo stage di Economia Aziendale a Scalea ho conosciuto

una ragazza marocchina che lavorava alla reception della ditta che ci ha accolto. Lei è venuta qui da bambina con i suoi familiari e attualmente studia all’università, oltre a lavorare.

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Ho conosciuto una ragazza bielorussa venuta qui insieme al padre, la madre è rimasta nel paese d’origine. Il padre lavora come muratore o come imbianchi-no quando trova qualcosa da fare. La figlia, che viene in Italia solo d’estate, la-vora in pizzeria. Io li ho conosciuti perché il padre ha lavorato vicino casa mia per conto di una ditta.

Non conosco nessuno direttamente, però un’amica mi ha raccontato che

nella sua classe c’era una ragazza marocchina e che subiva violenze (veniva malmenata) da parte del padre, una volta addirittura è stata colpita superficial-mente con un coltello. Conosco anche il caso di una badante costretta a lasciare la casa di un assistito perché questi la importunava con proposte indecenti. Il vecchietto, nonostante i suoi novantacinque anni, ha il chiodo fisso.

Mi hanno raccontato il caso di una badante dell’Est che si è fatta sposare da

un italiano ma dopo un po’ di tempo si sono separati, e non in modo consensua-le, anzi avanzando pretese sui beni del malcapitato.

Posso raccontarvi il caso di un marocchino incontrato in una classe alcuni

anni fa, si trattava di un giovane di diciotto o diciannove anni, venuto in Italia con la famiglia. Quell’anno è stato trattenuto in IV classe poiché non si era im-pegnato. Qualche anno dopo, ho avuto per due anni un alunno bulgaro venuto in Italia con i genitori. Il padre era maestro di arti marziali e faceva l’istruttore presso la palestra dell’università della Calabria. C’è ancora il caso di mia cogna-ta, una giovane donna colombiana venuta in Italia per compiere gli studi univer-sitari a Venezia. Lì ha incontrato mio fratello e si sono sposati.

Noi crediamo che gli “stranieri” siano “gli altri” e che la “nostra” cara peni-sola sia “nostra proprietà”. Se ci guardassimo attentamente allo specchio, se te-nessimo conto della nostra statura, del colore della nostra pelle, dei nostri carat-teri somatici e dei nostri capelli, ci renderemmo conto che noi (attraverso i nostri progenitori, ovviamente) siamo giunti in Italia solo qualche secolo prima dei nordafricani e degli afgani che vi giungono oggi avventurosamente: forse questa penisoletta pittoresca, distesa nel Mediterraneo, tra mezzo secolo, visto che noi non vogliamo avere figli, apparterrà a questi nuovi abitanti dotati di coraggio e di spirito d’avventura non comuni.

Ti sembrano giuste tutte le normative in vigore sugli immigrati? Perché sì e

perché no? Non è sbagliato il fatto che i clandestini vengano respinti; non è giusto che

chi viola le leggi qui venga processato nel suo paese. Penso che i bambini abbia-no diritto a una istruzione e, se i genitori sono d’accordo, possano essere tratte-nuti in Italia. Penso che bisognerebbe mettersi nei panni di questi immigrati.

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Penso che ci debbano essere più controlli rendendo più effettiva questa “legge” che già esiste. Penso anche che chi viola le leggi italiane paghi per ciò che la legge prevede nel nostro paese. Ai bambini immigrati bisogna dare istru-zione in quanto ciò fa parte dei diritti umani.

Secondo me il respingimento degli immigrati è giusto. Riguardo ai bambini

immigrati penso che dovrebbero andare a scuola, se non vengono clandestina-mente.

È giusto che i clandestini vengono rimpatriati. Penso che i bambini abbiano

diritto alla stessa istruzione degli italiani. Penso che i clandestini debbano essere respinti, ma non tutti perché molti

vengono qui per trovare una situazione più agiata. I bambini devono integrarsi con i nostri bambini anche perché la diversità è ricchezza. Penso che chi com-mette qui un reato deve essere punito per quello che prevede la legge italiana.

Sono d’accordo sulle nuove normative sugli immigrati: per quanto riguarda

la legge, se si commettono reati, gli autori devono essere processati nel paese in cui si trovano. È giusto che ricevano cure mediche. Non condivido però che si tollerino i piccoli reati con il pretesto che non si ha l’occorrente per soddisfare i bisogni primari.

Io penso che i clandestini debbano essere respinti, ma gli immigrati che rie-

scono a passare bisogna aiutarli, perché non tutti sono cattivi. I bambini hanno diritto ad un’istruzione e alle cure.

Sono d’accordo con legge del respingimento. I bambini potrebbero essere

accolti in qualche centro specializzato per non escluderli dalla società. È giusto dare loro una possibilità. Sono d’accordo che i bambini abbiano il

diritto a ricevere un’istruzione. Sono favorevole al respingimento; sono favorevole anche ai matrimoni mi-

sti che permettono al coniuge straniero di acquisire la cittadinanza italiana. Pen-so anche che qualsiasi persona abbia il diritto di ricevere un’istruzione.

Mi ha colpito molto che tutti voi siete tolleranti e non razzisti. Non sono

d’accordo con il respingimento poiché nel loro paese si potrebbe vivere vera-mente male. I bambini hanno diritto ad essere istruiti, ma non sono d’accordo che vengano sottratti hai genitori. Il concetto della famiglia è molto importante, se c’è amore non possono esserci leggi che vietino il matrimonio. È giusto che ci

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siano dei controlli. Se si commette un reato, sono d’accordo che gli autori ven-gano processati nel paese dove i crimini vengono compiuti.

Un essere umano, dal momento in cui nasce, è portatore di diritti inalienabi-

li: nutrimento, abbigliamento, cure mediche, istruzione, ecc. I clandestini sono tali perché le nostre leggi li definiscono in questo modo. Ma questa gente non rischierebbe la vita se alle spalle non avesse situazioni di sofferenza, di guerra, di miseria, di assenza totale di libertà. Noi siamo troppo benestanti e siamo inca-paci di metterci, anche per un istante, nei loro panni: ci piacerebbe sfruttarne le capacità lavorative, usandoli come macchine da lavoro, ma non vogliamo fare i conti con loro in quanto uomini e donne che hanno bisogni, sentimenti, aspira-zioni. Bisognerebbe vedere in che modo accogliere questa gente. Questo feno-meno va affrontato in modo più deciso dai nostri governanti, stanziando anche risorse finanziarie adeguate.

Quali nuove proposte in campo civile e sociale vorresti avanzare? Secondo me le leggi dovrebbero essere più rigide. Non trovo giusto che i

bambini paghino solo perché sono emigrati e soprattutto, essendo non capaci di intendere e di volere, non possono essere considerati clandestini.

Se un clandestino non ha commesso reati potrebbe restare, altrimenti do-

vrebbe rientrare nel suo paese. Devono esserci controlli più rigidi. Un bambino dovrebbe essere accolto ed

istruito senza arrivare all’assurdo di considerarlo un clandestino. Ci vorrebbe una struttura per il soggiorno dei clandestini per vedere cosa fanno, come si comportano.

Sono favorevole ai controlli in quanto servirebbero a fare una selezione di

queste persone, che purtroppo fanno sempre parlare di sé. La domanda mi ha spiazzato. Alla fine non c’è un modo per evitare i fenomeni negativi legati all’immigrazione.

Bisognerebbe fare altre leggi sui controlli. Ammesso che si faccia una nor-

mativa sui bambini, che cosa fare con loro nel momento in cui i genitori vengo-no rimpatriati? Loro dovrebbero andare con i propri genitori.

Penso che gli immigrati non dovremmo ammetterli in nessun caso. Alcune persone immigrate hanno buoni propositi e dovrebbero essere aiuta-

te, perché alcuni di loro hanno davvero bisogno e voglia di lavorare.

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Sono propenso a far restare i bambini di sei anni o più piccoli in appositi centri che diano loro un’istruzione “italiana”. Io penso che se i controlli fossero più severi, gli immigrati si orienterebbero per andare in un altro paese.

Secondo me, se non riescono a integrarsi, gli stranieri dovrebbero andarsene

dall’Italia; e se non decidono per i propri figli, anche questi devono andare via. Penso però che i bambini che nascono in Italia devono ricevere la cittadinanza italiana. Comunque ci devono essere controlli più rigidi, per evitare la delin-quenza.

Molti immigrati hanno dei buoni propositi e soprattutto hanno davvero bi-

sogno di lavorare, in quanto hanno, nel loro paese di origine, una famiglia da mantenere, e quindi bisogna dare loro una possibilità. Una volta inseriti nel no-stro paese, se commettono qualche errore vengano rimandati nel loro paese e puniti.

I clandestini hanno bisogno di una possibilità. Non condivido che lo stato li

rimandi indietro dopo aver concesso loro il permesso di soggiorno. I bambini nati in Italia non possono essere considerati clandestini.

Sono d’accordo che servano maggiori controlli. Il processo di rimescolamento delle etnie sembra inarrestabile, anche se mi

rendo conto che questo “incontro” spaventa tutti. Io penso che la famiglia umana sia una sola, perciò se siamo capaci di accogliere e curare un nostro concittadino che si droga e che compie delitti, possiamo aiutare anche queste persone dispera-te. Dovremmo reinventare le nostre norme di convivenza, a partire dalla carta costituzionale. Per esempio, gli immigrati potrebbero essere accolti dalle fami-glie, su base volontaria e ricevendo sovvenzioni dallo stato, opportunamente as-sistite dai servizi sociali e dalle altre istituzioni. A nessuno dovrebbe essere per-messo di sfruttare come schiavi gli uomini e le donne, di qualsiasi nazionalità essi siano: se qualcuno giunge, ancorché clandestinamente, in un cantiere o in un frutteto per lavorare, e vi resta alcuni giorni (dimostrando così di essere utile), dovrebbe maturare diritti che la legge deve prevedere e che lo stato deve far ri-spettare (sanzionando adeguatamente gli imprenditori).

Dibattito sul tema: Nel contesto della globalizzazione di Luisa Santelli Bec-

cegato Per me la globalizzazione ha due facce, sono i due modi di intenderla i po-

veri e i ricchi. Al giorno d’oggi nessuno “ci sta con la testa” e perciò, siccome la

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globalizzazione mette in contatto persone con modi diversi di pensare, tutto può accadere, quando persone profondamente diverse entrano in contatto.

C’è anche una globalizzazione della violenza, in quanto a dispetto della glo-

balizzazione sperimentiamo che, per esempio, i diritti umani vengono vissuti in modi diversi alle diverse latitudini: ci sono posti in cui i diritti umani sono nega-ti. Allora, noi dei paesi ricchi come facciamo i conti con queste profondissime disparità?

La globalizzazione da una parte è positiva in quanto permette la circolazio-

ne delle informazioni ma purtroppo i più deboli la subiscono, comunque non si può frenare questo processo.

Per me la globalizzazione è positiva per alcuni aspetti e negativi per altri.

Per i poveri a mio avviso è negativa. Forse l’immigrazione dei clandestini è le-gata anche alla globalizzazione.

È un argomento molto importante dei giorni nostri. L’uomo che è

all’interno di questo meccanismo dovrebbe porsi dei limiti, dovrebbe giungere un alto livello di autocontrollo, attraverso un’adeguata educazione. Nel mondo comandano le persone più importanti è più forti, tutto ciò aumenta il divario tra ricchi e poveri.

La globalizzazione presenta aspetti positivi e aspetti negativi. Tra i positivi

c’è che abbiamo più conoscenze, tra i negativi, a mio avviso, che i ricchi diven-tano sempre più ricchi.

La globalizzazione è negativa per i cittadini perché i più ricchi si arricchi-

scono e i più poveri si impoveriscono sempre di più. Saranno coloro che prendo-no le decisioni, i governanti, gli imprenditori, i capitalisti a guadagnarci di più. Penso che la globalizzazione sia inevitabile, però penso anche che i suoi gli ef-fetti siano discutibili.

La globalizzazione produce effetti importanti, ci ha fatto progredire. Cono-

sco una persona di Rende che aveva un’azienda agricola poco redditizia. Ha ven-duto tutto e si è trasferita in Romania dove l’attività funziona molto bene. Pur-troppo la globalizzazione favorisce la criminalità organizzata. Inoltre, credo che snatura le persone, perché il mondo globalizzato è come un grande porto di ma-re, dove l’anonimato e la possibilità di farla franca spinge a compiere atti che in un piccolo paese non si compirebbero.

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La globalizzazione presenta aspetti positivi sia per i ricchi che per i poveri, secondo me però in misura diversa. Per esempio per gli stranieri è importante e utile in quanto essi, trovandosi in un paese lontano, possono avere contatti con il proprio paese; mentre per i ricchi la globalizzazione è un modo per arricchire ancora di più. Inoltre, la globalizzazione comporta la standardizzazione dei rap-porti tra capitalisti e società minuta.

La globalizzazione ha effetti positivi e negativi, ma, secondo me, quelli po-

sitivi prevalgono. La globalizzazione permette ai giovani, anche a quelli poveri, di conoscere

gli altri paesi e le altre etnie. La globalizzazione è inarrestabile, a meno che il mondo non entri in una

crisi tale da impedire ai computer e ai mezzi di trasporto di funzionare. Per me non è né buona, né cattiva. Essa è stata resa possibile grazie alla tecnologia. Ov-viamente, chi la promuove è il primo a guadagnarci. Il mondo però oggi è in ba-lia delle potenze multinazionali perché a livello globale mancano leggi, organi di controllo, tribunali veramente efficaci, dato che quelli che esistono sono stati pensati in passato a misura di un mondo fondato sugli stati nazionali. La politica, il mondo dell’educazione, gli enti preposti all’istruzione devono correre presto ai ripari, perché in questo giungla, in questo vuoto morale, legislativo e giudiziario i pesci piccoli (dopo aver vivacchiato grazie alle briciole cadute dalla mensa dei ricchi epuloni) vengono ingoiati dagli squali, inesorabilmente.

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Contributo della classe V C Mercurio dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata da T. Cariati,

alla ricerca di Famiglia Aperta, dal titolo: “Primato delle persone nella società multietnica”, pista n. 5 - per tutti, in quanto portatori di diritti e

di doveri

(Appunti a cura di Rosanna Bennardo e Davide Florio)

Quale opinione hai sugli immigrati (in particolare badanti e mediatori cul-turali) in Italia?

La mia opinione sulla questione “immigrazione ” è intermedia, vale a dire che non è né positiva né negativa, perché ci sono alcuni stranieri che non rispet-tano il nostro paese, si ubriacano e commettono atti incivili; comunque penso che le badanti vengano qui per lavorare e quindi bisogna dar loro una possibilità, anche se il più delle volte vengono messi in evidenza gli aspetti negativi e ven-gono tralasciati gli aspetti positivi.

La mia opinione sulla questione “immigrazione” è prevalentemente negati-

va perché recano danno al nostro paese; se gli stranieri vengono qui per lavorare, devono comportarsi in modo civile e svolgere il lavoro con la massima serietà. Comunque per me c’è poca tolleranza nei loro confronti.

La mia opinione è prevalentemente negativa, perché per me vengono qui e

tolgono il lavoro a noi italiani, dato che la loro manodopera e le loro prestazioni costano meno al datore di lavoro; accetto il fatto che vengano qui per visitare il nostro paese.

La mia opinione è negativa, perché secondo me se vengono qui devono la-

vorare e non recare danni all’economia e al paese. Secondo me gli immigrati vengono giudicati male, perché vengono visti

diversi da noi e giudicati in base al loro colore, alla loro cultura e alla loro lin-gua, invece hanno più volontà di lavorare e si adattano a fare lavori umili; questo non toglie che ci siano anche aspetti negativi.

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Secondo me ci sono due tipi di stranieri: persone per bene, che vengono qui per lavorare, e altri che vengono qui solo per distruggere il nostro paese, anche se la maggior parte viene per cercare fortuna, ma causano ugualmente disastri. Ho sentito anche diverse notizie in TV riguardo a immigrati che rubano, uccido-no e stuprano.

La mia opinione è un po’ positiva e un po’ negativa. Ho amici immigrati

che sono brave persone, ma è successo anche che un ragazzo albanese ubriaco ha picchiato un mio amico, quasi fino ad ucciderlo.

Io sono sostanzialmente favorevole; gli immigrati vengono qui a fare lavori

umili che gli italiani non vogliono fare, e lavorano senza diritti. Secondo me do-vrebbero avere tutti i diritti insieme ai doveri, soprattutto non devono pretendere di imporre a noi i loro usi e costumi, anzi devono rispettare le nostre usanze.

Io sono favorevole se vengono qui per lavorare e rispettano il nostro paese,

ma sfavorevole se non rispettano la legge. Io sono per lo più favorevole: ho fatto diverse esperienze con gli immigrati,

avendo badanti che si occupano di mia nonna. Dobbiamo tenere conto che gli italiani non si prestano più a fare questi servizi ai disabili o agli anziani; e poi penso che non solo loro arrecano danni al paese.

Io ho una considerazione neutra, perché alcuni vengono qui per lavorare

altri solo per divertirsi. Anch’io ho una considerazione neutra, perché ci sono persone buone e altre

cattive, e comunque anche gli italiani recano danni al paese; io sono contro lo sfruttamento degli stranieri.

Per me dovrebbero essere considerati uguali a noi, comunque se vengono

qui è perché sono più sfortunati; e poi anche gli italiani all’estero si comportano allo stesso modo: a volte ci sono incidenti, altre volte vengono trascinati sulla via sbagliata da gente di qua; sono comunque persone ingenue.

La mia opinione è negativa; secondo me non meritano un’accoglienza nei

centri, perché sono poco onesti. Ho una buona opinione delle badanti, ma alcune approfittano dei loro assistiti. I mediatori culturali sono secondo me un’ottima cosa perché integrano le diverse culture.

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La mia opinione è alquanto negativa, perché gli immigrati vengono qui e fanno quello che vogliono, non accettano la nostra cultura. Altro che disparità di trattamento, secondo me ci vorrebbe una legge più dura.

La mia opinione è negativa, perché distruggono il nostro pese e fanno quel-

lo che vogliono. Spesso fingono di essere brave persone per approfittare della gente.

Io ho una considerazione positiva, anche se ci cono persone buone e perso-

ne cattive. Però è anche vero che nessuno farebbe i lavori che fanno loro; alcuni vengono qui e approfittano del nostro paese.

Io non ho un’idea precisa, però non è vero che vengono qui per delinquere. La mia considerazione è più negativa che positiva perché per esempio rovi-

nano le famiglie con una specie di “concorrenza sessuale”, ma è anche vero che si addossano i lavori più umili.

Io non ho una considerazione né negativa né positiva, ho un’ esperienza

personale con mia zia, che è rumena, e penso che anche tra gli stranieri ci sono persone per bene, come ci sono persone che sono disoneste. Comunque, nei loro paesi lavorano tanto e sono sottopagati, al punto che non riescono a sopravvive-re. Secondo me c’è un aspetto positivo perché ci sono i confronti tra culture di-verse e magari si va a creare una nuova cultura.

Io penso che se c’è gente che rischia la vita, venendo in Italia, vuol dire che

c’è gente disperata, da una parte, e, dall’altra, un paese che, nonostante tutto, può offrire loro qualche opportunità. Credo che il fenomeno sia irreversibile: ormai non si può fare niente per cancellare il fenomeno, possiamo solo tentare di con-vivere. Comunque noi abbiamo bisogno di loro perché il paese sta invecchiando. Del resto l’umanità è sempre stata in movimento, per millenni la civiltà è andata avanti con popoli nomadi che si sono spostati da un luogo all’altro, in base alla disponibilità di risorse per la vita. Ancora oggi gli italiani migrano.

Conosci qualche persona straniera più da vicino? Non ne conosco. Vicino a casa mia abitano dei marocchini; è una famiglia che lavora in una

fabbrica, i loro figli vanno alle elementari e sono bravissime persone. Non ne conosco.

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Io ho conosciuto delle badanti che sono state da mia nonna e che abitavano da lei, lavoravano sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Erano quasi sempre polacche ed erano persone molto buone; quando ritornavano nel loro paese e poi tornavano ci portavano sempre dei regali. Sono nata a Franco-forte da genitori immigrati, ho vissuto nove anni lì e ho frequentato italiani, te-deschi e molti turchi.

Non ne conosco, però l’estate scorsa quando andavo al locale “Il tabù”, tro-

vavo sempre dei ragazzi stranieri ubriachi che la notte dormivano per strada; però erano muniti di permesso di soggiorno.

Io ho passato il capodanno con persone rumene, uno fa il contadino e mi ha

raccontato la sua storia; all’inizio avevo un pregiudizio nei suoi confronti, ma poi ho capito che era una brava persona; conosco anche due albanesi che si pre-occupano di rimuovere illegalmente i materiali tossici come l’eternit.

La mia famiglia ha affittato un appartamento ad un marocchino e a

un’italiana che hanno formato una coppia mista. Hanno più o meno trentacinque o quarant’anni, lavorano con mio zio e non hanno mai creato problemi. Lui è laureato in lingue e lavora in una libreria; mi ha anche aiutato con il francese.

Non ne conosco, qualcuno solo di vista; ho avuto incontri puramente casua-

li in occasioni di prestazioni lavorative: lavorano senza sosta e fanno molti sacri-fici.

La mia vicina di casa ha offerto un lavoro ad una persona rumena e io ho

lavorato con lui per racimolare qualche soldo. È una brava persona, lavora bene, ha lavorato tanti anni in una ditta con altri muratori, ha quarant’anni e da venti abita qui; forse è sposato con un’italiana.

Io conosco un marocchino che lavora da mio zio in un’azienda, lava i ca-

mion. È venuto solo, dopo un po’ di tempo è arrivata tutta la famiglia, e mio zio gli ha affittato una casa, sono brave persone. Hanno due figlie, una va alla scuola media, l’altra alle elementari. Sono persone molto disponibili, non sono mai ri-tornate nel loro paese.

Conosco diverse persone, due coppie miste: si tratta di due uomini senega-

lesi sposati con due italiane, una coppia sta a Napoli e l’atra a Catanzaro. Inoltre, conosco una filippina che è la responsabile dell’ufficio bielorusso d’immigrazione.

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Io sono di nazionalità italo-rumena, diciamo così, e ne conosco diversi, an-che grazie ai miei genitori adottivi, che me li hanno fatti conoscere.

Al mare ho conosciuto alcuni marocchini, persone molto brave: vendono

abiti sulla spiaggia. Penso che stiano sulla costa tirrenica tutto l’anno. Io conosco la moglie di mio zio. Lavora ma ha anche aspetti aggressivi, per

motivi di differenza culturale. Conosco anche un ragazzo moldavo, bravo, mura-tore, amico di alcuni ragazzi di qui. Conosco anche un ragazzo cinese, un bravo ragazzo; mi ha detto che in Cina non esiste Facebook.

L’estate scorsa, in Spagna, ho constatato che il fenomeno

dell’immigrazione riguarda anche gli altri paesi. Una differenza tra Italia e Spa-gna e che lì le forze dell’ordine sono più attive nel reprimere i fenomeni negativi legati alla presenza di immigrati.

Alla fine degli anni ’70 ho frequentato un giovane del Ciad e un altro del

Burundi. Erano venuti qui per studiare. C’è stata un’amicizia molto stretta tra noi. Poi ci siamo separati e abbiamo perso i contatti. Conosco anche un cinese cattolico sposato con un’italiana. Un mio parente è molto amico di un musicista senegalese molto bravo. Altri parenti sono amici di un musulmano conosciuto all’università di Catanzaro: è molto gentile ed educato. Da giovane ho conosciu-to molti portoghesi in Francia, dove io stesso, anche se per poco tempo, ho fatto l’esperienza al contrario.

Ti sembrano giuste tutte le normative in vigore sugli immigrati? Perché sì o

perché no. Premesso che non conosco bene le normative italiane. È giusto che gli stra-

nieri abbiano un permesso di soggiorno. La “ius soli” è sbagliata. I tempi per ottenere un permesso di soggiorno sono molto lunghi. È positivo dare le case popolari, ma a certe condizioni. Alcuni vengono in Italia per commettere reati anche perché nel loro paese le leggi sono più dure, e di questo occorre tenere conto.

Secondo me sono giuste. Gli immigrati devono avere un lavoro e una casa

forniti dallo Stato. Sono giuste perché bisogna limitare gli stranieri che vengono in Italia.

Non conoscendo bene le normative, provo a dire che sono d’accordo che un

immigrato clandestino venga rimpatriato in caso di guai con la legge. Devono conoscere la lingua italiana.

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Non conosco. So solo che ci vuole molto tempo per avere il permesso di soggiorno, e non sono d’accordo.

Le normative attuali sono troppo permissive. Non sono d’accordo con la “ius soli” né sul tempo troppo lungo per ottenere

il permesso di soggiorno. Se dei clandestini commettono un reato devono essere espulsi senza possibilità di ritorno.

Sono quasi giuste: se commettono un reato devono tornare al loro paese d’

origine. Sono contrario all’integrazione degli immigrati nelle scuole. Non mi piace

l’affollamento degli immigrati nelle scuole. Non è giusto che un genitore immi-grato imponga il proprio credo al figlio.

Va creata o modificata la normativa sui controlli. Bisognerebbe investire

maggiori risorse sulle normative esistenti, per esempio, impedendo in ogni modo ai clandestini di rimanere sul nostro territorio.

Non conosco bene la normativa sugli immigrati. Se uno straniero sposa un

cittadino italiano e diventa italiano a tutti gli effetti, non mi va giù. Al primo rea-to che commettono vanno subito rispediti a casa loro.

Non conosco molto bene le norme. Non mi piace il troppo tempo che ci

vuole per il rilascio dei permessi di soggiorno. Non sono d’accordo sul fatto che non danno la cittadinanza a persone che hanno sempre vissuto in Italia, per e-sempio, come figli di immigrati.

Secondo me c’è un po’ di confusione perché ci sono norme molto restrittive

e altre molto permissive. Non sono d’accordo sui respingimenti. Potremmo dar loro un “periodo di prova”.

Non conosco molto bene le norme. Sono d’accordo sul dare un “periodo di

prova” in particolare per i minorenni. Non conosco le norme. Non sono d’accordo sulla eccessiva lunghezza dei

tempi sul permesso di soggiorno. Secondo me si deve concedere la cittadinanza ai bambini nati in Italia e respingere gli immigrati clandestini.

Non ho idea.

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Io penso che nei nostri ragionamenti siamo troppo egoisti, perché pensiamo troppo a noi stessi, alla nostra famiglia ed al nostro paese. In ciò non siamo mol-to diversi dai leghisti che dicono che il Nord è stanco di mantenere il Sud paras-sita. Questo schema ci tiene tutti prigionieri. Bisogna prendere atto che ogni es-sere umano è portatore di dignità e di diritti come è scritto nella carta delle Na-zioni Unite. Dovremmo studiare un modo per dividere il pane con gli affamati e se le risorse non bastano, cambiare stile di vita. Perché non è più tollerabile che il 20% della popolazione mondiale disponga dell’80% delle risorse del pianeta.

Quali nuove proposte in campo civile e sociale vorresti avanzare? Ho notato che a Milano ci sono molti immigrati e vorrei che in Italia entras-

se un numero limitato di stranieri, migliorando i controlli. Avere troppi immigra-ti non è buono per una nazione. Se dovessimo mobilitare l’esercito, si andrebbe incontro a delle guerre civili.

Penso che gli stranieri dovrebbero avere gli stessi diritti che abbiamo noi,

perciò se ci sono norme discriminatorie, devono essere abrogate. Io penso che debbano essere loro ad adattarsi e non il contrario. Secondo

me sarebbe meglio individuare alcune leggi fondamentali coerenti fra di loro. Secondo me chi è già sul territorio italiano va tutelato; poi si dovrebbe evi-

tare di far entrare i clandestini, dato che ne siamo pieni zeppi. Secondo me dovrebbe essere cambiata la mentalità, così con una mente più

aperta, la legge verrebbe da sé. Secondo me gli immigrati dovrebbero essere trat-tati come gli ex-carcerati, cioè dovrebbero essere aiutati per “reintrodurli” nella società. Prima, però, vanno tutelati gli italiani usciti dal carcere e poi gli immi-grati.

Io credo che prima vanno risolti i problemi degli italiani e poi quelli degli

stranieri. Io darei a ciascuno un periodo di tempo: se non si sistemano, vengono rimandati.

Andrebbe limitato il numero. Io penso che bisogna verificare se il matrimonio tra un’italiana e uno stra-

niero è autentico o di comodo. Bisogna verificare se le persone hanno intenzioni serie o no.

Prima vanno tutelati gli italiani e poi gli stranieri.

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Tutti i paesi dell’ UE dovrebbero avere le stesse norme sugli immigrati. Io farei una riforma per tutelare gli immigrati, ma allo stesso tempo, loro

devono prendere coscienza della situazione in cui vivono. Dovremmo limitare le entrate e fare in modo che nell’UE le norme siano

tutte uguali. Ci vorrebbe un decreto che li faccia lavorare. Sarebbe giusto far rimanere chi ha il permesso regolare ed integrarlo nella

società. Secondo me deve essere inserita una norma che agevoli gli immigrati che

hanno intenzioni serie. Si dovrebbero fare dei corsi di formazione professionale. Sarebbe opportuno fare dei corsi per far relazionare correttamente gli italia-

ni con gli immigrati. Poiché sono persone come noi, dovrebbero avere stessi diritti e doveri no-

stri. I datori di lavoro dovrebbero essere obbligati a non far lavorare in nero. Sono un po’ troppo liberi: gli stupri sono commessi da molti stranieri. Do-

vrebbe essere limitato il numero. Dovrebbero avere diritti eguali ai nostri e ricevere un “permesso-prova”;

dopo un certo periodo si dovrebbe verificare se si comportano bene, altrimenti vanno rimandate a casa.

Limitare gli ingressi, studiare con apposite commissioni il profilo psicoatti-

tudinale di coloro che vogliono entrare; corsi di italiano e di cittadinanza; favori-re l’acquisizione di esperienze lavorative dirette sul posto di lavoro (ospedali, cantieri, ecc.).

Io credo che a tutti dovrebbero essere garantiti i diritti umani essenziali:

cibo e vestiti, alloggio, istruzione, assistenza medica e legale. A tutti coloro che pensano di radicarsi in Italia, inoltre, si dovrebbe concedere subito una sorta di cittadinanza provvisoria, in attesa di conferma dopo un certo tempo durante il quale la persona viene seguita, aiutata e osservata da gente specializzata. A nes-suno dovrebbe essere permesso di sfruttare gli immigrati e a chi sfrutta i clande-stini, riduce in schiavitù un uomo, o lucra sul traffico di esseri umani dovrebbero essere comminate pene veramente severe.

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Il governo e il parlamento dovrebbero studiare sussidi per imprenditori, arti-giani, comunità, associazioni, famiglie che offrono progetti di inserimento e di aiuto a qualche straniero che vuole lavorare seriamente per un progetto di vita in Italia. Inoltre, il governo dovrebbe stanziare risorse che permettano di impiegare figure professionali adeguate all’assistenza alle persone che vogliono inserirsi nel nostro paese, creando così posti di lavoro per i giovani italiani disoccupati.

CONFRONTO SUL TEMA: “DALLE ETNIE ALL’UOMO. MONDIALITÀ E DIFFE-

RENZA: BINOMIO INSCINDIBILE DELLA PEDAGOGIA PLANETARIA”, DI ANTONIO NANNI

Ci troviamo in un’“età globale” nella quale dovremmo guardare al mondo in generale e non alle regioni o alle nazioni. Sono stato colpito dal fatto che non esiste una civiltà superiore alle altre. Con questa consapevolezza sarà difficile fare i conti.

Le differenze gerarchiche che noi crediamo che esistano tra le civiltà devo-

no essere appianate. Noi viviamo la vita in modo egocentrico e dobbiamo alle-narci molto per capire che non siamo superiori a nessuno. Se un po’ tutti riuscis-simo a capire queste differenze, il mondo potrebbe cambiare.

Nessuna etnia è superiore alle altre: sono d’accordo. Questo argomento deve essere approfondito maggiormente. Il sistema edu-

cativo dovrebbe essere capovolto. Soltanto così si potrebbe sperare di avere nuo-ve generazioni preparate alla cittadinanza globale.

Le mie opinioni sono state confermate dalla lettura del testo. Quando in qualche paese lontano si verificano catastrofi naturali, sembra

facile pensarsi come cittadini del mondo. Dovremmo cercare di esserlo sempre. Io sono musicista e credo che la musica, come linguaggio universale, dovrebbe essere valorizzata proprio come strumento di conoscenza reciproca tra i popoli.

Il pianeta terra è una società globale in cui non deve esistere una cultura

superiore. Almeno in parte pensavo già quello che ho letto nel testo. Non c’è una cultura superiore; concordo. La difficoltà ad accettare l’altro

però è reciproca. Secondo me i social network possono essere d’aiuto a “connettere ” il mondo.

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Viviamo in un villaggio globale, ma non possiamo sentirci cittadini del mondo se, in primis, non lo siamo nel nostro territorio. In fondo la difficoltà che incontriamo nel nostro paese a definirci come italiani dipende dall’egoismo.

La cosa che mi ha affascinato in questo percorso è aver riflettuto sulla ric-

chezza che deriva dalla diversità delle varie culture: essa contribuisce alla cresci-ta dell’individuo.

Secondo me queste prospettive globali dovrebbero interagire su tutto il pia-

neta e dovrebbero esser diffuse in tutto il mondo, attraverso le scuole e le fami-glie. Sono d’accordo con Becker quando propone una società mondiale.

Teoricamente siamo tutti cittadini del mondo, però è impossibile formare

una società globale perché ci sono troppe differenze tra le culture. Perfino a li-vello regionale ci sono differenze profonde. Secondo me è meglio mantenere le differenze, perché una prospettiva globale uniforma le mentalità e impoverisce.

Secondo me questo impegno delle etnie va preso molto sul serio. Le società

devono avere la forza di ribaltare la logica del mondo. Tutti sono bravi a criticare gli altri, ma bisogna anche guardare a se stessi.

Partendo da ognuno di noi possiamo cambiare tutto molto più velocemente. Quando incontriamo e frequentiamo una persona dovremmo osservarla e

conoscerla approfonditamente sotto vari aspetti. Soltanto così possiamo sperare di non sbagliare.

Teoricamente sono d’accordo che il mondo deve essere un'unica comunità,

però nel corso della storia si sono formate tante crepe, che non è facile risanare. Queste fratture tra popoli e nazioni richiedono molto lavoro di riparazione. Ri-tengo che ogni persona dovrebbe lavorare nel suo piccolo per costruire una citta-dinanza mondiale.

Gli uomini devono prendere atto che l’umanità forma un’unica famiglia, ma

è estremamente difficile vivere la comunione a livello planetario, perché ogni persona vive in uno spazio e in un tempo ben precisi. Comunque, vi sono aspetti della cultura che ostacolano la costruzione di una cittadinanza universale (l’attaccamento eccessivo a usi e costumi, le ideologie, una visione distorta della religione); ve ne sono invece altri che favoriscono l’uscita dal proprio “recinto” e l’apertura agli altri (la musica, la danza, lo sport praticato con sano spirito, la scienza coltivata per l’amore della conoscenza, la religione intesa come espe-rienza liberante dello spirito).

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Contributo della classe IV F Mercurio dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata da A. Girone, alla ricerca di Famiglia Aperta, dal titolo: “Primato

delle persone nella società multietnica”, pista n. 5 - per tutti, in quanto portatori di diritti e

di doveri

(Appunti a cura di Francesca Ricchio e Kamil Zielinski)

Quale opinione hai sugli immigrati (in particolare badanti e mediatori cul-turali) in Italia?

Penso che è bene che ci siano delle badanti in Italia, in quanto noi in Italia non faremmo mai il loro lavoro!

Penso che è negativa la presenza di questi immigrati, perché vogliono im-

porci le loro tradizioni e i loro costumi. Secondo me gli immigrati sono molto concorrenziali nel campo del lavoro. Secondo me bisogna fare una selezione, cioè chi ha un lavoro continuare a

stare nel nostro Paese, mentre chi non ha nessuna occupazione deve essere rim-patriato.

Penso che le badanti sono molto pericolose, in quanto spesso poco respon-

sabili, per questo vanno controllate da parte dei famigliari delle persone anziane a loro affidate.

Secondo me ci sono certi immigrati che vengono in Italia per lavorare, per

mandare dei soldi alla propria famiglia nel loro Paese, mentre altri non sono ri-spettosi delle regole del vivere civile e spesso commettono atti come stupri, rapi-ne e sequestri.

Conosci qualche persone straniera più da vicino? La nostra esperienza scolastica ci ha fatto conoscere in ragazzo polacco;

Kamil, che inizialmente non si è molto integrato nella classe, avendo un atteg-giamento un po’ scontroso.

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Penso che prima questo nostro compagno straniero si dimostrava asociale, mentre adesso, dopo due anni insieme, riesce a comunicare più con noi.

Penso che il comportamento di questo nostro compagno di classe non del

tutto socievole non è da addebitare solo al suo carattere, ma anche alla nostra diffidenza verso di lui.

Mi sembra che questo nostro compagno non sia un debole, né una vittima

del sistema dell'immigrazione, ma penso che si è dimostrato molto più forte di noi e ricco di pazienza.

Ho osservato che tutti gli stranieri non sono del tutto amalgamati alla vita

sociale e civile delle nostre città in quanto risentono delle diversità culturali, lin-guistiche e di costume.

Ti sembrano giuste tutte le normative in vigore sugli immigrati? Perché sì e

perché no? Penso che c'è una massima tolleranza per quanto riguarda gli immigrati in

Italia da parte del Governo in quanto la loro presenza sul nostro territorio nazio-nale va altre il fabbisogno in termini di manovalanza agricola e di richiesta delle fabbriche del nord.

Ritengo che con la loro presenza gli immigrati risolvono molti problemi per

quei lavori che noi italiani ci rifiutiamo di fare. Esempio: raccolta di pomodori, di olive, di agrumi ecc. e penso che danno un grande aiuto anche alla formazione delle classi scolastiche.

Quali nuove proposte in campo civile e sociale vorresti avanzare? Penso che per tutti gli stranieri è necessario dare un periodo di tempo di

permanenza nel nostro Paese. Penso che per far fronte a questi extracomunitari che arrivano nel nostro

Paese senza alloggio bisognerebbe istituire maggiori enti umanitari. Penso che sia necessario creare dei centri di rieducazione e istruzione per i

bambini. Penso che ci vorrebbe maggiore sensibilizzazione da parte di tutti noi da un

punto di vista sociale, come equipaggiamento alimentare e anche di abbiglia-mento.

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Ho osservato che attualmente però la nostra situazione economica non è del

tutto stabile e di conseguenza è difficile riuscire a provvedere a tutto ciò. Penso che bisogna sensibilizzare tutta la gente a saper vivere insieme a que-

ste persone straniere.

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Contributo della classe III B Mercurio dell’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende, coordinata da

R. Filippelli, alla ricerca di Famiglia Aperta, dal titolo: “Primato delle persone

nella società multietnica”, pista n. 5 - per tutti, in quanto portatori di diritti e

di doveri

(Appunti a cura di Daniela De Luca, Maria Leone, Fabiola Scarcello)

Quale opinione hai sugli immigrati (in particolare badanti e mediatori culturali) in Italia?

Ogni giorno l'influenza degli immigrati è avanzata, per me è giusto che ci siano, ma dovrebbero rispettare le leggi.

Devono rispettare le leggi come ogni cittadino italiano rispetta le leggi al-

trui. Non dobbiamo fare di tutta l'erba un fascio. Per tutto il mondo è così, dobbiamo accettare questa situazione e non dob-

biamo essere razzisti. Penso che come a tutte le parti cìè la gente buona e quella cattiva; credo che

se si comportano bene non importa che stiano nel nostro paese. Fanno bene a venire qua però devono comportarti bene. Quando una persona riesce a stare bene e quindi lavorare deve integrarsi

nella società. È un bene che vengano, non mi sembra giusto però che le ragazzine vengo-

no sfruttate in cambio di denaro. Gli immigrati da tutte le parti vengano sottovalutati, sottopagati.

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Io sono una rumena ma venendo in Italia con la mia famiglia non ho subito discriminazioni. ovviamente ambientarsi è difficile.

È giusto che vengano qui però devono comportarsi in un certo modo, però

devono accontentarsi anche dei lavori più umili. Noi italiani siamo stati i primi a discriminare gli altri, quindi perché ci per-

mettiamo ora di giudicare gli altri?. Non mi sembra giusto discriminare quelli che vengono da altri paesi solo

perchè non sono italiani alla fine siamo tutti esseri umani solo che siamo di di-verse culture, colore e religione..alla fine le persone cattive ci sono ovunque.

Poiché mia madre è brasiliana venendo in Italia ha subito discriminazione

ma con il passare degli anni ci siamo integrati bene.

Conosci qualche persona straniera più da vicino? Da vicino no, solo in classe. Sì molti, sono più emancipati poiché non hanno una famiglia. Vicini di casa abbiamo un buon rapporto. Sono bravissime persone, la stabilità familiare fa la differenza. Ragazzi che sono cresciuti insieme a noi. Conosco amici di famiglia brave persone. Nota : Alcuni ragazzi conoscono solo gli “stranieri” che incontrano a scuola

o che fanno parte della loro famiglia.

Ti sembrano giuste le normative in vigore sugli immigrati? È sbagliato che vengono in Italia perché non c'è possibilità di lavoro. Fanno bene a venire qua perché c'è possibilità di lavoro. Credo che sia giusto che vengano qui e credo anche che devono avere pos-

sibilità di lavoro però se non riesco a trovarlo e meglio che vengono rimpatriati. Secondo me se lavorano è giusto che vengano.

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Gli italiani devono dare la possibilità agli immigrati di lavorare. Gli immigrati hanno bisogno di più tempo per ambientarsi. Devono essere loro stessi a decidere se andarsene o no, viste le condizioni. Quali nuove proposte in campo civile e sociale vorresti avanzare? Organizzare feste, riunioni fra di loro per mantenere contatti tra stranieri. Festa multietnica per confrontarci sulle proprie etnie. Non c'è confronto; non la pensa come Serafina. infatti se prima non ci siste-

miamo noi loro non possono. Non saprei, forse sarebbe meglio prima incontrarsi tra loro e poi incontrarsi

con persone diverse. Il contrario di Mario perché se vengono messi insieme tra di loro non si in-

tegrano quindi fare una comunità per chi è già integrato nella società. Dobbiamo dare loro le principali basi per ambientarsi nella società. Prima soddisfare le esigenze italiane e poi quelle straniere. Lascio che le cose si lascino fare da sole. L’integrazione deve essere metà da parte loro e metà da parte nostra. vor-

rebbe che la legge sulla cittadinanza si potesse concedere in modo più semplice. infatti vorrebbe entrare in polizia ma senza cittadinanza italiana non si può.

Vengono sì, però non vedo giusto che il papa dice di farli integrare però lui

non dà una mano economica a coloro che ne hanno bisogno. Secondo noi quello che hanno detto i nostri compagni è giusto, in quanto

comunque oltre ad integrarsi da soli dovremmo dare una mano anche noi e cer-car di non farli sentire sotto pressione.

Il diritto alla diversità e l’educazione interculturale Si è riconosciuto che noi guardiamo attraverso una griglia. La scuola è giusto che abbia la funzione di insegnare valori.

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Devono integrarsi con le proprie culture ma anche adattarsi alle leggi. Sta male vedere che la libertà non esiste come tenere per forza il burqa. Penso che sia normale che noi abituati alla nostra cultura, deridiamo coloro

che per esempio portano il burqa. Gli emigranti devono sforzarsi per adattarsi e che anche dall'altra parte de-

vono trovare la disponibilità comprensiva poiché loro così possono abbandonare le loro abitudini.

Non bisogna guardare l’abito come l’essere interiore. Accettare le nostre leggi ma non cambiando la loro cultura. Dobbiamo capire e comprendere la cultura degli altri però devono comun-

que integrarsi; in tal modo non sia razzismo. Se si ha uno scambio di cultura si ha la globalizzazione è sicuramente me-

glio. Gli italiani e gli stranieri devono aprirsi mentalmente sia nei confronti degli

italiani che in quelli degli stranieri. Bisogna guardare oltre l’aspetto esteriore, non giudicare gli stranieri per le

proprie culture, bisogna essere più maturi e con mentalità più aperte verso le al-tre persone provenienti da altre nazioni.

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Visita guidata al comprensorio del massiccio del Pollino

(21 settembre 2011, appunti a cura di Giada Bruzio, Rosaria de Vita,

Vanessa Guido, Antonietta Urso e Cristina Vitaro)

Il 21 settembre le classi 3BM, 5BM e alcune ragazze del 5FM accompagna-te dai professori Cariati, Rovito e Scornaienchi, si sono recati al Parco Nazionale del Pollino, con l’intento di fare una vera e propria escursione tra la montagne del massiccio possente. Partiti dall’Istituto “V. Cosentino” di Rende verso le 7.30 hanno iniziato il tragitto con canti e balli. Dopo poche ore, arrivati sulle montagne del Pollino, precisamente al rifugio “De Gasperi”, i docenti sono stati costretti a cambiare programma rimandando l’escursione, viste le cattive condi-zioni atmosferiche del luogo. Grazie all’iniziativa del prof. Cariati, è stato però possibile visitare il paese di Frascineto con il suo importante Museo delle icone. I ragazzi, entusiasti dell’iniziativa proposta dai professori, hanno accolto la pro-posta, visitando il Museo delle icone con molto interesse. Alunni e docenti me-diante il supporto della guida, hanno appreso una varietà di notizie riguardanti le procedure per la realizzazione delle icone, e inoltre hanno potuto apprezzare o-pere di grande rilevanza artistica e culturale.

Il museo delle icone e della tradizione bizantina di Frascineto, centro di ec-cellenza della cultura bizantina in Calabria, è stato realizzato dopo una attenta analisi del contesto italo-albanese di tradizione bizantina. La sua realizzazione è stata curata dal prof. Gaetano Passarelli, esperto di iconografia e docente di sto-ria e civiltà bizantina. All’interno del Museo, gli spazi disponibili sono stati ade-guati alle esigenze di rappresentazione dei diversi temi trattati. Si tratta di un’esposizione complessa ed affascinante dedicata ad un rapporto stretto e di confronto tra la creazione artistica e lo spazio sacro. Il museo costituisce il primo momento di acquisizione delle conoscenze legate all’ambiente italo-albanese di tradizione bizantina. Emblema del museo è l’aquila bicipite imperiale bizantina con inciso sul petto la scritta IC XC NIKA (Gesù Cristo vince), per sottolineare la continuità di legame e di fede con i propri antenati. La prima sala, al piano terra, ospita l'atelier dell’iconografo e un video didattico sulle fasi di preparazio-ne dell’icona.

Le icone sono opere destinate, attraverso il disegno e la simbologia dei co-lori, a trasmettere un messaggio sacro. la collezione di icone esposta è di oltre 250 pezzi, provenienti da varie località: Russia, Bulgaria, Grecia, Romania, Ser-bia. Vi sono icone da Chiesa e altre da devozione familiare espresse in forme e dimensioni varie. Successivamente, alunni e docenti si sono recati a Civita, dove

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è stato possibile visitare il paese con tutte le sue caratteristiche arbereshe, ma non solo, ragazzi e insegnanti hanno anche percorso un breve tragitto fino al fiu-me Raganello, con il suo maestoso canyon, e al ponte del diavolo. Il fiume nasce nel cuore del possente massiccio del Pollino e sfocia nello Ionio nei pressi di Villapiana.

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Appendice

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SOScafè

Il gruppo SOS scuola, da gennaio 2011, ha dato vita, presso il Time out di Quat-tromiglia di Rende, al caffè letterario denominato SOScafè. Alcuni temi affrontati finora sono stati: Pazienza e speranza nell’Italia d’oggi. Relazioni industriali e diritti dei lavoratori. Karol Wojtyla. Videogiochi, social network e realtà virtuale. Il pensiero di Vittorino Andreoli sulla generazione digitale. La dignità della persona umana. Il personalismo comunitario. La storia del monachesimo d’oriente e d’occidente. Risorgimento e Unità d’Italia. Razionalità e irrazionalità nel nostro tempo. L’importanza di riferimenti culturali e guide spirituali nella vita. Piaghe sociali: la droga e relative misure di prevenzione. Il brano del Vangelo tratto dal Discorso della montagna. Le mafie e il movimento antimafia. Ateismo, materialismo e struttura della persona umana. Esempi innovativi di pastorale della Chiesa Cattolica. Il libro dell’ex padre domenicano Matthew Fox, In principio era la gioia. Il servizio militare obbligatorio come strumento di costruzione dell’identità na-zionale. Brigantaggio e unità d’Italia. La Quaresima e la salita di Gesù al Calvario. L’odissea della Libia e del Mediterraneo. La questione meridionale in un’ottica mediterranea. Il progresso tecnico-scientifico, i sistemi digitali e la circolazione della cono-scenza. Verità della persona umana tra relazioni comunitarie e società complessa guidata dal mercato. L’uso della parola e del linguaggio come strumenti al servizio della menzogna. Il ruolo dei docenti nella vita dei giovani. L’incompletezza di ogni cultura e la necessità che vi sia un confronto paritario tra culture diverse. Esperienza religiosa tra ricerca autentica della verità e mostruose distorsioni. Uso della religione come strumento di stato.

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Segni sulla sabbia. Viaggio nelle regioni 150 anni dopo l’Unità

di Tommaso Cariati

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Emilia-Romagna, dove gli opposti si armonizzano

Quante volte abbiamo attraversato l’Emilia-Romagna, senza rendercene conto. È il destino di una regione cerniera, com’è la nostra, di essere oltrepassata velocemente, ed ignorata (specialmente da quando abbiamo smesso di andare a piedi e con i mezzi lenti). Eppure, per andare dal sud al nord, e viceversa, dob-biamo attraversarla sempre (a meno che non si vada per la Liguria, il Piemonte e la Francia). Tutte le altre destinazioni richiedono di transitare per la regione cer-niera, o cuscinetto, per eccellenza. Infatti, guardando le cartine, la regione appa-re come un cuneo lungo, lungo e grosso incastrato tra l’Appennino tosco-emiliano e il Po, con la punta rivolta a nord ovest (o, in alternativa, una rivoltella puntata sul Piemonte). Essa occupa, quindi, in posizione strategica, una fascia trasversale dell’Italia, proprio alla latitudine che segna il passaggio tra la parte peninsulare del paese e il settore padano-alpino del vecchio continente. La regio-ne, per dir così, volta le spalle alla Toscana, e al resto della penisola, e guarda francamente al Po, alla Lombardia, al Veneto e all’Europa (Stendhal, ne La cer-tosa di Parma, scrive che Fabrizio del Dongo, dalla sua prigione, riusciva a ve-dere le Alpi). Le montagne che stanno alle spalle della regione però non sono ferrigne, e non costituiscono un bastione invalicabile, perciò nei secoli la pianura tra l’Appennino e il Po è stata un crocevia per tutte le genti.

Il territorio dell’Emilia-Romagna è formato sostanzialmente da due parti: la prima a sud, montuosa e collinare, si estende per poco più della metà del territo-rio, e forma salvo eccezioni, un rettangolo largo circa quaranta km; la seconda, più a nord, pianeggiante, situata a quota variabile tra venticinque e cento e metri, è un triangolo con l’ipotenusa posta lungo la linea pedemontana (parallela alla quale corre le via Emilia e tutto il fascio moderno di vie di comunicazione). Che la regione sia una banda o striscia trasversale di territorio è segnalato dalla circo-stanza, nient’affatto trascurabile, che molte delle sue province siano porzioni longitudinali perfette, cioè, a loro volta, strisce che vanno dalla spina dorsale appenninica fino al Po (si tratta delle province di Piacenza, di Parma, di Reggio E. e di Modena, la quale in verità dal fiume è lambita appena, dato che la provin-cia lombarda di Mantova sconfina a sud del grande fiume), condividendo in tal modo le principali risorse del territorio: la montagna, la collina, la pianura, il fiume. Se osserviamo la regione dal lato del mare, notiamo lo stesso criterio di equità: le province di Rimini, Forlì-Cesena, Ravenna, Ferrara sono disegnate in modo da avere tutte un affaccio sul mare (la provincia di Ravenna, poi, si inerpi-ca anche sulle montagne). Rispetto a questi criteri di equità territoriale, apparen-temente fa eccezione la provincia di Bologna, la quale non giunge né all’Adriatico, né al Po. Bologna, però, occupando nella regione una posizione

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baricentrica, ha avuto il privilegio di essere, in una terra senza metropoli, in mezzo a una costellazione di città sostanzialmente di pari rango, il capoluogo.

Noi, una buona volta, dopo tanti frettolosi passaggi, abbiamo deciso di ral-lentare. Siamo entrati in Emilia-Romagna per la porta di Rimini, come la via Emilia. Abbiamo puntato poi alle valli di Comacchio e a Ravenna, siamo passati per Ferrara, poi siamo ritornati indietro alla via Emilia, per percorrerla tutta, ma facendo digressioni qua e là, lungo le strade che salgono a pettine verso le mon-tagne, o scendono verso il Po. E ne è valsa la pena perché la regione è tutta da scoprire e amare, gustando lentamente la sua originalità (compresa quella gastro-nomica); tra l’altro, la sua gente davvero deve possedere una segreta sapienza se ha saputo armonizzare, nei secoli, gli opposti che caratterizzano questa terra.

In Emilia-Romagna si incontrano numerose dicotomie. La prima che vo-gliamo affrontare riguarda la natura artificiale della regione, non solo perché risulta composta da Emilia e da Romagna, ma anche perché, come leggiamo nel-la guida del Touring, «l’Emilia è un’invenzione e di Romagne ne conosciamo almeno otto». Quanto all’Emilia, Piacenza, situata in prossimità dei confini, guarda a Milano (al punto che, complice la monotonia della pianura, spesso ci si chiede se quella città non stia in Lombardia); Parma ancora per molti formereb-be un ducato a sé, che guarda al di là del fiume, a Cremona e a Mantova; se a Modena e a Reggio ci si sente emiliani, si guarda però con sospetto a Bologna e a Ferrara che flirterebbero con la Romagna. Quanto alle Romagne, ogni città ne forma una; ci sarebbe poi una Romagna in Toscana e c’è San Marino. Nella gui-da del Touring leggiamo «Bologna, se si facesse un referendum sarebbe capo-luogo soltanto per la posizione geografica, per null’altro». Ebbene, nonostante tutte questi sospetti reciproci, queste individualità, queste dicotomie, la gente in questa regione ha saputo trovare un vero equilibrio tra la libertà individuale, la cooperazione e la solidarietà, e contemperare, attraverso soluzioni originali, svi-luppo e vita, che sia buona e bella. La ricerca dell’armonia dei contrasti in questa terra potrebbe basarsi sulla consapevolezza precoce della gente che per poter tirare avanti, tra balze alle spalle e paludi nella valle, era necessario lavorare in-sieme. Questa consapevolezza devono averla avuta già Etruschi, Celti e Romani. Questi ultimi naturalmente hanno lasciato i segni più tangibili e duraturi nell’opera che mirava a creare un’infrastruttura razionale ed efficiente nel terri-torio: sono i Romani che hanno realizzato la rettilinea via Emilia, lungo la quale hanno eretto un rosario di città e hanno provveduto a dissodare, suddividere e a mettere a frutto il territorio circostante. I Romani, tra l’altro, avevano individua-to nell’alto Appennino un territorio di proprietà comune, l’ager compascuus, nel quale era consentita la sopravvivenza delle tribù indigene. Più tardi, durante l’alto Medioevo, in questi territori la gente ha dovuto faticare di nuovo, e faticare insieme, per riconquistare, dopo le distruzioni seguite all’incontro tra il mondo romano e quello germanico, alla natura selvatica le terre, e coltivarvi il grano e la vite. In quel torno di tempo questo territorio è stato a lungo diviso tra due sfe-

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re d’influenza distinte, i Longobardi a nord ovest e i Bizantini a est. Ebbene, gli uni e gli altri, sia pure con modalità proprie, richiamandosi al cristianesimo, han-no disseminato la regione di chiese e monasteri, e hanno imparato i valori della solidarietà, se non proprio quelli della carità. Forse a quest’epoca risale quella forma collettiva di proprietà terriera denominata “Partecipanza agraria” e le for-me collettive di amministrazione di mandrie di bestiame, vigenti tra Bologna, Modena e Ferrara (le terre della Partecipanza sono comuni; tutti possono sfrut-tarle ma nessuno può venderle o acquistarle; tutte le famiglie comunque dovran-no trasferirsi dopo nove anni su un altro appezzamento di terreno). Non sappia-mo quanto l’istituto della Comunanza o della Partecipanza sia parente dell’ager compascuus, e quanto sia parente del borgo rurale di matrice bizantina, ma gioca un suo ruolo nell’indole di questa gente.

È stato scritto che questa è stata un regione rossa nella quale perfino le mucche erano tutte rosse. È stato detto pure che l’Emilia-Romagna è stato un pezzo di Unione Sovietica, ma spesso, come sappiamo, l’apparenza inganna. Per esempio, a Cavriago c’è ancora un busto dedicato a Lenin, ma ciò non significa niente, infatti nella stessa cittadina la piazza principale è dedicata a Giuseppe Dossetti: i due dati vanno letti insieme e ci dicono che qui la gente ha saputo misteriosamente e saggiamente fare la sintesi degli opposti e armonizzare le di-cotomie. D’altra parte, che cosa ci dice la vicenda dei personaggi di Guareschi, Peppone e l’amico-nemico don Camillo? Ci dice forse che aveva ragione il pri-mo e torto il secondo, o viceversa? I due erano legati in profondità da un nodo umano saldissimo che forse rimontava indietro nella notte dei tempi, e sfuggiva alla consapevolezza dell’uno e dell’altro, e sfuggiva anche al lettore e, peggio, al telespettatore (“Il cristianesimo è una religione democratica basata sul lavoro”, diceva don Camillo). Per comprendere bisogna tenere presente l’opera degli sca-riolanti, gli operai che, attraverso un’opera paziente di pala, piccone e cariola, hanno trasformato le paludi del Po in terre bonificate e abitabili: le parole d’ordine erano dissodare, canalizzare, drenare, coltivare: lo hanno fatto qui come un capolavoro, e lo hanno fatto più tardi nella Pianura Pontina, nel Lazio meri-dionale. Ma non basta. Pensando a Cavriago e alla sua apparente contraddizione simbolica, per comprendere, occorre tenere presente che, se Lenin è il padre del socialismo reale, Giuseppe Dossetti, sul piano puramente politico, è quel tale che ha contribuito a scrivere la costituzione del 1948 secondo un’ispirazione evange-lica e cristiana, che ha contribuito a far approvare i Patti agrari in Italia, e che non voleva che il nostro paese entrasse nell’Alleanza atlantica. Ma non basta, perché Dossetti è quel tale che ha lasciato la politica attiva e si è fatto frate, met-tendo radici profonde proprio in Emilia-Romagna, regine nella quale non era nato. Era il socialismo di Lenin che animava nel profondo le genti di questa re-gione, o era la lezione della storia preromana, romana e altomedievale, e la ma-trice cristiana plurisecolare, sintetizzate e sedimentate come una linfa vitale? Basta andare in giro per le città di questa terra per capire molte cose: non manca-

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no mai cattedrali, chiese, monasteri, non solo a Bologna e a Ravenna. Basta sfo-gliare l’elenco dei personaggi illustri per avere dati eloquenti da considerare: vi si contano non meno di otto papi che provengono da questi luoghi. L’Emilia-Romagna è la regione d’Italia nella quale gli opposti si armonizzano: per esem-pio, la libertà personale e il sentimento di socialità o comunitario. Questa è la regione che ha dato i natali a un Francesco Guccini, uno che vive e scrive da ateo, non sapendo di essere un credente. Ecco la sintesi degli opposti.

Si è detto che l’Emilia-Romagna è una terra abitata da gente laboriosa e solidale. Ma questa è anche la terra delle nebbie padane che contrastano con la luce dei mosaici di Ravenna (leggiamo sui mosaici della cappella dell’Arcivescovado: “O qui è nata la luce, o, catturata, qui regna liberamente”). Si tratta di ambivalenze che possono coesistere e superarsi in una sintesi superio-re.

Dal punto di vista dell’arte, non possiamo trascurare la vocazione pittorica (Correggio), musicale (Verdi, Toscanini, ma anche il già citato Guccini, Dalla, Milva, Zucchero, Ligabue) e cinematografica (Fellini, Cavani, Giulietta Masina, Gino Cervi, Bertolucci: Novecento, Zavattini, Antonioni) di questa regione: for-se sono collegate con una vocazione estetica ineliminabile. E che cosa dire della letteratura: Ariosto, Stefano Benni, Attilio Bertolucci, Bevilacqua, Guareschi, Lucarelli, lo stesso Guccini, Pier Paolo Pasolini, Marino Moretti, Pascoli, Pier Vittorio Tondelli. Giornalisti del calibro di Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Carlo Lu-carelli, il fisico-ingegnere Guglielmo Marconi e gli inventori-ingegneri-industriali Ferrari sono originari di questa terra. Del resto, la città di Bologna ha l’università più antica d’Europa e del mondo: avrà saputo attirare, selezionare e formare centinaia e centinaia di menti. Oggi addirittura si parla in Emilia-Romagna di regione-campus universitario, per fare riferimento al fatto che mol-tissime città della regione possiedono proprie sedi universitarie o istituti di ricer-ca e singoli corsi di laurea, ma tutti interconnessi da una rete di scambi culturali e scientifici, favoriti anche dalla prossimità e dalla facilità delle comunicazioni non comuni altrove in Italia. Se i contrasti e gli opposti non ci sembrano suffi-cienti, diamo uno sguardo agli uomini politici cui la regione ha dato i natali: Mussolini, Almirante e Gianfranco Fini sono della regione; ma anche Pietro Nenni, Luciano Lama lo sono; Benigno Zaccagnini, Pier Ferdinando Casini, ma anche Romano Prodi, Dario Franceschini e Pierluigi Bersani sono nati da queste parti. Insomma, troviamo rappresentato tutto l’arco costituzionale. L’abbiamo già detto: in questa terra gli opposti coesistono e si armonizzano; anzi, a volte gli opposti sono pura apparenza.

In definitiva, una terra collocata tra balze e calanchi da una parte, e paludi dall’altra, ha generato uomini laboriosi e lieti, i quali hanno saputo superare ma-gnificamente gli opposti e contemperare le ambivalenze. Questi uomini, pieni di senso di responsabilità, si sono distribuiti sapientemente nel territorio in modo da evitare congestionamenti disumanizzanti (non ci sono metropoli, non ci sono

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periferie dormitori, le campagne sono abitate e presidiate, il territorio è utilizzato in modo equilibrato). Da queste parti le istanze di sviluppo e libertà della sogget-tività umana vengono coniugate in modo egregio con le istanze di socializzazio-ne comunitaria. La gente da queste parti lavora di buona lena, ma ama anche i libri, la cultura, le lettere, la musica, il teatro, la cucina, i salumi, la mazurca, in poche parole, ama la gioia di vivere. Ecco una bella idea: «Io considero scopo unitario delle scienze sociali, economia politica inclusa, la promozione della joie de vivre della persona umana in carne ed ossa, quale l’ha fatta il passato nei luo-ghi in cui vive». Si tratta di una frase di Giacomo Becattini, un economista to-scano controcorrente. Il suo nome è legato a quello di un altro studioso, Seba-stiano Brusco dell’università di Modena, anche se sardo di nascita. Nel pensiero di questi studiosi, la comunità è alla base dell’economia. Gli studiosi di questo filone osservavano che tante imprese nascevano in luoghi “sbagliati” perché non erano parte del triangolo industriale: la linfa che faceva fiorire queste imprese era la fiducia, la tradizione, la disponibilità a cooperare, il senso di responsabili-tà. Si tratta di un vero e proprio capitale che più tardi i sociologi hanno definito “capitale sociale”. Nelle città in cui si è perseguito il modello del gigantismo industriale, le relazioni di fiducia si sono spezzate e le operazioni di delocalizza-zione industriale portano a un territorio sfigurato. Alla perdita di identità del ter-ritorio corrisponde la perdita di identità e l’alienazione delle persone. Secondo Brusco e Becattini, l’aspetto locale resta fondamentale nello sviluppo economico (l’economia deve essere embedded diceva Polaniy). Nascono così i distretti in-dustriali del mobile, dell’abbigliamento, eccetera. Ma il distretto industriale deve mettersi in rete con altri territori. Si parla di impresa snella, di impresa a rete o di rete di imprese, di organizzazione per processi anziché per funzioni, di distretti e di filiere industriali. La politica economica ed industriale diventa quello che de-ve essere: politica economica e sociale; lo sviluppo economico e industriale non è avulso dalla società locale, è embedded, secondo la definizione di Polaniy; si scopre, per usare un ossimoro, la forza dei legami deboli: i legami sociali ricchi di senso, familiari, d’amicizia; si scopre l’importanza di una forza straordinaria trascurata dall’analisi economica tradizionale: la forza della gente unita da secoli nella buona e nella cattiva sorte, ciò che con espressione troppo economicista è stato chiamato “capitale sociale”. In questa regione, insomma, sviluppo econo-mico e benessere sono stati coniugati efficacemente, dando vita a un’economia dal volto umano. Non sappiamo quanto questo modello economico-sociale posi-tivo sia dovuto agli antichi istituti della Partecipanza agraria e al romano ager compascuus, e quanto risalga all’istituzione delle università nella regione o all’ascolto della musica o all’abitudine di praticare il ballo liscio; non sappiamo neppure quanto dipenda dal cristianesimo, ma importa poco. Importa che l’Emilia-Romagna sia considerata una delle regioni più ricche d’Europa, con tassi d’occupazione che superano il 70% (80% a Modena e Reggio Emilia).

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Certo, sembra che in questa regione il modello americano del gigantismo, sintetizzato nella frase bigger is better sia stato rifiutato in favore dell’idea oppo-sta small is beautiful. In Emilia-Romagna non ci sono mostri industriali arruggi-niti e spesso pericolosi, né cattedrali nel deserto. Si trovano tanti distretti: quello agricolo-meccanico di Cento, quello turistico di Rimini, quello calzaturiero di San Mauro in Pascoli, quello ceramico di Sassuolo, quello agroalimentare di Parma Langhirano, quello del mobile di Forlì, quello calzaturiero di Fusignano e Bagnacavallo, quello biomedicale di Mirandola, quello tessile di Carpi, quello motoristico di Bologna, quello della ceramica di Faenza.

Small is beautiful? Amartya Sen ha affermato che il Pil non può più essere l’unica grandezza

da prendere in considerazione quando si parla di sviluppo, perché il fine dello sviluppo dovrebbe diventare la crescita della capacità delle persone, non la ric-chezza. Questo economista, ai fini della valutazione della crescita di un paese, accanto allo sviluppo delle competenze della persona, arriva a considerare il gra-do di apertura agli altri e, addirittura, il sentimento religioso. Dai nuovi modelli di questi studiosi (Sen, Stiglitz) viene fuori che la felicità dipende dalla qualità delle relazioni sociali e dalla sicurezza emotiva, più che dalla ricchezza. Alcune metafore di Giacomo Becattini sono: Forti Pigmei e fragili Vatussi, Il caterpillar e la farfalla; suoi titoli sono: Identità locali e globalizzazione, Luoghi, transloca-li, benessere: idee per un mondo migliore, Distretti e ruralità: sfide al riduzioni-smo economico. È singolare che il premio Nobel per l’economia nel 2009 sia andato a due studiosi, Oliver Williamson e Lionor Ostrom, per avere studiato, il primo i costi di transazione nelle istituzioni economiche, imprese, mercati o gruppi fiduciari, e la seconda l’efficienza nella gestione comunitaria di risorse pubbliche, tipo l’istituto della Partecipanza dell’Emilia-Romagna. Purtroppo, noi viviamo in un mondo capovolto, e per il riconoscimento della validità delle idee di Williamson abbiamo dovuto attendere più di trent’anni (del resto, per il rico-noscimento della validità delle idee di Coase, il cui primo saggio risale al 1937, nel solco del quale Williamson si è inserito, abbiamo dovuto attendere dal 1961 al 1991). Del resto, Karl Polaniy non ha ricevuto nessun premio Nobel, neppure per La grande trasformazione. L’Emilia-Romagna è la terra dove gli opposti si armonizzano. Chi vuole può apprendere la lezione. Del resto, da alcuni anni pro-prio qui, tra Modena, Carpi e Sassuolo, si svolge il festival della filosofia, e a Piacenza quello del diritto. Per fortuna, come dice un filosofo del diritto, «c’è la crisi dei valori ma c’è anche un valore della crisi», cioè il cairos, che è il tempo propizio per la conversione.

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Liguria, arco teso tra la pianura e il mare

Abbiamo incominciato molto presto ad amare la Liguria. Vi siamo stati spinti dalla poesia, e dall’aspro e magnifico paesaggio, e dal sapore del salma-stro. Quest’arco di monti teso sulla Pianura Padana dal mare è tutto musica, poe-sia e luce. Certo è anche navigatori, commercio e industria, ma la poesia si co-glie nell’aria, negli attriti tra le onde e le rocce. Si tratta di un connotato così tan-gibile e vero che ha acquisito nella regione un doppio significato. Il paesaggio magnifico della provincia di La Spezia e delle Cinque Terre ha assunto il nome di “Golfo dei poeti”. Si tratta di un angolo di paradiso amato da Petrarca, Byron e altri più prossimi a noi, tra cui Sem Benelli, al quale si dovrebbe quell’appellativo. Questo Benelli era toscano, ma si è fatto ligure ed è morto a Zoagli. Da poco più di cent’anni la piccola Liguria ha dato i natali a una miriade di poeti importanti. Anzi, i poeti liguri sono cresciuti di statura col passare dei decenni, fino a raggiungere vette inusitate. Forse, come si dice, sono saliti gli uni sulle spalle degli altri. O, per dirla nel gergo ciclistico, lo sport che richiede la fatica di una terra dura come la Liguria, gli uni hanno tirato la volata agli altri; ma tutti hanno fatto un bel lavoro di squadra. All’inizio della corsa hanno peda-lato Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro; al traguardo della montagna sono giunti giganti del calibro di Eugenio Montale ed Edoardo Sanguineti; bei piazzamenti hanno ottenuto Giorgio Caproni e Fabrizio De Andrè. Precisiamo: Caproni è nato a Livorno, ma ha frequentato Genova e la Liguria, al punto da essere considerato figlio di questa terra. De Andrè è un grandissimo cantautore genovese. Noi non esitiamo a considerarlo un poeta, per il raro equilibrio raggiunto nella sua vasta opera tra testo, arrangiamento e inter-pretazione, oltre che per la sua grande consapevolezza. Non che i “gregari” siano inferiori ai giganti; a volte non hanno avuto il tempo di allenarsi adeguatamente. Boine, per esempio, è morto a trent’anni. Di lui Claudio Magris sul «Corriere della sera», nel 2007, ha scritto: «Boine è un vero poeta; c’è in lui – direbbe Sa-ba – il bambino che si stupisce delle cose e ne piange, ma c’è anche l’adulto che domina lo smarrimento e il pianto e dà loro dura forma». Questo poeta sfortuna-to ci ha lasciato opere come Frantumi, Il peccato, Plausi e botte, che è tutto un programma. Il primo titolo, del resto, sembra avere strane assonanze con Rotta-mi, il titolo che Montale pensava di utilizzare per i suoi Ossi di seppia.

La Liguria è piccola, stretta e arcuata; montuosa e compatta; schiacciata contro il mare dal Piemonte. Un muraglione eretto tra il Mediterraneo e la Pianu-ra Padana. Viaggiando per la regione, e guardando la morfologia del territorio, e il contorno, diversi dati balzano agli occhi. Primo, si tratta di una striscia di terra, meglio sarebbe dire di rocce, così esile che in Italia non c’è l’uguale. Secondo, la

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regione è scheletrica, ha una forte ossatura e pochissima polpa. Terzo, i contraf-forti appenninici sono talmente ripidi che è stato arduo tracciarvi un sistema di comunicazioni. Quarto, per adattarsi sui ripidi fianchi dei monti, lungo i quali non mancano dirupi, cuspidi e cocuzzoli, l’uomo ha dovuto organizzarli a terraz-zi. Quinto, praticamente non vi sono pianure, tranne due eccezioni, quelle brevi del Magra e di Albenga. Sesto, le città sono sistemate con arte lungo la cimosa costiera stretta, sfruttando i conoidi alluvionali dei torrenti. Settimo, considerato che gli antichi Liguri spaziavano dal Rodano all’Arno, non si capisce come mai molte terre liguri, quelle poste oltre la linea di displuvio appenninica, come Novi Ligure appunto, appartengano ad altre regioni. Ottavo, la linea di cresta delle montagne della Liguria si abbassa, a una quota di circa 400 m al colle di Cadibo-na, punto convenzionale di saldatura dell’Appennino alla Alpi, e si rialza nei pressi di Genova; poi si abbassa di nuovo dalle parti dell’Emilia e della Toscana. Nono, tra questi monti non mancano i varchi adatti al transito, agli scambi, ai traffici e al commercio; anticamente sale e olio verso il Piemonte e grano e fari-na verso il mare. Decimo, i solchi vallivi dei torrenti sono normali alla linea di costa; fanno eccezione il Vara, affluente del Magra, all’estremità orientale della regione, e il Lavagna che sfocia nei pressi di Chiàvari, sulla Riviera di Levante. Undicesimo, la striscia di monti poco a ovest di Genova diventa esilissima, e si allarga verso la Francia e verso l’Emilia, fino a divenire un cuneo al confine con la Toscana. Dodicesimo, al centro dell’arco della Liguria, proprio dove la banda di territorio ha la larghezza minima, c’è “la Superba”, Genova. Da un sorvolo del golfo, la costa ligure appare come una immensa collana, formata da tante perle disuguali, le singole città, spesso incassate nelle profonde incisioni dei ma-gri torrenti, e da Genova, un grande medaglione posto in mezzo.

Abbiamo percorso la regione più volte in lungo e in largo. La prima visita l’abbiamo fatta, tanti anni fa, a Lerici, Portovenere e alle Cinque Terre, proprio al Golfo dei poeti; niente di meglio per avvicinare la Liguria. Molte volte abbia-mo fatto Torino-Voltri per il Passo del Turchino. Ci è capitato anche di arrivare a Genova in autostop, con un camionista diretto in Piemonte; di scendere al ca-sello, dove si trovano quegli «svincoli micidiali» cantati da De Gregori, per ten-tare ancora la sorte verso Ventimiglia e la Francia; rinunciare a causa della piog-gia improvvisa e battente; prendere il treno a Porta Principe e proseguire per Marsiglia. Un’altra volta abbiamo raggiunto Genova in treno da Milano, per Vo-ghera, Tortona, Serravalle Scrivia; poi, dopo una lunga attesa, siamo andati a Sestri Levante e a Lavagna, e siamo ritornati a Milano in macchina, da Genova per l’autostrada che, oltre le montagne, corre lungo lo Scrivia. Siamo stati più volte sulla Riviera di Ponente: ad Arma di Taggia, a San Remo, a Ventimiglia, fino a Monaco, Montecarlo e Nizza. Abbiamo anche attraversato le montagne da Savona a Mondovì, e siamo stati al Colle di Cadibona. Abbiamo percorso l’autostrada dei fiori almeno altre tre volte, due per andare a Lourdes e ritornare, con pernottamento all’andata e al ritorno a Bordighera; una di sola andata per la

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Costa Azzurra e la Spagna. Ovviamente, abbiamo visitato, due o tre volte, anche Genova.

“Liguri” è il nome con cui in età classica si usava designare gli abitanti di un ampio territorio, al di qua e al di la dei monti. Liguria significherebbe “luogo paludoso” o “acquitrino”. Doveva essere un territorio immenso oltre il muraglio-ne montuoso, considerato che la Liguria attuale è scheletrica, e non farebbe pen-sare ad acquitrini. Successivamente altri popoli, specialmente i Celti, limitarono molto il raggio d’azione dei Liguri. Più tardi giungono da queste parti i Romani e, dopo la caduta dell’impero d’Occidente, in successione, Eruli, Goti, Bizantini, Longobardi e Franchi. La regione, così come la conosciamo, durante l’alto Me-dioevo non ha avuto praticamente nessun ruolo significativo. Al tempo dei Lon-gobardi faceva parte del ducato di Asti. Sarebbe stato il re Rotari a spingere i confini di quel ducato fino alle spiagge del mar Ligure, mettendo «a ferro e fuo-co le città di Genova, Albenga, Varigotti, Savona, Luni». Nel 931 Genova subi-sce un assedio da parte dei Saraceni del califfo Obeid, ma gli assedianti vengono respinti. Nel 934 però quei diavoli ritornano alla carica con ben altre forze e, grazie a una flotta di 200 navi e qualche tranello, riescono a piegare l’eroica resi-stenza dei genovesi. La città viene occupata, saccheggiata e devastata. Il periodo storico più importante per la regione, comunque, è il basso Medioevo, quando Genova si afferma come potenza marinara, a partire dalla prima crociata, e dà vita alla famosa Repubblica.

L’ascesa di Genova, dicono gli studiosi, inizia alla fine del X sec., dopo essersi temprata nel crogiuolo del saccheggio saraceno, quando diviene comune autonomo, retto inizialmente dal vescovo. La potenza di Genova, in quel torno di tempo, si basa su una forte flotta sia militare, sia commerciale, e su una fitta rete di accordi politici ed economici che vanno da Gibilterra all’Asia Centrale. Questi accordi prevedono, tra l’altro, la costituzione di “fondaci”, cioè depositi o magazzini, in luoghi strategici per gli scambi. Insieme a Pisa riporta la vittoria sui Saraceni e riceve riconoscimenti anche dal Papa. A questo punto la storia diventa veramente interessante. Dal porto di Genova partono gli eserciti per la terra santa durante le crociate. Durante la prima crociata incontriamo il genovese Guglielmo Embriaco, detto Testa di maglio, colui che ha inventato la torre d’assedio per entrare a Gerusalemme. Questo guerriero avrebbe portato a Geno-va le ceneri di Giovanni il Battista. La Francia, la Spagna, i Visconti, gli Sforza, i Savoia bramano di mettere le mani sulla città e sul suo porto fiorente, perciò tessono intrighi. Seguono gli scontri con Pisa per la supremazia nel Mediterrane-o che conducono all’annientamento della repubblica rivale, nella battaglia della Meloria. Segue lo scontro con Venezia, durante il quale la flotta è comandata da Lamba Doria, che porta un cognome importante nella storia della città. Marco Polo è tra i prigionieri portati a Genova; è qui che detta le sue memorie e nasce Il milione. Nei primi secoli del secondo millennio gli ammiragli genovesi hanno l’onore di comandare le flotte di molte potenze marittime. L’antenata della mo-

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derna società per azioni era molto diffusa a Genova nel XIV sec., si tratta della “maona” (parola d’origine araba, come “fondaco”).

Il 1528 è un anno importante per Genova: Andrea Doria stipula un patto con Carlo V che assicura a Genova un periodo di pace e di prosperità. Il Doria, già ammiraglio delle flotte di diverse potenze, intraprende un’opera riformatrice profonda. Riunisce i nobili in ventotto Alberghi, suddivisi in due gruppi, il Porti-co di San Luca, formato dai nobili di vecchia data, e il Portico di San Pietro, for-mato dai nuovi. Dagli iscritti ai due gruppi vengono tratti quattrocento compo-nenti per formare il Maggior consiglio, dal quale vengono estratti a sorte i cento componenti del Minor consiglio. I due Consigli esercitano il potere legislativo. Ogni due anni il Minor consiglio elegge il Doge e otto governatori, che esercita-no il potere esecutivo. I Sindacatori hanno, poi, il compito di vigilare sul rispetto delle norme costituzionali e sull’operato del potere esecutivo. Gli Inquisitori di stato, invece, formano una specie di polizia interna, e il Magistrato degli esuli vigila sulle trame eversive dei nobili messi al bando ed esiliati. Il principe Doria assume la carica di Priore dei sindacatori. In quel periodo a Genova vengono eretti palazzi, chiese e ville, ma la pace non dura. Nel 1547 c’è la congiura dei Fieschi. Nel 1576 vengono aboliti gli Alberghi previsti dalla costituzione di An-drea Doria e viene istituito il Senato.

Nonostante le riforme, il malcontento persiste, fomentato dalle potenze vici-ne. Nel 1628 si provvede a condannare a morte e a decapitare Giulio Cesare Vacchero che ha guidato una sommossa in favore del duca di Savoia, Carlo E-manuele I. I Savoia mirano da tempo a estendere i loro domini fino alle coste liguri, oltre l’arco di monti teso tra la pianura e il mare, come ha fatto Rotari nell’alto Medioevo. Le case dei Vacchero di via del Campo vengono rase al suo-lo. Nel 1747 la città, grazie anche a una nuova cortina di mura fortificate erette intorno alla città, resiste a un assedio portato contemporaneamente da terra da austriaci e piemontesi e dal mare dalla flotta britannica. A seguito dell’invasione francese delle truppe di Napoleone, la Repubblica di Genova nel 1797 diventa Repubblica Ligure, e poi viene annessa al territorio francese. La caduta del Bo-naparte coincide con la fine dell’indipendenza della regione. il Congresso di Vienna impone l’annessione della regione al Regno di Sardegna. I Savoia hanno vinto il primo match della partita, e vinceranno anche il secondo, al tempo dell’Unità.

In Liguria gli uomini illustri colpiscono almeno quanto la bellezza del pae-saggio. Colpiscono sia per importanza, sia per quantità. La piccola regione ha dato i natali a numerosi ammiragli e navigatori, armatori e industriali, scienziati, architetti, ingegneri. Dei Doria abbiamo già detto. Cristoforo Colombo è geno-vese. Luigi Luca Cavalli-Sforza, genetista e scienziato, è nato a Genova.

Riccardo Giacconi, astrofisico, premio Nobel nel 2002, è nato a Genova. Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, è nato a Imperia. Giovanni Ansaldo, imprenditore, ingegnere, architetto, è nato a Genova. L’architetto Renzo Piano è

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nato in Liguria. Rinaldo Piaggio ed Enrico Piaggio, entrambi imprenditori, sono nati in Liguria. Leon Battista Alberti, genio poliedrico, è nato a Genova. Nel capoluogo ligure ha la sua sede scientifica l’Istituto italiano di tecnologia, una fondazione, creata nel 2003, che intende promuovere la «ricerca scientifica ad alto contenuto tecnologico» in diversi campi. L’istituto si occupa di neuroscien-ze, robotica, nano biotecnologie, drug discovery and development. La materia grigia non manca nella regione. Perciò, un acquario, una sponsorizzazione dell’Unesco, un istituto di altissimi studi scientifici, possono contribuire a col-mare alcuni vuoti lasciati dalla deindustrializzazione della fine Novecento.

Un altro campo nel quale la Liguria vanta molti figli è quello teologico-spirituale. Niccolò V, Sisto IV, Innocenzo IV, Innocenzo VIII, Giulio II sono papi nati tutti da queste parti. Sergio Quinzio, teologo, Giuseppe Dossetti e Gianni Baget Bozzo sono nati in Liguria. Questi ultimi due hanno avuto anche la passione politica. Quanto agli uomini politici, nella piccola regione troviamo Mazzini, Togliatti, Natta, Pertini; niente male. La Liguria è anche la patria di numerosissimi scultori, musicisti e pittori (i vari De Ferrari, Ratti, ecc.). Forse la luce intensa, i colori pieni dei paesaggi, le sfumature vivide di tramonti ed auro-re, accendono la fantasia fin dall’infanzia, irrimediabilmente. O, forse, l’estro artistico dei liguri è da collegare con lo spirito libero, indomito, coltivato per secoli all’ombra dell’arco di rocce e per i mari del mondo. Il fuoco della libertà, prezioso propellente, forse accomuna e alimenta navigatori, pittori, patrioti, mu-sicisti, poeti e mistici; i quali, non di rado, sono geni poliedrici come l’Alberti. Niccolò Paganini è ligure e lo è anche Fabrizio De Andrè; lo sono Ivano Fossati e Bruno Lauzi (quest’ultimo solo di adozione). In un certo senso sono liguri d’adozione anche Luigi Tenco e Paolo Conte, se non altro perché il primo è morto durante il festival di San Remo e il secondo ha scritto canzoni su Genova molto belle. Umberto Bindi, cantautore amico di De Andrè, è ligure. La Rionda è un gruppo musicale, del quale fa parte il cantautore Max Manfredi, che si pre-figge di recuperare e ravvivare il patrimonio dei cantastorie della Liguria.

Della vena poetica dei liguri abbiamo parlato all’inizio, ma dobbiamo ripar-larne perché il fenomeno è originale e ha proporzioni veramente vaste. Esso ini-zia nel Medioevo con l’Anonimo Genovese, detto anche Luchetto, che ha scritto poesie in latino e in genovese arcaico, pur sempre la base del genovese moderno, utilizzato da De André, per esempio, in Creuza de ma, mulattiera di mare. Nell’opera dell’Anonimo, l’amore per la letteratura e per la poesia si trova impa-stato con quello per la Repubblica di Genova. È un fenomeno ricorrente. Lo tro-viamo in Mazzini, quel tale che nell’Ottocento sognava l’Italia come l’hanno poi fatta i partigiani, quasi cent’anni dopo, e in Mameli, combattente per la Repub-blica Romana, per la quale ha dato la giovane vita, lasciando all’Italia l’Inno. Giuseppe Cesare Abba, scrittore e patriota, è ligure. Mario Amendola, dramma-turgo, regista e sceneggiatore, è pure ligure. Carlo Bo, critico letterario, è ligure. Edmondo De Amicis, scrittore, è ligure. Edoardo Firpo, poeta, è nato a Genova.

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Vittorio Gassman, attore teatrale e poeta, è nato Genova. Piero Jahier, scrittore e poeta, è nato a Genova (di genitori di altra regione). Giovan Pietro Vieusseux, scrittore, è nato in Liguria. Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, poeta, è ligure. Giovanni Giudici, poeta, è nato in Liguria. Adriano Sansa, giudice ed ex sindaco di Genova, è poeta. Paul Valéry, famoso scrittore e poeta francese, sarebbe nato da madre genovese.

In questa terra piegata ad arco tra il mare e la pianura, Camillo Sbarbaro ha potuto scrivere: «Capisco, adesso, perché questa passione / ha attecchito in me così durevolmente: / rispondeva a ciò che ho di più vivo, / il senso della provvi-sorietà». E anche versi, la cui dolcezza infinita fa contrasto con la durezza della terra ligure: «Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo, / fra tutti quanti gli uomini già tanto / pel tuo cuore fanciullo t’amerei». Giovanni Boine ha scritto: «Mi fermò per via chiamandomi a nome, col mio no-me di ieri. Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?». «Difendo il dovere che l’ieri m’assegna, come l’assalito la casa un fisso dovere nel mareggiar dell’arbitrio! Ragiono ogni mio atto timonie-re alla ruota». Sono due frammenti della raccolta Frantumi. «Un uomo di buon senso che gli voleva bene gli aveva detto un giorno “Tu sei giovane, tu sei asso-luto, tu vuoi il mondo perfetto, ma le cose del mondo son di loro natura imper-fette e perciò non andate d’accordo”». È una scheggia recuperata da Il peccato, sempre di Boine. Consideriamo: da una parte, quale impasto ci sia in queste pa-role tra senso alto della vita e ricerca della potenza della parola capace di scolpi-re, se non il senso della vita, la comprensione che se ne coglie e, dall’altro, quan-to il grande Montale sia vicino, per motivi e per scelte stilistiche e lessicali, a questo poeta suo conterraneo. Scrive Montale: «Spesso il male di vivere ho in-contrato... / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato». Ci aggiriamo per gli stretti vicoli e ombrosi, i “caruggi”, di Genova, la Superba, e meditiamo su Boine, Montale, Paolo Conte e De Andrè. Percepiamo qualcosa di nuovo nella vita, una gioia, uno stupore nell’aria «spessa, gonfia di sale e di odori», una sorpresa e una commossa levità.

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Piemonte, il mondo come tenacia e volontà A Torino, tanti anni fa, c’era un giovane tedesco che saliva ogni mattina

sulla Mole Antonelliana. Alloggiavamo nello stesso ostello. Ogni mattina si al-zava, scrutava il cielo dalla finestra, faceva colazione e si avviava, dicendo alla portinaia: «Oggi… ancora… vado Mole Antoneliana». Un giorno tornò trionfan-te: la nebbia era scomparsa e il giovane tedesco era riuscito finalmente a vedere, nitido come in una cartolina, il bastione ferrigno delle Alpi. Molti lo considera-vano un po’ matto; egli spiegò, male, con le sue frasi smozzicate, ma molto effi-cacemente, con gli occhi allegri e scintillanti, con le mani tozze e con le braccia, che il visitatore non può andare via da Torino senza avere visto lo spettacolo maestoso offerto da quegli edifici rocciosi immensi, che si stagliano verticali sulla pianura, e sembrano a due passi, tagliati dalla natura come con l’accetta. Erano altri tempi, quando ancora c’era gente che andava per l’Europa in autostop e si incantava a guardare le sfumature diverse che una montagna assume nelle ore del giorno, al variare, lento ma progressivo, dell’inclinazione e dell’intensità della luce. Spettacolo interdetto quando a Torino c’è, e in quei giorni c’era, co-me spesso purtroppo c’è, la nebbia. I torinesi ovviamente erano al lavoro, nelle fabbriche, nelle officine e negli uffici. Erano gli anni in cui la capitale sabauda attirava tutti nelle sue linee di forza come una potente calamita: dalle valli alpine come dai colli delle Langhe, da Napoli come dalle Calabrie; e tutti piegava alla sua religione del lavoro intenso e prolungato.

Il Piemonte è una regione che suggerisce, oltre all’aggettivo “severo”, le idee di “tenacia” e di “volontà”. Molti fenomeni in questa terra si spiegano bene con i dati geografici e orografici; altri, invece, ci sembra si spieghino proprio con le due virtù della volontà e della tenacia. Dal punto di vista del rilievo, la regione è bellissima. Il nome di “Piemonte” è però ingannevole, perché fa pensare a una terra tutta pianeggiante, posta com’è ai piedi dei monti, appunto, e, per di più, nel settore occidentale della grande Pianura Padana. Il Piemonte invece non è un “plat pays”, come il Belgio cantato da Jacques Brel. Anzi, questa regione è una terra di montagne non solo per la presenza delle Alpi e degli Appennini, che la cingono, immenso baluardo, come una cittadella per due terzi dei suoi confini, ma soprattutto perché la maggior parte, circa il 73%, del suo territorio è montuo-so o collinare. Le Alpi, che qui nella sezione occidentale sono altissime, scendo-no precipite a valle, producendo un contrasto netto nel territorio; l’Appennino si spinge, invece, gradualmente, verso nord, come un grandioso promontorio in mezzo a un mare immaginario, la cui linea di costa sarebbe nient’altro che la riva destra del Po dirimpetto a Torino e verso la Lombardia. Insomma, vista l’esiguità della sua pianura, il Piemonte anche se non avesse le Alpi sarebbe lo

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stesso una regione montuosa. La pianura vera e propria, quella più estesa, si in-contra dalle parti di Asti ed Alessandria, dove il Tanaro confluisce nel Po, e do-ve i fiumi rallentano la loro corsa, e dalle parti di Vercelli e di Novara. Un’altra frazione di territorio pianeggiante si incontra, poi, risalendo verso Torino il gran-de fiume, tra il suo letto e le montagne maestose. Quanto ai “monti interni”, guardando da Torino verso la Liguria, incontriamo prima la grande groppa dove si trovano il parco di Cavoretto e la collina di Superga, poi il Monferrato e, lon-tano lontano, oltre il Tanaro, le Langhe. La plastica del rilievo interno però non è uniforme e compatta; esso è solcato da numerosi corsi d’acqua che formano una vera grondaia reticolare, dai monti al Po. Il secondo collettore della regione, il Tanaro, incide profondamente il promontorio interno, dividendo il Monferrato in due sezioni, l’alto Monferrato addossato alla Liguria, e il basso Monferrato, più a nord, saldato alla collina di Torino, posta dirimpetto alla metropoli. Lo stretto lembo di pianura dove sorge Torino forma una specie di fossato intorno alla “cittadella” disegnata dalla morfologia dal rilievo interno.

Torino è una metropoli, una grande città europea, non soltanto perché si trova a due passi dalla Francia, dalla Svizzera e dal cuore del vecchio continente, ma anche per numerose altre ragioni. È un fatto però che Torino sia prossima al cuore dell’Europa: ci ricorda questa realtà la presenza dell’amico tedesco che un giorno ha voluto vedere a tutti i costi il muraglione delle Alpi dalla Mole. (Questa realtà ci ricorda, poi, come se fosse un sogno della notte scorsa, che ne-gli anni Ottanta transitavamo spesso, per il crocevia del Piemonte, su per le valli della regione e per i suoi valichi, per esempio, da Susa a Bardonecchia — dove si combatte la guerra TAV-NO TAV — e a Modane, o da Courmayeur a Cha-monix, passando, attraverso il traforo del Monte Bianco, dalla Penisola alla Francia, e viceversa, giù, a rotta di collo, lungo le numerosissime strade asfaltate o ferrate che si irradiano dal capoluogo della regione, per esempio, verso Mila-no, verso Piacenza e Bologna o verso Genova e Firenze).

La situazione geografica della regione è un’arma a doppio taglio: presenta pro e contro. Le Alpi ferrigne non sono invalicabili perché presentano varie frat-ture, depressioni e varchi. Perciò, da una parte questa terra si pone come un nodo importante di comunicazioni e scambi tra il centro dell’Europa e il Mediterrane-o, dall’altra essa nei secoli ha subito invasioni innumerevoli (provenendo dalla Spagna, quel diavolo di Annibale è passato per i varchi alpini del Piemonte, fi-guriamoci se quei monti potevano fermare un Carlo Magno, un Francesco I, o un Napoleone). Un fatto, però, con i soli dati geografici appare inspiegabile, cioè il processo storico originale e lunghissimo che si è innescato nel lontano Medioevo e ha portato il Piemonte con i Savoia a giocare un ruolo strategico determinante nell’Unità d’Italia. Si dirà, là dove la natura non sovrabbonda quanto vorremmo, a volte sopperiscono l’ambizione, il genio, la tenacia e la volontà.

Se pensiamo al territorio delle Langhe, il cui nome forse fa riferimento al sistema scheggiato o seghettato di colline da cui è formato il territorio, o ai pog-

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gi ondulati del Monferrato, ci accorgiamo che non deve essere stato facile per l’uomo creare da queste parti le condizioni idonee alla vita. Così come non deve essere stato facile per le popolazioni che si sono adattate a vivere in certe vallette delle Alpi, a 1600 o 1800 metri di altitudine. E non deve essere stato facile nep-pure disboscare, dissodare, terrazzare il suolo impervio per conquistarlo alla col-tivazione del melo, del nocciolo e della vite, o per far posto al pascolo. Niente in Piemonte deve essere stato facile, neanche impiantare le risaie geometriche nelle paludi delle pianure di Asti e Vercelli; ma il piemontese con pazienza e volontà, dialogando con la natura, ce l’ha fatta. Ancora oggi nelle colline e sui monti del Piemonte troviamo una figura singolare detta margaro. Si tratta di un pastore, allevatore, produttore di formaggi praticamente senza fissa dimora, dato che si sposta con tutta la famiglia da un posto all’altro secondo la convenienza. La te-nacia, l’umiltà e l’apertura agli altri, dettata spesso dal bisogno di unire le forze per creare le sinergie necessarie alla sopravvivenza, hanno condotto la gente a sperimentare forme particolari di convivenza o di sfruttamento delle risorse (in alcune zone, come a Trino, si è riservato il bosco allo sfruttamento comune se-condo l’istituto della Partecipanza, in altre, i villaggi erano dotati di servizi co-muni come la fontana, il forno, a volte la scuola e la chiesa; in alcuni posti c’era un’usanza secondo la quale le famiglie di due fratelli abitavano nella stessa casa, dividendosi i compiti; queste istituzioni rispondevano al bisogno di fronteggiare comunitariamente i rigori della natura e l’incertezza dell’inverno, ma costituiva-no anche una palestra di umiltà e solidarietà per le nuove generazioni). Ecco, forse, come la pazienza, la tenacia e la volontà del piemontese si è fatta umiltà, solidarietà e, forse, pietà, nel senso più alto, e carità. Molti piemontesi che negli anni del miracolo economico hanno accettato di subire lo sradicamento dalla realtà rurale delle province, preferendo alla campagna il mito della grande fab-brica fordista, al tempo della crisi ritornano in paese, magari accettando l’onere degli spostamenti quotidiani fino al capoluogo. E ricordiamo che negli anni Cin-quanta e Sessanta alcuni uomini delle Langhe hanno sposato per corrispondenza donne calabresi, perché le loro preferivano emigrare a Torino; e intorno a Tori-no, in quegli anni, sono sorte città abitate quasi esclusivamente da “forestieri”, senza piemontesi. (In Internet, in riferimento alla voce ”Nichelino”, abbiamo letto: «I piemontesi si sono integrati bene, a Madonna della Fiducia. Sono qual-che decina, su seimila abitanti provenienti da tutta Italia, oltre che dal resto dell’universo. La fotografia di Nichelino comincia da qui: una parrocchia nuova, alla periferia di una città che è interamente “periferia” della metropoli e che pe-rò, dopo gli anni della grande immigrazione italiana, ha saputo costruire una pro-pria identità, che ha sempre meno a che fare con il “dormitorio” delle aree indu-striali. Anche perché l’industria qui appartiene al passato, più che al futuro; e nel presente si fa sentire soprattutto sotto forma di mobilità lunga e cassa integrazio-ne, più che di reddito. Le storie della crisi, di Viberti e altri, non si sono mai con-cluse per centinaia di lavoratori, diventati veri e propri “desaparecidos” della

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delocalizzazione industriale»). Ricordiamo anche che molti emigranti meridio-nali, alla fine degli anni Ottanta, da Torino sono ritornati nelle loro terre d’origine. Si direbbe che a volte il mondo procede a fisarmonica: si tratta sempre di trovare nuovi equilibri tra soluzioni estreme. L’abbiamo detto, il piemontese è paziente, tenace e laborioso; e non soltanto il piemontese.

Ci chiediamo: Torino, la metropoli piemontese, è coerente o in contraddi-zione con i modelli di vita basati sulla volontà, la fiducia sociale e la tenacia, che si fanno umiltà? Torino ha approssimativamente un milione di abitanti (910.000 circa; al tempo del “miracolo economico” ne ha avuti molti di più). Tra le prime dieci città del Piemonte, dopo la “capitale” troviamo, però, solo quattro città che sono anche capoluogo di provincia (Novara, Asti, Alessandria, Cuneo); le altre cinque sono città satellite di Torino (Nichelino, Rivoli, Collegno, Moncalieri e Settimo Torinese). Se osserviamo meglio i dati, notiamo che in Piemonte, le cit-tà capoluogo di provincia che si collocano tra le prime dieci dopo Torino hanno ciascuna una popolazione di circa un decimo, o meno, della popolazione del ca-poluogo. Questo dato appare molto significativo, specialmente se confrontato con quello relativo alla collocazione delle città del Piemonte tra le prime cento città italiane: Torino nel 2010 è al quarto posto, le consorelle capoluoghi sono agli ultimi.

Torino è grande, anzi grandissima. Essa è stata fatta grande dai Savoia; dai Savoia ma anche da statisti come Cavour e Giolitti, da industriali come gli A-gnelli, e dai banchieri. Nella metropoli del Piemonte le virtù della “tenacia” e della “volontà” assumono quelli della grandezza e della volontà di potenza. Tori-no appare una città artificiale, una costruzione frutto, appunto, dell’ambizione, del genio umano e della volontà. La città non è per nulla venuta su dal basso, grazie all’opera paziente della sua gente e grazie a guide illuminate operanti al fianco di quella gente, ma appare costruita in base a modelli importati e avulsi dall’ambiente umano e sociale in cui ci troviamo.

Un’altra domanda sorge spontanea: chi sono stati per il Piemonte i Savoia, costruttori di regni e della metropoli di Torino? È facile rispondere che sono co-loro che hanno avuto il merito di unificare prima la regione nord occidentale del Belpaese e poi l’Italia tutta (da ultimo si erano anche fatti imperatori). Ebbene, diamo un colpo d’occhio alla storia. Al tempo dei Longobardi troviamo duchi a Torino ma anche ad Asti; alcuni di questi divennero re perché ad essi era affida-to il presidio dei valichi alpini. Da questi valichi, quando la stella dei Longobar-di tramontò, scese l’esercito di Carlo Magno, e la lotta fu furibonda. I poveri Longobardi, stretti nella morsa tra il Papa e i Franchi dovettero soccombere. In provincia di Pavia c’è un luogo a due passi dal Piemonte, Mortara, che ha preso il nome dalla carneficina che ci fu a quel tempo. E agghiacciante appare la vi-cenda che coinvolse la figlia di Desiderio, re dei Longobardi, andata in sposa a Carlo Magno e ripudiata con pretesti assurdi per la sensibilità moderna, ma in sostanza perché al Papa non stava bene che Longobardi e Franchi fossero in pa-

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ce. L’odierno Piemonte dopo l’anno Mille era diviso in contee e marche, ma nell’XI sec. venne parzialmente unificato da un certo Olderico Manfredi, che ottenne le due marche di Torino e Ivrea. Alla morte di questo Manfredi, il nucleo territoriale da lui costituito passò per matrimonio al genero Oddone di Savoia, figlio di Umberto I Biancamano di Savoia; e così si verifica una svolta.

Il processo di unificazione del Piemonte sotto i Savoia richiese però diversi secoli, dapprima a causa della formazione, durante il XII sec., di comuni autono-mi come Asti, Alessandria e Torino, e della costituzione di forti marchesati, co-me quelli di Saluzzo e del Monferrato. I Savoia sono stranieri; essi hanno le loro radici oltre le Alpi e la base a Chambéry, dove, nell’XI sec., avendo partecipato con successo a iniziative belliche fortunate, hanno ottenuto alcuni privilegi. Essi mettono più tardi un piede dalle parti di Aosta e siedono a cavalcioni sui bastioni alpini, ma con il corpo tutto dall’altra parte. Anzi, pare che per molto tempo sia-no stati indecisi circa la direzione da far prendere alla loro brama di espansione territoriale (per esempio, nel 1416 Amedeo VIII ottiene il titolo di duca di Sa-voia, ma due anni dopo se lo fa commutare in quello di duca del Piemonte). Il primo grande balzo in avanti i Savoia lo fanno con Amedeo VI, Amedeo VII e Amedeo VIII (siamo nel torno di tempo che va dalla metà del XIV sec. alla metà del secolo seguente).

Un altro balzo in avanti lo fanno dalla metà del XVI sec. con Emanuele Fi-liberto detto “testa di ferro” e con Carlo Emanuele I detto “il Grande” che opera fino al 1630; balzo in avanti stupefacente in quanto realizzato dopo che nei de-cenni precedenti, parecchio turbolenti, il casato aveva rischiato di perdere i pos-sedimenti (Francesco I di Francia negli anni Trenta del Cinquecento era sceso dalle Alpi, aveva invaso il Piemonte e si era accinto a fortificare Torino pro do-mo sua). Di fatti Emanuele Filiberto nel 1559 ottiene la restituzione del ducato dai francesi e si accinge a riorganizzare l’esercito e a rinnovare l’amministrazione. Ma dovette lottare non poco per liberare il ducato dai france-si e, quindi, veder partire anche gli spagnoli. Emanuele Filiberto nel 1561 prese due decisioni: trasferire la capitale del suo stato da Chambéry a Torino, e far redigere gli atti ufficiali del ducato in italiano. Entrambe queste decisioni discen-devano dalla vulnerabilità militare, politica e sociale di avere una capitale troppo vicina al regno di Francia. Emanuele Filiberto si rese conto che le uniche speran-ze di espansione dei suoi domini erano verso l’Italia. Non appena fu rientrato in possesso di Torino il duca si preoccupò di rendere la capitale difendibile e, ri-prendendo un’idea già considerata dagli occupanti francesi, fece realizzare una cittadella pentagonale nell’angolo ovest della città, quello maggiormente espo-sto. Abbiamo già visto che tra il 1416 e il 1418 Amedeo VIII non sapeva se chiamarsi “duca di Savoia” o “duca di Piemonte”: ci vollero Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I per avere la svolta definitiva all’orientamento verso l’Italia. Carlo Emanuele I nel 1601 scambiò alcuni territori con la Francia e nel 1610 stipulò un trattato (rimasto in verità senza effetto) che mirava a strappare la

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Lombardia alla Spagna. Gli stati italiani entravano nelle mire espansionistiche dei Savoia.

Le terre del nord ovest racchiuse dalla chiostra di montagne erano però sog-gette a invasioni (se ne contano innumerevoli), per cui se i Savoia, costruttori di regni, volevano sopravvivere e prosperare dovevano essere astuti e coraggiosi. Per questo oltre ad edificare la cittadella, praticamente imprendibile, nella stretta striscia di terra che si trova tra il Po e la barriera delle montagne, hanno costruito sotto la pianura un reticolo di cunicoli e ampi spazi che permettevano ai soldati di fare sortite, per così dire, dalla cittadella e portarsi, come talpe, sotto l’accampamento degli invasori e farli saltare per aria. Il famoso eroe Pietro Mic-ca, giovane soldato dell’esercito sabaudo, perse la vita proprio durante una di queste “sortite sotterranee”. La Torino sotterranea che il viaggiatore può visitare si incontra quindici metri sotto il suolo e comprende gallerie sabaude, ma anche rifugi antiaerei risalenti alla seconda guerra mondiale. I Savoia seppero imporre il loro dominio grazie all’ambizione, al coraggio, all’abilità strategico-militare, alla politica spregiudicata, alla saggia e severa amministrazione.

A Torino e nei suoi dintorni tutto ci parla dei Savoia (il Palazzo Reale e il Palazzo Madama, la reggia di Venaria Reale, il castello del Valentino; Stupinigi, Racconigi, Moncalieri). In alternativa, Torino parla ancora della Fiat. Il regno sabaudo, al tempo delle guerre risorgimentali, era fondato sull’egemonia dei ceti burocratici, militari e dell’aristocrazia fondiaria, ma con Cavour e con Giolitti ha saputo trasformarsi fino a diventare un polo importantissimo del “triangolo indu-striale” del paese, e fino ad “esportare” a Roma la buona prassi dell’amministrazione. Ma Torino è stato anche un grande laboratorio politico, sociale e sindacale durante la Resistenza, durante gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, nella stagione dell’Autunno caldo. Torino è stata anche la palestra dove si incontrarono moltissimi patrioti durante la Seconda guerra mondiale (compreso quell’industriale illuminato e innovatore che fu Adriano Olivetti) e ne nacque la loro partecipazione alla Resistenza partigiana. Non va dimenticato che negli anni Venti nella metropoli piemontese avvenne l’incontro tra Gramsci, Go-betti e Togliatti, e quell’incontro non restò senza frutti. Non dobbiamo dimenti-care neppure che a Torino si incontrarono Cesare Pavese, Elio Vittorini, Giulio Einaudi, Natalia e Leone Ginzburg, Italo Calvino e diedero vita a una brillante impresa editoriale.

Il piemontese ama essere essenziale, anche severo, perfino nel fisico. E in-fatti in questa immensa conca troviamo gente come Giorgio Bocca, Giuliano Amato, Fausto Coppi, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Luigi Einaudi, Piero Fassino, Galileo Ferraris, Rita Levi Montalcini, Silvio Pellico, Quintino Sella, Massimo D’Azeglio, Norberto Bobbio. Nel 2009, in occasione dei cento anni dalla nascita e dei cinque dalla morte, Torino ha organizzato molte manifestazioni per onorare la memoria di Bobbio. Sotto i portici di via Po i visitatori potevano soffermarsi a meditare frammenti emblematici del suo pensiero: frasi e immagini erano stam-

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pate su grandi teli sospesi. Su uno di questi si poteva leggere: «La libertà si può anche sprecare. E a furia di sprecarla, un giorno o l’altro la perderemo: ce la to-glieranno». Nel 2010 e nel 2011 sotto gli stessi portici si possono contemplare sospesi sui teli i pensieri e i volti dei “padri della patria”. L’ingegno tra i pie-montesi non manca davvero. Vi si incontrano uomini politici del calibro di Ca-vour, grandi uomini e donne di scienza come la Montalcini, imprenditori corag-giosi, giornalisti, studiosi di scienze umane e sociali. Vi sono in Piemonte anche molti scrittori e romanzieri: Pavese, Fenoglio, Primo Levi e Carlo Levi, Mario Soldati, Alessandro Baricco, Giovanni Arpino, Umberto Eco. Non vi sono però molti poeti: vi troviamo il crepuscolare Guido Gozzano, oltre al grande Vittorio Alfieri originario di Asti («volli, e volli sempre, e fortissimamente volli», scrive l’Alfieri: evidente, era piemontese); della stessa città è originario il paroliere-cantautore Paolo Conte; c’è poi Giorgio Barberi Squarotti, letterato e poeta, che, peraltro, ha fondato la Biennale di poesia di Alessandria, città che ha dato i nata-li a Sibilla Aleramo; delle parti di Alessandria era pure Luigi Tenco. Forse la metropoli geometrica e razionale, con ampi viali e chilometri e chilometri di por-tici, continuamente avvolta dalle nebbie e investita dell’immane compito di edi-ficare regni non ha il tempo di perdersi nelle nebbie della poesia, come ha fatto quel giovane tedesco un poco matto che fece la posta nella nebbia fino a quando non è stato ricompensato con la gioia della luce. Torino sembra avere altre pre-occupazioni, che la poesia (l’indole raziocinante e pragmatica, quasi anglosasso-ne, dei torinesi sembra suggerire il motto “non facciamo poesia”).

Quando penso che a Torino si va per vedere il più grande museo egizio del mondo, dopo quello del Cairo, mi chiedo che cosa c’entrino gli egiziani con la conca posta al riparo dei bastioni delle Alpi. I reperti non sono certo stati rinve-nuti agli sbocchi alluvionali e paludosi della Stura di Lanzo né della Dora Ripa-ria. Viene da chiedersi perché al posto del museo egizio (o insieme ad esso) non si è costruito qualcosa che permettesse di documentare la storia dalla gente che ha abitato la regione, dai Celti ai Liguri, dai Longobardi ai monaci irlandesi e benedettini che hanno bonificato la pianura, dai vescovi ai santi. Eusebio di Ver-celli, per esempio, si adoperò per far dialogare le genti fuse insieme durante i lunghi secoli della dominazione romana e i Longobardi. Eppure questa gente ha vissuto da queste parti, vi si è radicata, ha lasciato ampie tracce nella toponoma-stica, nelle cattedrali e nei monasteri sparsi dovunque.

A Torino l’essenzialità quasi ascetica, che ritroviamo in un certo senso an-che in quel piatto che è la “bagna cauda”, la tenacia e la volontà hanno nei secoli assunto i connotati della volontà di potenza, che si esprime in politica, nelle ope-razioni belliche, nell’amministrazione, nell’industria e nelle scienze, e forse nei romanzi di Umberto Eco; non ha più molte delle sfumature dell’umiltà e della carità. Torino ha grandi istituzioni culturali e scientifiche: per esempio, fonda-zioni (Olivetti, Agnelli, Einaudi, San Paolo), centri per gli alti studi come l’Istituto Gramsci; l’università (nella regione oggi c’è anche l’università del Pie-

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monte orientale distribuita in rete su diverse città), il Politecnico, il Salone del libro al Lingotto. Vi sono le Officine grandi riparazioni dove, per i 150 anni dell’Unità, sono state allestite mostre straordinarie, come “Fare gli italiani” e “Stazione futuro”. La regione annovera però anche tanti uomini di fede eroica e santi. Tuttavia, al centro di Torino non c’è la cattedrale, ma Palazzo Madama, che troneggia in mezzo alla piazza Castello. La cattedrale posta in ombra dal Palazzo Reale volta le spalle alla piazza Castello, affacciandosi sul versante op-posto. Ci sembra sintomatico di una particolare visione del mondo il fatto che la prima residenza sabauda, a Torino, sia stata fissata nel palazzo arcivescovile. La cattedrale poi è assolutamente sproporzionata, troppo piccola per una città im-mensa. Inoltre, non è senza significati il fatto che uno dei simboli di questa città sia la Mole Antonelliana, che è nata come sinagoga, mentre l’altro grande sim-bolo, la Sacra Sindone viene tenuto gelosamente nascosto e mostrato soltanto in occasioni speciali. Torino l’anima se l’è rifatta con la volontà militare e burocra-tica dei Savoia, con l’intelletto degli statisti, degli architetti, come il siciliano Filippo Juvarra, e degli ingegneri. A Torino le chiese non mancano, ma in questa città non si va per visitare le chiese, ci si va per visitare la città sabauda, magari anche per passeggiare lungo via Po, via Roma, via Garibaldi e per fare le ore piccole ai Murazzi; per visitare chiese si va a Vercelli e ad Asti, e in altre città della provincia. A Torino, peraltro, anche nelle chiese si trovano i segni del pote-re sabaudo. Qui molte basiliche sono state erette o per celebrare una vittoria, o per chiedere a Dio il successo in una battaglia imminente (la basilica di Superga è stata fatta costruire a Juvarra dal re Vittorio Amedeo II, come segno di ringra-ziamento alla Vergine, dopo aver sconfitto i francesi che assediavano Torino nel 1706; la chiesa della Gran Madre fu costruita per celebrare il ritorno del re dopo la parentesi napoleonica). La Gran Madre di Dio è stata addirittura costruita sul modello di un simbolo pagano: il Pantheon di Roma. Va detto, però, che i catto-lici della metropoli piemontese amano molto il santuario di Maria Consolatrice, noto come “la Consolata”. Ma Torino ha voluto essere laica, cartesiana, eclettica e cosmopolita e ci è riuscita. A volte pensiamo che un torinese come Piero An-gela rappresenti bene questo spirito, insieme razionalista e positivista («Torino è una città-antologia, non un romanzo; è un prontuario di citazioni», così ha scritto Lidia Ravera).

Dopo aver girato in lungo e in largo il Piemonte e visitato Torino, il visita-tore si chiede: che ruolo hanno, nella definizione dell’anima di questa città, ve-scovi come Eusebio, primo vescovo di Vercelli e del Piemonte, e santo, Gauden-zio (vescovo di Novara), Secondo (vescovo di Asti al tempo dei Longobardi), Massimo (vescovo di Torino) e Orso, che istituirono centri di studi nelle città dove ebbero la cattedra? Quale ruolo hanno in questa città san Giovanni Bosco, san Domenico Savio, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Pic-cola Casa della Divina Provvidenza, creata per accudire gli ultimi della città? Come hanno contribuito a sintetizzare e sedimentare la visione della vita che si

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ha a Torino i monaci irlandesi e quelli benedettini che, bonificando parte della Pianura Padana paludosa, diedero impulso alla cultura del Medioevo con i loro scriptoria? Che ruolo ha la Comunità monastica di Bose, in provincia di Biella, che dal 1965 promuove «un intenso dialogo ecumenico fra le differenti chiese cristiane»? Quale effetto produce a Torino il movimento delle Équipes Nôtre-Dame, penetrato per i valichi alpini dalla Francia quando negli anni Sessanta la città rigurgitava di razionalismo, efficientismo fordista e materialismo? Quanto conta per la gente della città quell’immagine impressa su un lenzuolo, portata a Torino da Chambéry dai Savoia nel XVI sec., cioè la Sacra Sindone? Si dice che circa un milione di visitatori hanno contemplato il sacro drappo nel 2010, quanti torinesi ci sono andati? Perché, come leggiamo su «La stampa», tra i primati della metropoli piemontese c’è quello dei divorzi? Perché a Torino si parla tanto di magia e riti satanici? Speriamo che “Torino spiritualità” funzioni come anti-doto efficace.

Torino ha un’anima diversa da quella del resto del Piemonte, forse perché a Torino la tenacia e la volontà hanno assunto le connotazioni della volontà di po-tenza.

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