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C.-Salvi---La-responsabilità-civile[1]

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  DIRITTO CIVILE II  A. A. 2006 – 2007 Università degli Studi di Ferrara  La Responsabilità Civile.  Riassunti e schemi da: C. Salvi – La responsabilità civile – Giuffrè TIZ 2005.  Capitolo I. Struttura e funzioni del giudizio di responsabilità. Il dibattito e le premesse  generali. 1. Premesse.  La disciplina generale della responsabilità civile extracontrattuale è contenuta negli artt. 2043 – 2059 del Codice civile, sotto la rubrica “Dei fatti illeciti”. Gli artt. 2043 ss. individuano le ipotesi nelle quali una peculiare obbligazione, quella risarcitoria, nas ce come conse gu enza di un fat to , in dip end ent eme nt e dal la pre esiste nz a di una relazione giuridicamente rilevante fra il titolare del diritto al risarcimento e il soggetto obbligato. Ciò  premesso, non è la tipologia di sanzione dell'illecito che distingue la responsabilità extracontrattuale dalle altre tecniche civilistiche di tutela degli interessi: piuttosto, ciò che la caratterizza è, in prima approssimazione, la funzione di stabilire se un dato evento “dannoso” debba restare a carico di chi lo ha subito o se, invece, debba essere trasferito a carico di un altro soggetto (il responsabile), che viene individuato in base alla ricorrenza in concreto di uno dei “criteri di imputazione” previsti dalla legge (dolo, colpa, c.d. responsabilità oggettiva). I quattro elementi essenziali della responsabilità extracontrattuale sono dunque: 1. danno (giuri dic ame nt e rile va nte ) 2. imp ut azion e 3. nesso caus ale 4. ri sa rc imento. La funzione di riparazione dei danni distingue la responsabilità civile da altre tecniche di tutela civile degli interessi, aventi finalità diverse (es. tutela inibitoria o restitutoria). Nell'ambito delle tutele risarcitorie, poi, la tutela di cui agli art t. 2043 ss. si distingue da quella degli artt. 1218 ss. perchè in questa seconda il rischio di danno è specifico e deriva da una preesistente relazione giuridica fra le parti. Infine, come strumento di compensazione dei danni al di fuori di un preesistente rapporto giuridico fra le parti, la responsabilità civile si differenzia da altri istituti contrattuali (assicurazione) o pubblicistici (sicurezza sociale). Quanto si è detto sulla natura e la funzione della responsabilità civile è il frutto della concezione c.d. tecnicistica, la quale ha sottoposto a revisione critica la tradizionale costruzione della stessa come sanzione di un illecito, evidenziando che essa ha piuttosto la natura di strumento che consente di risarcire, nel maggior numero di casi, la vittima del danno. Tuttavia, l'aspetto riparatorio non è sufficiente a esaurire la spiegazione dell'istituto: non tutti i danni ingiusti sono in concreto risarcibili  poichè la legge subordina il risarcimento alla ricorrenza di unodei criteri di imputazione. Ne deriva che l'esigenza di riparare un danno ingiusto non è sufficiente: occorre altresì la sussistenza di una ragione ulteriore, che ne giustifichi la traslazione a un soggetto diverso dalla vittima. Il problema odierno della responsabilità civile risiede fondamentalmente nel fatto che, al grande ampliamento del suo campo operativo, non è corrisposta una chiara e generalmente condivisa individuazione delle ragioni che giustificano il risarcimento. Tale incertezza funzionale determina molte difficoltà interpretative in quanto gli artt. 2043 ss. consentono diverse opzioni esegetiche e, inoltre, il materiale normativo non è facilmente riorganizzabile intorno a chiari principi unificanti. Responsabilità per danni e illecito civile.  La con cezio ne tra diz io nal e ide ntifica la fa tti specie idonea ad at tiv are la tut el a ris arc ito ria extracontrattuale con una figura generale di illecito civile. Tale concezione “sanzionatoria” poggia su una duplice idea: (a) che il risar cime nto per equi vale nte sia l'un ica forma general e della tutela civile, cui viene fatta corrispondere una figura generale del comportamento civilmente sanzionato. Ma ciò
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 DIRITTO CIVILE II  A. A. 2006 – 2007 

Università degli Studi di Ferrara

 La Responsabilità Civile. Riassunti e schemi da: C. Salvi – La responsabilità civile – Giuffrè TIZ 2005. 

Capitolo I. Struttura e funzioni del giudizio di responsabilità. Il dibattito e le premesse generali.

● 1. Premesse. La disciplina generale della responsabilità civile extracontrattuale è contenuta negli artt. 2043 – 2059 del Codice civile, sotto la rubrica “Dei fatti illeciti”.Gli artt. 2043 ss. individuano le ipotesi nelle quali una peculiare obbligazione, quella risarcitoria,nasce come conseguenza di un fatto, indipendentemente dalla preesistenza di una relazione

giuridicamente rilevante fra il titolare del diritto al risarcimento e il soggetto obbligato. Ciò premesso, non è la tipologia di sanzione dell'illecito che distingue la responsabilità extracontrattualedalle altre tecniche civilistiche di tutela degli interessi: piuttosto, ciò che la caratterizza è, in primaapprossimazione, la funzione di stabilire se un dato evento “dannoso” debba restare a carico di chilo ha subito o se, invece, debba essere trasferito a carico di un altro soggetto (il responsabile), cheviene individuato in base alla ricorrenza in concreto di uno dei “criteri di imputazione” previstidalla legge (dolo, colpa, c.d. responsabilità oggettiva).I quattro elementi essenziali della responsabilità extracontrattuale sono dunque:

1. danno (giuridicamente rilevante)2. imputazione3. nesso causale

4. risarcimento.La funzione di riparazione dei danni distingue la responsabilità civile da altre tecniche di tutela civile degliinteressi, aventi finalità diverse (es. tutela inibitoria o restitutoria). Nell'ambito delle tutele risarcitorie, poi, latutela di cui agli artt. 2043 ss. si distingue da quella degli artt. 1218 ss. perchè in questa seconda il rischio di dannoè specifico e deriva da una preesistente relazione giuridica fra le parti. Infine, come strumento di compensazionedei danni al di fuori di un preesistente rapporto giuridico fra le parti, la responsabilità civile si differenzia da altriistituti contrattuali (assicurazione) o pubblicistici (sicurezza sociale).Quanto si è detto sulla natura e la funzione della responsabilità civile è il frutto della concezionec.d. tecnicistica, la quale ha sottoposto a revisione critica la tradizionale costruzione della stessacome sanzione di un illecito, evidenziando che essa ha piuttosto la natura di strumento che consentedi risarcire, nel maggior numero di casi, la vittima del danno. Tuttavia, l'aspetto riparatorio non èsufficiente a esaurire la spiegazione dell'istituto: non tutti i danni ingiusti sono in concreto risarcibili

 poichè la legge subordina il risarcimento alla ricorrenza di unodei criteri di imputazione. Ne derivache l'esigenza di riparare un danno ingiusto non è sufficiente: occorre altresì la sussistenza di unaragione ulteriore, che ne giustifichi la traslazione a un soggetto diverso dalla vittima.Il problema odierno della responsabilità civile risiede fondamentalmente nel fatto che, al grandeampliamento del suo campo operativo, non è corrisposta una chiara e generalmente condivisaindividuazione delle ragioni che giustificano il risarcimento. Tale incertezza funzionale determinamolte difficoltà interpretative in quanto gli artt. 2043 ss. consentono diverse opzioni esegetiche e,inoltre, il materiale normativo non è facilmente riorganizzabile intorno a chiari principi unificanti.

● Responsabilità per danni e illecito civile. La concezione tradizionale identifica la fattispecie idonea ad attivare la tutela risarcitoria

extracontrattuale con una figura generale di illecito civile. Tale concezione “sanzionatoria” poggiasu una duplice idea:(a) che il risarcimento per equivalente sia l'unica forma generale della tutela civile, cui viene

fatta corrispondere una figura generale del comportamento civilmente sanzionato. Ma ciò

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non tiene conto del fatto che il quadro delle tutele civili è divenuto assai complesso e che nonvi è ragione per riservare al solo fatto illecito ex art. 2043 la qualifica di illecito civile

(b) che la responsabilità per danni sorga solo a seguito di una condotta del soggetto chiamato arispondere del danno che possa definirsi “illecita”, in quanto qualificata dall'elemento dellacolpevolezza. Con ciò si trascura che la valutazione della condotta dannosa in termini dicolpevolezza non costituisce più oggi il criterio normativamente preminente di imputazione

della responsabilità. Così radicata è questa impostazione che parte della letteratura parla diillecito soltanto con riferimento alle ipotesi in cui rileva la colpevolezza della condotta,mentre designa come mera “antigiuridicità” i casi in cui a rilevare è il “rischio”. Questaimpostazione non trova conforto nel nostro diritto positivo, e inoltre presuppone una

 bipartizione fra condotta dannosa vietata (e quindi illecita) e permessa (e ciononostante fontedi responsabilità, c.d. oggettiva). Tutto ciò è incompatibile con le norme di imputazione dellaresponsabilità, che hanno la funzione non di vietare o permettere determinate condotte, bensì di stabilire icriteri per la traslazione del danno, che un determinato fatto ha cagionato, dalla vittima ad altro soggetto.In definitiva, le categorie del lecito e dell'illecito sono inadatte a una caratterizzazione d'insieme dellaresponsabilità extracontrattuale, che deve essere colta, invece, nella centralità che in essa assume la coppiadanno-risarcimento.

Può, perciò, dirsi che gli artt. 2043 ss. non definiscono la forma generale di protezione del diritto

dei privati, diretta a sanzionare le violazioni colpevoli del principio neminem laedere, bensì prevedono una tecnica di tutela civile degli interessi che ha come compito specifico quello diassicurare, ricorrendone i presupposti, la riparazione del danno ingiusto.

● 3. Tutela contro i danni e tutela inibitoria. La centralità della coppia danno-risarcimento differenzia quella aquiliana dalle altre forme di tutelaapprestate dall'ordinamento per la protezione degli interessi dei privati. Si diffondono sempre più negliordinamenti contemporanei tecniche di tutela civile differenti da quella risarcitoria, le quali sono volteessenzialmente a garantire al soggetto leso valori non equivalenti bensì “identici” a quelli colpiti dal fatto lesivo.Particolarmente significativa, quale rimedio generale (in quanto ammissibile anche ove nonespressamente previsto), è la c.d. tutela inibitoria (anche detta di cessazione). Risarcimento del

danno e tutela di cessazione non vanno configurati come effetti della medesima fattispecie; ledifferenze fra i due rimedi sono infatti evidenti:(a) il primo è rimedio contro il danno, il secondo contro la violazione del diritto(b) in quanto reazione al danno, la tutela aquiliana ha funzione successiva, mentre quella

inibitoria ha funzione di prevenzione specifica essendo volta a reagire ad una fattispecielesiva in atto e destinata a protrarsi o ripetersi in futuro

(c) nella responsabilità civile il problema dell'imputazione del fatto lesivo assume importanzacentrale mentre è secondario nell'inibitoria dove ciò che conta è impedire che continui o siripeta o abbia inizio il fatto lesivo.

 Non è, perciò, il danno ingiusto il presupposto della tutela inibitoria: non ogni danno ingiusto dàluogo a tutela inibitoria e non sempre la lesione del diritto che conduce all'ordine di cessazioneimplica la risarcibilità del danno che ne sia derivato.La dottrina maggioritaria ritiene che l'inibitoria sia un rimedio generale, e ravvisa il fondamentonormativo di tale generalità nell'applicazione analogica delle fattispecie espressamente previste. Siritiene, infatti, che il ricorso all'analogia sia qui consentito, e anzi in certa misura imposto, dal

 principio costituzionale dell'effettività della tutela: a sostegno di tale tesi si argomenta che, qualoradi ritenesse che alla tutela inibitoria possa darsi luogo solo nei casi tipici previsti, si determinerebbel'esito di munire molti diritti della sola tutela per equivalente monetario, così sostanzialmentetrasformandoli da diritti su un bene a diritti all'equivalente monetario. L'atipicità della tutelainibitoria richiede al giudice un accertamento diverso da quello di cui all'art. 2043: si tratta, infatti,di accertare se nei confronti della concreta fattispecie lesiva ricorra il medesimo bisogno di tutelache ha indotto il legislatore a prevedere il rimedio nei casi tipizzati.La correttezza dell'opzione che attribuisce carattere di generalità al rimedio inibitorio è, peraltro,

confermata dal numero crescente di ipotesi nelle quali negli ultimi anni il legislatore ha ritenuto di predisporre la tutela di cessazione (tutela contro i comportamenti antisindacali ex L. 300/70, ordinidi protezione contro gli abusi familiari ex art. 342-ter cc, inibitoria contro l'uso di clausole abusive

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nei contratti conclusi mediante moduli o formulari ex art. 1469- sexies, ecc.): questa tendenzaconforta la tesi della generalità della tutela inibitoria, a protezione di diritti il cui godimento èassicurato da obblighi durevoli di non fare, sulla base dell'accertamento in concreto della eademratio, rispetto ai rimedi tipici. Per quanto concerne, infine, il problema dell'ammissibilità della tutelainibitoria in presenza di una violazione soltanto minacciata, deve ritenersi che l'art. 700 cpc renda

 possibile l'inibitoria “cautelare”.

● 4. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. La distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ha origini antiche, ma negliordinamenti moderni tende sempre più a perdere la propria chiarezza, a causa di una significativatrasformazione del modo di intendere i fatti costitutivi delle due figure di responsabilità (connessastrettamente con il passaggio dallo Stato liberale a quello sociale, caratterizzato dalle esigenze di

 protezione dei consociati e dalla più ampia misura del controllo giudiziale sull'attività dei privati).In virtù di tale evoluzione l'obbligazione che nasce dal contratto tende a presentarsi non più comerapporto limitato alla prestazione dovuta, ma come struttura complessa, caratterizzata da una seriedi obblighi accessori, coordinati alla prestazione fondamentale da un nesso funzionale. Il risultato èche la tutela si estende, così, alla violazione di obblighi ulteriori che possono apparire – più che

 prestazione dovuta – manifestazioni di un generale dovere di neminem laedere.Sull'altro versante, lo schema del diritto assoluto non è più sufficiente a delimitare l'ambito dellatutela aquiliana, che abbraccia ormai anche interessi connessi con attività contrattuali.Il risultato di questa evoluzione è che la tradizionale distinzione fra le due figure, fondata sull'alternativa fragenerale divieto di alterum laedere (tutela dei diritti assoluti) ed esigenza di rispettare un obbligo specifico neiconfronti di un soggetto predeterminato (tutela dei diritti relativi), sembra sfumare, tanto da indurre taluno adubitare dell'opportunità della distinzione.La nostra giurisprudenza ha anche affermato il principio del c.d. cumulo fra responsabilitàcontrattuale ed extracontrattuale per i casi in cui il fatto, che dà luogo a inadempimentodell'obbligazione, produca anche la lesione di un “diritto assoluto” (da intendersi come diritto ointeresse, la cui violazione sia idonea a dar luogo a danno ingiusto, indipendentemente da un

 preesistente rapporto fra le parti) della vittima. L'ammissibilità del cumulo appare una soluzione

 pratica volta a estendere la tutela offerta al danneggiato, particolarmente quando venga in questionela lesione dell'integrità fisica, onde consentire – ad esempio – il risarcimento di danni gravi chealtrimenti sarebbero prescritti (es. responsabilità del medico).Ciò posto, pare eccessivo ritenere che ogni ragione di diversità fra le due figure di responsabilità siavenuta meno, soprattutto in quanto permangono importanti differenze di regime giuridico:

i. diverso termine prescrizionale (10 anni per il danno contrattuale, 5 per l'extracontrattuale)ii. limite della prevedibilità ai fini del danno risarcibile (esistente solo per il danno contrattuale)iii. onere della prova sulla colpa (a carico del danneggiato nella responsabilità extracontrattuale,

a carico del danneggiante – che deve provare l'insussistenza di colpa – in quella contrattuale)iv. la disciplina della costituzione in mora (prevista solo per la responsabilità contrattuale)v. la rilevanza dell'incapacità naturale (che esclude di norma la responsabilità aquiliana)

vi. la risarcibilità del danno non patrimoniale (non risarcibile nella responsabilità contrattuale)vii. la solidarietà (che ha regimi diversi: vedi artt. 1298 e 2055)viii.la competenza giudiziale per territorio.

Tali differenze non sono, poi, fini a sé stesse, ma discendono anche da ragioni sostanziali, connessealla differente qualità funzionale della protezione dell'interesse: funzione della responsabilitàcontrattuale è la tutela contro un rischio specifico di danno, creato dalla precedente relazionegiuridica fra i soggetti, di modo che il responsabile e la misura del risarcimento sono già individuatie il danno è qualificabile come ingiusto ipso iure; nella responsabilità extracontrattuale il sorgeredella relazione intersoggettiva è successivo al giudizio sulla ingiustizia del danno e le operazioniricordate non possono che trovare altrove il loro fondamento, in quanto il “contatto sociale” fra le

 parti avviene al di fuori di un precedente “progetto” tra le parti. Queste diversità di struttura e di

funzione spiegano alcune differenze di regime giuridico.● 4.1. La responsabilità da “rapporti contrattuali di fatto”. 

Un caso particolare di obbligo preesistente fra le parti e idoneo a dar luogo alla tutela risarcitoria

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 può configurarsi anche al di fuori del caso dell'espressa deduzione in contratto.  Ne sono esempi ilcontatto sociale che può dar luogo a obblighi fra le parti nella fase precedente la conclusione di un contratto (è ilcaso della responsabilità precontrattuale) e gli obblighi di protezione connessi a un rapporto contrattuale sulla basedel principio di buona fede. La Cass. 589/99 ha poi ammesso la possibilità della nascita di similiobblighi nel caso dei c.d. “rapporti contrattuali di fatto”, quali quelli che sorgono fra medico e

 paziente: si afferma il principio per cui un affidamento, fondato sulla peculiarità del contatto socialeche si è realizzato fra due soggetti, può far nascere fra loro un rapporto obbligatorio della stessanatura e soggetto alla stessa disciplina di quelli nascenti da una fattispecie negoziale.Una delle conseguenze più interessanti di tale impostazione consiste nell'affermazione dellaresponsabilità contrattuale del medico dipendente di un istituto sanitario nei confronti del paziente,superando l'impostazione tradizionale che affermava l'esistenza soltanto di una responsabilità di tipoaquiliano. La conclusione si giustifica – secondo Trib. Roma 20/1/04 – in quanto con il fatto di operare

 professionalmente nei confronti di un paziente, che si era affidato all'istituto dal quale il medico dipende, questi“acquista i medesimi diritti e assume i medesimi obblighi che sarebbero scaturiti da un contratto d'opera

 professionale”.Questa tendenza pare aprire un inedito campo per l'antica categoria del quasi-contratto, ma ècomunque necessario individuare con rigore il criterio per il quale il contatto sociale, di natura nonnegoziale, può valutarsi a tal punto significativo da dar luogo all'obbligazione.

● 5. Il dibattito sulle funzioni della responsabilità civile. Tratto essenziale del processo di trasformazione della responsabilità civile nel corso dell'ultimo secolo è il

 passaggio dallo schema classico per cui il risarcimento è la sanzione per un comportamento vietato, a un modelloche pone al centro dell'istituto il fatto dannoso e la funzione riparatoria.

● 5.1. Dal risarcimento del danno come “eccezione” alla centralità della riparazione del danno (1800 – 1960).

Il modello normativo che informa la disciplina aquiliana del Code Napoleon è il risultato dellacommistione fra il materiale offerto dalle fonti romanistiche e la concezione etico-comportamentaleche pervade il diritto canonico: ne risulta l'elaborazione di una figura generale di “delitto” civile,fondata sugli elementi della riprovevolezza etica del comportamento (culpa), della perditaeconomica (damnum) e della lesione dell'altrui proprietà (iniuria). La condanna risarcitoria ha ilfine di restaurare l'equilibrio economico preesistente e si attiva solo quando al convenuto può

 personalmente imputarsi una responsabilità, per la riprovevolezza del suo comportamento. Leipotesi di responsabilità diverse dalla colpa vengono organizzate come eccezioni alla regola e sonodi stretta interpretazione.Tale modello di responsabilità era omogeneo a una fase in cui l'istituto svolge un ruolo secondario di garanziaesterna delle regole appropriative, in modo congruo a un'economia nella quale è dominante il godimento staticodei beni. Con il processo di industrializzazione e lo sviluppo dei trasporti i termini del problemamutano: gli interessi sottostanti alle fattispecie dannose non sono più omogenei e la disciplinaaquiliana è chiamata a mediare il conflitto fra libertà di svolgimento delle attività produttive esicurezza individuale e proprietaria. La nozione etica di responsabilità non appare più adeguata a

svolgere tale mediazione, che richiede invece una logica ordinatoria di tipo economico e sociale, poiché la definizione dei criteri di sopportazione dei danni si risolve nella ripartizione dei costi dellosviluppo industriale fra i diversi ceti sociali. In una prima fase, la soluzione adottata consiste nellaconferma del principio della colpa come regola generale di imputazione della responsabilità, ma conuna forte depurazione degli elementi etico-individuali per configurarla in termini oggettivi, comedifformità del comportamento dell'agente rispetto a parametri che esprimono il grado di tollerabilitàsociale del rischio introdotto dalla sua condotta. In quest'ottica si sottolinea il carattere“eccezionale” del risarcimento: le perdite rimangono dove cadono se non esiste una ragionesocialmente valida che giustifichi l'attivazione del procedimento diretto a trasferirle dalla vittimaall'agente. Tale ragione è, di regola, la colpa: solo la difformità della condotta dalla “norma”giustifica il risarcimento, che funge così da sanzione e da tecnica di prevenzione dei conportamenti

socialmente anomali. Questo modello di responsabilità è ispirato a un principio liberista, che esalta la libertàdell'agire economico e che ha storicamente svolto una funzione di protezione dello sviluppo industriale. Questaimpostazione è tipica del sistema americano, ma ha avuto una certa diffusione anche nell'Europa occidentale, incui – però – è sottratta al diritto della responsabilità civile l'area dei danni subiti dai lavoratori nel processo

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 produttivo, ricondotta ad apposita legislazione speciale (che prevedeva una assicurazione obbligatoria).Pur nella sua impostazione di  favor  per l'impresa, la fondazione della responsabilità sulla colpaoggettiva contiene in sé il germe della successive evoluzioni in senso solidaristico e sociale,aprendo la dialettica fra funzione individuale della responsabilità civile (come istituto che regolauna relazione bilaterale secondo criteri privatistici), e la sua funzione sociale (intesa come interessegenerale che giustifica o meno la traslazione del danno dalla vittima all'agente). Questa nuova

 prospettiva conosce le prime affermazioni in Europa intorno agli anni '30, mentre in Italia arriva soltanto neglianni '60 con le fondamentali ricerche di Rodotà e Scognamiglio. La concezione solidarista pone al centrodue idee fondamentali:

i. che la compensazione dei danni sia un valore in séii. che il costo sociale dello sviluppo produttivo debba essere ricondotto all'interno dei costi

economici e non debba essere subito dalla collettività.Il principio liberista è rovesciato: si sostiene che la domanda da porsi davanti a un danno non è seesista una ragione perchè l'autore debba risarcirlo, bensì se ne esista una che possa negare il dirittodella vittima al risarcimento. La conseguenza è duplice: a) ampliamento tipologico degli interessi lacui lesione dà luogo al risarcimento (in particolare, si rompe l'identificazione del danno ingiusto conla lesione del diritto assoluto e si ampliano le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale); b)enucleazione di un principio generale di responsabilità oggettiva, fondato sul rischio introdotto dalleattività economiche (che si affianca alla colpa, costruendo un sistema “bipolare”).Va precisato che tali sviluppi hanno certamente la loro causa fondamentale nel prevalere dell'istanza sociale, mal'ampliamento dell'area del danno risarcibile è in parte anche finalizzato a estendere alle nuove forme di ricchezzale garanzie tradizionalmente apprestate alla proprietà.

● 5.2. Le critiche alla concezione solidaristica della responsabilità (1970 – 2000). In seguito all'affermazione dell'istanza solidaristica, si sono levate alcune voci critiche, le qualihanno posto in luce come perchè la traslazione del danno abbia luogo non sia sufficiente che ildanno sia ingiusto, ma occorra altresì che nella fattispecie concreta ricorrano gli estremi di uno deicriteri di imputazione. Questa dottrina ha messo in luce che i principi solidaristici non possonoessere considerati sufficienti a superare tale limite. Perciò, gli sviluppi più recenti del dibattito sono

segnati da una ripresa di attenzione sul quesito circa le ragioni della responsabilità. Una parteconsiderevole della letteratura ha creduto di individuarle in una funzione di efficienza del sistemaeconomico: si osserva che l'esito delle regole risarcitorie non è definitivo poiché il danno viene per lo più trasferito – attraverso meccanismi assicurativi o mediante la riconduzione all'interno dei costidel soggetto chiamato a sopportarlo – in tutto o in parte su altri soggetti. Sebbene vi sia una parte distudiosi (Calabresi, James) che coordinano l'istanza sociale con l'analisi economica, l'approccio economico èadottato prevalentemente da orientamenti che contestano l'idea stessa di porre la tutela riparatoria del danneggiatoal centro dell'istituto, identificando le ragioni fondanti della responsabilità nell'allocazione delle risorse piùefficiente. Questa corrente non ha, però, dato buoni frutti, in particolare perchè sono sorti molti contrasti circa ilsistema ottimale di imputazione della responsabilità e, inoltre, a causa del fatto che è parso assai arduo ricostruireconcretamente un sistema di regole che consenta effettivamente di ricondurre il costo dei danni all'interno deicosti economici dei soggetti che hanno sulle condizioni di sicurezza delle attività dannose. Più in generale, poi, sia

la distribuzione sociale dei rischi sia la massimizzazione della ricchezza complessiva possono essere consideratefinalità soltanto secondarie e indirette della normativa aquiliana, che è strutturata – invece – attorno alla funzioneindividuale e specifica di ristorare la vittima di un concreto accadimento dannoso.Considerazioni di tipo economico sono, poi, alla base di orientamenti che si propongono di tutelareil candidato responsabile rispetto al rischio di risarcimenti di ammontare troppo elevato rimettendoin discussione l'idea base della riparazione integrale del danno. In particolare, queste correnti segnalanocome l'aumento dei casi di risarcibilità del danno, e del quantum risarcitorio, rendano il costo delle assicurazionitalmente elevato da indurre le imprese assicurative a comportamenti contrattuali che determinano la privazione dicopertura assicurativa per categorie di “potenziali danneggianti”, lasciando così le “potenziali vittime” prive della

 possibilità di ottenere il risarcimento cui avrebbero diritto. In conseguenza di ciò, si propone il “mantenimentodella responsabilità entro limiti ragionevoli” anche stabilendo limiti all'ammontare del risarcimento.

5.3. I termini attuali del dibattito. L'impossibilità di spiegare l'istituto esaurendolo nella riparazione del danno, e le perplessitàsuscitate dalle teorie incentrate sull'efficienza economica, hanno ravvivato il dialogo dottrinale su

 profili vecchi (responsabilità come sanzione) e nuovi (controllo sociale, prevenzione).

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Una utile distinzione fra queste moderne teorie può essere fatta distinguendo tra le dottrine cheaccentuano le funzioni sociali dell'istituto e le ragioni di interesse generale che giustificano latraslazione del danno (soprattutto con la sottolineatura della funzione di prevenzione degli eventidannosi, da raggiungersi mediante l'imposizione della responsabilità al soggetto che sia nellemigliori condizioni per effettuare l'analisi costi-benefici), e quelle che tendono invece a ricondurrela responsabilità aquiliana a una dimensione prevalentemente individuale.

Molto discussa è stata, in particolare, l'idea tradizionale della responsabilità preventiva comefondamento generale della responsabilità per colpa. Le obiezioni a tale idea provengono soprattuttodalla considerazione che le cause fisiologiche e psicologiche dei comportamenti dannosi nonsembrano superabili con la minaccia della responsabilità e dall'osservazione che, da un lato, lagiurisprudenza riconduce nell'area della colpa anche il c.d. errore (statisticamente inevitabile) e,dall'altro, la minaccia della responsabilità ha perso peso a fronte del ruolo dell'assicurazione. Unaconclusione radicalmente negativa sarebbe, però, eccessiva, restando comunque indubbia lafunzione preventiva delle ipotesi di imputazione per dolo o colpa grave.Lungo un altro versante, si è sottolineata l'idoneità sociale del giudizio aquiliano a fungere dastrumento di controllo sociale e diffuso nei confronti di attività potenzialmente lesive, in aggiunta oin sostituzione rispetto ai tradizionali strumenti amministrativi o penali. Tale funzione di controllo

incontra, però, un indubbio limite nel fatto che l'azione del danneggiato è diretta a ottenere ilrisarcimento del singolo danno, e non la rimozione delle condizioni che hanno provocato queldanno, e altri ne possono provocare. Ciononostante, anche nel nostro ordinamento il ricorso allaresponsabilità come strumento di controllo si sta diffondendo in buona misura.Altri orientamenti tendono, invece, a recuperare la logica individualistica del giudizio diresponsabilità, in particolar modo sottolineandone il carattere di conseguenza sfavorevole di uncomportamento riprovevole dell'agente. Tale via conduce a un ritorno alla concezione tradizionale,con la riproposizione della funzione del principio della colpa, che viene intesa come giudiziosull'effettiva riprovevolezza della condotta, tale da costituire un criterio di responsabilità “a misurad'uomo” (Busnelli). Queste dottrine sono suggestive, ma si allontanano irrimediabilmente dalla concretaevoluzione del diritto positivo, il quale riconosce un peso crescente alle ipotesi di responsabilità c.d. oggettiva,configura la colpa secondo parametri obiettivi e ammette l'assicurazione della responsabilità. Appare, quindi,

sempre più evidente che l'istituto aquiliano si incentra sull'elemento oggettivo della riparazione del danno.In una logica individualistica si muovono anche le teorie che vedono l'obiettivo essenzialedell'istituto nell'esigenza di “rendere giustizia” fra il danneggiato e la sua vittima, in base aconsiderazioni attente alla posizione delle parti. Queste dottrine muovono da una convincente critica delleconcezioni che individuano la ratio della responsabilità civile nell'allocazione più efficiente delle risorse , ma nonsono condivisibili nell'idea centrale che interessi differenti da quelli al riequilibrio della situazione preesistente frale parti debbano sempre rimanere estranei alle regole risarcitorie (così opinando, infatti, non si potrebbe spiegarela responsabilità per fatto altrui).

● 6. Principi costituzionali e responsabilità civile. La tendenza espansiva al ricorso alla responsabilità civile – sia  sub specie crescita delle ipotesi nellequali un soggetto è chiamato a rispondere indipendentemente dalla sua colpa, sia   sub specie

ampliamento dell'area del danno risarcibile – si è espressa, nel nostro ordinamento, prevalentementemediante il ricorso ad argomenti dedotti dalla Costituzione.

 Nel Codice italiano emerge chiaramente come funzione unitaria – anche se non esaustiva – dellaresponsabilità sia quella di determinare il soggetto sul quale ricade il costo del danno, sulla base dicriteri che attengono sia alla qualità dell'interesse leso (ingiustizia del danno), sia a un fatto delresponsabile (imputazione). Si tratta, perciò, di un giudizio di responsabilità fortemente connotatoin senso individuale e patrimoniale, ma tuttavia permeato da valutazioni che trascendono unaconsiderazione meramente “privata” della posizione delle parti in quanto la dimensionedell'interesse generale assume qui un peso considerevole. A causa di tali caratteristiche, dottrina egiurisprudenza italiane sono spesso ricorse ai principi costituzionali per rinnovare e talvoltacontestare la normativa codicistica al fine di:

a) ridurre il ruolo della colpa a favore della c.d. responsabilità oggettiva b) arricchire il novero degli interessi rilevanti per lla qualificazione di ingiustizia del dannoc) porre in discussione il connotato della patrimonialità come requisito generale di risarcibilità

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del danno.All'art. 2 Cost. e al suo richiamo ai “doveri inderogabili di solidarietà” si è efficacemente fatto ricorso per fondarequello spostamento di attenzione dall'autore alla vittima del danno, che caratterizza la moderna visione dell'istitutoaquiliano: il principio solidaristico opera come criterio di integrazione della disciplina, quando occorra esprimereuna valutazione del comportamento o dell'interesse protetto delle parti. Il giudizio aquiliano non può, invece, farsicarico dell'interesse dei singoli alla sicurezza, per il quale controparti della vittima non sono mai soggetti privati; il

 principio solidaristico assume tuttavia un peculiare rilievo quando venga fatto valere con riferimento a conflitti

socialmente tipici, nei quali la vittima appare meritevole di maggior protezione per il valore sociale del bene leso(danno alla persona) o il dovere di solidarietà attenga allo svolgimento di un'attività qualificata (danno d'impresa).Sotto il secondo profilo, la formula costituzionale della “utilità sociale” come limite alla libertà di iniziativaeconomica (art. 41.2) giustifica una interpretazione dei criteri di imputazione della responsabilità che subordini la“legittimazione” delleattività economiche all'attitudine ad accollarsi il costo dei danni cagionati dal processo

 produttivo. Con riguardo alla funzione di protezione della sfera personale, l'art. 2 Cost. è poi dotato di indubbia potenzialità incisiva nell'interpretazione tanto della clausola di ingiustizia del danno quanto della regola dell'art.2059 (l'art. 2 è stato, infatti, assunto dalla giurisprudenza come norma che giustifica in via generale il risarcimentodel danno non patrimoniale alla persona, oltre i limiti del 2059). Pur condividendo questo traguardo, deve perònotarsi che sarebbe eccessivo trarre dal valore costituzionale della persona umana la conseguenza che ognicompressione di un “interesse della persona” comporti necessariamente l'attribuzione della tutela risarcitoria.Con riferimento al principio di eguaglianza consacrato all'art. 3 Cost., non può desumersi immediatamente chetutte le vittime di un “eguale” danno abbiano diritto a un “eguale” diritto a essere risarcite: la responsabilità,

infatti, discende anche da ragioni estranee alla natura del danno e alla posizione della vittima e connesse con ilsoggetto chiamato a rispondere. Il principio di eguaglianza, però, rileva sotto il profilo della “razionalità” di sceltelegislative in ordine al titolo di imputazione idoneo ad attivare la responsabilità, o alla tipologia dei dannirisarcibili, o ancora a eventuali limitazioni quantitative del risarcimento.Facendo un discorso d'insieme, deve dirsi che certamente non ogni ampliamento dell'ambitooperativo della responsabilità può farsi risalire ai principi costituzionali, ma essi impongonoaltrettanto sicuramente una riconsiderazione della disciplina codicistica che presti maggioreattenzione all'imputazione all'impresa della responsabilità e alla protezione dei beni della persona.In ogni caso, difficilmente potrà configurarsi una applicazione diretta delle norme costituzionalinella materia: anche laddove si parla di “applicazione diretta dell'art. 32 Cost.” per fondare larisarcibilità del c.d. danno biologico, in realtà si intende riferirsi soltanto ad una applicazione degli

artt. 2043 e 2059 che tenga conto dei valori e dei diritti che l'art. 32 tutela.● 7. Il sistema bipolare della responsabilità: danno patrimoniale e danno non patrimoniale. 

L'idea che le ragioni della responsabilità si esauriscano nell'esigenza di riparare i danni non è ingrado di dar conto della pluralità dei criteri di imputazione. D'altro canto, neppure uno studioattento al solo momento dell'imputazione è in grado di esurire il profilo funzionale dellaresponsabilità, poiché il sistema dell'imputazione non si lascia spiegare unitariamente e – ancor più

 – perchè così argomentando il risarcimento viene presentato come l'effetto di un fatto già di per sérilevante (condotta colpevole o rischio, che invece non hanno alcuna concretezza normativa).In realtà, nessuna funzione è sufficiente a spiegare l'intera struttura del giudizio aquiliano. Può,

 piuttosto, operarsi una distinzione fondamentale fra:(a) danno patrimoniale, che è risarcibile senza necessità di espressa previsione di legge in forza

del solo art. 2043 e che consiste in fatti lesivi che determinano conseguenze economichenegative per la vittima

(b) danno non patrimoniale, risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, che consiste in fattilesivi che determinano conseguenze negative di ordine non economico a carico della vittima.

Questa bipartizione esprime una differenziazione funzionale, la cui comprensione è decisiva per uncorretto inquadramento del ruolo della responsabilità civile fra le tutele civili dei diritti.

● 7.1. La funzione del risarcimento del danno patrimoniale. Chiarito che al risarcimento non può assegnarsi il carattere di sanzione dell'illecito civile, può dirsiche il risarcimento del danno patrimoniale ha una funzione compensativa della perdita economicacausata dal danno. Con il risarcimento si attua la traslazione di una perdita dal soggetto che l'ha difatto subita a un altro soggetto: tale funzione può definirsi compensativa in quanto, in linea di

 principio, l'attore non riceve nulla di meno e nulla di più della perdita da lui subita e imputabile alconvenuto.

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La funzione compensativa è l'unica che caratterizza sempre e comunque la responsabilità per danno patrimoniale: questa assolve anche ad altre funzioni, ma esse non sono unitarie (essendo connesse alsistema dell'imputazione, che si diversifica a seconda delle ragioni che fondano i vari criterinormativi) e non possono prescindere dalla funzione compensativa. Tale pluralità di piani e di esiti è laconseguenza delle diverse esigenze da cui muove la qualificazione normativa. Per il danno risarcibile, si tratta distabilire il tipo di fatto rispetto al quale opera la tutela (problema dell'ingiustizia del danno in relazione alla

 posizione della vittima, agli interessi coinvolti e alla loro protezione); per i criteri di imputazione, di determinare

le ragioni dell'attivazione della tutela (posizione del responsabile e ragioni che giustificano l'imputazionedell'obbligo risarcitorio). Queste ragioni tendono a divenire sempre più complesse e intrecciate in conseguenza delfatto che all'istituto viene fatto carico di finalità nuove (tutela di diritti soggettivi non assoluti e di posizioni nonsussumibili nello schema del diritto soggettivo): ciò ha come conseguenza che il giudizio di responsabilità siasempre più segnato da un processo di diversificazione, che ha come unico denominatore comune lacompensazione patrimoniale.

● 7.2. La funzione del risarcimento del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale è caratterizzato dal fatto che l'ordinamento appresta per esso la tutelarisarcitoria pur in assenza di conseguenze economiche negative per la vittima. Per esso non può,

 perciò, parlarsi di funzione compensativa in senso proprio, poichè il danno non patrimoniale non può essere misurato secondo il criterio dell'equivalenza con la perdita economica subita dallavittima, tipico del danno patrimoniale. Ciò, però, non vuol dire che un profilo riparatorio siaestraneo al danno non patrimoniale: il risarcimento determina qui un arricchimento economico dellavittima, che – sul piano funzionale – risponde a una finalità satisfattiva della vittima.Considerando le diverse ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale espressamente previstedalla legge emerge che le ragioni della tutela che esse impongono sono differenti:

(1) in un primo gruppo di casi, la soddisfazione economica è imposta per esclusive esigenzesolidariste: la valutazione normativa è che la vittima debba ricevere un beneficio economico,che esprima la solidarietà nei suoi confronti el soggetto cui il danno sia giuridicamenteriferibile (è il caso, in particolare, del danno biologico)

(2) in un secondo gruppo di casi (attinenti, in particolare, alla tutela dei diritti della personalità)la soddisfazione assume il più pregnante significato di riconoscimento del diritto dellavittima, offeso dal comportamento lesivo. L'elemento punitivo e preventivo assume un ruolo

  particolarmente caratterizzante quando la riprovevolezza del comportamento lesivocostituisce il criterio esclusivo per l'imputazione della responsabilità e il parametro principale

 per la quantificazione del risarcimento (anche in tale ipotesi, però, la funzione puntiva non ègiammai esclusiva, come dimostra il fatto che la tutela si incentra pur sempre sulla vittima).

A una tale eterogeneità funzionale corrisponde l'impossibilità di una definizione unitaria del dannonon patrimoniale: esso non può definirsi né come lesione di un bene non patrimoniale, né comeconseguenza soggettiva dell'illecito. Il tratto che lo caratterizza è, piuttosto, la valutazionenormativa che alla lesione di un interesse reagisce con l'attribuzione, al titolare dello stesso, deldiritto ad una somma di denaro. Nell'impostazione tradizionale, il danno non patrimoniale eraconsiderato risarcibile pressochè esclusivamente nelle ipotesi di cui all'art. 185 cp, ed era

identificato con le sofferenze fisiche e psichiche cagionate dall'illecito penale (c.d. danno moralesoggettivo): il risarcimento era determinato sulla base dell'equiparazione ideale fra danno morale edenaro, espressa dalla formula del pretium doloris .Il risarcimento del danno non patrimoniale appare, in definitiva, una possibile reazione al fattoantigiuridico. L'individuazione delle ipotesi in cui la tutela si attiva può essere circoscritta ai casispecificamente determinati dal legislatore (com'era nel diritto italiano fino alla recente evoluzionegiurisprudenziale o com'è ancora nel diritto tedesco) o essere, invece, rimessa al giudice medianteuna clausola generale (com'è per il diritto francese). Caratteristica indefettibile della responsabilità

 per danni non patrimoniali è che le ragioni di essa assumono connotati differenti a seconda dellavaria natura degli interessi protetti: il dato unitario della figura di responsabilità per danno non

 patrimoniale si limita alla centralità che vi assume la tutela dell'interesse, rispetto alla reazione

contro la perdita economica, che caratterizza unitariamente la responsabilità per danno patrimoniale.

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Capitolo II. Il danno risarcibile. Parte I. Dal sistema del codice civile al diritto giurisprudenziale vivente.

● 1. Il problema della nozione giuridica di danno. Patrimonialità e ingiustizia. Operate le premesse svolte sinora, occorre comprendere che cosa debba intendersi per  “dannoingiusto”, secondo quanto affermato dalla norma di apertura del titolo IX. In sostanza, nel corsodell’evoluzione del pensiero giuridico contemporaneo, tre sono state le posizioni che si sono

susseguite:a) la concezione materiale, secondo la quale il danno è una modificazione della realtà naturale;b) la concezione patrimoniale, per cui il danno è una diminuzione nel patrimonio della vittima;c) la concezione dell’antigiuridicità, che sarebbe il carattere precipuo del danno ingiusto: esso,infatti, verrebbe a configurarsi come una lesione tra il danneggiante e i principi dell’ordinamento (inaltri termini, l’uno disconoscerebbe gli altri).Salvi evidenzia come la concezione materiale sia cronologicamente più risalente rispetto a quella

 patrimoniale, che si sarebbe affermata solo successivamente, avendo fatto del risarcimento unamera operazione aritmetica per colmare la differenza tra il valore del bene leso dopo ilconcretizzarsi del danno e quello che era precedentemente a esso (è la c.d. teoria della differenzasulla quale occorrerà soffermarsi in seguito – v.§5).

Ciò posto, bisogna comprendere come attribuita al danno ingiusto solitamente sia insufficiente: parlare, infatti, solamente di lesione di un interesse normativamente protetto non basta allo scopo diinquadrare il fenomeno in oggetto. Si ricordi quanto già si è affermato circa la concorrenza sleale:l’art. 2599 conferisce al giudice il potere di pronunciare l’inibitoria di fronte al comportamentocontrario ai parametri della correttezza tra concorrenti, sicché in tale circostanza già si è sostanziatala lesione; il risarcimento, tuttavia, è disposto solamente in presenza di un comportamento colposo odoloso, ai sensi del comma 1 dell’articolo 2600. Una mera lesione di interessi, dunque, non integrauna fattispecie di tutela risarcitoria, a meno di non considerarla in via generalissima come tutela

 predisposta dall’ordinamento civile, con la conseguenza di raccogliere tanto la risarcitoria quantoluote inibitoria (quant’anche altre forme di tutela) sotto la stessa fattispecie. Ciò che, come giànotato, non è corretto. Affinché il danno sia qualificabile come tale occorre innanzitutto un requisito

di patrimonialità. Sia chiaro che detto presupposto riguarda non l’interesse leso, bensì il danno che èstato subito dalla vittima. Può accadere, infatti, che la lesione di un bene patrimoniale dia luogo a undanno che è privo del carattere della patrimonialità, e viceversa. Per comprendere ciò occorre capireche patrimonialità significa suscettibilità del danno di una valutazione economica, ragione per laquale occorre comprendere se il danno ingiusto possa o meno essere valutato sul piano economicoo, meglio, delle perdite economiche. L’esempio dello studente che perde la vita all’internodell’edificio scolastico è un esempio di danno non patrimoniale, in quanto il danno subito daicongiunti della vittima attiene a una sfera che certo non è quella economica (a menodell’aberrazione di non concepire l’esistenza di un soggetto in termini monetari; ciò chesvuoterebbe di significato ogni legame affettivo e sentimentale sul quale si fonda la nostraconsiderazione di non patrimonialità del danno). Al contrario in un’ipotesi di incidente stradale ben

 può configurarsi il danno patrimoniale, nella perdita o nel danneggiamento dell’automobile: perditavalutata in termini economici di diminuzione del valore, in un’ottica, però, che non sia meramentestrutturalista, pena l’accettazione coatta della teoria della differenza che Salvi di qui a poco andrà aconfutare. La morte di un animale domestico è un danno non patrimoniale, essendo l’evento fontedi un perturbamento psicologico: l’animale domestico, tuttavia, è un bene suscettibile di valutazioneeconomica, essendone ammesso dall’ordinamento l’acquisto e la vendita. Così, in termini di

 patrimonialità è stato letto dalla giurisprudenza il danno fisico del lavoratore che non possa piùsvolgere determinate mansioni: in tal caso il bene leso è quello dell’integrità fisica – e come talenon è monetizzabile – ma il danno è inteso in senso patrimoniale, giacché ciò che si perde è lacapacità di svolgere talune mansioni economicamente valutabili. Da ciò ben si comprende che è deltutto indifferente la qualificazione del bene come suscettibile di monetizzazione o meno,interessando il nostro discorso esclusivamente il danno.Il secondo requisito è quello dell’ingiustizia. È vero, il danno è la lesione di un interessenormativamente protetto, ma non è solo quello. In definitiva, sintetizzando tutte le considerazionisvolte, è possibile concepire una duplice nozione di danno: da un lato, il danno-evento, dall’altro, il

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danno-conseguenza . È possibile parlare di un danno-evento ingiusto e di un danno-conseguenzasuscettibile di valutazione patrimoniale. Altrimenti detto, un danno è suscettibile di risarcimentoquando nasce da un fatto lesivo di interessi normativamente protetti (il danno-evento, appunto) checomporta conseguenze suscettibili di valutazione patrimoniale in capo alla vittima (il danno-conseguenza).Questo, ovviamente, nell’ipotesi tradizionale di danno, quella che si definisce danno patrimoniale

(tra gli esempi fatti, la distruzione dell’automobile in seguito a incidente e l’impossibilità dicompiere mansioni lavorative per il lavoratore che ha subito lesioni). Le conseguenze di questoragionamento, ma sul punto si ritornerà, sono enunciate all’articolo 2056 del codice civile, laddoverichiama l’articolo 1223: la liquidazione del risarcimento, infatti, avviene secondo la regola dellasommatoria tra danno emergente e lucro cessante, non considerando, quindi, solo le perditeimmediate ma anche, come nell’ipotesi del lavoratore, i mancati guadagni derivati dal fattodannoso.

● 2. Il sistema del Codice civile Date queste distinzioni, occorre ricordare l’originario disfavore, da parte del legislatore del codice,

 per la risarcibilità del danno non patrimoniale. Il legislatore, infatti, ha confinato all’ultima norma

del titolo (l’articolo 2059) la trattazione di tale questione: il danno non patrimoniale deve essererisarcito solo nei casi determinati dalla legge. Una riserva di legge, quindi, che rimanda a luoghidiversi dell’ordinamento rispetto al codice civile la determinazione delle ipotesi di danno non

 patrimoniale risarcibile.Si noti, quindi, come il legislatore del '42 abbia aperto una breccia nel muro del danno patrimoniale,ammettendo, quindi, la bipartizione – fondata peraltro sulle distinzioni funzionali e strutturali giàdescritte – tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.

● 3. L’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il superamento, alla luce della Costituzione, del “limite” di cui all’art. 2059

La giurisprudenza si è posta a lungo il problema dell’ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale: innanzitutto, ponendosi un problema di costituzionalità, poi cercando di individuareun criterio classificatorio capace di dimostrare la tipicità nell’applicazione della tutela risarcitoriadel danno non patrimoniale. In tutti i modi la giurisprudenza ha tentato di ricavare dal dettatocostituzionale un basamento normativo in grado di giustificare la risarcibilità di una lesione cheesula dagli schemi sinora delineati. E in altrettanti modi la giurisprudenza ha attuato operazioniclassificatorie del danno ingiusto, senza peraltro riuscire sempre a definire i tratti distintivi tra l’unae l’altra tipologia di danno.Originariamente venivano a distinguersi: a) danno morale-soggettivo, cioè il senso di

 perturbamento psicofisico derivato dalla lesione all’interesse protetto; b) danno biologico, cioè la perdita dell’integrità fisica secondo i canoni della scienza medica: è il cd. danno alla salute; c)danno esistenziale, cioè l’insieme delle ulteriori conseguenze derivate dal fatto illecito. Ciascuna diqueste fattispecie verrà approfondita a suo tempo (v.§6), per ora basti ricordare il lungo iter 

giurisprudenziale relativo al danno biologico. Si tratta, infatti, di un danno patrimoniale, di undanno non patrimoniale o di un tertium genus? Se consideriamo l’esempio del lavoratoresembrerebbe configurarsi un’ipotesi di danno patrimoniale, mentre se accettiamo la tesi dellarisarcibilità direttamente ex art.32, Cost. probabilmente intendiamo aderire alla terza posizione:indipendentemente da qualsiasi requisito, il danno biologico, infatti, sarebbe risarcibile essendo essouna fattispecie a sé stante. In realtà la Corte di Cassazione (sentt.8827/2003 e 8828/2003) haaffermato la risarcibilità del danno biologico ex art.2059, c.c. Tali sentenze affermano che il dannonon patrimoniale non va oltre il danno morale-soggettivo, che dunque non dovrebbe esserecompreso nella nozione di danno patrimoniale come certa dottrina, citando a esempio l’articolo1382 del codice civile francese, ha affermato, e il danno biologico. Il danno esistenziale non vienericonosciuto dalla giurisprudenza di legittimità ma solo dalla dottrina, non essendo comunque

ancora chiaro che cosa debba intendersi per ulteriore pregiudizio cagionato alla persona.

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● 4. Il danno non patrimoniale nella legislazione recente Si è detto che quella dell’articolo 2059 è una riserva di legge: il codice civile rimanda ad altre fontila determinazione di ciò che sia un danno non patrimoniale risarcibile. È perciò giusto, in chiusuradi queste riflessioni definenti l’entità del danno ingiusto, dare uno sguardo alla legislazione recente.Salvi, in particolare, cita alcuni esempi. Primo fra tutti la legge 117/1988 riguardante laresponsabilità civile dei magistrati. Essa, all’articolo 2, definirebbe come risarcibile il danno

cagionato all’attore che, a causa del comportamento del magistrato, venisse limitato nella proprialibertà. La giurisprudenza e la dottrina sono unanimemente concordi nel configurare questa comeipotesi di danno non patrimoniale, non essendo immediatamente monetizzabili le conseguenze delfatto illecito. Salvi prosegue con l’articolo 29, nono comma, della legge 675/1996, relativa altrattamento dei dati personali. Nelle ipotesi previste all’articolo 9 di questa normativa – affermal’articolo 29, comma 9 – la lesione dei diritti del titolare dei dati trattati è risarcibile ex art.2059, c.c.L’articolo 9 si riferisce alla fase di raccolta e a quella di conservazione dei dati personali; ciò chesignifica che la lesione del diritto alla riservatezza o dei diritti alla personalità inerenti tali datigenerano un danno che giurisprudenza e dottrina concepiscono come non patrimoniale. Questo, nonsenza una contraddizione: si è infatti detto che il trattamento dei dati personali è considerato attività

 pericolosa e, come tale, fonte di responsabilità oggettiva (per ora la definiamo in questo modo) ex

art.2050, c.c. La giurisprudenza e la dottrina sono divise sulle modalità di risoluzione di tale nodo:  per alcuni sarebbe meglio interpretare l’articolo 29 in maniera restrittiva, per altri, invece,ricondurre il richiamo all’articolo 2059 anche al di fuori delle fattispecie storiche non ricollegabiliall’art.185, c.p. (il cd. danno da reato). Anche su questo, tuttavia, si ritornerà, affrontando ildiscorso della responsabilità oggettiva. Altri richiami: Salvi ricorda la legislazione sulla ragionevoledurata dei processi, quella sulla tutela alla salute e quella sul comportamento non razzista della

  pubblica amministrazione. Tutte normative, queste, che comprendono ipotesi di risarcibilità deldanno non patrimoniale.

Schema

Riassumiamo quanto affermato circa la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza e quantoaccennato circa le modalità di liquidazione del risarcimento.

Danno-evento Danno-conseguenza2043 (qualunque fatto, doloso liquidabile ex art.2056, che richiama l’art.1223o colposo…) D.PATRIM.

2043 (qualunque fatto, doloso liquidabile ex art.2059, che richiama l’art.185,o colposo…) D.N.PATRIM. c.p. e la legislazione speciale

Come si può vedere ambo le ipotesi traggono origine da una fattispecie riconducibile alla norma divertice in materia di illecito civile: l’articolo 2043. Quel che muta sono i requisiti e le modalità diliquidazione.

 Parte II. “ Danno patrimoniale e danno non patrimoniale”● 5. Il danno patrimoniale. Il danno permanente 

Che cosa si intenda laddove si parla di patrimonialità del danno e quale sia la funzione della tutelarisarcitoria in tali fattispecie già lo si è detto. L’aggettivo  patrimoniale si collega alla suscettibilitàdi una valutazione di carattere economico propria delle conseguenze dannose dell’effetto lesivo (ilcd. danno-conseguenza). Il risarcimento, in tale prospettiva, assume una funzione riparatoria: ciòche lo differenzia dal risarcimento del danno non patrimoniale, laddove l’obbligazione risarcitoriaespleta una funzione satisfattoria.Ciò ricordato, bisogna considerare una tesi diffusa nella seconda metà dell’Ottocento e nei primianni del Novecento: la cd. teoria della differenza, secondo la quale l’entità del risarcimento sarebbe

valutabile in forza di una formula matematica calcolante appunto la differenza tra il valore del bene prima della lesione e il valore che esso assume nel momento successivo. Detta tesi appare come ilcorollario della visione patrimoniale del danno ingiusto, laddove lo si considera come una perdita

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nel patrimonio della vittima. La teoria della differenza, infatti, permette di valutare scientificamentel’entità della perdita all’interno del patrimonio della vittima: è chiaro, infatti, che se il bene perde divalore, questo scarto negativo si ripercuoterà sul patrimonio intero del soggetto offeso. Alla basedella teoria della differenza, una definizione di patrimonio che Salvi definisce essere propria diun’economia statica: il patrimonio sarebbe, infatti, esclusivamente il complesso delle attività e delle

  passività facenti capo a un qualche soggetto. La perdita, dunque, si qualificherebbe in questi

termini, come diminuzione delle attività. Aspre critiche di matrice funzionalista sono pervenute atale teoria che si limiterebbe a guardare alla struttura della fattispecie in oggetto, senza porla inrelazione con la funzione assunta, da un lato, dalla tutela, dall’altro, dal bene leso. Si immagini unincidente stradale: se accettassimo la teoria della differenza, nell’ipotesi che l’automobile di Tizio,commesso viaggiatore, e quella di Caio, impiegato di banca, avessero riportato lo stesso tipo didanno, tanto Tizio quanto Caio avrebbero diritto allo stesso risarcimento, essendo il bene dell’unodiminuito di valore esattamente tanto quanto il bene di cui l’altro è titolare. In realtà non è così, e losi è visto parlando dell’applicazione del principio di uguaglianza nella disciplina dell’illecito civile.L’automobile è per Tizio un bene fondamentale, servendo al suo mestiere; non è così per Caio che,magari, la utilizza una volta alla settimana per la gita domenicale con moglie e figli. Diconseguenza, valutando anche un fattore esterno rispetto alla fattispecie, qual è appunto la funzione

espletata dal bene leso in rapporto alla persona della vittima, un giudice potrà ordinare unrisarcimento di importo maggiore per Tizio rispetto a Caio: è anche un discorso di guadagni persi;ciò che indica lo stesso articolo 2056, richiamando l’articolo 1223. Non potendo utilizzarel’automobile, Tizio non può lavorare e, di conseguenza, non potrà guadagnare. Ma tralasciamo il

 problema della liquidazione che verrà affrontato in seguito, e limitiamoci a valutare l’entità deldanno. Il danno ingiusto e, trattandosi di danno patrimoniale, l’entità della conseguente perditaeconomica si valutano non solo in base alla funzione espletata ed espletabile dal bene leso, maanche in relazione – e lo si è appena visto – della persona della vittima. Sia chiaro: quella che vienesvolta è un’analisi per tipologie sociali e non per soggetti concreti. Non si guarda alle esigenzeindividuali dell’uno o dell’altro ma si sussumono i vari soggetti in categorie accomunate da bisognidi tipo diverso e si valuta di conseguenza. Per tale ragione l’esigenza del commesso viaggiatoresarà, secondo l’id quod plerumque accidit , ben diversa da quella dell’impiegato di banca, inrapporto all’impiego dell’automobile.Tutti questi rilievi non hanno senso, poi, senza una norma che enunci gli aspetti di una fattispeciesussistendo la quale l’ordinamento accorderà la tutela risarcitoria all’offeso. In altre parole è ildiscorso della tipicità: occorre che vi sia la più totale corrispondenza tra la fattispecie storica e lafattispecie astratta, normativamente prevista.Infine, Salvi passa a considerare il cd. danno permanente. Si premetta che ogni danno è

 permanente, in quanto l’effetto negativo permane fino al risarcimento. Per tale ragione, forse,sarebbe corretto parlare di danno permanente in senso stretto in riferimento alla fattispecie di cuistiamo per discorrere. La permanenza del danno sta nel fatto che in ogni momento continuano a

 perpetrarsi conseguenze dannose da un certo fatto. Dannose, nel senso che producono perdite,nell’ottica di cui si è detto, per la vittima. E ci sono perdite sempre nuove, che si aggiungono a

quelle passate. La fattispecie più frequente di danno permanente è questa: si supponga un danno alla proprietà, un’immissione. Il proprietario denuncia il fatto al giudice che, però, non gli accorda ilrisarcimento non ritenendo sussistente una fattispecie lesiva del suo interesse. Le immissionicontinuano. Il proprietario si rivolge in appello e il giudice gli dà ragione. Danno permanente èquello che si sviluppa in seguito al diniego del giudice di primo grado: l’ordinamento, ai fini dellaliquidazione, definisce un momento nel quale il danno si perfeziona e da lì calcola le conseguenzeulteriori che ne caratterizzano la permanenza. Nel nostro esempio, il momento di perfezionamento èla pronuncia della sentenza di primo grado.

● 6. Il danno non patrimoniale. Danno morale, danno biologico, danno cosiddetto esistenziale. Il problema della prova

La non patrimonialità riguarda ovviamente la conseguenza dannosa: l’evento lesivo produceconseguenze che non sono suscettibili di valutazione economica. Già si è visto come il legislatoredel Quarantadue abbia visto con disfavore la risarcibilità del danno non patrimoniale, confinando

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questa ipotesi all’ultima fra le norme sull’illecito civile. La giurisprudenza dell’epoca, poi, vedeva ilrichiamo alle ipotesi tipiche della legge unicamente come rimando al secondo comma dell’articolo185 del codice penale: l’unica fattispecie di danno non patrimoniale risarcibile era il danno da reato,corrispondente – secondo la giurisprudenza dell’epoca – al  pretium doloris cagionato alla vittimadall’autore del reato. Ecco allora che già si identifica una prima forma di danno non patrimonialerisarcibile laddove si identifica la conseguenza dello stesso con una forma di dolore che deve essere

sanata attraverso il risarcimento: di qui, l’equivoco commesso dalla dottrina che ritiene ilrisarcimento del danno non patrimoniale come risultante di un’equivalenza monetaria della perditasubita dalla vittima. Ma, lo si è visto, non è così. Un’evoluzione successiva porta a comprendereall’interno della fattispecie di cui all’articolo 2059 anche ipotesi di danno non patrimoniale nonderivante da reato che pure, però, si identificano con il discorso del pretium doloris (caso: scendo lescale, inciampo, rovino sul vaso di scarso valore economico ma di grande valore affettivo di Tizio elo devo risarcire). In termini tecnici si parla, in tal caso, di danno morale-soggettivo, corrispondenteal perturbamento psichico derivato dal fatto dannoso (meglio: dal danno-evento). Secondo Salvi sitratta senz’ombra di dubbio di una esagerata generalizzazione: probabilmente, come il carattereeconomico derivato dalla lesione caratterizza il danno patrimoniale, il dolore psicologico dovrebbecaratterizzare il danno non patrimoniale, identificato con il danno morale-soggettivo. Di qui, la

facile distorsione di qualificare come materiale il danno patrimoniale e come non materiale, quellonon patrimoniale: il problema è che il legislatore ha contrapposto al danno non patrimoniale non giàil danno materiale tout court , bensì il danno patrimoniale. Dunque questa interpretazione non regge.Un altro punto dolente sta nel fatto che difficilmente potremo parlare di perturbamento psichicoladdove vittime siano enti collettivi: come può, infatti, affermarsi che un partito politico il cui nomesia stato infangato da dichiarazioni menzognere, soffra di perturbamento a livello psichico? Ecco,allora, che la definizione di pretium doloris non è sufficiente. Così come, secondo la giurisprudenzadi legittimità (e citiamo ancora una volta le sentenze della Corte di Cassazione, nn.8827 e 8828 del2003), non è ammissibile la distinzione tra danno morale-soggettivo e danno esistenziale.Quest’ultimo sarebbe l’ulteriore pregiudizio derivato dall’evento dannoso alla vittima. Ulteriorerispetto a tutte le implicazioni di carattere psicologico e a tutto ciò che è derivato sul pianodell’integrità fisica. In altri termini, con l’espressione “danno esistenziale” va intesa ogniconseguenza dannosa riguardante l’incapacità di svolgere le mansioni che caratterizzano l’esistenzadel soggetto. Non tanto per quel che riguarda le mansioni lavorative: si pensi a un operaio chelavora a una catena di montaggio. La perdita della mano ha per lui conseguenze sicuramentesuscettibili di valutazione economica, perdendo egli la possibilità di lavorare e, conseguentemente,la sua probabilmente unica fonte di sostentamento. Dunque si parla in tale caso di danno

  patrimoniale. Le mansioni alle quali ci riferiamo sono perlopiù mansioni estranee al lavoroordinario: si pensi all’impiegato di banca che tutti i sabati pomeriggio si reca al golf club. Se unalesione gli impedisce di giocare, secondo la dottrina, dovrà parlarsi di danno esistenziale. Sitratterebbe, quindi, di un tertium genus rispetto al danno morale-soggettivo e al danno biologico,che però non piace alla giurisprudenza.Involuto è il discorso del danno biologico, da intendersi come qualsiasi lesione all’integrità fisica

valutata in base alla moderna scienza medica. Tre sono le teorie che la giurisprudenza ha seguitosinora in merito: a) il danno biologico potrebbe essere inteso come danno patrimoniale, in quantomolte volte è suscettibile di valutazioni economiche, come nel caso dell’operaio che perde unamano; b) il danno biologico potrebbe essere inteso come danno non patrimoniale, per il fatto chealtrettanti sono i casi in cui la conseguenza non è suscettibile di valutazioni economiche, come nelcaso dell’impiegato di banca che non può più giocare a golf (Salvi sembra accettare la posizionedella giurisprudenza e, dunque, non considerare il cd. danno esistenziale); c) il danno biologico è untertium genus: indipendentemente dalle conseguenze economiche e da previsioni di legge che lo

 prevedano, deve essere risarcito perché la Costituzione afferma che la tutela della salute è un dirittofondamentale.La giurisprudenza ha seguito l’ipotesi del danno non patrimoniale, così da non forzare la mano nel

momento in cui non sussistano conseguenze economicamente rilevanti dall’evento lesivo. Inoltre, probabilmente, avere escluso quello biologico tra le ipotesi di danno non patrimoniale avrebbesignificato limitare eccessivamente il portato dell’articolo 2059 e – lo vedremo – la tendenza è oggi

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quella esattamente opposta. Il rilievo di cui al punto c, però, non è privo di rilevanza: è vero, infatti,che la Costituzione ascrive al novero dei diritti fondamentali la tutela della salute. È lo stessoarticolo 32 che lo afferma. Questo portò la Corte Costituzionale, in sentenza 184 del 14 luglio 1986,ad affermare che di per sé il richiamo costituzionale è sufficiente a determinare il risarcimentoindipendentemente da una previsione di legge che esprima detto principio. Altrimenti detto,l’articolo 2059 fungerebbe da tramite tra la Costituzione e l’istanza di risarcimento di chi ha subito

il danno, non potendo, comunque, un principio costituzionale trovare applicazione autonoma.Inoltre, dato il rango della previsione di tutela, ogni legge si dovrà conformare a essa; in altritermini, l’opera del legislatore dovrà essere rispettosa del diritto alla salute, ponendo a disposizionedel cittadino tutti gli strumenti per tutelarlo. Uno di essi è proprio il risarcimento del danno

 biologico; quindi, ragiona la Corte, non ci sono motivi per affermare la contrarietà della legge al principio di ammissibilità del risarcimento del danno biologico.Rimane solo da trattare il problema della prova del danno non patrimoniale. Secondo certagiurisprudenza essa sarebbe addirittura in re ipsa in talune ipotesi, quale soprattutto quella deldanno da reato. In realtà sembra più corretto applicare i tradizionali principi probatori che, per laresponsabilità extracontrattuale, prevedono la prova del danno da parte del danneggiato: l’attoredovrà così provare di avere subito un danno. Proverà, dunque, il dolore patito fisicamente o

 psicologicamente (limitiamo, per ragioni di semplicità, la nozione di danno non patrimoniale aquella di dolore, pur tenendo sempre a mente i ragionamenti fatti), pur potendo il convenuto provarel’inesistenza di tale dolore. Salvi riporta il caso del convenuto che afferma in giudizio di avere vistol’attore manifestare gioia per i fatti sui quali si dibatte e per i quali pretende il risarcimento.Successivamente, poi, Salvi riporta il caso-limite del danno da reato laddove ad agire in giudizio siauna persona legata alla vittima: immaginiamo un caso di omicidio, laddove agisce la presuntafidanzata della vittima. Il convenuto potrà, se ne avrà i mezzi, provare l’assenza di un qualchelegame affettivo tra la ragazza e la vittima, giacché è sull’esistenza di detto legame che si basal’istanza dell’attore. In definitiva, quindi, possiamo affermare che anche per il danno non

 patrimoniale è l’attore che dovrà allegare e provare i fatti. Dovrà, cioè, dimostrare di avere subitoun danno che, nel caso di specie, non sia economicamente rilevante.In chiusura, poi, Salvi richiama ancora una volta il principio di tipicità, che assume un’importanzafondamentale nella materia del risarcimento del danno non patrimoniale: per il danno patrimoniale,infatti, le cose sono più semplici, bastando i requisiti della rilevanza economica del danno-conseguenza e dell’ingiustizia. Qui il primo di tali requisiti manca e deve essere colmata tale lacunada un’esplicita previsione normativa, su richiamo dell’articolo 2059.

● 7. Il danno da reato. Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o un danno non patrimoniale obbliga alrisarcimento il colpevole e le persone che, a norma della legge civile, sono obbligate per il fatto dilui. Questo è il dettato dell’articolo 185 del codice penale che, per lungo tempo, è stato inteso comel’unica norma definente un’ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile. Secondo tale fattispecie lavittima del reato (o, nel caso di morte della vittima, i suoi successori a titolo universale, stante la

disposizione dell’articolo 74 del codice di procedura penale) possono agire in via autonoma rispettoal procedimento penale ovvero aprire una parentesi civile nel procedimento penale attraverso lacostituzione in giudizio di parte civile ai sensi degli articoli 75 e seguenti del codice di procedura

  penale. Ciò non significa, tiene a specificare Salvi, che la funzione sanzionatoria tipica dellarisposta che l’ordinamento dà allte illecito penale, assorba la funzione riparatoria-satisfattoria che è

 propria della tutela civile risarcitoria. Occorre mantenere distinti i due ambiti, così come occorredistinguere l’illecito civile dall’illecito penale. È vero che sussiste un punto in comune, e cioè lacomunanza dell’interesse leso, un interesse, quindi, che rileva sia sotto il profilo penale che sottoquello civile. Ciò che, però, cambia è il peso differente della risposta che l’ordinamento dàall’illecito penale rispetto a quello civile, volendo, nel primo caso, ricomporre una fratturadeterminatasi tra privati e Stato attraverso l’irrogazione di una pena che risponda ai canoni tipici e

determinati dalla teoria generale del reato e della pena; volendo, invece, nel secondo caso,ricomporre una controversia tra soggetti privati attraverso la soddisfazione del soggetto leso chericeverà una somma in denaro dall’offensore. Con tutte le implicazioni di carattere solidaristico alle

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quali già si fece riferimento. La dottrina si domanda se possa il giudice disporre il risarcimentonell’ipotesi in cui agisca una scriminanti o una causa di esclusione della punibilità. Salvi parla a tal

 proposito di fattori che fanno venire meno l’aspetto oggettivo dell’illecito penale. Qualora agiscanonon è più possibile parlare di reato. Il reato, dunque, non sussiste. Perciò non si determina lafattispecie in oggetto. Questa, almeno, è stata la posizione che la giurisprudenza di legittimità haassunto, distinguendo tale ipotesi da quella della mancanza di una condizione di procedibilità,

laddove il reato continua a esistere ma viene meno una delle condizioni in presenza delle quali è possibile avviare l’iter procedimentale penale. Ciò che impedisce l’esercizio dell’azione sul piano penale ma non su quello civile, laddove sta al giudice (civile) determinare luote esistenza del reato edisporre il risarcimento da parte dell’offensore nei confronti della vittima.

● 8. Il significato attuale del principio di tipicità nel risarcimento del danno non patrimoniale Resta da comprendere in che modo possa parlarsi di tipicità nel risarcimento del danno non

 patrimoniale. Innanzitutto è bene sottolineare come il nostro ordinamento adotti, in riferimento allarisarcibilità del danno non patrimoniale, una soluzione intermedia tra l’assoluto diniego alrisarcimento di simili fattispecie civilmente illecite – come accadeva nel mondo sovietico – el’assoluta accettazione di tale soluzione – come succede nel diritto civile francese –. Salvi ricorda,

attraverso una parentesi storico-comparatista, come la scelta di determinare la risarcibilità del dannonon patrimoniale abbia essenzialmente un carattere politico. Laddove, infatti, preme tutelare gliinteressi del mondo borghese, il potere politico sarà meglio disposto ad ammettere casi di dannonon patrimoniale risarcibile, laddove manchino perdite rilevanti sul piano economico maugualmente si intenda tutelare il valore della persona che è tipico delle politiche liberali.L’esaltazione, quindi, dell’individuo contro l’esaltazione dello Stato: nei sistemi socialisti (maanche nel sistema nazionalsocialista tedesco) l’unica preoccupazione è evitare danni all’economiastatale, sicché rileva solo ciò che è connotabile come perdita patrimoniale. Se l’individuo subiscelesioni di questo genere, essendo l’individuo una longa manus dello Stato, sarà lo Stato stesso asubire la perdita.Al di là di questo, possiamo scorrere velocemente le scelte dell’attuale giurisprudenza italiana circala risarcibilità del danno ingiusto. Per quel che riguarda il danno biologico già si è visto l’apportodato dalla sentenza 184 del 14 luglio 1986: la Corte Costituzionale, per il tramite dell’articolo 32della Costituzione, sussume il danno biologico all’ordinario regime risarcitorio previsto ex articolo2043, sottraendolo all’interpretazione restrittiva dell’articolo 2059 proposta dalla precedentegiurisprudenza. Il danno esistenziale, invece, non è riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità(si ricordino le sentenze della Corte di Cassazione nn.8827 e 8828 del 2003). Per quel che attiene aldanno morale-soggettivo la soluzione più corretta pare essere quella della riconduzione della tuteladei diritti della persona alla clausola generale dell’articolo 2 della Costituzione. Altra tendenzagiurisprudenziale è quella di concedere il risarcimento nelle ipotesi di lesione particolarmentegrave, oltre a quelle in cui sia stato leso un diritto che l’ordinamento si propone di tutelare (comeaccade per i diritti inviolabili dell’uomo che la Costituzione riconosce e garantisce nella prospettivasolidaristica nell’ambito della quale chiama i consociati tutti all’adempimento di determinati doveri

di solidarietà politica, economica e sociale. È il portato dell’articolo 2, che fa del principio disolidarietà la propria bandiera e il presupposto imprescindibile per il progresso della società italiana.Salvi esalta questo aspetto della tutela risarcitoria, in particolare per quel che attiene il danno non

  patrimoniale, laddove il risarcimento esemplificherebbe la solidarietà del danneggiante neiconfronti della vittima).

 Parte III “Il danno ingiusto”.● 9. L’ingiustizia del danno: profili generali 

Il secondo fra i requisiti del danno ingiusto è proprio l’ingiustizia, ossia l’antigiuridicità daintendersi come lesione a un interesse normativamente protetto. Questa nozione, fino a non molto

tempo fa, era intesa come lesione di un diritto assoluto. Ed è chiaro: si pensi all’impianto del codicedel 1865. Esso si fondava esclusivamente sulla proprietà e lo scopo del legislatore era quello ditutelare in via primaria la relazione che lega il proprietario al bene di cui è tale. Così, sempre

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nell’ottica di un simile legame, era da intendersi il complesso di diritti facenti capo a una persona (icd. diritti personali), che venivano tutelati in modo non dissimile dalla proprietà e dagli altri dirittireali. Il passaggio a concezioni economiche diverse porta a un mutamento di ottica: la nozione di

 patrimonio non è più una nozione statica, fondata sul legame proprietario-attività e passività, madiventa un concetto dinamico: i beni passano di mano da un soggetto all’altro e ciò che permette iltutto è la nascita di vincoli obbligatori che legano i soggetti del sistema economico. Ecco allora che

una nozione di danno ingiusto da identificarsi con la lesione di un diritto soggettivo non basta più. Ne scaturisce un’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha portato alla celeberrima Sentenzan. 500/1999: la Corte di Cassazione, a sezioni unite, si è pronunciata in favore della risarcibilitàdella lesione di interessi legittimi, sconvolgendo l’ultimo baluardo di inviolabilitàdell’amministrazione pubblica. In altri termini, l’ingiustizia del danno si sarebbe così allargata daarrivare a comprendere persino gli interessi legittimi, cioè le situazioni giuridiche soggettive attiveche, non essendo diritti, legano il singolo consociato alla pubblica amministrazione.Salvi, a questo punto, giunge a definire due caratteristiche del danno ingiusto, che è al contemponon iure e contra ius.  Non iure, essendo un’attività che non ha giustificazione alcuna in base allenorme dell’ordinamento; contra ius, in quanto è lesiva di interessi protetti dall’ordinamento,attraverso una o più norme giuridiche. Ciò posto, occorre comprendere come Salvi intenda il

 procedimento per giungere alla qualificazione di un danno come ingiusto. Si tratterebbe di unavalutazione comparativa: il danno ingiusto è la risultante di un conflitto di interessi, giacché unsoggetto, esercitando un proprio diritto, viola la sfera giuridica altrui, ledendo un interesse protettofacente capo proprio a quest’ultimo. Ecco allora che due sarebbero i passi da compiere in un simile

 procedimento valutativo: l’individuazione del bene giuridico offeso e la valutazione dei rapportisussistenti tra il bene che _e8 stato offeso e quello di cui è titolare il danneggiante. Qualoral’ordinamento risolva questa ultima questione in favore del bene offeso, allora potrà parlarsi didanno ingiusto. Il caso tipico, in questa circostanza, è quello del giornalista che pubblica una notiziavera ma diffamatoria per un certo soggetto: in tal caso prevale il diritto alla reputazione, che Salviricollega all’articolo 2 della Costituzione, o la libertà di stampa e di parola, espressamente tutelatadalla Carta Costituzionale all’articolo 21? Dovrà valutarsi il caso concreto. Sul punto, comunque, siritornerà a breve.In ultimo, Salvi si sofferma a valutare la scelta di alcuni ordinamenti che propendono per la tipicitàdell’illecito (come quello tedesco, laddove il BGB enuncia una serie di fattispecie tipiche di illecitocivile: è, quindi, il legislatore che ha tassativamente previsto i casi di lesione di interessinormativamente protetti che costituiscono danno ingiusto) e di altri che, come quello francese,rimettono al giudice la valutazione circa l’ingiustizia del danno (cd. principio di atipicità). SecondoSalvi si tratterebbe di un falso problema: innanzitutto un danno è qualificabile come ingiusto solo sedetta qualifica trova la propria ragion d’essere in una norma giuridica che tuteli il bene che vieneleso dal danneggiante. E questo varrebbe sia nei sistemi della tipicità, sia in quelli dell’atipicità. Diqui, il problema riguarderebbe esclusivamente la sfera di discrezionalità lasciata ai giudici: neisistemi dell’atipicità, maggiore sarebbe il potere discrezionale-creativo del giudice che, comunque,dovrebbe sempre in ultima analisi rendere conto a un parametro normativo. Ciò che viene prima

nell’attività di un giudice dei sistemi della tipicità. Salvi, quindi, abbraccia una concezioneassolutista della tipicità del danno ingiusto, non ammettendo l’esistenza di una vera e propriaatipicità che prima o poi si scontra con una norma definente un diritto da tutelare. Su questa tesi,come è ovvio, non tutta la dottrina concorda: Giovanna Visentini, infatti, legge il sistema neitermini diametralmente opposti. Tutto si fonderebbe sull’atipicità dell’illecito, il che darebbe aigiudici il più ampio potere discrezionale in ordine alla creazione di nuove categorie di dannoingiusto. Questa dottrina, ovviamente, non nega l’esistenza di riferimenti normativi che, tuttavia,

 per la loro generalità, si qualificherebbero esclusivamente a meri punti di partenza e non certo alimite di tale attività creativa dell’organo giurisdizionale.

● 10. Le cause di giustificazione 

In diritto penale le cause di giustificazione si definiscono  scriminanti. Il diritto dell’illecito civileammette l’esistenza di cause di giustificazione, mutuate dal codice penale. In particolare, la dottrina

 più permissiva ammette l’applicazione, nella materia di cui si tratta:

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a. dell’esercizio del diritto b. della legittima difesa (sulla base dell’art.2044, c.c.)c. dello stato di necessità (sulla base dell’art.2045, c.c.)

Salvi non ammette assolutamente l’esercizio del diritto. Già si è detto che il danno è la risultante diun conflitto di interessi nell’ambito del quale ciascuna delle parti esercita un proprio diritto: qualoral’ordinamento ritenga prevalente l’esercizio del diritto di cui è titolare il danneggiante, allora non

riterrà quello un danno ingiusto e non disporrà la nascita di un’obbligazione risarcitoria in capo alle parti. Di conseguenza, ammettere l’esercizio del diritto come causa di giustificazione è una meraripetizione di quello che, per Salvi, è il procedimento valutativo dell’ingiustizia del danno. Perciò èinutile.

 Non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri. Così statuisce l’articolo2044 del codice, richiamando, seppure implicitamente, la più esaustiva disciplina dell’articolo 52del codice penale. Secondo il diritto penale, la legittima difesa si caratterizza per un’azione ingiustache causa un pericolo immediato per sé o per altri, e per una reazione necessaria e proporzionatarispetto all’offesa. Questi stessi parametri devono essere applicati alla legittima difesa nel dirittocivile. Per Salvi è altresì ammessa la legittima difesa putativa (cfr.art.59, c.p.): in tal caso, però, nonessendo la reazione cagionata dal soggetto contro il quale si reagisce, a questi sarà dovuto un

indennizzo di importo inferiore a quello che sarebbe il risarcimento.L’articolo 2045 del codice richiama la scriminante dello stato di necessità, sicché quando il fattodannoso è compiuto per necessità di salvare sé o altri da un pericolo attuale di un danno grave alla

 persona, al danneggiato è dovuto un indennizzo liquidabile secondo l’equo apprezzamento delgiudice. Anche qui, valgono gli stessi ragionamenti fatti per la legittima difesa: il richiamo al codice

 penale (questa volta all’articolo 54), il pericolo attuale e la necessità di difendere sé o altri. Ancora:l’indennità è dovuta in quanto si reagisce contro un soggetto che non ha posto in essere alcunaattività lesiva. Come per la legittima difesa putativa.Riportiamo ora alcuni esempi di legittima difesa e di stato di necessità: nella prima fattispecierientra l’ipotesi di Tizio che, per evitare le percosse di Caio (e quindi la lesione al bene dell’integritàfisica), gli sferra un pugno in pieno volto. Se, però, si suppone che Caio non volesse percuotereTizio (magari i due erano nel corso di un’accesa discussione: Caio si è alzato per calmare Tizio,

 preso dalla concitazione della difesa delle sue ragioni. Tizio reagisce male e sferra il pugno a Caio),si tratta di legittima difesa putativa. Qui è dovuto a Caio l’indennizzo, in quanto non ha posto inessere alcuna azione offensiva per Tizio, pur ritenendo quest’ultimo che fosse così. Nella fattispeciedello stato di necessità rientra l’ipotesi di Tizio, guidatore, che per evitare un bambino sfuggitodalle braccia della madre e proiettatosi in mezzo alla strada, sterza, frantumando la vetrina di unagioielleria. Quello era l’unico modo per salvare il bambino. È comunque dovuta un’indennità al

 proprietario della gioielleria perché, similmente al caso della legittima difesa putativa, non ha postoin essere alcuna offesa a Tizio, essendo (e qui sta la differenza rispetto alla legittima difesa putativa)estraneo alla scena.

● 11. I danni ingiusti. a) i diritti personali 

Salvi inizia a questo punto, fissate le premesse sull’ingiustizia del danno, a valutare i casi (da luiritenuti tipici, cioè riconducibili ad archetipi normativi limitanti l’attività discrezionale-creativa delgiudice) di danno ingiusto. Li riassumiamo nella sottostante tabella.

Tabella

Bene giuridico leso Tipo di dannoVita Danno da morte del congiunto

Danno alla salute (propria o del congiunto)Danno da procreazione

Danno alla reputazioneDanno all’identitàDanno alla riservatezza

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Lesioni del diritto al nome e del dirittoall’immagine

Proprietà e altri diritti reali Danno da immissioni

Possesso e situazioni di fatto Turbative del possessoResponsabilità extracontrattuale da contrattoLesione del credito da parte di soggetti terzirispetto al rapporto obbligatorio

Rapporto cittadino-p.a. Danno da attività della pubblica amministrazione

-collettività organizzate-collettività non organizzate

Danni a beni collettivi e liberi tutelati da entiesponenziali (art.91,c.p.p.) v. danno ambientale

Danno di massa (tecnica della class action negliUSA)

Per quanto riguarda i danni personali l’odierna giurisprudenza trova difficile ricondurli al rimedioaquiliano nelle ipotesi estranee al danno da reato di cui all’articolo 185 del codice penale. Due sono

allora le strade praticate: il mancato riconoscimento del rimedio aquiliano, non concependo comeingiusta ex articolo 2043 quella lesione; il riconoscimento di tutta una serie di diritti soggettiviestremamente creativi che si riconducono in modo più o meno involuto alle tipologie di dannoingiusto riconosciute dalla giurisprudenza. Insomma, sul punto c’è grande confusione. Per Salvioccorrerebbe riprendere lo schema che la Corte costituzionale ha adottato con la Sent.184/1986: ildanno biologico è tutelato ex articolo 2043 anche al di fuori delle ristrettezze dell’articolo 2059 inquanto sussiste il principio generale dell’articolo 32 della Costituzione, che permette di leggere ogninorma giuridica compatibilmente con il precetto della tutela al diritto della salute. Altrimenti detto,è compito precipuo dell’ordinamento dare una tutela a detta situazione, ossia mettere a disposizionedei consociati ogni mezzo a ciò idoneo. Fra questi, ovviamente, la tutela risarcitoria. Ricordandoquanto affermato dall’articolo 2 della Costituzione, circa il riconoscimento e la garanzia dei dirittiinviolabili dell’uomo, sia come persona, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,Salvi riconduce l’ipotesi del danno alla persona a questa clausola generale, affermando che, come

 per la risarcibilità del danno biologico si è ricorso all’articolo 32, così per quella del danno personale dovrebbe ricorrersi all’articolo 2, riconoscendo, così, come categoria generale di dannoingiusto (e per ciò stesso risarcibile), il danno personale.

● 11.1. Il danno da morte. La vittima e i congiunti Che la morte costituisca fonte di responsabilità civile è cosa certa e nessuno lo ha mai messo indiscussione. Che il risarcimento non spetti alla vittima è altrettanto chiaro. Resta da comprenderechi sia il destinatario della somma risarcitoria e a che titolo possa diventarlo. Il criterio da seguire èsempre il solito: la morte di un soggetto può comportare perdite patrimoniali in capo ad altri.Occorre comprendere fin dove può spingersi la tutela del credito. Si supponga che Tizio, famosoindustriale, muoia in un incidente stradale: lascia la moglie, casalinga, e i figli, studenti. Il tenoredella famiglia era determinato solo dalle entrate di Tizio; ecco, allora, che in capo alla moglie e ifigli si era creata un’aspettativa che l’ordinamento ritiene di potere tutelare. Si supponga, poi, cheTizio facesse beneficenza, intestando il dieci percento delle sue entrate annuale a una certaassociazione: l’ordinamento tutela l’aspettativa dell’associazione che aspira all’ottenimentodell’assegno periodico da parte di Tizio, anche dopo la sua morte? Innanzitutto, dato che disituazioni simili ve ne potrebbero essere a centinaia, tutelare le aspettative di tutti i soggetti con iquali la vittima era entrata in contatto è senz’altro impossibile. Inoltre, come ricorda Salvi, larisposta a tali quesiti deve essere data tenendo conto che il bene leso è non un diritto di credito,

 bensì il legame familiare. È in forza del legame familiare che si crea l’aspettativa in capo a moglie efigli; l’unica degna di essere tutelata. Per quel che riguarda il danno non patrimoniale, è sempre in

termini di legame familiare che deve leggersi la questione: con chi Tizio aveva particolari rapportiaffettivi, così che la sua dipartita possa costituire – questa volta sì – motivo di perturbamento

 psichico? Ecco allora che moglie e figli divengono destinatari del risarcimento. E lo diventano iure

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 proprio e non già iure haereditatis: se così fosse, infatti, tutti gli eredi di Tizio dovrebbero essererisarciti, ma così non è. Certo, se Tizio non fosse morto immediatamente dopo l’incidente, ilsoggetto attivo dell’obbligazione risarcitoria sarebbe stato lui. Una volta morto, poi, questo creditosarebbe stato trasmesso agli eredi, secondo le regole del diritto successorio. Ma questa è un’altrafattispecie. Tutto ciò ci porta ad affermare che, laddove sussista una perdita di carattere

 patrimoniale o di carattere affettivo-sentimentale, per i soggetti che erano legati alla vittima da un

 particolare vincolo familiare è ammesso il risarcimento. Questo potrebbe portare a chiederci sel’elenco di congiunti dell’articolo 433 (norma sull’obbligo alimentare) costituisca l’elenco disoggetti che possono beneficiare del risarcimento. La risposta è negativa: dalla valutazione delleaspettative patrimoniali e dei vincoli affettivo-sentimentali preesistenti alla morte della vittima,l’elenco in questione può essere esteso ad altri soggetti o ristretto. Insomma, quella che compie ilgiudice è una valutazione in concreto. Una valutazione del tutto simile a quella compiuta dal dannoalla salute del congiunto, laddove detto danno comporti una violazione di aspettative simili a quelledi cui si è detto.

● 11.2. Il danno alla salute. Il danno da procreazione Che il danno alla salute debba essere tutelato ormai è chiaro. È l’articolo 32 della Costituzione che

  permette l’applicazione del rimedio ex articolo 2043, indipendentemente dall’esistenza di unrichiamo di legge ai sensi dell’articolo 2059. Dunque, anche al di là delle ipotesi di reato (articolo185 del codice penale), il danno alla salute è degno di essere tutelato. Una lesione al dirittodell’integrità fisica, stanti i parametri della scienza medica, può comportare perdite sul piano

 patrimoniale (a causa di una lesione alla mano, l’operaio non può più lavorare nella catena dimontaggio, perdendo così il proprio lavoro) o sul piano personale (e dunque non patrimoniale:Tizio, impiegato di banca, a causa della lesione alla mano non può più dedicarsi al golf, suo unicohobby durante il weekend. Qui la perdita non è patrimoniale, trattandosi di attività per lui nonretribuita).Curiosa è l’evoluzione giurisprudenziale in fatto di danno da procreazione, avendo certagiurisprudenza addirittura parlato di un diritto a nascere bene, senza malformazioni. Sembra quindiche, nell’ipotesi del medico negligente che somministra una medicina sbagliata, comportandomalformazioni del feto, l’ordinamento intenda tutelare un diritto del soggetto non ancora nato. Ciò èassurdo, acquistando ciascuno capacità giuridica solo al momento della nascita, ex articolo 1 delcodice. Ne consegue che il medico risponde nei confronti della madre innanzitutto e, ammettendo la

 possibilità che il figlio, una volta adulto, chieda ragione della malformazione dovuta a negligenza,l’ordinamento tutela un diritto del soggetto una volta nato. Altrimenti detto, se costui non fosse mainato, in capo a lui non sarebbe mai sorta alcuna pretesa con valore giuridico (semmai sarebbe sortain capo alla madre nell’ipotesi in cui l’aborto fosse derivato dall’inesatta terapia ordinata dal mediconegligente). Altro è il caso dello stupro: anche qui non si tutela un ipotetico diritto del soggetto anascere bene, ma il diritto all’autodeterminazione della madre. La si vuole, insomma, tutelare dagravidanze indesiderate. Ciò che fa sì che lo stupratore sia obbligato nei confronti della donna.

● 11.3. La lesione dei cosiddetti diritti della personalità. Reputazione, riservatezza, identità  personale. Il nome e l’immagine

Già si è detto della tesi di Salvi, secondo il quale è opportuno ricondurre la tutela del danno personale all’articolo 2 della Costituzione. Ciò è ancor di più vero per quel che concerne i dirittidella personalità. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali dell’uomo sia comesingolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. C’è un’istanza di tutela della

 personalità da parte del legislatore costituente.Ricordato ciò, Salvi usa una sintesi nella quale descrive brevemente i connotati di ciascuno tra idiritti della personalità: reputazione, riservatezza, identità personale. In sostanza, la tutela dellareputazione si estrinseca nell’evitare la diffusione di informazioni diffamanti la persona diqualcuno; ciò differisce dall’uso degli strumenti di tutela dell’identità personale, laddove si intende

evitare la diffusione di informazioni inesatte sul conto di qualcuno, non importa se esse siano vere omeno. Infine, la riservatezza (che qualcuno traduce come privacy, pur essendo i concetti comunquediversi, ancorché affini, data anche l’evoluzione di significato che detto termine ha subito nel

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contesto statunitense), ossia l’esigenza di evitare che vengano a conoscenza di terzi informazioniattinenti alla sfera più intima della persona. Non importa che tali dati siano esatti o meno, diffamantio edificanti. Ciò posto, occorre domandarsi come possa contemperarsi il diritto alla reputazione, allariservatezza o quello all’identità personale con il disposto dell’articolo 21 della Costituzione. Lalibertà di parola o la libertà di espressione sono diritti inviolabili al pari di quelli espressidall’articolo 2 della stessa Carta Costituzionale (se riteniamo corretta la tesi di Salvi). In sostanza

l’operazione da svolgere consiste nel delimitare i confini del diritto di espressione e del contestualediritto di informazione sanciti dall’articolo 21. In altri termini, fino a che punto è ammissibilediffondere informazioni poco edificanti su un soggetto per il bene della pubblica informazione?Senz’altro ciò è possibile nella cronaca laddove si ritiene opportuno che il fruitore della notiziavenga a conoscenza di essa in tutte le sue componenti. E qualora, data un’analisi in concreto, siritenga ammissibile tutto ciò, un giornalista ben puð2 riportare le gesta poco esaltanti di un uomo

 politico corrotto o le attività illecite di un delinquente. È chiaro che lo farà rispettando sempre uncanone di correttezza, il che fa sì che costui non ingrossi la verità con sue supposizioni, se noninquadrate come tali e giustificate comunque da dati oggettivi. Corollario di questo ragionamento èche un giornalista non è tenuto ad alcuna obbligazione risarcitoria nell’ipotesi in cui diffondanotizie non vere, purché supportate da una realtà obiettiva. Il che, con tutta probabilità, gli farà

ritenere di avere scritto una verità. Ciò che esclude senz’altro il dolo (e la colpa, qualora non vi sianegligenza, imperizia, imprudenza, inosservanza delle norme deontologiche) e, così facendo,l’imputabilità della suddetta obbligazione risarcitoria.Per quel che riguarda la tutela dell’identità personale, è fonte di risarcimento ogni comportamentoche altera i segni distintivi (materiali o immateriali) di un soggetto anche, come si è fatto cennosopra, con la diffusione di dati inesatti sul conto di quella persona. Per la riservatezza, si rimandaalle normative in sua tutela (la legge 675/1996 o, in fatto di diritto di accesso ai documenti della

 pubblica amministrazione, gli articoli 24 e seguente della legge 241/1990).Resta da fare luce sulla tematica della tutela del diritto al nome e all’immagine: ne parlanorispettivamente gli articoli 7 e 10 del codice civile. Essi dispongono una tutela di tipo inibitorio,facendo salvo il risarcimento nell’ipotesi in cui l’abuso dell’altrui nome e dell’altrui immaginecomporti conseguenze sul piano economico-patrimoniale. La soluzione di Salvi di applicarel’articolo 2 della Costituzione probabilmente muterebbe i termini della questione, ammettendogeneralmente il risarcimento per il danno non patrimoniale da lesione di diritti della personalità.

● 12. b) I diritti patrimoniali. Profili generali. Critica del danno meramente patrimoniale E’ l’evoluzione giurisprudenziale dell’ultimo terzo di secolo che porta alla considerazione dellalesione di diritti patrimoniali all’interno del concetto generale di danno ingiusto (si ricordino, in

 particolare, le pronunce sul caso Meroni e sul caso Puddu). Certa dottrina, come forse già abbiamoavuto modo di ricordare, si è oltremodo attaccata alla nozione di danno ingiusto come lesione di undiritto assoluto, così da intendere la lesione di un diritto patrimoniale come lesione del dirittoassoluto all’integrità del patrimonio. Ciò che permetteva la sussunzione di detta fattispecie nel piùampio novero del danno ingiusto, vista la definizione da tale dottrina data. A Salvi non piace l’idea

del diritto assoluto all’integrità del patrimonio: se esistesse una simile situazione giuridica potrebbeconfigurarsi come lesiva ogni fattispecie di diminuzione dell’attivo patrimoniale. E questoindipendentemente da riferimenti all’ingiustizia del danno; quella che Salvi connota come secondodei due presupposti necessari all’applicazione del rimedio risarcitorio ex articolo 2043. Qualcunaltro ha parlato di danno meramente patrimoniale. Definizione che dice poco, ricadendo nelsuddetto errore di cui si è detto: il danno meramente patrimoniale fa sì che possano esserericompresse in esso ipotesi estranee a quello che l’articolo 2043 definisce come danno. Per questomotivo, Salvi afferma che si tratta di una definizione che restringe il portato della norma, nontenendo in considerazione adeguatamente gli aspetti molteplici che essa definisce. Quale, appunto,l’ingiustizia e l’elemento di imputazione dell’illecito.

● 12.1. Il danno alla proprietà. Le immissioni Salvi definisce il danno alla proprietà come l’archetipo del danno patrimoniale. Numerose sono lenorme in merito. Per prenderne una a esempio, si ricordi l’articolo 872 del codice, relativo al difetto

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di concessioni edilizie. La norma definisce molteplici rimedi a fronte di una simile situazione (cioèla costruzione di un immobile in difetto di concessione edilizia): sia il risarcimento, sia il ripristinodella preesistente situazione (riduzione in pristino). Si pone, secondo Salvi, un problema digerarchia degli strumenti di tutela; problema, che Salvi risolve applicando sempre il solito

 procedimento valutativo-comparativo degli interessi in gioco, sicché solo nel momento in cui lacostruzione abusiva comporta in concreto perdite per il fondo vicino, al proprietario di questo sarà

dovuto un risarcimento. Ma la tesi di Salvi è suffragata dal tenore letterale della norma, secondo laquale la riduzione in pristino sarà dovuta solo in seguito a violazione delle norme sulla proprietàedilizia e le sanzioni amministrative solamente laddove si verifichi un illecito (amministrativo),determinato secondo le stesse. Ne consegue che quello della gerarchia degli strumenti di tutela è unfalso problema, che si risolve attraverso l’applicazione degli ordinari strumenti di analisi che Salvici offre nel corso della sua trattazione.Un altro argomento degno di trattazione, afferente sempre a quest’ambito, è quello delleimmissioni. Non è dovuto alcun risarcimento – statuisce l’articolo 844 del codice – al proprietario

 per le immissioni provenienti dal fondo vicino a meno che esse non superino la soglia della normaletollerabilità. Una deroga a questo regime è prevista dal secondo comma per il quale il giudice nonconcederà risarcimento alcuno per le immissioni subite dal proprietario, ancorché esuberanti il

limite della normale tollerabilità, qualora ritenga prevalente l’interesse della produzione su quellodella proprietà (altrimenti detto, se decido di abitare sopra una segheria, prevalendo l’interesse diquell’esercizio, nessun risarcimento mi verrà concesso a fronte delle immissioni sonore da mesubite e provenienti da quell’attività). In questa ipotesi sarà, tutt’al più concesso a colui che subiscele immissioni un indennizzo.

● 12.2. Possesso e diritti personali di godimento Salvi risolve il problema della tutela risarcitoria del possesso attraverso un’analogia: è ammessa latutela risarcitoria della proprietà a fronte di altri soggetti che, ingiustificatamente, vantino ilmedesimo diritto su quel bene (o comunque altri diritti reali su quel bene: si legga l’articolo 949),così viene ammessa la tutela risarcitoria del possesso a fronte di attività lesive di tale situazione.L’analogia è ammissibile in quanto, sotto il profilo fattuale, il comportamento del possessore è deltutto identico a quello del (pieno) proprietario.

● 12.3. La tutela aquiliana del credito e del contratto. La cd. perdita di chance Un esempio di attività lesiva dell’altrui diritto patrimoniale è data dal complesso di atti determinantila cd. responsabilità extracontrattuale da contratto: concludo come vettore un contratto di trasportoda un luogo a un altro e, per lo stesso giorno in cui dovrò compiere il trasporto, mi impegno a

 portare un’altra merce in un luogo molto lontano dalla destinazione in cui dovrò fare pervenire lamerce dedotta in oggetto nel primo contratto. Altro esempio: concludo in qualità di venditore uncontratto di compravendita immobiliare con Tizio e, sapendo che quello non trascrive, vendo ilmedesimo immobile a Caio. In ambo i casi sono in malafede. Entrambe le ipotesi sonocaratterizzate dal fatto che mi impegno due volte e so per certo, fin dal momento in cui concludo il

contratto, di non potere espletare almeno uno degli impegni ai quali mi sono vincolato. Non solo:nel secondo caso, la doppia vendita dell’immobile comporta un guadagno non indifferente per me e,contestualmente, una perdita gravissima per Tizio. Il mio comportamento, inoltre, solo è scorrettosotto il profilo della buona fede, ma inammissibile sotto il profilo delle regole disciplinanti ilcontratto di compravendita, non potendo io vendere più di quello di cui sono proprietario: latrascrizione ha un effetto legato alla pubblicità e nulla c’entra con il trasferimento della proprietàche, per effetto del principio consensualistico (articolo 1376 del codice), avviene con il soloconsenso delle parti. Di qui, discende un’obbligazione risarcitoria in capo a me e in capo altresì aCaio, qualora fosse a conoscenza della trama da me ordita.Altro esempio di tutela aquiliana di un diritto patrimoniale può aversi nella seguente ipotesi: uncalciatore dilettante subisce una grave lesione a seguito di un incidente stradale. Non potrà più

giocare. La sua squadra è così costretta a sostituirlo con un giocatore molto meno capace, perdendocosì il campionato e, assieme a quello, discrete somme di denaro (la squadra non potrà più passarealla serie superiore; numerosi sponsor disdicono i contratti che avevano concluso nella speranza che

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la squadra fosse promossa alla categoria superiore, e così via). Il giudice può concedere unrisarcimento alla squadra per la perdita subita? Il caso qui è senz’altro diverso da quello che fuoggetto di esempio parlando del danno alla salute del congiunto, laddove ciò che rilevava era lafrattura di un legame familiare o quantomeno affettivo. La fattispecie or ora esemplificata prescindeda ogni ipotesi di affezione, fondando la propria esistenza esclusivamente su un diritto patrimoniale.Fino a qualche decennio fa era impensabile che un giudice concedesse tutela aquiliana a questo tipo

di diritti. Ciò che oggi, invece, pare ammissibile. Ovviamente lo sarà, ammettendo che la prestazione che forma oggetto della perdita sia infungibile. E così lo era nel nostro esempio delcalciatore (descritto sulla falsa riga della sentenza della Cassazione del 1967: il caso Meroni).Dubbi si hanno sulla perdita di chance. È risarcibile o no? Cogliendo il principio di atipicità si

 potrebbe affermare tranquillamente che l’attività creativa di un giudice può portare alla tutelaaquiliana della perdita di chance. In realtà, secondo Salvi, il discorso è un altro, scontrandosi ilgiudice sempre e comunque con una norma che fonda la propria pronuncia. Ciò che rende dubbiaquesta categoria. Salvi tornerà a parlarne in tema di danno futuro.

● 12.4. L’interesse legittimo Con la Sent.500/1999 viene definitivamente a cadere il principio di inviolabilità della pubblica

amministrazione. Laddove sussista un’attività che sia lesiva o di una pretesa del singolo che sialegittimamente determinata (interesse legittimo pretensivo, che si esercita su un bene della vita dicui l’interessato non è ancora titolare) o dell’attività oppositiva del singolo a un’aggressioneingiustificata di un bene di sua titolarità (interesse legittimo oppositivo), il giudice amministrativo(questo dalla legge 205/2000) può disporre la tutela aquiliana. Permane il problema della

  pregiudizialità dell’annullamento dell’atto lesivo di tale interesse: la Corte costituzionale, neldefinire il riparto di funzioni tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ha stabilito che aquest’ultimo spettano tutte le controversie nascenti dal viziato esercizio di poteri autoritativi delgiudice. La lesione di un interesse legittimo scaturisce da un provvedimento (cioè da un tipico attoautoritativo della pubblica amministrazione) che è di per sé viziato. Cioè illegittimo. Rimane dadomandarsi (e il problema è aperto) se occorra o meno l’annullamento dell’atto illegittimo primadella disposizione, da parte del giudice, della tutela aquiliana per lesione dell’interesse.

● 13. La responsabilità dei pubblici poteri e l’ingiustizia del danno L’articolo 28 della Costituzione afferma che i dirigenti e i funzionari dello Stato e degli enti

  pubblici rispondono secondo le leggi civili, penali e amministrative per atti lesivi di dirittisoggettivi, e che la responsabilità civile, in questi casi, si estende allo Stato o all’ente pubblico diappartenenza.Ciò ha fatto sì che si considerasse il rapporto tra l’amministrazione e il suo dipendente alla streguadi quello definito dall’articolo 2049 del codice (rapporto tra padroni e servi; tra committenti edipendenti. Si vedrà poi meglio la terminologia). In tal modo l’amministrazione risponderebbe per ildipendente che, nell’esercizio delle proprie incombenze, avrebbe cagionato il danno.Salvi sottolinea, infine, il tema dell’ingiustizia del danno provocato da provvedimento ancora nonannullato: detta situazione viene a verificarsi, ad esempio, nel momento in cui il giudiceamministrativo disponga il rimedio aquiliano per un soggetto leso nel proprio interesse legittimo daun provvedimento non ancora annullato. E ciò è frequente, dato il periodo di grande confusione chesi sta vivendo, non essendo ancora stata adottata una soluzione univocamente determinata a talequestione.

● 13.1. La responsabilità civile da attività legislativa Fra le forme in cui può concretizzarsi la responsabilità dei pubblici poteri vi è quella discendente daun’attività legislativa che non rispetti determinati canoni. Il punto è stabilire quali essi siano. Il

 problema si è posto per la prima volta all’inizio degli anni Novanta a livello comunitario: si ricordila sentenza Francovic (1991) della Corte di giustizia della Comunità europea. Si afferma in tale

 pronuncia la responsabilità dello Stato che non adotta misure attuative di direttive creanti diritti (oquantomeno situazioni favorevoli) in capo ai singoli, privando questi della possibilità di goderne. Inaltri termini, la Comunità europea sanziona lo Stato perché pone in essere o mantiene un corpo di

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leggi contrario ai principi del diritto comunitario. Un corpo di leggi che è ostativo del pienoesercizio dei diritti di cui i consociati sono titolari. È dunque il contrasto tra la legge, fonte primaria,e la normazione comunitaria, fonte di rango intermedio tra la Costituzione e gli atti aventi forza dilegge, che determina il risarcimento. Dunque è possibile affermare che la responsabilità civile daattività legislativa trova la propria giustificazione nel principio della gerarchia delle fonti produttivedel diritto. Ciò che fa sì che la tutela aquiliana possa essere disposta nell’ipotesi di contrasto tra una

legge e una norma costituzionale (sicché la prima non attua il principio espresso nella seconda) o trauna legge e una norma contenuta in un trattato equiparabile, per la materia trattata, a una normacomunitaria o a una norma costituzionale (si pensi alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del1948).

● 13.2. La responsabilità dello Stato per l’attività giudiziaria Salvi ascrive a questa fattispecie tre ipotesi:

a. la cd. responsabilità civile del magistrato (il riferimento normativo è la legge 117/1988) b. la responsabilità dello Stato per ingiusta detenzione (il riferimento normativo è all’articolo

315 del codice penale, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale)c. la responsabilità dello Stato per irragionevole durata dei processi (il riferimento normativo è

alla cd. legge Pinto, la n.89/2001, che accoglie il principio espresso dall’articolo 6, CEDU edal nuovo articolo 111 della Costituzione).Vediamole nel dettaglio.

a. la cd. responsabilità civile del magistrato: la legge 117/1988 afferma, all’articolo 12, che ilmagistrato risponde in via autonoma ed esclusiva qualora la sua attività illecita integri unreato. Al di là di questa ipotesi, la legge ne enuncia altre in cui è lo Stato a rispondere,avendo però un’azione di regresso nei confronti del magistrato. L’articolo 2 afferma laresponsabilità dello Stato (con regresso) nel caso in cui il magistrato agisca con dolo o colpagrave, significando questa ultima locuzione (“colpa grave”) che il magistrato ha negato fattiche risultano lampanti dagli atti del procedimento o, viceversa, ha dichiarato esistenti fatti dicui non compare traccia, esaminando gli atti del procedimento. Colpa grave può altresìindicare, in via più generale, negligenza inescusabile. Altro caso che attiva un simile regimedi responsabilità è quello dell’articolo 3: il diniego di giustizia, laddove il magistrato ometteo ritarda nel compiere gli atti propri del suo ufficio. In tali casi lo Stato può esercitare entroun anno la propria azione di regresso; c’è, però, un limite nel quantum del regresso, fissato aun terzo dello stipendio annuale del magistrato.

 b. la responsabilità dello Stato per ingiusta detenzione: secondo l’articolo 315, c.p.p. colui cheha subito un periodo di custodia cautelare ma che è stato prosciolto con sentenza passata ingiudicato ha diritto a una riparazione per il periodo trascorso in carcere. La Cortecostituzionale ha fatto di questa norma un principio generale applicabile in ogni caso diingiusta detenzione (dunque, anche al di là della custodia cautelare)

c. la responsabilità dello Stato per irragionevole durata dei processi: un processo civile inItalia dura in media otto anni. Ciò ha portato la Comunità europea a sanzionare più volte

l’Italia che, per rimediare, ha legiferato in merito fissando una serie di regole tali da limitarela durata dei processi, al fine di limitarla entro i canoni espressi dalla Comunità europea(art.6, CEDU). In caso di danno derivato dal superamento di detti limiti, lo Stato èresponsabile e, perciò stesso, deve risarcire il soggetto leso.

● 14. c) diritti o interessi collettivi. Profili generali Rimane da esaminare la fattispecie in cui soggetti lesi siano delle collettività. Bisognerà distinguerel’ipotesi in cui dette collettività siano entificate, ossia i soggetti che vi appartengono siano raccoltiin enti, e l’ipotesi in cui ciò non sia. Questa ultima è la fattispecie del cd. danno di massa.

● 14.1. Il danno non patrimoniale a soggetti collettivi 

Affermare che il danno non patrimoniale coincide con il danno morale-soggettivo comporta  problemi non indifferenti per i soggetti collettivi: come può, ad esempio, dirsi che un partito politico soffre per le dichiarazioni diffamanti di un membro dissenziente rispetto alla politica dei

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vertici? Ecco, allora, che emerge come questa non sia una definizione adeguata. L’ente collettivo è,sì, un complesso di persone ma si distingue dalle stesse solo perché ha un patrimonio distintorispetto al loro. È configurabile, quindi, un danno patrimoniale all’ente collettivo nei termini di

 perdita economica. Il problema riguarda solo il danno non patrimoniale. A lungo si è ritenuta chel’unica ipotesi possibile fosse quella dell’articolo 185 del codice penale: il danno da reato; ciò che

 permetteva agli enti medesimi di aprire nel processo penale una parentesi civile attraverso la loro

costituzione come parte civile. Il nuovo codice di procedura penale, poi, ha introdotto una nuovafigura nel processo: l’ente esponenziale (articoli 91 e seguenti): si tratta di un soggetto collettivoche rappresenta un particolare interesse che è stato leso dal soggetto attivo del reato. Si pensi a unreato di piromania per cui parteciperà al giudizio, nella persona del Presidente (art.94,c.p.p.), unente a tutela dell’ambiente. Leggendo le norme del codice sembra ben chiara la distinzione tra partecivile ed ente esponenziale. Da un lato, il danneggiato diretto dal reato, dall’altro un soggetto cherappresenta un interesse diffuso leso dalla condotta del soggetto attivo. In altri termini, diverso è ilcaso di un soggetto che offenda con calci, pugni e minacce il membro di un partito politico, per cuiquesto si costituisce parte civile nel processo a carico dell’autore delle lesioni e delle minacce, daquello dell’ente ambientalista che partecipa al processo contro il piromane. Nella prassi, tuttavia, ladistinzione sfuma. In molti casi l’ente vuole partecipare come parte civile, dilatandosi così il

confine tra le due figure (parte civile ed ente esponenziale) a causa della definizione di vincoli tral’ente medesimo e il fatto di reato che talora appaiono come creativi o, quantomeno, forzati.Ma, al di là di questo problema che rimane aperto, non si è ancora definito il danno non

 patrimoniale per gli enti collettivi: qualcuno ha affermato che il perturbamento psichico è per imembri dell’ente (nell’esempio fatto poc’anzi, per gli iscritti al partito che, uniti da stima all’offeso,

 provano dolore, sgomento e indignazione per le lesioni da lui subite) e non per l’ente medesimo chenon può provare dolore. Questa definizione, che piace a molti, non piace a Salvi in quanto, a suodire, si ricadrebbe nell’errore di definire il danno non patrimoniale esclusivamente come dannomorale-soggettivo e, quindi, nella forzatura di volere a tutti costi tracciare un parallelismo tra leripercussioni sul piano economico, tipiche del danno patrimoniale, e quelle sul piano psicologico,tipiche del danno non patrimoniale. A tal proposito la Cassazione si è pronunciata in un tentativo didefinizione più generale, affermando che il danno non patrimoniale nei soggetti collettivi portatoridi interessi diffusi si ha a seguito di lesioni di interessi legati allo statuto dell’ente stesso che non siripercuotano in conseguenze di tipo economico. Si parla, in quella sentenza (sent.4759/1993), dilesione di diritti personali legati a interessi “storicamente” e “topograficamente” individuati dallostatuto dell’ente, sicché la lesione si avrebbe per la violazione di quell’interesse che l’ente fa

 proprio e sul quale fonda la propria identità.Quello che emerge, poi, dall’analisi di tali questioni è che è sufficiente un interesse rispetto al fattodi reato e al bene giuridico offeso per la partecipazione al processo. Ciò che significa che cade latesi del danno come lesione di diritti soggettivi. E lo testimonia la disciplina degli articoli 91 eseguenti, laddove si ammette che partecipi al processo penale, in qualità di parte privata, a fiancodella parte civile, un soggetto (sia pure distinto da essa) che è legato all’offeso (o a chi per lui) soloda un vincolo di mero interesse.

● 14.2. La lesione di interessi diffusi. Il danno di massa Si tratta dell’ipotesi in cui una comunità sia affranta da un fatto lesivo di situazioni protette. Dettacomunità non si identifica in un soggetto entificato, sicché il danno da essa patito è in realtàconsiderabile come una pluralità di danni individuali, tanti quanti sono i soggetti facenti parte diessa. Ecco perché non si tornerà, in questa sede, sulle considerazioni già svolte circa il giudizio diresponsabilità e la struttura dell’illecito: dette considerazioni continuano a valere. Resta dacomprendere quali soluzioni siano adottabili a fronte del danno di massa. Ossia, come vienestrutturato il processo? Contro di chi è possibile agire? Negli Stati Uniti esiste il rimedio della classaction: per ottimizzare l’impiego degli strumenti processuali, si riuniscono le vittime del danno che

 presentino le medesime caratteristiche e le medesime esigenze all’interno di una classe di soggetti

lesi. Essa agisce in processo e il giudicato produce effetti anche per i membri della classe che non prendono parte al processo (che, nella prassi, sono i più). Secondo Salvi questa tecnica non hafuturo in Italia. Sempre negli Stati Uniti, nel caso di danno di massa provocato da più cause

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concomitanti tra loro, si utilizza un giudizio probabilistico, domandandosi per ognuna di quelleconcause quale sia la probabilità che essa realizzi un fatto come quello determinatosi storicamente.Per Salvi questa è una soluzione più interessante dell’applicazione del rimedio delle class action.

● 14.3. Il danno all’ambiente Un classico esempio di danno di massa è il danno ambientale: si pensi al caso dell’industria che

opera con materiali tossici che si diffondono nell’aria e nelle acque a seguito di un’esplosione. Nerisulta colpita tutta la comunità circostante. Per tale ragione il legittimato attivo è lo Stato. Possonoagire in giudizio altresì gli enti territoriali di quella zona. Altri legittimati sono i soggetti, privati,che hanno subito danni individuali dal fatto. Ricadendosi, così, nella fattispecie descritta al §

 precedente (questa tecnica di definizione dei legittimati attivi è stata utilizzata dalla Cassazione nelcaso “ICMESA – Seveso”, 2002).

Capitolo III. L'imputazione della responsabilità.● 1. Colpa e responsabilità oggettiva. Il sistema delle imputazioni della responsabilità 

L’articolo 2043 richiama la nozione di fatto proprio: un soggetto viene punito per un fatto da luicompiuto, non importa se sia doloso o colposo, purché sia cagionevole di un danno ingiusto.Eppure, scorrendo le norme del titolo IX, è possibile incontrare fattispecie costituenti una vera e

 propria deroga rispetto a tale previsione. Gli articoli 2047, 2048 e 2049, infatti, definiscono ipotesidi responsabilità per fatto altrui: per il fatto, rispettivamente, dell’incapace sottoposto allasorveglianza di altro soggetto, del minore e del domestico. Nelle prime due ipotesi, peraltro, èammessa l’esenzione da responsabilità del sorvegliante, del genitore o del precettore, qualoradimostrino di non avere potuto impedire il fatto. Gli articoli 2050 e 2054, nel primo e nel terzocomma, introducono la fattispecie della responsabilità per attività pericolosa (con riferimento,all’articolo 2054, alla conduzione di veicoli che non si muovono su guida di rotaia: essi possonoessere condotti da soggetto presunto responsabile in forza della disposizione del primo comma, o daaltro soggetto come afferma, invece, il terzo comma). Anche in questi casi è ammessa la provaliberatoria: è esente da responsabilità colui che svolge le attività di cui all’articolo 2050 se dimostradi non avere potuto impedire il danno o colui che guida un veicolo di sua proprietà se dà lamedesima dimostrazione; è esente da responsabilità il proprietario del veicolo che, nel caso di cui alterzo comma dell’articolo 2054, dimostri di non avere acconsentito a che altri guidassero la vetturain questione. Gli articoli 2051, 2052, 2053 e 2054, quarto comma, definiscono altre ipotesi

 particolari di responsabilità: il danno cagionato da cosa in custodia (2051), da animale (2052), darovina di edifici (2053) o da vizio del veicolo di proprietà (2054, quarto comma). Come coniugare,allora, tutte queste fattispecie – in parte ereditate da altri ordinamenti giuridici (si pensi all’articolo1384 del codice civile francese), in parte desunte dalla prassi – con il principio della responsabilità

 per fatto proprio? La dottrina ha tentato più volte di rispondere; in particolare, tre sono le teorie chenel tempo si sono susseguite e che, a tutt’oggi, si scontrano tra loro:

a. la teoria della colpa come principio generale b. la teoria del bipolarismo colpa-responsabilità oggettivac. la teoria della pluralità dei criteri di imputazione del danno

Cerchiamo di analizzarle una per una.

● 1.1. La tesi della colpa come principio generale Originariamente si concepiva come paradigma generale quello della colpa, sicché tutte le altremanifestazioni di responsabilità che fossero estranee al rapporto psicologico instaurantesi tra fatto eautore, venivano ad assumere il valore di eccezione o, quantomeno, di casi estranei alla regola, bendeterminati e tipici nella loro anormalità. Ci si fondava, quindi, sulla regola del “fatto doloso ocolposo” che avrebbe cagionato ad altri danno ingiusto. Tutto il resto avrebbe rappresentato

un’eccezione.Questa eccessiva generalizzazione a Salvi non piace: non è possibile, a suo avviso, concepire ilsistema unicamente in termini di colpa. Non si capisce, infatti, in che cosa il principio della colpa

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debba essere più tipico e più regolare del principio del rischio. Inoltre non è possibile leggerel’intero sistema della responsabilità civile, almeno in via immediata, attraverso la colpa: qual è lacolpa, infatti, del soggetto che svolge attività pericolosa da cui, ad esempio, in ragione di un dannodi fabbricazione, scaturisce la conseguenza dannosa. Certo, forse applicando l’equivalenza colpa-rimproverabilità potremmo rispondere che la sua colpa è stata quella di non provvedere alla regolaremanutenzione del macchinario. Ma è senz’altro questa una risposta che non accontenta tutti,

 potendosi generare il danno anche a seguito di una regolare manutenzione o per dimenticanza delmanutentore medesimo o di altro soggetto che non è sicurmaente facile andare a ritrovare. Inoltre per Salvi (v. §4) la colpa non è tanto rimproverabilità quanto dissonanza rispetto a uno schemanormativo di comportamento, sicché il comportamento concretamente tenuto nel fatto storicodiverge da quello previsto dalla fattispecie astratta. E così sembra oggi ragionare la dottrinamaggioritaria, per cui la colpa non può affatto assurgere a criterio generale esplicativo di tutto ilsistema della responsabilità civile.

● 1.2. La tesi della colpa come sistema bipolare Il sistema della responsabilità civile può essere letto in un’ottica di bipolarismo colpa-rischio.L’esempio fatto sopra può facilmente essere spiegato in termini di rischio. E la definizione di

rischio, essere data, tenendo conto dell’evoluzione della nozione di danno ingiusto e dicolpevolezza: si ricordi quanto detto, introducendo storicamente la materia: si passa da un’idea dicolpevolezza individuale a un’idea di colpevolezza sociale che fa propri i canonidell’industrializzazione. Una società che si fonda su una nozione dinamica di patrimonio, al centrodella quale c’è il continuo flusso di capitali che è proprio delle esperienze economichecontemporanee. Ecco allora che la nozione di rischio non può essere considerata senza tenere inconto l’elemento economico. Piace a Salvi la tesi di un giurista statunitense – Calabrese – che,riprendendo la tesi solidarista dell’illecito civile (secondo la quale il risarcimento è la miglioretecnica di socializzazione del rischio in una prospettiva di solidarietà sociale e, dunque, diredistribuzione delle armi in un conflitto che nasce come intrinsecamente squilibrato a favore dicategorie più forti), afferma che nelle ipotesi di cd. responsabilità oggettiva – dunque, quelle cheabbiamo classificato come responsabilità per fatto non proprio – risponde il soggetto che, per le

 proprie condizioni, può rispondere evitando sul proprio patrimonio le pesanti ripercussioni che siavrebbero sul patrimonio del soggetto che ha subito il danno: altrimenti detto, visto l’eventodannoso come foriero di conseguenze negative per il danneggiato, attraverso il risarcimento si tende

 – in tutti i casi – a riportare l’equilibrio, e lo si fa accollando l’obbligazione risarcitoria al soggettoche ha gli strumenti per farlo e per evitare ulteriori ripercussioni negative, in primo luogo, su coluiche ha subito il danno, e in secondo luogo, sulla società tutta che, in via mediata, è risultatadanneggiata dalle perdite del danneggiato. È in questa prospettiva, quindi, che per Salvi dovrebbeessere letto il rischio. Ciò posto, però, è giusto notare come le fattispecie della responsabilità per fatto non proprio siano comunque eterogenee tra di loro, accomunate, come sono, solamente dalfatto di contrapporsi al sistema della responsabilità per fatto proprio. Solo in questo si sostanzia il

 bipolarismo di cui parlano le teorie della colpa come sistema bipolare.

● 1.3. La tesi della pluralità dei criteri di imputazione Salvi abbraccia la visione di questa terza scuola, che afferma l’esistenza di una pluralità di sistemidel rischio. Data l’impossibilità di ricondurli a un paradigma unitario, infatti, è più correttoconcepire le varie ipotesi di cui agli articoli 2047-2054 come sistemi a sé stanti, connotati ognunoda particolarità proprie. Quel che occorre tenere a mente, è la nozione di rischio come la abbiamodescritta sopra, in un’ottica di solidarismo economico. La critica principale a questa visione delsistema di responsabilità civile è che appare non già come un ragionamento capace di spiegare inche cosa consistano i criteri di imputazione che fanno parte del sistema di responsabilità civile,come essi interagiscano tra loro e quali siano i rapporti con la normativa costituzionale e con le altre

 branche del codice civile, ma come una mera descrizione di norme giuridiche. Quindi, forse, non è

del tutto risolutivo, rimanendo comunque aperto un problema, e cioè che cosa accomuni lefattispecie di responsabilità per fatto non proprio oltre all’opposizione al sistema della colpa. Sismembrerebbe, quindi, il sistema dell’articolo 2043 in maniera del tutto artificiosa: in realtà, obietta

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Salvi, la questione centrale riguarda ancora una volta le funzioni dell’obbligazione risarcitoria incapo a colui che pone in essere il fatto illecito. Funzioni che, con le complicazioni intrinseche dellasocietà odierna, vanno proliferando. Ed è per questo che occorre leggere sempre con più attenzionele norme della responsabilità per fatto non proprio e considerarle ciascuna come il vertice di unautonomo sistema di imputazione della responsabilità. Sul punto, comunque, Salvi ritornaconsiderando ciascuna delle ipotesi di cui si è fatto cenno.

● 2. Colpevolezza e imputabilità. La responsabilità dell’incapace Prima di passare all’analisi delle norme concernenti la responsabilità per fatto non proprio, occorrericordare alcuni concetti, peraltro propri della scienza penale. In particolare, quelli di colpevolezza edi imputabilità.L’articolo 85 del codice penale afferma che non è imputabile colui che non è capace di intendere edi volere: la capacità di intendere e di volere è l’attitudine a relazionarsi con il mondo esterno(intendere) e di adottare decisioni prorpie relative ai fenomeni così percepiti (volere). Il medesimoconcetto sembra essere adottato dal diritto civile nel momento in cui si escluda la responsabilità, per le conseguenze dannose del fatto, per il soggetto che era incapace di intendere e di volere almomento in cui il fatto fu commesso, a meno che l’incapacità non derivi da sua colpa (articolo 2046

del codice civile). Torna un’altra nozione del diritto penale: l’incapacità derivata da colpa. Siconfrontino gli articoli da 91 a 95 del codice penale, laddove si tratta dell’incapacità derivatadall’assunzione di sostanze alcooliche o stupefacenti. Così, colui che prima si ubriaca con gli amicie poi, montato in sella al suo motorino, rovina contro la vetrina di un negozio, dovrà rispondere deidanni causati. A differenza di quel che accade in diritto penale, però, nella disciplina dell’illecitocivile la valutazione della capacità di intendere e di volere è rimessa sempre al giudice. Altrimentidetto, se in diritto penale si assume, per dato legislativo, che il minore infraquattordicenne è sempreincapace e che il soggetto maggiorenne, a meno di devianze psichiche, è capace di intendere e divolere, rimessa la valutazione discrezionale del giudice solo ai soggetti di età compresa tra iquattordici e i diciotto anni, nel diritto civile così non è. La Corte di Cassazione, nel giugno 2001,ha specificamente affermato che è compito precipuo del giudice valutare la capacità di intendere edi volere, tenendo conto delle sue condizioni fisiche e mentali. Quella del giudice, relativamenteall’incapace, è sempre una valutazione riferita alla colpevolezza: il giudice, infatti, deve assicurarsisempre che il soggetto abbia voluto e si sia rappresentato il fatto (dolo) o sia stato negligente(colpa). Se, infatti, così non fosse, si avrebbe un paradosso. L’articolo 2047, al primo comma,imputa il risarcimento del danno cagionato dall’incapace al soggetto che era tenuto a sorvegliarlo, ameno che questi non dimostri di non avere potuto impedire il fatto. Se il giudice non valutasse la(eventuale) colpevolezza del comportamento dell’incapace, condannerebbe al risarcimento ilsorvegliante anche per fatti dell’incapace che colpevoli non sono e che non gli sarebbero imputabiliqualora non fosse, appunto, incapace.In altri Paesi sono state adottate soluzioni differenti: nei sistemi di common law la giurisprudenza hadefinito degli standards di comportamento del minorenne, sicché è colpevole il comportamentotenuto dal minorenne che sia contrastante rispetto a questi standards. In diversi Paesi, poi, il danno

dell’infermo di mente è equiparato al danno commesso dal soggetto capace di intendere e di volere(è così in Germania, per esempio). Lo scopo è quello di responsabilizzare l’infermo,considerandolo, nel bene e nel male, una persona normale. Per completezza, si ricorda come anchein Italia certa dottrina (Cendon) auspicasse un mutamento dell’articolo 2046 in questo senso.L’articolo 2047 consta anche di un secondo comma: qualora il danneggiato non sia stato soddisfattodal soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace, il giudice potrà, valutate le condizionieconomiche delle parti, condannare l’autore del danno al pagamento di un’equa indennità. Dueconsiderazioni paiono obbligatorie: innanzitutto, si noti come il legislatore tenga conto dellecondizioni economiche dell’attore e del convenuto, riducendo, nell’ipotesi di indigenza dell’autore,il quantum del risarcimento rispetto alle previsioni degli articoli 2056 e 2059. Inoltre – e su questoSalvi non si sofferma – il legislatore parla non di risarcimento ma di indennità. Esattamente come

nella disciplina dello stato di necessità (articolo 2045). Ciò che potrebbe significare unallontanamento dall’archetipo dell’articolo 2043, dallo schema, cioè, dell’evento lesivodeterminante conseguenze connotate di ingiustizia e imputabili all’autore nella maniera che

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abbiamo visto. Non era possibile applicare questo paradigma nel caso dell’articolo 2045 perchél’autore non determina, né può evitare il pericolo per salvare sé o altri dal quale cagionerà il danno.

 Nella disciplina dell’incapace lo schema dell’articolo 2043 non è applicabile proprio perché ilsoggetto è incapace. E questo sarebbe ancor più dimostrato dal fatto che, per espressione legislativa,ci si allontana dall’applicazione dei criteri di liquidazione previsti dal codice e dalle normativespeciali per il danno patrimoniale e per il danno non patrimoniale. Salvi, per contro, sembra

accomunare la previsione dell’indennità dell’articolo 2047 all’idea di risarcimento di cui all’articolo2043, facendo leva sulla generale funzione riparatoria dei due istituti.

● 3. Il dolo Il diritto civile accoglie la nozione di dolo prevista dal codice penale (all’articolo 43, primo comma,

 primo periodo). Il dolo, dunque, è volontà e rappresentazione. Certo, vale in diritto civile il principio dell’equivalenza tra dolo e colpa, sicché, indipendentemente dal dolo o dalla colpa, nonmuta né l’an, né il quantum di responsabilità. Non certo come nel diritto dei delitti in cui vale il

 principio per cui il delitto è punito solo se l’autore agisce con dolo, salve espresse previsioni dellegislatore (come quella dell’articolo 590, sulle lesioni colpose).Solitamente si fa coincidere il dolo dell’illecito civile con il dolo generico dell’illecito penale.

L’equivalenza è corretta fino a un certo punto: ci sono casi, infatti, in cui il dolo è affiancato allacolpa grave, sicché c’è responsabilità in quanto sussiste questo particolare nesso di colpevolezza trafatto e autore (si ricordi l’articolo 2 della legge 117/1988) e casi in cui è richiesto un particolareanimus nel porre in essere il fatto doloso: si pensi all’articolo 833 del codice, laddove si richiedel’animus nocendi  per il compimento degli atti emulativi. E quest’ultimo esempio torna utile nelcomprendere quale sia il ruolo del dolo nel procedimento valutativo-comparativo che porta alladefinizione dell’obbligazione risarcitoria in capo al danneggiante: nel caso degli atti emulativi,infatti, presente il dolo di cui si diceva, viene richiesto dall’ordinamento il risarcimento per attivitàche, senza il dolo, costituirebbero l’esercizio di un diritto: nella fattispecie, del diritto di proprietà.Quindi il dolo può alterare gli equilibri tra consociati, mutando così la valutazione circa la

 prevalenza dell’interesse dell’uno o dell’altro, arrivandosi a dichiarare soccombenti interessi chenon lo sarebbero in quanto esercizio di un diritto normativamente previsto.

● 4. La colpa Anche per quello che riguarda la nozione di colpa il diritto civile accoglie la definizione del codice

  penale (articolo 43, primo comma, terzo capoverso). Colpa è la negligenza, l’imprudenza,l’imperizia, l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline. Questa nozione, come già si èavuto modo di anticipare, deve essere concepita non in termini di rimproverabilità, bensì in terminidi divergenza del comportamento concretamente tenuto dall’attore rispetto a un paradigmacomportamentale normativamente previsto. O meglio: rispetto a un paradigma comportamentale

 previsto da norme espresse, nell’ipotesi della colpa specifica o propria (quella del medico, adesempio, che non può derogare alle norme – espresse – della deontologia professionale), o da normenon espresse ma comunque riconosciute dalla totalità dei consociati, nel caso della colpa generica.Alla luce di questo ragionamento, bisogna considerare la distinzione tra colpa in astratto e colpa inconcreto; quest’ultima si riferirebbe alla colpa propria di taluni soggetti che, per caratteristiche

 proprie, si distinguono dalla media dei consociati: tali caratteristiche possono essere fisiche (si pensiagli invalidi), psichiche (si pensi al discorso che si faceva poc’anzi circa gli standardscomportamentali dei minorenni nel diritto anglo-americano) o relative alle attività professionalisvolte (si pensi al caso del medico). Per questi soggetti è richiesto un grado di diligenza diverso daquello del buon padre di famiglia (cioè la cosiddetta diligenza media richiesta dall’accezioneastratta della colpa): altrimenti detto, il grado di diligenza richiesto al medico sarà di moltosuperiore alla media; così non ci si potrà aspettare che un invalido compia le medesime azioni di unsoggetto deambulante. Gli appartenenti a tali categorie verranno quindi confrontati con il soggettomedio fra gli appartenenti alle stesse (è il criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis,

elaborato dalla scienza penale).Il concetto di colpa può, infine, essere graduato, passandosi da una colpa lievissima a una colpagrave, a seconda del tipo di divergenza del comportamento concreto rispetto al paradigma

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normativo. In realtà il più delle volte non interessa il grado di colpa, a meno che l’autore non ricadanella colpa grave (si pensi al magistrato: ex articolo 2 della legge 117/1988, colpa grave è lanegligenza inescusabile o il fatto di avere dichiarato l’esistenza di fatti nonostante dagli atti

 processuali risulti il contrario, e viceversa). La colpa grave, come si è ricordato poco più sopra, èquasi sempre affiancata al dolo.

4.1. La colpa omissiva Lo svolgimento di ogni attività presuppone che vengano adottate determinate precauzioni: ilguidatore deve, ad esempio, accertarsi che i passeggeri allaccino le cinture (pena, ad esempio, la

 perdita di diversi punti sulla patente). Questa riflessione porta a parlare di una particolare tipologiadi colpa, quella omissiva. Salvi richiama i concetti tipici del diritto penale, in primis quello diobbligo di garanzia: determinati soggetti sono titolari dell’obbligo giuridico di tutelare i beni disoggetti che non sono in grado di farlo in via autonoma. Quest’obbligo può instaurarsi in forza diuna previsione normativa o, secondo la dottrina maggioritaria, anche per effetto del semplicecontatto tra individui. Nel momento in cui una previsione normativa ascriva a un soggetto latitolarità dell’obbligo di garanzia entra in funzione la cd. clausola di equivalenza dell’articolo 40,comma 2, del codice penale: non impedire un fatto che si aveva l’obbligo di impedire equivale a

cagionarlo. Così, ad esempio, la baby sitter che non si accorge che il bambino si sta strozzando conal cena sarà responsabile di omicidio colposo in forza del combinato disposto tra gli artt.40.2 e 590,c.p. Ed è questo ciò che in diritto penale si chiama omissione impropria (o commissione medianteomissione). Nel momento in cui non preesista, in forza di una disposizione espressa, la titolaritàdell’obbligo giuridico in capo a un soggetto ma questa si instauri per effetto del contatto traindividui, allora si parlerà di omissione propria: il caso tipico è quello dell’articolo 593 del codice

 penale. L’ipotesi è quella dell’omissione di soccorso (Tizio, in automobile, viaggia sull’autostrada,scorge a lato della carreggiata un’altra automobile ferma all’interno della quale c’è un uomoimmobile. Tizio non si cura di fermarsi, né chiama la Pubblica Autorità). Tutte queste riflessioni,dice Salvi, si applicano al discorso della colpa omissiva nell’illecito civile. Più in generale puòrichiamarsi la nozione di colpa di cui sopra: la divergenza tra uno schema comportamentalenormativamente previsto e il comportamento tenuto in concreto da quel soggetto. Qui la divergenzasi determina in forza di un’omissione, che non deve leggersi come semplice mancata attivazione,

 bensì come inerzia di fronte a una situazione nella quale l’ordinamento prevede una qualche formadi attivazione.

● 5. Il danno da cose Secondo l’articolo 2051 chiunque è responsabile del danno cagionato da cosa in custodia, salvo ilcaso fortuito. Salvi si interroga in primo luogo su come debba intendersi il danno cagionato da cosa:in altri termini, è opportuno distinguere tra il danno da cosa e il danno da persona? Secondo Salvi,sì! La norma in oggetto non definisce alcuna delle qualità della cosa. È chiaro, però, che la cosaabbia in sé una propria funzione alla quale è predeterminata. Un primo dato – che distingue il dannoda cosa dal danno da uomo – è che le conseguenze lesive vengono a prodursi nell’ambitodell’ordinario ciclo di esistenza di quella cosa. Il secondo requisito, poi, indispensabile per nonconfondere il danno da cosa con il danno da persona, è che nel ciclo di esistenza della cosa non sifrapponga l’azione di un essere umano. Altrimenti detto, affinché possa applicarsi l’articolo 2051, ildanno può aversi a seguito dell’intervento di un qualunque fattore che, però, non sia riconducibilealla persona umana. Deve sussistere, quindi, quel “dinamismo” di cui parla Salvi e che collega lacosa al danno. Dinamismo che, poi, altro non è che il nesso causale tra la cosa e il danno prodottoda essa. Ecco un caso che può esemplificare quanto detto sin qui: Tizio utilizza un macchinario;nell’ordinario impiego dello stesso, un pezzo si stacca dal corpo dell’attrezzo scagliandosi sullagamba di Caio che viene, così, ferito. Tizio è estraneo alla causazione del danno che si è prodotto aseguito di un fattore che ha inciso sull’ordinario funzionamento del macchinario. Altra questione èse Tizio rientri nella descrizione del soggetto attivo dell’articolo 2051. Da una lettura della norma

 potrebbe emergere che responsabile è colui che è proprietario della cosa o che ne ha la custodia atitolo di depositario, statuendo il codice che fra gli obblighi di questa fra le parti del contratto dideposito vi è quello della custodia del bene depositato. In realtà Salvi opta per un’interpretazione

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estensiva, affermando che risponde ex articolo 2051, stanti i presupposti di cui si è detto, colui cheha il governo, ossia la signoria di fatto, sulla cosa. Nel momento in cui i requisiti di cui si è dettovengano disattesi, l’autore risponderà ex articolo 2043 e non già ex articolo 2051. Così nel caso, adesempio, dell’idraulico che utilizza il pezzo di tubo nella sua cassetta degli attrezzi per percuotereun Tizio che gli aveva rivolto una battuta poco simpatica (in tale caso manca il requisito della

  proporzionalità, dunque non si applica l’articolo 2044), o nell’ipotesi della domestica che,

maldestralmente, mentre pulisce il davanzale della finestra, spinge il vaso di fiori di sotto, colpendoun passante. In ambo i casi, le uomo è intervenuto sulla cosa, sottraendola alla propria finalità egenerando, per mezzo di essa, il danno. Pur essendo in entrambe le ipotesi colui che commettel’illecito colui che ha la signoria di fatto sulla cosa, si tratta di danni di persona e non certo di dannida cosa.

● 5.1. Le figure speciali: il danno cagionato dall’animale, dalla rovina dell’edificio, dal vizio del veicolo 

L’articolo 2052 afferma che il proprietario dell’animale risponde per i danni cagionati da questo(tipico è il caso del cane che azzanna i polpacci del passante). Alternativamente (la congiunzione odi cui alla norma in oggetto ha valore disgiuntivo) può rispondere colui che si è servito dell’animale

 per il periodo in cui l’ha avuto in uso. Così, se Tizio presta il proprio cane a Caio affinché questi lo porti a una gara canina e, lì, il cane aggredisce uno dei giurati, risponderà Caio alternativamente aTizio. La responsabilità ex articolo 2052 sorge sia nel caso in cui l’animale sia sotto custodia, sia incaso di smarrimento dello stesso, sia in caso di sua fuga. Salvi nota, infine, l’importanza di questanorma nelle società preindustriali, laddove l’animale era considerato di fondamentale importanza

 per lo svolgimento delle attività quotidiane.L’articolo 2053 enuncia la responsabilità per il proprietario di immobili o di costruzioni simili incaso di sua rovina. La Cassazione ha ritenuto applicabile questa norma anche nel caso di rovina di

 pezzi di edificio: tipico è il caso del pezzo di cornicione che rovina sul passante. In questo casorisponderà l’amministratore del condominio (si legga, a tal proposito, anche l’articolo 1131).L’articolo 2054, quarto comma, determina nella persona del proprietario del veicolo (obbligato insolido con il conducente) il responsabile dei danni causati dal vizio di costruzione o dal difetto dimanutenzione del veicolo stesso.L’articolo 2052 ammette l’esenzione dalla responsabilità del proprietario dell’animale (o di chi per lui) nell’ipotesi del caso fortuito. Questa previsione non è contenuta nell’articolo 2053, laddove il

 proprietario dell’edificio è fatto esente dal risarcimento nell’ipotesi in cui il danno non derivi davizio di costruzione o da difetto di manutenzione della costruzione. In realtà, sottolinea Salvi, sitratta di una fattispecie tranquillamente riconducibile al caso fortuito: se – ma lo si approfondiràmeglio – il caso fortuito è un fattore che incide sul nesso causale indipendentemente dalla condottadel soggetto, visto il limite intrinseco al diritto di proprietà che risiede nell’evitare che il liberogodimento della cosa si traduca nella lesione all’altrui interesse (ciò da cui discende l’obbligoinespresso da norme di manutenere il bene o, comunque, di mantenerlo in condizioni tali da

 permettere il rispetto del neminem laedere), il caso fortuito, nella fattispecie in oggetto, altro non è

che l’evento indipendente da una condotta lesiva del neminem laedere del proprietario. Che, si èvisto, coincide, in fatto di proprietà immobiliare, con il mantenimento del bene in condizioniadeguate. Sul punto, comunque, si ritornerà, anche per meglio esplicare le differenze tra casofortuito e assenza di colpa. Sul piano probatorio, non si può non notare la differente formulazionedell’articolo 2054, da cui si desume che sarà il danneggiato a dovere provare che il danno deriva davizio di costruzione o da difetto di manutenzione della cosa.In ultimo, Salvi ricorda la possibilità per il proprietario dell’edificio di agire in regresso control’appaltatore nell’ipotesi dell’articolo 2053.

● 5.2. Il caso fortuito Per  caso fortuito si intende un evento del tutto imprevisto ed eccezionale che incide sul nesso

causale determinante l’evento dannoso. Ciò che occorre comprendere è la differenza tra il casofortuito e l’assenza di colpa: secondo una concezione soggettivista – che Salvi dichiara di noncondividere – i due concetti coinciderebbero, sicché si avrebbe caso fortuito in tutte le ipotesi in cui

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è impossibile imputare a titolo di colpa il fatto all’autore. In realtà questo sarebbe giusto in unavisione sanzionatoria dell’illecito, sicché, solo così, potrebbe ritenersi che l’ordinamento intendasanzionare il comportamento colposo, escludendo, per contro, ogni forma di responsabilitànell’ipotesi del caso fortuito che assumerebbe così una connotazione residuale rispetto alle ipotesidi colpa. Salvi abbraccia la visione oggettiva del caso fortuito: l’ordinamento intende riparare idanni determinatisi in seguito a condotte rischiose o colpevoli ma non punisce le condotte in sé; ne

scaturisce che, qualora la condotta in sé non sia produttiva di danno, l’ordinamento non imputi ilrisarcimento ad alcuna delle parti. Di conseguenza, può bene determinarsi il caso fortuito anche in presenza di un comportamento colposo; quel che importa è che il comportamento colposo non abbiagià determinato di per sé l’evento dannoso, dovendo esso essere causato unicamente dal casofortuito. Chiarito ciò, può dirsi che per caso fortuito si intende sia l’evento naturale (il fulmine a cielsereno che colpisce l’impalcatura che rovina, a sua volta, sull’automobile di Tizio), sia il fatto delterzo (il bambino che attira l’attenzione del cane che si libera del suo guinzaglio, gettandosi alcentro del marciapiede e facendo inciampare un’anziana signora).La prova del caso fortuito viene data dal convenuto.

● 6. Le attività pericolose 

L’articolo 2050 afferma la responsabilità di chiunque svolga attività pericolose per i danni provocate dalle stesse. Salvi si sofferma innanzitutto sul concetto di attività: si tratterebbe di uninsieme di atti finalizzati a un medesimo obiettivo. Ne consegue che l’autore dell’atto pericolosoche provoca danni risponde non ex articolo 2050 ma ex articolo 2043. Altro punto che attiral’attenzione di Salvi è il pericolo: si dubita che esso possa costituire, di per sé, fonte diresponsabilità, non essendosi ancora concretizzato il danno. Il diritto penale insegna che la lesioneal bene giuridico può aversi sia sotto la forma del danno – e allora occorrerà operare unavalutazione ex post – sia sotto la forma del pericolo – e allora occorrerà operare una valutazione exante –. Sempre ex ante è la valutazione richiesta per le attività dell’articolo 2050: ai fini delladeterminazione della pericolosità occorre domandarsi se, nel momento immediatamente precedentel’evento lesivo, fosse prevedibile la sua determinazione. Così, l’attività del bancario non èconsiderata come pericolosa nonostante la banca in cui esso operi abbia appena subito una rapina:nel momento immediatamente precedente la rapina, non era definibile come tale quell’attività, dati idue parametri di valutazione della pericolosità dell’articolo 2050: la natura degli atti compiuti e lanatura dei mezzi utilizzati per compiere quegli atti. Diverso è il discorso dell’operaio di unafabbrica di esplosivi, laddove il giudizio di pericolosità ex ante ha esito senz’altro positivo.In ossequio al principio di specialità per talune attività pericolose vengono applicate normativespeciali in luogo della disciplina generale dell’articolo 2050: si pensi alla legislazione, risalente aglianni Sessanta, sulla lavorazione delle materie fissili nelle centrali nucleari.

● 6.1. Il criterio di esonero dalla responsabilità L’articolo 2050 prevede l’esonero dalla responsabilità nel caso in cui il soggetto dimostri di avereadottato tutte le misure adatte a evitare il danno. Questa clausola finale ha messo in discussione laqualifica di responsabilità oggettiva che la dottrina a lungo ha attribuito a questa norma. Secondo laCorte di Cassazione si parla senz’altro di responsabilità oggettiva in quanto il soggetto dà prova diavere cercato di fare fronte a un evento che, però, si dimostra oggettivamente inevitabile. I fautoridella colpa, poi, leggono la norma o in termini di rimproverabilità del comportamento del soggettoche non adotta dette misure, o in termini di divergenza tra un modello normativo e ilcomportamento concreto. È il discorso che già si è fatto: emerge ancora una volta la differenza tra leteorie della responsabilità civile come sanzione e quelle della responsabilità civile comeriparazione. Le prime affermano la responsabilità del soggetto ogniqualvolta il suo comportamentosia rimproverabile e, in tale contesto, laddove non abbia preso le precauzioni necessarie a evitare ildanno. In realtà, dice Salvi, proprio perché a monte non c’è un’esigenza sanzionatoria, non è

 possibile concepire la colpa in termini di rimproverabilità. La colpa è divergenza rispetto a un

 paradigma normativo e lo dimostra anche questa norma, laddove si parla di misure adatte a evitareil danno. Ciò che fa riferimento non solo al comportamento dell’individuo che le pone in essere ma,

 più estensivamente, a una serie di criteri organizzativi dell’attività che sono previsti da norme più o

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meno espresse. Ed è sempre in questo che si sostanzia la differenza tra gli articoli 2050 e 2047, primo comma, o 2048: anche in quei casi il sorvegliante (o il genitore o il precettore) deve provaredi avere fatto tutto il possibile per evitare il danno; in quelle ipotesi, però, il comportamento delsoggetto non si inquadra in una serie di canoni organizzativi su cui poggia un’attività comunquetipizzata da un insieme di previsioni normative.Da ricordare è il richiamo dell’art.18, L.675/1996 sulla pericolosità delle attività concernenti il

trattamento dei dati personali. Con tutte le difficoltà di conciliazione rispetto agli artt.29.9 e 9 dellamedesima normativa di cui più sopra si è detto.

● 7. La responsabilità per fatto altrui Tre sono le ipotesi di responsabilità per fatto altrui: quella del sorvegliante rispetto al soggettoincapace ex articolo 2046 (articolo 2047, primo comma), quella del genitore o del precettore rispettoal minore (articolo 2048) e quella del padrone o del committente rispetto al domestico (articolo2049).

 Nelle ipotesi di cui agli articoli 2047 e 2048 è ammessa la prova liberatoria. Ciò che non è previstonella fattispecie dell’articolo 2049. Il sorvegliante, il genitore e il precettore possono liberarsidall’obbligo di risarcire qualora dimostrino di avere fatto il possibile per evitare il danno.

Altra è la differenza tra le fattispecie degli articoli 2048 e 2049 rispetto a quella dell’articolo 2047.Si pensi al caso del minorenne in scooter che cagiona danno a un passante. Si pone il problema dichi risponde e a che titolo: occorre guardare alla capacità di intendere e di volere del minore(secondo l’accertamento in concreto svolto dal giudice, come già si è detto): se il minore non ècapace di intendere e di volere, risponderà il sorvegliante ex articolo 2047, primo comma, conl’eccezione prevista al secondo comma. Se il minore è capace di intendere e di volere, invece, saràdefinibile come responsabile, rispondendo per il danno da lui cagionato il genitore (o il precettore).Si parla, in riferimento a queste fattispecie, di responsabilità vicaria. Il codice, quindi, prevede duetipi di responsabilità per fatto altrui: la responsabilità del sorvegliante sull’incapace e laresponsabilità vicaria degli articoli 2048 e 2049.Si ritiene applicabile l’articolo 2055 nelle ipotesi di responsabilità vicaria, sicché sarebbe ammessoil ricorso del danneggiato nei confronti dell’autore tanto nell’ipotesi dell’articolo 2048, quanto inquella dell’articolo 2049. In altri termini, quelle sarebbero fattispecie di responsabilità solidale“genitori-figli”, “precettori-allievi”, “preposti-dipendenti”. Sul punto, comunque, si ritornerà.

● 8. La responsabilità dei genitori Il primo comma dell’articolo 2048 afferma la responsabilità del padre e della madre, del tutore, delgenitore adottivo e dell’affiliante (si veda, in merito, la normativa sull’amministrazione di sostegno

 – artt. 404 ss., come modificati dalla L.6/2004) nei confronti del danno cagionato dal fatto illecitodel figlio minorenne non emancipato o del soggetto posto sotto la loro tutela. Si noti, dunque, chesono chiamati a rispondere i soggetti che, in virtù del loro rapporto genitoriale con il figlio,assumono il ruolo di educatori principali dell’autore del danno. È per questo che si parla, a tal

 proposito, di culpa in educando, da non confondere con la culpa in vigilando tipica della situazione

di colui che è chiamato a sorvegliare l’incapace (articolo 2047). Come per il sorvegliante, anche per il genitore e per il tutore è ammessa la prova liberatoria: il terzo comma dell’articolo 2048 afferma,infatti, che nell’ipotesi in cui il genitore riesca a dimostrare di non avere potuto evitare il fatto delfiglio, allora sarà liberato dal regime di responsabilità dell’articolo 2048. Già si è analizzata ladifferenza tra la prova liberatoria degli articoli 2047 e 2048 rispetto a quella dell’articolo 2050,ancorché tutte e tre molto simili sotto il profilo letterale. La fattispecie dell’articolo 2048 sidifferenzia, però, fortemente anche da quella dell’articolo 2047. Là, infatti, si chiama a risponderecolui che è venuto meno al suo obbligo di sorveglianza, mentre nell’articolo 2048 tenuto alrisarcimento è colui che è venuto meno al suo obbligo di educatore. A monte di questa differenzarisiede il diverso ambito applicativo delle due norme: da un lato si ha l’esigenza di provvedere asoggetti incapaci di intendere e di volere, sicché occorre qualcuno che li tuteli, dato che non sono

loro in grado di farlo in via autonoma; dall’altro l’esigenza è quella di espletare l’obbligo di cuiall’articolo 147 nei confronti di soggetti che comunque sono capaci di intendere e di volere. Lagiurisprudenza, muovendo da queste considerazioni, ha identificato l’àmbito della prova liberatoria

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di cui al terzo comma dell’articolo 2048 con l’insieme di funzioni di cui all’articolo 147 (eall’articolo 30 della Costituzione): il genitore deve mantenere, istruire ed educare i figli. Certadottrina (si ricordano, a tal proposito, le teorie di Castronovo) ha esteso l’ambito di applicazione delterzo comma dell’articolo 2048 rispetto al solo articolo 147, affermando che è il costante rapportotra genitori e figli a improntare in questi ultimi il modello comportamentale impartitodall’educazione dei primi. Si sa, infatti, che è il contatto continuo tra genitori e figli a fare sì che

questi ultimi adottino le abitudini e i modi di fare dei primi. È così, dunque, che andrebbe ainterpretarsi il requisito della coabitazione di cui all’articolo 2048: Salvi parla di una concezionenormativa e non letterale del termine. Il che scardina completamente l’interpretazione originariadella norma che si porrebbe a sostegno della tesi del patrimonio genitoriale come garanzia per ifigli: così, infatti, anche nell’ipotesi di genitori divorziati il patrimonio del genitore che non convivecon il figlio costituisce, ovviamente, per lui un’importante garanzia economica. Manca, però, tra idue il rapporto di coabitazione richiesto dall’articolo 2048, sicché, in caso di comportamentoillecito, il genitore non convivente non risponde per il figlio. Ciò ci permette di comprendere comele questioni della garanzia economica del patrimonio genitoriale edella responsabilità civile deigenitori per i figli minorenni non emancipati debbano essere affrontate distintamente.

9. La responsabilità degli insegnanti Il secondo comma dell’articolo 2048 definisce responsabili i precettori e quanti insegnano un’arte oun mestiere per i danni cagionati dal fatto illecito dell’allievo o dell’apprendista compiuto nelmomento in cui questi si trovava sotto la loro sorveglianza. Un tempo la funzione della norma eraquella di equiparare gli insegnanti ai genitori nel loro ruolo di educatori: in ambo i casi, infatti, sitratterebbe di culpa in educando. Oggi, però, la questione è piuttosto quella di affiancare ai genitoriun altro soggetto che possa rispondere per il fatto del minore, laddove, ovviamente, il fatto siacompiuto nella sussistenza di un particolare vincolo tra quello e il precettore. Anche per gliinsegnanti si prevede l’applicazione del terzo comma, e cioè la liberatoria del non avere potutoimpedire il fatto. Anche qui, il riferimento è al modus educandi del precettore (come del genitore,nella fattispecie del primo comma) rispetto al minore. La norma non trova, però, applicazione nelcaso di chi, sotto la responsabilità dell’insegnante, si procuri da solo un danno (chi, giocando congli amichetti nel cortile della scuola, inciampa e sbatte il mento a terra): in quel caso si applical’articolo 1218, parlandosi di responsabilità contrattuale dell’insegnante, derivata dal mancatoadempimento degli obblighi derivanti in capo a esso in forza del contatto sociale con lo studente(applichiamo ancora una volta la teoria di Castronovo sul contatto sociale).Resta da capire chi siano i precettori e i maestri di arte. I precettori sono tutti gli insegnanti, operantisia in istituti privati che in strutture pubbliche; a essi si aggiungono tutti coloro che operano al difuori di scuole in senso tecnico, pur avendo però mansioni educative (i maestri di sport, adesempio). I maestri di arte sono tutti coloro che insegnano un mestiere. Oggi, però, la portata dellanorma pare ridotta: l’apprendistato viene considerato come lavoro subordinato nel momento in cui

 procuri un guadagno a colui che impartisce l’insegnamento sullo svolgimento di quell’arte. In talicircostanze, come si vedrà, trova applicazione non l’articolo 2048, bensì l’articolo 2049.

In ultimo, la riforma della responsabilità degli insegnanti: quanti svolgono il mestieredell’insegnamento nelle strutture pubbliche possono beneficiare di strumenti particolari. Si ricordala soluzione delle assicurazioni degli insegnanti, adottata in alcune regioni di Italia, o la normativa,ormai risalente a più di venti anni fa, che ascrive la responsabilità per il danno cagionato a terzidagli alunni all’amministrazione da cui dipende l’insegnante, potendo questa rivalersi su di essosolo in caso di dolo o colpa grave.

● 10. Il sorvegliante dell’incapace Il sorvegliante di colui che è non imputabile ex articolo 2046 risponde per culpa in vigilando. Egliha, infatti, disatteso non un obbligo di carattere educativo ma un obbligo di sorveglianza. Dovrà,quindi, dimostrare, per essere liberato dal regime di responsabilità nel quale ricadrebbe in caso

contrario, di non avere potuto impedire il fatto, e cioè che il fatto si è determinato nonostante la suasorveglianza o che detta sorveglianza è stata resa impossibile per fatti estranei a un suo difetto didiligenza. Quella dell’articolo 2047, secondo certa dottrina, non sarebbe responsabilità per fatto

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altrui, ma responsabilità per il fatto proprio di non avere espletato l’obbligo di sorveglianza discesoda a) un’espressa previsione di legge (si pensi al rapporto tra la madre e il neonato, sicché la primaè tenuta all’allattamento del secondo); b) un negozio giuridico (si pensi al rapporto tra babysitter e

 bambino, che nasce da contratto stipulato tra la babysitter e i genitori del minore); c) una situazionedi fatto, come quella che lega il convivente more uxorio al figlio piccolo della sua partner.Salvi torna ora sulle dottrine di Cendon: all’inizio degli anni Settanta ci fu la riforma psichiatrica.

Ciò ha fatto sì che i soggetti infermi di mente potessero uscire dagli stabilimenti nei quali eranoconfinati: si auspicava il ritorno all’ambiente di origine e la riabilitazione attraverso il contatto conla famiglia e la frequenza periodica di appositi centri di igiene mentale. Ne scaturì che i medici ditali centri non rispondevano più dei danni cagionati dagli infermi ex articolo 2047, ma ex articolo2043. Mancava, infatti, tra i medici e gli infermi quel legame definito dall’obbligo di sorveglianzache invece sussisteva prima della riforma.

● 11. La responsabilità del padrone e del committente Secondo l’articolo 2049 i padroni e i committenti rispondono per i danni cagionati dal fatto illecitodel domestico o del commesso, compiuto nell’esercizio delle loro incombenze. Tre, dunque, sono i

 punti attorno ai quali è costruita questa norma:

a. il rapporto di preposizione tra il padrone (o il committente) e il domestico (o il commesso) b. il fatto che l’illecito si sia verificato nell’esercizio delle incombenze del dipendentec. il fatto stesso del dipendente

La dottrina dibatte sulla ratio della norma: si tratta di una fattispecie di responsabilità colposa (a tal proposito si è parlato di culpa in eligendo, sorgente in capo al preposto che sceglie “male” il propriodipendente, ma anche di culpa in vigilando, difettando la sorveglianza del preposto verso ildipendente) o di responsabilità oggettiva (se si accetta la tesi del danno “oggettivamente” evitabile,sicché, nell’ipotesi in cui esso sia inquadrato nell’organizzazione imprenditoriale, esso rientra nellacategoria del rischio di impresa). Su un punto, però, la dottrina è unanimemente concorde, e cioèsulla funzione garantista dell’articolo 2049. Il danneggiato può rivolgersi al soggetto preposto allosvolgimento di quell’attività, sussistendo comunque un raccordo tra l’attività di questo individuo eqeulla del dipendente, servendo quest’ultima all’attività del primo.

● 11.1. Il rapporto di preposizione Sbaglia chi afferma che quello di cui all’articolo 2049 è un rapporto di subordinazione nel sensotecnico del termine: senz’altro il rapporto di lavoro subordinato è un’ipotesi di preposizione; non è,tuttavia, l’unica. Si pensi al caso dell’appalto: ex articolo 1655 vi è un soggetto che si assume laresponsabilità di portare a termine un’opera assumendosene il rischio economico, e un soggetto cheordina questa opera. Normalmente non si ritiene applicabile, in tale circostanza, l’articolo 2049; se,

 però, l’appaltatore agisce quale nudus minister del committente, eseguendo le sue direttive, si ha unrapporto di preposizione che esclude, però, quello di subordinazione in senso tecnico.Il rapporto di preposizione è caratterizzato da alcuni elementi; il primo di essi è l’incarico che deveessere conferito dal preposto (o da chi per lui) al dipendente. L’incarico può essere affidato anche invia indiretta, attraverso, ad esempio, un ufficio di collocamento. Il discorso della culpa in eligendo,quindi, risulta senz’altro insufficiente a esaurire la descrizione della fattispecie, potendo il

 preponente anche non avere scelto in prima persona il dipendente. Altro elemento essenziale è ilrapporto di vigilanza, sicché il preponente deve potere vigilare sul dipendente; certo, può accadereche talune attività di questo soggetto vengano materialmente sottratte al potere di controllo del

 preposto; ciò che rende anche il concetto di culpa in vigilando inadatto a descrivere l’interezza dellafattispecie. Un terzo elemento, infine, è il rapporto di subordinazione in senso sostanziale: il

 preposto deve potere impartire ordini e direttive al dipendente.

● 11.2. L’esercizio delle incombenze Affinché possa sorgere la responsabilità ex articolo 2049 in capo al preposto, occorre che l’illecito

sia compiuto nell’esercizio delle incombenze del dipendente. Questo requisito è stato letto intermini di occasionalità necessaria; in altri termini, l’esercizio delle incombenze deve esserel’occasione per il compimento dell’illecito. Si pensi al caso di due impiegati che litigano, arrivando

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alle mani, per ottenere una promozione, in quanto entrambi ritengono di avere portato a termine il proprio lavoro meglio dell’altro. Certa dottrina ha criticato questo criterio di imputazione dellaresponsabilità, in quanto poco rigoroso. Meglio sarebbe l’applicazione della teoria della condicio

 sine qua non: l’esercizio delle incombenze, quindi, come concausa sine qua non.

● 11.3. Il fatto del dipendente 

Affinché possa sorgere la responsabilità ex articolo 2049 in capo al preposto, infine, occorre che siastato commesso dal dipendente un fatto, doloso o colposo, cagionevole del danno ingiusto. Già si èaccennato alla lettura originaria della norma in chiave di culpa in eligendo e culpa in vigilando,smontando, però, questa teoria con riferimento alle peculiarità del rapporto di preposizione. Oggil’articolo 2049 viene applicato per definire il regime di responsabilità nelle imprese. Detto criterio,infatti, permetterebbe di leggere la responsabilità del preposto come derivante dal fattore del rischiodi impresa, assorbendo, quindi, i costi del danno nel naturale svolgimento dell’attivitàimprenditoriale. Questa, quindi, sarebbe la ratio della norma che trova applicazione, naturalmente,anche nell’ipotesi in cui rimanga anonimo l’autore del fatto: in tal caso è l’impresa che ne risponde,secondo una particolare tecnica di allocazione delle risorse imprenditoriali che permette di coprire icosti dei danni imputandoli all’impresa medesima. Di qui, anche la prassi del mancato esperimento

dell’azione di regresso da parte dell’impresa nei confronti del dipendente che ha causato il danno (si badi, di diritto tale azione potrebbe essere esperita. Nulla lo vieta all’imprenditore).

● 12. La responsabilità del produttore  Negli ultimi anni si è acuita la tendenza a tutelare l’interesse del consumatore a fronte della produzione di beni difettosi che, in quanto tali, fossero idonei a cagionargli danno. In altri termini,sia per effetto di una foltissima normazione comunitaria, sia per effetto dell’autonoma evoluzionedel nostro ordinamento in tal senso, il diritto civile si è orientato verso la tutela del consumatore,tradizionalmente concepito come la parte-debole nel conflitto con il produttore. Il dibattito sullamateria del risarcimento da danno del produttore, si è svolto tenendo in considerazione due tipi diinteressi: da un lato, quello dell’impresa che, come notano le teorie neoliberiste di Posner, non puòsostenere costi eccessivi per riparare i danni da produzione in quanto verrebbe a perderne in terminidi efficienza; dall’altro, quello del consumatore medesimo, che ha bisogno di armi altrettanto

 potenti rispetto a quelle dell’imprenditore per potere avere ragione su di lui.Il d.p.r.224/1988 ha tentato di conciliare le due posizioni. A fronte di un regime probatoriovantaggioso per il consumatore, è stato ristretto il novero dei danni da produzione considerati comerisarcibili: sono tali, infatti, il danno cagionato dalla morte del consumatore o dalle lesioni da essosubite; è tale il danno di importo superiore a 750.000 lire cagionato a cose che non siano il prodottodifettoso medesimo. Per contro, non è ammessa alcuna prova liberatoria per il danno dafabbricazione, mentre per il danno da costruzione e per il danno da informazione il produttore èliberato laddove dimostri che la produzione aveva seguito il proprio corso, sicché ragionevolmenteera prevedibile che il prodotto avrebbe espletato la propria funzione. È utile ricordare che cosa sia ildanno da costruzione e quello da fabbricazione. Nella maggior parte dei casi il produttore costruisce

 beni in serie: se il difetto si rivela tale in un solo prodotto, si parla di difetto di fabbricazione; se,invece, il difetto si riverbera in tutta la serie, allora, si parlerà di difetto di costruzione. Per i fautoridell’analisi economica del diritto, il difetto di fabbricazione era considerato nell’ordine naturaledell’attività produttiva, tanto che, il danno che ne sarebbe derivato, non avrebbe dovuto essererisarcito da parte del produttore che, altrimenti, sarebbe stato oberato da un’obbligazione risarcitoriaeccessivamente rilevante, venendo così meno l’efficienza sulla quale si basa, invece, tutto ildiscorso degli analisti economici. Non è tendenzialmente responsabile il produttore per il danno dasviluppo: anche in diritto civile la condotta che genera l’evento è causa dello stesso se, secondo lamigliore scienza ed esperienza del momento storico, è idonea a produrlo, secondo un nesso di alta

 probabilità. Il che fa sì che il produttore non sia responsabile qualora si verifichi un danno che,impiegando i mezzi del tempo in cui venne prodotta la cosa, non era prevedibile. In realtà, se si

tratta di un’attività pericolosa, il danno può essere risarcito indipendentemente dalla sua prevedibilità ex art. 2050.

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● 13. La responsabilità dell’impresa tra colpa e responsabilità oggettiva Salvi chiude la parentesi sulla responsabilità dell’impresa tirando le somme sulle concezioni che laavvicinano alla colpa o alla responsabilità oggettiva. Si ritiene oggi che quella dell’impresa siaresponsabilità oggettiva, essendo, come si ammette nei sistemi di Common law, insita non in unarelazione soggettiva tra fatto e autore, bensì nella natura medesima dell’attività di impresa.Compiendo questa riflessione, però, bisogna ricordare come non sia agevole parlare di un solo tipo

di responsabilità oggettiva, esistendone varie fattispecie riconducibili a presupposti molti diversil’uno dall’altro (cfr.teoria della pluralità di criteri di imputazione della responsabilità civile).

● 14. La responsabilità da circolazione stradale L’articolo 2054 obbliga al risarcimento il conducente del veicolo senza guida di rotaia che abbiacagionato un danno durante la circolazione dello stesso. Si parla, a tal proposito, di responsabilità dacircolazione stradale. Innanzitutto, sarà bene chiarire che cosa debba intendersi per “circolazione”:il veicolo deve trovarsi in un luogo non vietato al traffico: nel caso contrario, infatti, il conducenterisponderebbe ex articolo 2043, in quanto il contesto sarebbe diverso da quello previsto dalla normain oggetto. Non importa, poi, se il veicolo sia in sosta o in viaggio: ed è chiaro. Già nella materia

 penale si trova riscontro di ciò: si pensi agli articoli 589 e 590 che sanzionano in modo particolare le

fattispecie di omicidio colposo e di lesioni personali colpose causate in seguito a violazione delleregole del codice della strada, sicché, anche parcheggiando una vettura in divieto di sosta, il proprietario risponderà dei reati in questione se l’automobile verrà coinvolta in incidenti da cuiscaturiscano la morte o le lesioni di qualcuno. Stesso precetto viene applicato nell’interpretazionedel primo comma dell’articolo 2054. Un altro elemento importante riguarda il veicolo, che deveviaggiare senza guida di rotaia. Questo per una ragione di rischio: si ritiene, infatti, che un veicolosprovvisto di guida di rotaia possa causare un danno più facilmente (meglio: probabilmente) di unveicolo che viaggia su rotaia. Responsabile è il conducente della vettura. Originariamente siriteneva che costui non rispondesse nei confronti dei passeggeri del veicolo che avrebberovolontariamente accettato il rischio del danno, salendo a bordo della vettura. Oggi, però, questoorientamento è stato largamente superato: e questo anche a causa della disciplina delle assicurazioniobbligatorie, che risarciscono tutti, sia che fossero passeggeri del veicolo, sia che non lo fossero. Se,

 poi, sussiste un rapporto contrattuale tra vettore e passeggero, vi sarà un cumulo di responsabilità,affiancandosi l’azione contrattuale ex articolo 1679 a quella extracontrattuale ex articolo 2054.Il primo comma dell’articolo 2054 ammette la prova liberatoria: il conducente dovrà dimostrare diavere fatto il possibile per evitare il danno. Il che non significa solo dimostrare di avere agitosecondo la diligenza necessaria al compimento dell’attività di guida, ma anche di avere saputoreagire a situazioni impreviste in modo da disporre tutti gli accorgimenti necessari a evitare ilverificarsi di danni. Ciò che certa parte della dottrina (ma a Salvi questo sembra non piacere)definisce “colpa lievissima”. Nonostante la formulazione simile, questa liberatoria sembra moltodiversa da quella di cui all’articolo 2050, laddove si richiedeva una vera e propria organizzazionedell’attività in modo da evitare (o da circoscrivere il più possibile) il pericolo che avrebbe potutoderivarne. Nella fattispecie ora in oggetto, quella dell’articolo 2054, il legislatore, probabilmente,non ha voluto focalizzare l’attenzione sull’elemento organizzativo.Il secondo comma dell’articolo 2054 presume (si tratta di una presunzione relativa, suscettibile di

 prova contraria) eguale responsabilità dei conducenti in caso di scontro.Rispetto al regime di responsabilità del conducente definito ai primi due commi dell’articolo 2054,il terzo comma stabilisce la responsabilità in solido del proprietario. Costui, però, può liberarsidimostrando che la vettura era condotta senza la sua volontà. Rispetto al proprietario possonorispondere – in via alternativa e non solidalmente! – l’usufruttuario o colui che dispone del veicoloa titolo di leasing.In ultimo, il già citato quarto comma, che dispone l’obbligazione risarcitoria per tutti i soggetti delterzo comma per i danni derivati da vizio di costruzione o da difetto di manutenzione del veicolo.

● 15. Altre ipotesi di responsabilità In altri luoghi dell’ordinamento vengono definite altre ipotesi di responsabilità, diverse da quelledisciplinate dagli articoli 2047-2054 del codice civile. Salvi, a tal proposito, ricorda:

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a. la legge 117/1988, sulla responsabilità dei magistrati b. la legislazione sul danno ambientale (rispetto a quanto afferma Salvi, bisogna ricordare

l’intervento del nuovo codice dell’ambiente, risalente al 29 aprile 2006)c. la legislazione sul danno cagionato da aeromobilid. la legislazione sul danno cagionato da impianti nucleari (risalente agli anni Sessanta), in cui

si mescola la funzione riparatoria tipica dell’obbligazione risarcitoria alla necessità di

garanzie su larga scala a seguito di eventi, come il danno da sostanze nucleari, cheinteressano considerevoli porzioni di popolazione. A dimostrazione di ciò, Salvi cital’istituzione di un Fondo di garanzia per i danni da radiazioni che si manifestano dieci annidopo l’evento dannoso – e quindi decorso l’ordinario termine di prescrizione –.Responsabile del danno è colui che è preposto all’attività di trattamento delle materie fissili,

 pur essendo prevista una liberatoria in caso di conflitti o di straordinari eventi naturali. 

Capitolo IV. Il rapporto di causalità.● 1. La duplice funzione della causalità nella responsabilità civile 

Per Salvi non è corretto applicare alla lettera le teorie sulla causalità nella responsabilità penale al

diritto della responsabilità civile. In effetti tra diritto civile e diritto penale mutano alcuni presupposti di fondo: innanzitutto, le norme incriminatrici di diritto penale sanzionano i fatti direato, che si pongono come sovrastrutture del mero evento il quale, invece, assurge a mero elementodella sfera oggettiva dell’illecito penale. Nel diritto della responsabilità civile, posto che la funzionedel risarcimento non è quella di sanzionare ma di riparare alla frattura creatasi tra consociati almomento della lesione di un interesse normativamente protetto, quel che rileva è l’evento in sé e per sé considerato: il legislatore, infatti, non sanziona una condotta colposa o rischiosa, ma definiscel’obbligazione risarcitoria in capo all’autore nel momento in cui si verifichi l’evento dannoso. Amonte di ci'f2, come già si ebbe modo di accennare, c’è il diverso rapporto tra le parti: da un lato, nellaresponsabilità civile, la frattura viene a crearsi tra privati, soggetti, quindi, che si pongono sullostesso piano; dall’altro, nella responsabilità penale, la frattura viene posta in essere tra uno o piùcittadini privati e lo Stato, l’unico soggetto a detenere il potere di sanzione nei confronti deiconsociati. Ecco perché, strutturalmente, non è possibile applicare al discorso civilistico i medesimi

 precetti del diritto penale. Inoltre, rileva Salvi, la dottrina penale appare piuttosto discorde nelladefinizione del nesso di causa attraverso l’interpretazione delle norme che possono permetterne unadefinizione (gli articoli 40, 41 e 45 del codice penale). Ciò che significa che nel diritto dellaresponsabilità penale non è affatto chiara e intesa univocamente la definizione del nesso causale.Salvi, a questo punto, riprende la suddivisione tra danno-evento e danno-conseguenza sulla quale

 poggiano tutte le tesi che ha sostenuto nella sua trattazione. A fronte di questa distinzione èopportuno concepire il nesso causale in due modi, articolando l’analisi di tale elemento in duemomenti: in una prima fase, infatti, attraverso lo studio del fatto storico, è opportuno comprenderequale sia il legame tra la condotta del responsabile e l’evento lesivo, operando proprio in questofrangente il nesso causale nell’ambito della cosiddetta causalità in fatto; altrimenti detto, occorrecomprendere come, strutturalmente, la condotta sia idonea a produrre l’evento, e cioè a generare lalesione dell’interesse protetto di cui si diceva. Una volta chiarito questo punto, occorreràcomprendere come l’evento lesivo si pone a causa delle conseguenze ulteriori generate dalla lesione(il cd. danno-conseguenza). Il nesso causale opera anche in questo frangente, della cd. causalitàgiuridica, quale legame tra l’evento e le sue conseguenze. Non è questa una distinzione da poco: lalesione di un interesse scarsamente rilevante sul piano economico può comportare conseguenze

 pesantissime di carattere patrimoniale, anche valutate in termini di mancato guadagno, come indical’articolo 1223, richiamato dall’articolo 2056, primo comma. Inoltre, nel momento in cui si tratta disvolgere la seconda fase della nostra analisi, già deve essere stato individuato il responsabile: ciòche non è nel momento in cui svolgiamo la prima fase, laddove la determinazione dell’autore

avviene a seguito dell’opera di analisi del fatto storico e di sua sussunzione in una delle fattispecietipiche normativamente previste: e qui Salvi torna sul principio di tipicità che distingue la sua

 posizione sul diritto della responsabilità civile da quella di altri autori, come G. Visentini.

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● 2. La causalità in fatto  Nell’opera di attribuzione della condotta all’autore, in termini di causalità, e, dunque, nella primafase del processo di analisi del nesso causale, occorrerà concepire quest’ultimo elemento nei terminidi causalità naturale e di causalità adeguata. Salvi, infatti, riprende queste due teorie – tipiche del

 percorso svolto dalla dottrina penale – per definire il concetto di causalità in fatto, a fronte anchedella comparsa di elementi idonei a spezzare il nesso causale.

La prima delle teorie che vengono dedotte in analisi è quella dell’equivalenza, altrimenti conosciutacome teoria della condicio sine qua non o della causalità naturale: occorre operare un’analisi ex post , ossia immediatamente successiva alla determinazione dell’evento lesivo. In quel momento, bisogna procedere mentalmente a ritroso, valutando l’idoneità delle singole condotte a produrrequell’evento: a seguito di questo processo di analisi si affermerà come causa quella condotta senzala quale l’evento non avrebbe potuto prodursi. A fronte delle obiezioni a questa teoria, relative alfatto che estenderebbe in modo eccessivo il novero dei responsabili, anche in diritto civile sono statiapportati dei correttivi (così anche in diritto penale: si ricordi la teoria della causalità umana,elaborata da F. Antolisei): è causa quella condotta che, rientrando nel dominio del fatto lesivo,inteso nel suo complesso, è idonea a produrre l’evento. Altrimenti detto, occorrerà analizzare lesingole condotte sotto un duplice profilo, da un lato per determinare l’idoneità a produrre la

condotta sotto il profilo della condicio sine qua non, dall’altro per valutare in concreto la posizionedell’autore rispetto all’evento, sicché colui che ha venduto l’arma al killer, svolgendo un’attivitàlecita, non può essere definito quale autore di alcuna condotta lesiva.La seconda delle teorie cui Salvi fa riferimento, la teoria della causalità adeguata, di matricetedesca, riguarda un’analisi ex ante rispetto all’evento: immediatamente prima della lesione occorredomandarsi se, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit (cioè secondo il senso comune),quella condotta è idonea a produrre l’evento. Salvi, come altri, rileva come questa teoria comportiun talora eccessivo restringimento del raggio di responsabilità.Dunque, per Salvi causa è quella condotta che da sola è idonea a determinare l’evento in base aun’analisi ex post  con tutti i temperamenti del caso, atti a evitare l’allargamento eccessivo delnovero dei responsabili. A tale proposito, Salvi rilevi come sia necessaria un’interpretazioneletterale dell’articolo 41 del codice penale, laddove si parla di cause sopravvenute. Questo discorsotrova, a differenza del resto, applicazione pressoché integrale anche nel diritto della responsabilitàcivile: la norma afferma che è sopravvenuta quella causa che di per sé è idonea a determinarel’evento, spezzando il nesso causale con condotte preesistenti. Per Salvi si tratta di una definizionetautologica, essendo la causa sempre idonea a determinare di per sé l’evento, ragion per cui èopportuno concentrarsi sull’attitudine della causa sopravvenuta a spezzare il nesso causale tra lecondotte preesistenti e l’evento. E in tale contesto è opportuno operare un’analisi in concreto.Qualche anno fa, la Cassazione affermò che il suicidio di un soggetto non era idoneo a spezzare lacatena causale fra la condotta del suo avvelenatore e la morte. Infatti, supponendo che il soggetto sisia suicidato qualche istante prima di una sicura morte, essendo già il veleno in circolo e inutilerimanendo la somministrazione di un qualsiasi antidoto, il suicidio ha solo anticipato un evento chesi profilava come sicuro. Al fine di valutare quali siano gli agenti idonei a determinare

l’interruzione del nesso causale, Salvi fa riferimento all’articolo 45 del codice penale, che parla dicaso fortuito e di forza maggiore. Denominatore comune di questi due elementi è il fatto di essereimprovvisi e imprevisti; la differenza risiede nel fatto che il caso fortuito è perlopiù conseguenzadell’azione di un altro essere umano, mentre la forza maggiore è le effetto di un evento naturale.Già si è visto quale sia l’importanza del fortuito nella liberatoria dell’agente nei casi diresponsabilità per fatti non propri. Ciò ci porta a parlare dell’onere della prova: nella responsabilitàextracontrattuale il danneggiato deve provare che ha subito un danno e che quel danno gli è derivatoda una certa attività o da una certa cosa. Al convenuto (= l’autore) starà provare la presenza di unacausa liberatoria: nella fattispecie, la sopravvenienza di un agente estraneo, improvviso e imprevistoche ha determinato l’evento. Con tutte le riflessioni del caso circa la possibile presenza di un

 presupposto di colpa, di per sé non idoneo a produrre l’evento, sicché il fortuito non è sinonimo di

assenza di colpa.In ultimo, una riflessione in materia di danni di massa. Dagli Stati Uniti proviene una soluzione checerta dottrina auspica possa applicarsi anche in Italia, previa riforma dell’intero sistema della

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responsabilità civile: nell’ipotesi del danno di massa, agendo una pluralità di concause sull’evento,è impossibile determinare con esattezza l’influenza che le singole cause hanno avuto sull’evento,sicché, operando un’analisi ex ante, si valuterà la probabilità che la singola causa aveva di produrrel’evento e, in base al nesso probabilistico emergente dall’analisi, saranno ripartite le varie quote diresponsabilità.

3. Criteri di imputazione e causalità  Non bisogna confondere il discorso della colpa, del dolo e della responsabilità oggettiva con quellodella causalità: si tratta di elementi diversi – ancorché facenti tutti riferimento a una medesimacircostanza lesiva – che, tuttavia, entrano in contatto al momento dell’analisi delle conseguenzederivate dall’evento lesivo. Si entra, quindi, nella seconda fase dell’analisi: quella della causalitàgiuridica.Per quel che riguarda la responsabilità per dolo, Salvi sembra non accettare la tesi del versari in reillicita, secondo la quale l’autore del fatto, se ha agito con dolo, risponderà di tutte le conseguenzelesive dell’evento, essendosi volontariamente esposto a esse nel momento in cui si è approcciatoalla condotta lesiva dell’altrui interesse. Salvi sembra affrontare la questione in terminimaggiormente soggettivisti, imputando all’autore solo le conseguenze lesive che ha voluto e si è

rappresentato al momento della condotta o che, almeno, ha accettato (è il caso del dolo eventualedel diritto penale).La responsabilità per colpa deve essere concepita, come già si è detto, non già in termini dirimproverabilità (come, invece, è utile fare in diritto penale secondo i dettami della teoria normativadella colpevolezza), bensì di scarto tra un paradigma comportamentale previsto da una norma e ilcomportamento realmente tenuto dal soggetto nel fatto storico. A monte di questo scartorisiederebbe una mancanza dell’autore in termini di diligenza. E laddove agisce questa mancanza, è

 possibile attribuire all’autore tanto l’evento quanto le conseguenze che da esso derivano. Lo stessodicasi per la colpa omissiva: Salvi sembra applicare la clausola di equivalenza dell’articolo 40,secondo comma, del codice penale. Il soggetto che avrebbe potuto evitare l’evento, utilizzando ladiligenza richiesta, laddove fosse investito dell’obbligo giuridico di impedirlo, è responsabile.Dunque è possibile rilevare l’esistenza di un nesso causale tra l’evento e le sue conseguenze lesive,determinatesi a causa della mancata diligenza dell’autore. Ciò che permette di imputargli l’interafattispecie lesiva.Per quel che concerne la responsabilità oggettiva, si rimanda a quanto detto poco più sopra e in altre

 parti del discorso sull’intervento del fortuito come liberatoria dalla responsabilità, sull’interruzionedel nesso causale in tali circostanze e sulle modalità di ripartizione dell’onere probatorio.

● 4. La responsabilità solidale L’articolo 2055 statuisce che, qualora sia possibile imputare il fatto dannoso a una pluralità disoggetti, questi saranno obbligati solidalmente nei confronti del danneggiato. Si noti che la norma

 parla di un solo fatto dannoso, sicché la fattispecie più probabile è quella della coautoria: piùsoggetti, con la propria condotta colposa, omologa, determinano un evento dannoso unico. Tizio,Caio e Sempronio che decidono di rovinare l’automobile di una quarta persona. Nell’ipotesi dellaresponsabilità colposa è applicabile il secondo comma dell’articolo 2055 (per Salvi questa normanon è applicabile nel caso di responsabilità oggettiva): colui che risarcisce il danno è titolare diun’azione di regresso nei confronti dei coautori dell’illecito e a ciascuno chiederà un risarcimentoche sia proporzionale rispetto alla propria colpa, per cui se, nell’esempio fatto poc’anzi, Tizio eCaio si limitano a rigare l’auto del soggetto e Sempronio lancia un sasso sul parabrezza,frantumandolo, supponendo che a risarcire il danno sia Caio, questi chiederà senz’altro a Tizio unasomma di importo inferiore rispetto a quella che domanderà a Sempronio. Si diceva che per Salviquesto è un principio applicabile alla responsabilità per colpa e non già alla responsabilità oggettiva;ciò che sarebbe desumibile da un espresso riferimento alla colpa, di cui alla norma in oggetto.

 Nell’ipotesi in cui sia dubbia la gravità delle colpe dei singoli ovvero – secondo la tesi di Salvi – 

sussista una fattispecie di concorso nella responsabilità oggettiva sarà applicabile il terzo comma:nel primo caso, direttamente, nel secondo, in via analogica. Fino a prova contaria, dunque,l’ordinamento presume in questi casi un grado equivalente di responsabilità tra i concorrenti

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nell’illecito. Ciò che determinerebbe in capo a ciascuno di essi obbligazioni risarcitorie di egualeimporto. In altri termini, il danno viene ripartito in parti uguali, sicché ciascuno dovrà risarcire lamedesima somma.

● 5. Il concorso della vittima Il primo comma dell’articolo 2056 opera un richiamo all’articolo 1227, secondo il quale, in un

rapporto obbligatorio, qualora l’inadempimento sia imputabile in parte a una mancanza di diligenzadel creditore, il risarcimento richiesto al debitore sarà ridotto proporzionalmente a detta mancanza.Così, nella fattispecie in cui sussista quello che viene definito concorso della vittima, nellaresponsabilità extracontrattuale. La norma, letteralmente, fa riferimento alla colpa della vittima,sicché il risarcimento richiesto all’offensore sarà ridotto proporzionalmente alla colpa della vittima,tenuto conto del grado della colpa e della gravità delle conseguenze della lesione. Salvi si soffermainnanzitutto sul concetto di “colpa della vittima”: è questa nozione da affiancare, nel suo significatoletterale, a quella di colpa (chiaramente, dell’offensore) di cui all’articolo 43, primo comma, terzocapoverso, del codice penale? Di fatto, a monte della situazione di colpa della vittima nonrisiederebbe la violazione di un paradigma normativo. Ciò che, però, accomuna le due fattispeciecolpose è la mancata diligenza: se si parla di colpa dell’offensore, lo scarto tra il paradigma

comportamentale prescritto dalla norma e il comportamento tenuto dal soggetto nel fatto storico èdeterminato proprio dalla mancanza di diligenza del soggetto; se si parla, invece, di colpa dellavittima, la mancata diligenza fa sì che costui non sia stato in grado di difendere il proprio interessein maniera ottimale, sicché la lesione e le sue conseguenze sono state senz’altro conseguenza anchedel comportamento della vittima. Per tale ragione in proporzione alle sue mancanze, il risarcimentorichiesto all’offensore verrà diminuito. I criteri per determinare detta diminuzione sono due: il gradodella colpa e la gravità delle conseguenze. Laddove sussiste una colpa minima che, però, è in gradodi determinare conseguenze gravissime – dice Salvi – il giudice compenserà i due criteri, valutandosempre come la vittima non sia stata in grado di difendere il proprio interesse.Rileva altresì il secondo comma dell’articolo 1227 che fa sempre riferimento alla mancanza didiligenza della vittima (applichiamo direttamente la norma alla responsabilità extracontrattuale).Qui il difetto di diligenza non comporta una diminuzione della responsabilità dell’offensore ma laesclude del tutto, essendo il comportamento della vittima in grado di interrompere il nesso causaletra la condotta dell’offensore e l’evento dannoso; in altri termini, la vittima avrebbe potuto evitare ildanno qualora avesse tenuto un comportamento diligente almeno nella misura in cui ciò erarichiesto dalla norma. Di conseguenza, applicando i principi che fondano la clausola di equivalenzanel diritto penale, l’omissione di comportamento diligente equivale a tenere il comportamento chela norma (sia espressa o meno) voleva evitare, sicché la responsabilità del fatto è tutta in capo allavittima. Con la conseguenza che nessun risarcimento le è dovuto da parte dell’offensore, spezzato,come si è, il nesso causale.

● 6. Il concorso di causa naturale Resta solo da domandarsi che cosa accada nel momento in cui è un evento naturale (e non giàimputabile a un altro soggetto) a spezzare il nesso causale. Potrebbe applicarsi in via analogical’articolo 1227 – afferma certa dottrina – e ridursi l’importo del risarcimento richiesto all’offensorein proporzione al tipo di ingerenza della causa naturale nelle dinamiche dei rapporti tra il fatto el’autore. In altri termini, posto che sembrerebbe dedursi da quella norma un principio di parzialeresponsabilità laddove la condotta dell’autore non sia del tutto causa dell’evento lesivo e delle sueconseguenze. In realtà la riduzione di responsabilità è determinata dal fatto che, mancando del tuttoo in parte la diligenza richiesta alla vittima, questi ha dimostrato di non essere in grado di tutelare il

 proprio interesse, sicché anche essa è stata in qualche misura responsabile dell’evento lesivo e dellesue conseguenze. Ciò che determina una diminuzione della somma risarcitoria da conferiredall’offensore alla vittima. Nell’ipotesi in cui intervenga una causa naturale, invece, la vittima nonha peccato in diligenza, dimostrandosi in grado di tutelare il proprio interesse. E il fine ultimo della

disciplina sulla responsabilità civile è – lo ricordiamo sempre – quello di tutelare l’interesse dellavittima, riparando la frattura tra privati che viene a crearsi nel momento in cui si determina unevento lesivo. Ciò fa sì che, nella fattispecie in oggetto, posto che la vittima è estranea alle

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dinamiche dei rapporti tra il fatto e l’autore. Di conseguenza, ai fini riparatori, occorre ilrisarcimento integrale del danno. Ecco perché l’offensore sarà comunque tenuto al risarcimento per intero, senza diminuzioni. Ed è questo il motivo per cui, pur mancando un riferimento esplicito nelcodice alla fattispecie del concorso della causa naturale, non si ritiene ammissibile il richiamoall’articolo 1227.

Capitolo V. Il risarcimento del danno.● 1. Riparazione dei danni e risarcimento monetario 

E’ in epoca giusnaturalista che viene a definirsi il principio della riparazione dei fatti lesivi diinteressi protetti dall’ordinamento. È ovvio che la soluzione migliore sarebbe quella di annullare il

 procedimento fattuale che ha determinato l’evento dannoso, al fine di riportare la vittima nellatitolarità della situazione giuridica lesa. Ciò non è, però, possibile. Per tale ragione nel corso degliultimi duecento anni, a seconda delle diverse esperienze giuridiche, si sono definite due soluzionialla questione relativa alle modalità di riparazione delle lesioni di interessi protetti. Da un lato, sottola spinta del principio romanistico della condemnatio pecuniaria, il codice napoleonico del 1804 haoptato per la riparazione per equivalente, laddove il responsabile conferisce una somma di denaro

alla vittima al fine di permetterle di porsi nella titolarità di una situazione giuridica che non siaquella preesistente – che è stata lesa e che, per tale ragione, non potrà essere ripristinata – ma che aquella possa dirsi equivalente. D’altra parte, soprattutto nelle esperienze socialiste, si è preferita unaforma di tutela reale, attraverso il tentativo di ripristinare la situazione lesa: in quanto tale, però,detta situazione non può più tornare a esistere, sicché il rimedio riparatorio imponeva di immettereil soggetto nella titolarità di una situazione del tutto identica a quella lesa, che non fosse, per ciòstessa, soltanto equivalente (come accade quando Tizio conferisce a Caio una certa somma didenaro con la quale potere pagare la riparazione dell’automobile distrutta durante l’incidente), mache ne avesse tutti i caratteri (Caio viene immesso nella titolarità non di una somma di denaro ma diun bene uguale a quello distrutto). La riparazione pecuniaria avrà maggiore successo di quella reale.In un primo momento, identificando il danno ingiusto con la lesione di un diritto assoluto, ilrisarcimento sarà determinato nell’equivalenza in denaro del diritto violato e delle perdite cagionateda tale violazione. Ciò non poneva particolari problemi nel 1942, laddove si riteneva che il dannonon patrimoniale occupasse uno spazio residuale nell’universo della responsabilità civile. Peraltro,essendo l’unica forma di danno non patrimoniale ritenuta tale quella del danno morale-soggettivo, siidentificava la somma risarcitoria con il   pretium doloris: concezione, questa, che si è rivelatainsufficiente a spiegare la funzione satisfattoria che è tipica del risarcimento del danno non

 patrimoniale che non occupa affatto uno spazio residuale nell’ambito della responsabilità civile. Èdi fatto impossibile – come già si ebbe modo di vedere – proporre un’equivalenza tra il

  perturbamento psichico dovuto alla perdita, ad esempio, di una persona cara e una somma didenaro. Ecco, allora, che non può parlarsi, in riferimento alle ipotesi cui fa riferimento l’articolo2059, di funzione meramente riparatoria: ciò che già si è rilevato, parlando, invece, di funzionesatisfattoria. E forse anche questa espressione è eccessivamente generale, dato l’aumento costante difattispecie di illecito (si ricordi sempre che Salvi abbraccia la tesi della tipicità delle ipotesi diillecito); fenomeno, questo, che comporta l’aumento proporzionale delle modalità di riparazione (insenso lato) e delle funzioni che, in riferimento al fatto concreto, il risarcimento assume.

● 1.1. Riparazione, risarcimento e altri rimedi civili Dunque, prima di passare allo studio delle norme riguardanti il risarcimento in senso stretto, occorreosservare come con il termine riparazione si intenda la risposta dell’ordinamento a un fatto lesivodi un altrui interesse normativamente protetto. Tra i rimedi che il diritto civile mette a disposizionequello risarcitorio è uno dei tanti possibili. E non l’unico, come Salvi chiarisce fin dall’inizio dellasua trattazione. Peraltro è bene distinguere il rimedio risarcitorio da altri due rimedi possibili: ilrimedio inibitorio e il rimedio restitutorio. Il risarcimento, rispetto all’inibitoria, vuole rimediare a

danni appartenenti al passato, mentre la tutela per cessazione (che è, come si è visto, sinonimo ditutela inibitoria), a danni ancora attuali. Il risarcimento, poi, rispetto alla tutela restitutoria, nonvuole affatto ripristinare la medesima situazione preesistente alla lesione, creandone in capo alla

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vittima una equivalente: in altri termini, con la restituzione, la vittima rientra in possesso del bene perduto, oggetto della lesione, con il risarcimento, alla vittima vengono dati gli strumenti necessari per venire a essere titolare di una situazione equivalente a quella precedente la lesione.Il risarcimento, come avrà bene modo di vedersi, può essere per equivalente o in forma specifica, aseconda che venga corrisposta alla vittima una somma in denaro o una prestazione di caratterediverso ai fini riparatori. Il sistema della tutela civile, dunque, è costellato di soluzioni diverse al

 problema della violazione di un diritto normativamente protetto. Secondo Salvi detto sistema siconfigura come caratterizzato da un principio di unità-differenziazione: unità, sotto il profilogeneralissimo della tutela, e differenziazione, sotto il profilo della diversa quantità di rimedi alleviolazioni di situazioni giuridiche attive.

● 2. Il risarcimento per equivalente Una prima forma di risarcimento si ha attraverso la corresponsione di una somma in denaro da partedel soggetto danneggiante nelle mani del soggetto danneggiato. Ciò accade nel momento in cui, aseguito del giudizio di responsabilità, si ottenga una risposta positiva alla questione se siaammissibile o meno lo spostamento da chi ha subito il danno a chi lo ha cagionato dellasopportazione degli effetti negativi del danno. Questa forma risarcitoria prende il nome di

risarcimento per equivalente.● 2.1. Il principio della riparazione integrale. Lucro cessante e compensatio 

La norma di vertice per il risarcimento per equivalente è l’articolo 2056. Esso contiene tutta unaserie di rimandi alla disciplina generale dell’obbligazione per quello che riguarda i criteri dideterminazione del quantum risarcitorio. Uno di questi rimandi viene effettuato all’articolo 1223che, per quello che riguarda il danno da inadempimento, prescrive che il risarcimento non si limitial danno emergente – cioè alle conseguenze tangibili sul piano economico derivate da quellalesione: se brucia una cartiera, danno emergente sarà la perdita subita dalla distruzione dello stabile,sicché il titolare, per continuare la propria attività, dovrà comprarne un altro. E, altrettanto

 probabilmente, dovrà acquistare altri macchinari, in quantità eguale a quelli che sono venuti menonell’incendio – ma consideri anche il cd. lucro cessante, ossia il mancato guadagno, futuro,derivante dall’evento lesivo: nell’esempio della cartiera, sarà lucro cessante tutto il mancatoguadagno derivato dal fatto, ad esempio, di non concludere contratti con i clienti per tutto il periodonecessario alla riparazione materiale dei danni. Ciò si sostanzia nel cd.  principio della riparazioneintegrale: il danneggiante deve risarcire integralmente i danni. Non può, salvo nei casi

 particolarissimi di cui già si è detto in riferimento all’articolo 1227, limitarsi a risarcirne una parte.E la riparazione integrale comprende, come si è detto, la somma del danno emergente e del lucrocessante. A questo computo dovranno sottrarsi le conseguenze positive che il soggettoeventualmente ha recepito dal danno: si diceva che il convenuto può opporre alla domandadell’attore un’eccezione, allegando la prova del giubilo da quest’ultimo manifestato in seguito alfatto di avere subito il danno. Si parla, a tale proposito, di compensatio lucri cum damno.

● 2.2. Riparazione integrale e causalità giuridica: le “conseguenze dirette e immediate” Al di là del discorso sulle diverse teorie della causa, mutuabili in parte dal diritto penale, almeno per quel che concerne il discorso della causalità in fatto, rimane da comprendere come esse possanointeragire con il principio della riparazione integrale. In altri termini, occorre comprendere fino adove si spinga l’obbligo risarcitorio in capo al danneggiante: l’articolo 1223 fa riferimento alleconseguenze immediate e dirette. Di conseguenza, il riferimento al nesso causale rileva nelmomento in cui si tratta di comprendere dove si spinge la risarcibilità del danno-conseguenza. Larisposta fa riferimento non a un criterio di prevedibilità, peraltro escluso dal mancato richiamodell’articolo 2056 all’articolo 1225, bensì a un criterio di ragionevolezza, sicché imputare aldanneggiante tutte le conseguenze che potenzialmente potrebbero derivare dal danno,significherebbe gravarlo di un’obbligazione eccessiva. Ecco allora che il criterio dell’immediatezza

delle conseguenze è utile per circoscrivere il novero di eventi imputabili al danneggiante.Operazione che già veniva svolta nel momento in cui si trattava di temperare l’applicazione dellacausalità naturale, che, altrimenti, avrebbe allargato eccessivamente il novero dei responsabili per 

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un certo evento lesivo.

● 2.3. Danni evitabili, danni futuri, pericolo di danni L’articolo 2056 opera un rimando all’articolo 1227. Il secondo comma di questa norma afferma cheil creditore non può chiedere risarcimento alcuno per i danni che avrebbe potuto evitare. È chiaroche si tratta dei danni-conseguenza, cioè delle conseguenze dell’evento lesivo da lui patito. Se,

infatti, utilizzando l’ordinaria diligenza il creditore avesse potuto evitare dette conseguenze, alcunrisarcimento gli sarà dovuto. Stesso principio si applica nella responsabilità extracontrattuale. Sinoti, peraltro, la differenza rispetto al primo comma dello stesso articolo 1227: lì si trattava delconcorso di responsabilità tra creditore e debitore nella determinazione del danno, riferendosi, però,al danno-evento e non già alle conseguenze lesive patite dal creditore stesso. Anche questo discorsotrovava piena applicazione nella responsabilità extracontrattuale.Un rimando, invece, non è effettuabile dall’articolo 2056 all’articolo 1225: manca, prima di tutto,un richiamo letterale a detta norma. Nella responsabilità contrattuale sono risarcibili solo i danni(intesi come conseguenze dell’evento lesivo) che erano prevedibili al momento in cui sorsel’obbligazione. Questa norma si ascrive al contesto delle regole di correttezza nella

 programmazione dei rapporti tra obbligati, ispirandosi peraltro al principio solidaristico di cui è

  permeata la nostra Costituzione: attraverso la previsione delle conseguenze lesive, dunque, sicircoscrive l’ambito dei danni risarcibili al momento in cui venne in essere l’obbligazione chesottostà all’ulteriore obbligazione risarcitoria nascente da inadempimento. Così non è nellaresponsabilità extracontrattuale, laddove alle spalle dell’obbligazione risarcitoria non risiedeun’obbligazione preesistente e, pertanto, non era richiesta la costituzione di rapporti tra obbligatiispirati a un principio di correttezza e di solidarietà. Ecco, quindi, l’argomento concettuale chegiustifica l’assenza del rimando all’articolo 1225 nella norma di vertice del risarcimento per equivalente.Rimane da trattare il problema del danno futuro. Con questa espressione si indica una pluralità difattispecie: innanzitutto, se intesa nel suo senso letterale, tutti i danni, concepiti come conseguenze,sono futuri, nel senso che si ripercuotono successivamente alla determinazione della lesione. Altrosignificato si dà all’espressione laddove la si intende come continuazione nel tempo nella

 proposizione di conseguenze dannose sempre nuove, anche oltre il termine del giudizio. In altritermini si fa riferimento al caso in cui un evento lesivo produce danni anche oltre il momento dellasentenza. In tale fattispecie i danni ulteriori rispetto alla pronuncia possono essere contemplati dallastessa o meno; in tale ultimo caso, si richiederà una nuova valutazione per le conseguenze dannose

 prodottesi dopo il primo giudizio. Nell’altro caso, invece, la sentenza sarà articolata in modo tale dacomprendere un’equa valutazione delle conseguenze ulteriori a essa. Ma il danno futuro non è soloquesto: viene, infatti, utilizzata detta espressione anche nell’ipotesi del pericolo del danno. Questasituazione non è fonte di risarcibilità ex articolo 2043, ma è, al contrario, oggetto di regole speciali(si pensi all’azione del danno temuto: articolo 1172). Il pericolo del danno viene a rilevareesclusivamente nell’ipotesi in cui da esso scaturiscano conseguenze dannose, quali la diminuzionedel valore dell’oggetto su cui verte la situazione del pericolo; diminuzione, questa, determinata

 proprio dall’esistenza del pericolo. In tale caso, allora, si applica il rimedio dell’articolo 2043.In definitiva, quindi, può definirsi il danno futuro come l’insieme delle conseguenze lesive che, piùo meno indirettamente, perdurano nel tempo, scaturendo da un qualsiasi evento lesivo di uninteresse normativamente protetto. A differenza del danno permanente, il danno futuro abbracciauna serie di fattispecie più ampia, comprendendo in essa anche il cd. danno da pericolo. Ciò che,invece, non può essere compreso nel danno permanente, la cui caratteristica è, appunto, quella diessere un danno “di durata”, similmente a ciò che può dirsi per il reato permanente nel diritto

 penale. Non necessariamente, infatti, il danno da pericolo ha la caratteristica di perdurare nel tempo.

● 2.4. Riparazione integrale e apprezzamento equitativo. Lo ius moderandi L’articolo 2056 fa riferimento all’articolo 1226, secondo il quale, nella responsabilità contrattuale,

il giudice può, nell’impossibilità di stabilire l’entità del danno secondo lo schema del dannoemergente e del lucro cessante, definire il quantum risarcitorio utilizzando l’equità. Si richiede,dunque, una valutazione equitativa che diverge comunque di molto, nella sua ratio,

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dall’apprezzamento, sempre condotto secondo equità, di cui agli articoli 2045 e 2047 (comma 2),laddove lo scopo era quello di ridurre l’importo della somma che il danneggiato avrebbe consegnatoal danneggiante, non già perché è impossibile l’applicazione della regola dell’articolo 1223, bensì

 perché la situazione non rientra integralmente nello schema generale dell’articolo 2043 (iusmoderandi).

2.5. Il risarcimento del danno patrimoniale alla salute Quello della salute è senza ombra di dubbio un bene che è oggetto di tutela nel nostro ordinamento.Il danno alla salute può avere una rilevanza economica: si ricordi l’esempio dell’operaio che perdeuna mano e che non può più lavorare alla catena di montaggio alla quale era preposto. In tal caso la

 perdita è suscettibile di valutazione economica, visto che è quantificabile in tali termini (si pensialla retribuzione che viene a mancare a seguito dell’incidente). Ecco, allora, che, per megliospiegare la questione, la Cassazione si è pronunciata distinguendo tra capacità di lavoro in sensolato, in riferimento al valore della persona umana, cioè a come, in quanto tale, un individuo puòlavorare, e capacità di lavoro in senso stretto, sussumendo la quantità di lavoro che il soggetto può

 produrre nello schema del danno emergente e del lucro cessante. In effetti, laddove il lavoratoreviene retribuito, l’applicazione della regola dell’articolo 1223, non è per nulla difficile: è

sufficiente, infatti, applicare la teoria della differenza per avere un’idea della perdita economicasubita dal lavoratore a seguito della lesione all’integrità psicofisica. I problemi sorgono laddove illavoratore non percepisca reddito alcuno: si pensi alle casalinghe. E qui torna utile la critica cheSalvi porta alla teoria della differenza: l’analisi dei danni deve essere, infatti, portata su un pianofunzionale e non rimanere ancorata a un mero studio della struttura del problema. Ecco allora che laquestione verrà valutata tenendo in considerazione il tipo sociale a cui appartiene colui che hasubito il danno: sotto un profilo funzionale, il tipo della casalinga svolge un lavoro del tuttoequiparabile a quello di un collaboratore domestico. Peraltro lo stesso codice civile equipara lacapacità di lavoro professionale a quella casalinga, dando a questa ultima autonoma rilevanza. Per tale ragione, il danno patrimoniale subito dalla casalinga verrà liquidato applicando l’articolo 1223,tenendo conto del reddito percepito da un collaboratore domestico svolgente le medesime mansioni.

● 2.6. Risarcimento, indennità, pena privata Si è già parlato di che cosa distingue il risarcimento dall’indennità: le fattispecie di indennità (oindennizzo) non rientrano integralmente nello schema generalissimo descritto dall’articolo 2043. Ingenere si usa affermare che l’indennità è dovuta laddove non sussista un danno ingiusto. In realtànon è la giustizia del danno a fare sì che l’ordinamento disponga non il risarcimento ma un’altraforma di pagamento. Essendo la situazione non sussumibile nello schema della responsabilitàextracontrattuale, ciò significa che essa non richiede un rimedio riparatorio, ciò che invece è ilrisarcimento. Per tale motivo sarà utile disporre un altro tipo di rimedio, connotato da funzionidiverse. Si parla di indennizzo, infatti, laddove la pubblica amministrazione espropri un terreno: intale caso non c’è l’esigenza di riparare a un danno, avendo l’amministrazione agito per un interesse

 pubblico. Potremmo dire che viene corrisposta una somma al fine di dare al privato un “equoristoro” (art. 37 T.U. espropriazione): una somma, cioè, che funga da contropartita rispetto alterreno di cui non è più proprietario. Certo è che questo indennizzo si avvicina maggiormente, sottoil profilo concettuale, al corrispettivo di un contratto di compravendita che al risarcimento di undanno ingiusto.Resta da capire che cosa si intenda per pena privata. Salvi auspica l’ingresso nel nostro ordinamentodelle abstreintes francesi: si tratta di somme che vengono corrisposte da colui che non adempie aun’obbligazione o che, comunque, in via generale, non rispetta un obbligo o un dovere di cui ètitolare, in misura di un tanto per ogni giorno, mese o anno di ritardo. Dette somme non hanno unafunzione riparatoria, prevalendo in essa la componente sanzionatoria: tanto maggiore è il ritardo,tanto maggiore sarà la somma da corrispondere. È la conseguenza di quella che certuni (PALAZZO)definiscono privatizzazione del diritto penale: nelle ipotesi di rilevanza minore, il diritto di punire

viene trasferito dallo Stato ai privati stessi che, utilizzandolo, regolamentano i propri rapporti. Salviintravede un esempio di pena privata nell’ipotesi del datore di lavoro che, avendo licenziatoingiustificatamente un certo soggetto, gli deve una somma pari a cinque mensilità a titolo di

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risarcimento. In realtà anche qui la funzione prevalente, secondo Salvi, è quella sanzionatoria ericondurre questa fattispecie alla categoria del risarcimento significherebbe svilire tutto quanto si èdetto circa la funzione esclusivamente riparatoria del rimedio risarcitorio. Tipico, peraltro, di unatutela civile che non ha subito influenze dall’ambito penale.

● 3. Il risarcimento in forma specifica 

Secondo l’articolo 2058 il soggetto danneggiato può chiedere che venga reintegrata la situazione preesistente l’evento dannoso. È ciò che in termini tecnici prende il nome di risarcimento in forma specifica. Se il giudice ritiene che un simile rimedio sia eccessivamente oneroso per ildanneggiante, disporrà  solo il risarcimento per equivalente. Rimane da chiedersi, compresa lanorma, se quello dell’articolo 2058 sia o meno un rimedio risarcitorio. La risposta affermativa siscontra con la tendenza giurisprudenziale di utilizzare l’articolo 2058 quale norma giustificantel’applicazione della tutela inibitoria anche in quei casi in cui essa non sia espressamente prescrittadal legislatore: in realtà, si è visto, il percorso da fare in questa circostanza è un altro. Nonammettendo l’inibitoria laddove ciò non sia previsto, si estenderebbe eccessivamente l’ambito dellatutela risarcitoria, pretendendosi trasferimenti di somme di denaro anche laddove la Costituzionenon li ammetta, non essendo in gioco interessi rilevanti sul piano patrimoniale. Con tutto ciò che si

è detto sulla responsabilità per danno non patrimoniale. La risposta affermativa trova un duplicericonoscimento sotto il profilo letterale e sotto quello storico-evolutivo. Da un lato, infatti, larubrica dell’articolo 2058 parla di risarcimento: si sa, tuttavia, che la rubrica non è vincolante. Ilsecondo comma dell’articolo 2058, utilizzando l’avverbio “solo” pone sul medesimo piano ilrisarcimento per equivalente e quello in forma specifica. Ciò che significa che anche quest’ultimo èun rimedio risarcitorio. D’altra parte, invece, si ricorda che la soluzione del rimedio della formaspecifica è stata adottata da alcuni ordinamenti che non riconoscevano il rimedio del risarcimento

 per equivalente sempre a fronte della questione della riparazione dei danni. Questo connotastoricamente il risarcimento in forma specifica di una forte funzione riparatoria.

● 3.1. Risarcimento in forma specifica e tutela inibitoria Un terzo argomento a sostegno della tesi secondo la quale quello dell’articolo 2058 è un rimediorisarcitorio risiede nella distinzione tra quello e la tutela inibitoria. Quest’ultima pone fine a danniche perdurano ancora nel momento in cui la si pone in essere, mentre il primo rimedio concernenecessariamente i danni del passato, riguardando tutt’al più le conseguenze che possono derivarnein futuro. A monte dell’inibitoria, poi, risiede un disatteso obbligo di non fare di cui sono titolaritutti i consociati e il rispetto del quale permette a un soggetto il godimento di un qualche diritto. Amonte del rimedio dell’articolo 2058 non risiede un obbligo di tale natura, ma semplicemente laviolazione del generale divieto del neminem laedere.Si noti, dunque, come non si tratti solo di una questione letterale laddove si tende ad avvicinarequello dell’articolo 2058 al rimedio generale previsto ex articolo 2043 più che alla tutela inibitoria,di cui, peraltro, secondo la giurisprudenza, lo stesso articolo 2058 costituirebbe il fondamento inmancanza di esplicite previsioni letterali disponenti la tutela per cessazione.

● 3.2. Risarcimento in forma specifica e per equivalente. Impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità

Appurato che pure quello in forma specifica è un rimedio risarcitorio, occorre soffermarsi sullediverse nozioni di danno che sottendono ai due diversi modi di intendere il risarcimento. Per megliodire, è d’obbligo comprendere che, pur nell’unitarietà della figura risarcitoria rispettoall’espletamento di una generale funzione di riparazione del danno, sussiste una differenza tra i duerimedi per quel che concerne il modo di intendere il danno. Se, infatti, il risarcimento per equivalente fa fronte a una perdita di carattere economico, il risarcimento in forma specifica si ponequale risolutore di un danno che produce le sue conseguenze sul piano materiale: in tale circostanza,dunque, il danno è concepito come modificazione della realtà materiale. Ecco perché Salvi parla, da

un lato, di coppia danno economico-risarcimento per equivalente, e dall’altro, di binomio dannomateriale-risarcimento in forma specifica. Salvi rileva, peraltro, la minore importanza di questaultima coppia rispetto alla prima, sicché il giudice disporrà il risarcimento in forma specifica

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solamente nel momento in cui ciò sia possibile, ovvero solo nei casi in cui sia possibile, in concreto,la creazione di una situazione giuridica soggettiva in capo al danneggiato del tutto identica rispettoa quella di cui godeva in precedenza dell’evento lesivo. Sarebbe utile, infatti, concepire i due rimedicome paralleli, tenendo sempre conto della possibilità di usufruire del rimedio per equivalente,attraverso il computo dell’articolo 1223 o per mezzo della pronuncia equitativa dell’articolo 1226.In alcuni casi, però, come ricorda il primo comma dell’articolo 2058, è possibile, almeno in parte,

 per il giudice disporre il rimedio in forma specifica. Nel momento in cui non sia possibile ordinareuna simile soluzione, allora, verrà disposto il rimedio per equivalente. Se ciò sarà, invece, possibilesolo in parte, il giudice disporrà il rimedio ex articolo 2058 per la parte in cui ciò sia possibile. Per la rimanenza, disporrà un conguaglio in denaro che il danneggiante trasmetterà al danneggiato. Maun’altra limitazione viene posta al rimedio in forma specifica: si legga il secondo commadell’articolo 2058. Lì si fa riferimento alla possibile eccessiva onerosità per il danneggiante nelrisarcire in forma specifica. Sia chiaro: ogniqualvolta il giudice disponga il rimedio dell’articolo2058, il danneggiato si troverà a essere titolare di una situazione attiva del tutto nuova, sicché,immaginando che essa si sostanzi nel diritto di proprietà, costui verrà a essere proprietario di un

 bene nuovo, quand’anche il bene danneggiato fosse, prima della lesione, un bene deteriorato: ciòche faceva sì che il suo valore economico fosse minore di quello che era al momento dell’acquisto

nella sfera giuridica del suo proprietario. Per questa ragione non dobbiamo intendere l’eccessivaonerosità soltanto nell’ottica strutturalista della differenza tra il valore che il bene aveva prima dellalesione e quello che ha nel momento in cui un nuovo bene, identico a quello esistenteantecedentemente, ha dopo la riparazione. Bisogna, infatti, concepire l’eccessiva onerosità intermini un po’ più ampi. Il danneggiante, infatti, nel ripristinare lo stato di cose precedenti nondovrà compiere sforzi eccessivi. Senz’altro non dovrà compiere uno sforzo maggiore – e, tradottoquesto in termini economici, non dovrà spendere di più – di quello che il danneggiato avevacompiuto per l’acquisto del bene (o, più in generale, di quella situazione attiva) nel suo patrimonio.Occorre, quindi, valutare la questione in termini di proporzionalità negli sforzi economici: da unlato, quello del danneggiato al momento in cui acquisto il diritto, dall’altro quello del danneggiantenel momento in cui immette il danneggiato in una situazione giuridica (attiva) identica a quella daquesti goduta in precedenza.

● 3.3. Il risarcimento per danno all’ambiente Senza soffermarci troppo sulle riflessioni che Salvi opera per quel che riguarda il dannoall’ambiente (Salvi, infatti, già aveva pubblicato il proprio testo nel momento in cui entra in vigore,

 peraltro con grande sorpresa del mondo giuridico italiano, il nuovo codice dell’ambiente, il 29aprile 2006), vediamo le principiali linee di pensiero dell’articolo 18 della legge 349 del 18 luglio1986.Il primo comma dell’articolo 18 definisce il danno all’ambiente: si tratta di qualsiasi modifica innegativo allo stato ambientale (degrado, danneggiamento, distruzione, ecc.). L’ambiente è un benecollettivo, nel senso che titolari dei beni ambientali sono i consociati in senso lato, e non questo oquell’individuo (ciò faceva sì che, prima del 2006, titolari dell’azione a tutela di tali beni fossero lo

Stato, gli enti territoriali e gli enti esponenziali ambientali. Oggi la situazione è leggermentediversa). Quello all’ambiente è anche un danno patrimoniale. Può, infatti, essere risarcito secondolo schema del danno emergente e del lucro cessante o, meglio, data la non sempre facilesussumibilità della fattispecie nelle ristrettezze di questo schema, secondo la valutazione equitativadell’articolo 1226.Il sesto comma dell’articolo 18 definisce il rimedio per equivalente a carico di colui che pone inessere gli illeciti di cui al primo comma. L’ottavo comma, infine, definisce la possibilità per ilgiudice di disporre, quando ciò in concreto è possibile, la riparazione in concreto della fattispecieviolata. Salvi si domanda che cosa accada quando ciò non sia possibile: senz’altro, quando ildanneggiante singolo non possa riparare con le proprie mani al danno cagionato, dovrà provvedervifinanziando la riparazione economicamente: si pensi a un caso di piromania. Il piromane che brucia

un migliaio di alberi in un parco nazionale, materialmente, non può porvi rimedio. Ecco, allora, cheoltre a dovere risarcire lo Stato del danno causato (ex art.18.6 L. 349/86 che rimanda all’art. 2056c.c.), dovrà anche finanziare l’opera del corpo forestale e dei volontari che vorranno rimediare,

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 piantando nuovi esemplari e curando il terreno laddove sia stato bruciato. Si viene così volutamentemeno al criterio di proporzionalità al quale si faceva riferimento in chiusura dell’ultimo paragrafo: equesto, sottolinea Salvi, perché nel danno ambientale alla componente riparatoria si affianca quellasanzionatoria. Con la conseguenza che laddove il danno rilevante sul piano civilistico venga atoccare non solo le dinamiche tra privati ma interessi superindividuali, sia ammissibile un’ingerenzadello Stato che dispieghi il proprio potere sanzionatorio attraverso norme del genere. Ed è ciò che

accade nella normativa sul danno ambientale, laddove si verifica un’inversione di tendenza rispettoalla logica del codice che predilige il rimedio per equivalente. Qui, infatti, manca il riferimentoall’eccessiva onerosità del rimedio in forma specifica proprio perché volutamente si prescinde da unqualsiasi criterio di proporzionalità. E, ancorché si faccia riferimento nell’ ottavo comma, al

  principio dell’impossibilità, il danneggiato è comunque tenuto a finanziare gli interventi diriparazione al danno commesso. Ciò che fa sì che, al lato pratico, il rimedio in forma specifica siasempre esperibile, affiancandosi così al rimedio per equivalente che perde così la propria superioritànel campo del risarcimento.

● 4. Il risarcimento del danno non patrimoniale Resta da chiarire come avvenga il risarcimento del danno non patrimoniale. E per farlo, occorrerà

meglio confutare la tesi di Jhering sull’equivalenza di fondo del risarcimento nel danno patrimoniale e nel danno non patrimoniale. Ciò a cui, peraltro, già si fece cenno parlando dellecaratteristiche generali del danno non patrimoniale (si rilegga, se necessario, il secondo capitolo).Si torni all’esempio dello studente che viene colpito da una trave mentre è seduto a lezione. Lostudente muore e la scuola corrisponde decine di milioni di euro alla famiglia. È difficile credereche quella somma, per quanto consistente, sia in grado di rifondere la famiglia della perdita subita.Perde quindi di significato la teoria secondo la quale la somma che la vittima del danno non

 patrimoniale riceve a titolo di risarcimento abbia lo scopo di conferirle i mezzi per ricostituire lasituazione giuridica soggettiva che viene a perdersi a seguito del danno. Nessuno, infatti,nell’esempio fatto, riporterà in vita il ragazzo. Ecco, allora, che non potrà, per il danno non

  patrimoniale, parlarsi di funzione riparatoria-compensativa, bensì dovrà parlarsi di funzioneriparatoria-satisfattoria. La somma che la vittima riceve serve a soddisfarla e a nulla di più, nonessendo la perdita valutabile su un piano economico. E qui si procede con un’analisi in concreto, aseconda di quelle che sono le caratteristiche del danno non patrimoniale, per il quale non può certo

 parlarsi di un sistema unitario, come già si ebbe modo di vedere. Pertanto sarà soddisfatto colui che,a seguito di un periodo trascorso ingiustamente in carcere, verrà rilasciato, dichiarata la suaestraneità ai fatti che costituivano l’accusa e otterrà dallo Stato un risarcimento, come dichiaral’articolo 315 del codice di procedura penale. Sarà soddisfatto nel senso spiegato, ma nessuno potràricompensarlo del periodo trascorso dietro le sbarre.

● 4.1. “Prova” e criteri per la quantificazione del danno non patrimoniale Il danno non patrimoniale deve essere provato secondo le regole del processo civile, sicché varràtutto quello che si è detto sull’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale: l’attore

 proverà l’esistenza del danno e il convenuto, se del caso, i fatti che integrano la liberatoria. Non pare chiaro in dottrina che cosa, concretamente, l’attore debba provare. Per Salvi questo è uno  pseudo-problema se si inquadra la nozione di danno comunque come lesione di un interessenormativamente protetto, sicché sarà sufficiente provare la lesione della situazione attiva chesottende all’esigenza risarcitoria affinché il giudice possa avere elementi sufficienti per condannareil convenuto al risarcimento. Si pensi al danno da morte del congiunto: si disse che il bene leso è illegame famigliare: allegando fatti che provino l’esistenza di un tale legame, l’attore potrà vantare

 pretese risarcitorie in sede processuale.Chiarito questo punto, occorre comprendere quali criteri il giudice utilizzi per determinare ilquantum del risarcimento del danno non patrimoniale. Senz’altro non è applicabile l’articolo 1223,non essendo valutabili le conseguenze sul piano economico; così, allo stesso modo, non potrà

applicarsi l’articolo 1226, che presuppone l’impossibilità per il giudice di valutare ex articolo 1223il lucro cessante: nel danno non patrimoniale, si è detto, non è possibile sussumere la fattispecienello schema del danno emergente e del lucro cessante, sicché non sarà nemmeno possibile

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utilizzare il sistema alternativo della valutazione equitativa. E ciò è proprio perché non c’è nulla davalutare, essendo – ripetiamo! – le conseguenze dell’evento lesivo non definibili sotto il profiloeconomico. Peraltro il giudice dovrà fare i conti con le diverse fattispecie di danno non

 patrimoniale. Salvi, pur non rinnegando l’esigenza di una valutazione in concreto, suggerisce lasuddivisione in danni rilevanti sotto il profilo della lesione al principio di solidarietà e dannirilevanti, invece, per la loro funzione sanzionatoria. Nel primo caso, occorrerà tenere conto del tipo

di lesione: in sostanza, dell’evento dannoso e delle modalità con cui si è venuto meno al canonesolidaristico imposto dall’ordinamento. Nel secondo caso, partendo dalla fattispecie estrema deldanno da reato, Salvi applica in via analogica il criterio dell’articolo 133 del codice penale,tenendosi così conto, da un lato, della gravità del reato, dall’altro, della capacità a delinqueredell’autore. Si amplia così il novero dei parametri utili a valutare il fatto e a determinare il quantumdel risarcimento. Questo porta Salvi a parlare ancora una volta della cd. pena privata, riconducibileall’abstreinte francese, laddove la componente sanzionatoria viene forse a superare di importanzaquella riparatoria.Resta da chiedersi come la condizione economica del danneggiante possa rilevare. Salvi applicaanalogicamente l’articolo 133bis, laddove si chiede di considerare, nella determinazione della pena

 pecuniaria, la condizione economica del reo, così che la pena non pesi né troppo, né troppo poco sul

 patrimonio dello stesso: un corollario del principio di proporzionalità sempre valido nel sistemasanzionatorio penale. A contrario, non è accettabile la dottrina – risalente nel tempo – di quantiauspicano la considerazione delle condizioni economiche della vittima, sicché, per una vittimaricca, affinché il risarcimento comporti per lei una soddisfazione effettiva, occorrerà aumentarnel’importo. Con tutte le immaginabili conseguenze negative al principio di proporzionalità di cui sidiceva prima e ancora più sopra.

● 4.2. Principio di uguaglianza e profili garantistici. In particolare “i danni punitivi” Un altro precetto che il giudice dovrà considerare nella determinazione del quantum risarcitorio è il

 principio di uguaglianza, di cui alla Costituzione nell’articolo 3. Si sa che il giudice deve trattare icasi uguali in modo uguale, e i casi diversi in modo diverso. Ciò implica necessariamente una formadi garanzia per il danneggiante medesimo che non deve vedersi imposto un risarcimento oltremodoeccessivo, violandosi così il principio di proporzionalità. In diversi ordinamenti, quello statunitensein primis, si ritiene che, in determinati periodi e date particolari esigenze, sia una soluzioneadeguata l’aumento sproporzionato del risarcimento, così da intimidire i consociati che eviterannodi porre in essere violazioni a beni che, in quel dato momento storico, risultano particolarmente

 protetti. È il caso dei cd. danni punitivi. Ecco allora che si viola al principio di proporzionalità per sanzionare la lesione di beni che risultano particolarmente funzionali al buon andamento delle

 politiche dell’autorità governante: il parlamento promulgherà così leggi che tutelano detti beni inmodo finanche eccessivo, venendosi così meno al principio di uguaglianza, sicché, a parità dilesione (tenendo sempre conto dell’analisi funzionalista che Salvi propone dell’illecito civile),

 potranno, in momenti diversi, disporsi risarcimenti dall’importo molto differente. L’Italia è moltolontana da tali soluzioni, auspicandosi, invece, la predeterminazione dei criteri di risarcimento del

danno non patrimoniale, tenendo magari conto di quello che si è detto in questo e nei paragrafi precedenti. Per quello che riguarda il danno alla salute, per esempio, è auspicabile la definizione ditabelle, valide su scala nazionale, che definiscano il diverso quantum risarcitorio a seconda delgrado di invalidità derivato dalla lesione al bene delle integrità fisica.

● 4.3. segue. Il risarcimento del danno biologico Le conseguenze non patrimoniali del danno biologico consistono sostanzialmente nella perditadell’integrità fisica, sicché, in una valutazione del soggetto nella sua globalità, quale cioè essereumano, costui sarà impossibilitato allo svolgimento di un certo tipo di attività, non necessariamenteredditizie. In generale, non potrà, o potrà farlo solo in parte, mantenere un tenore di vita

  paragonabile a quello precedente la lesione. Salvi critica, proprio nel punto di vista

dell’uguaglianza, la soluzione che l’ordinamento aveva trovato al problema della determinazionedel risarcimento nel danno biologico. Si ritiene infatti che la determinazione di tabelle come quelledescritte in chiusura del paragrafo precedente, diverse da regione in regione, determinasse una

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lesione del principio di uguaglianza. La stessa Corte di Cassazione non trovava una soluzionemigliore alla predeterminazione di tabelle che, comunque, avrebbero dovuto essere uguali su tutto ilterritorio nazionale. Ancora oggi, comunque, la situazione non è delle più rosee, non essendosiancora giunti a una normativa in materia univocamente determinata. In sostanza, è chiaro quandorisarcire, ma non lo è il come.

4.4. La riparazione non pecuniaria del danno non patrimoniale. Rettifica, pubblicità, mero accertamentoResta da domandarsi se sia possibile, anche per il danno non patrimoniale, disporre una forma diriparazione non pecuniaria. A fronte della tesi dell’applicabilità dell’articolo 2058 anche al dannonon patrimoniale, Salvi risponde affermando che la norma sul risarcimento in forma specifica siapplica al danno patrimoniale, disponendosi la tutela in forma specifica a fianco del rimedio per equivalente che rimanda all’articolo 2056, applicabile solo ed esclusivamente al danno

  patrimoniale. Al più, potrà applicarsi l’articolo 2058 al danno non patrimoniale solo in viaanalogica. Il fatto è che, comunque, ripristinare la preesistente situazione (o meglio: una situazionedel tutto identica a quella preesistente), nell’ipotesi del danno non patrimoniale è molto difficile. Si

 pensi all’esempio del ragazzo che muore durante la lezione o del soggetto che viene ingiustamente

incarcerato o di colui che, subendo una lesione, non può più giocare a golf. In quei casi è senz’altrodifficile applicare il rimedio in forma specifica, non essendo fungibile il bene leso. Al fine diaffrontare la questione in modo corretto, dunque, non bisogna partire dal caso concreto, bensì dallafunzione generalmente espletata dal risarcimento del danno non patrimoniale. Si parlava, infatti, difunzione satisfattoria. La domanda, pertanto, è se la vittima possa ottenere soddisfazione anche per mezzo di strumenti diversi dal risarcimento pecuniario. Salvi fa alcuni esempi:

a. rettifica: si supponga che un giornalista pubblichi informazioni poco edificanti su unsoggetto. Dette informazioni non sono vere. In seguito a reclamo, il soggetto diffamatoottiene la rettifica, e cioè un altro articolo in cui la testata giornalistica porge le propriescuse, riportando le informazioni che rispondono a verità. In tal modo la vittima può dirsisoddisfatta. Salvi, a tal proposito, ricorda come l’esempio fatto si inserisca nelladelicatissima dialettica tra interessi personali e diritto all’informazione, sicché non è benecalcare eccessivamente la mano con il risarcimento, al fine di evitare censure e limiti aldiritto di espressione, che però deve essere sempre subordinato al rispetto di un principio diverità

 b.  pubblicità: è soddisfatto un soggetto dalla pubblicazione della sentenza che condannal’autore del danno? Salvi, a tale proposito, cita l’articolo 186 del codice penale che imponela pubblicazione della sentenza di condanna a spese del reo quando ciò serva a risarcire lavittima del danno non patrimoniale discendente da reato della perdita subita. In tale caso lasituazione è non dissimile a quella prevista per la rettifica, sicché un soggetto è stato leso neisuoi diritti, perlopiù personali, e, intaccato il suo nome o la sua immagine, occorrediffondere la notizia del reale stato di cose. Così se Tizio usurpa il nome di Caio per un certo

 periodo, compiendo atti illegali, la condanna prevedrà per Tizio l’obbligo di pubblicare a

 proprie spese la sentenza. Ed ecco un punto di divergenza rispetto alla tutela inibitoria:questa, infatti, trovava applicazione per i danni presenti. Nell’ipotesi presentata, laddove ilrimedio della pubblicità si rivela necessario, il danno ha già prodotto i propri effetti. Ciò chefa sì che il rimedio della pubblicità sia ascrivibile al novero dei rimedi risarcitori più che aquello dei rimedi inibitori

c. mero accertamento: vi sono casi, più lievi, in cui la fattispecie non integra la possibilità diun risarcimento, magari perché non c’è stata la lesione ma solo la rivendicazione, da parte diun individuo, di un diritto non proprio. Ecco allora che la sentenza di mero accertamento

 potrà soddisfare il vero titolare del diritto, che otterrà che sia fatta giustizia una volta e per tutte, definendo il giudice il reale stato di cose. È il caso in cui vi sia, ad esempio, unacontroversia sulla proprietà di un bene: Tizio ha prestato un bene a Caio. Quest’ultimo

ritiene di averlo usucapito, cosicché entrambi si dicono proprietari di quella cosa. Il giudicevaluterà l’effettiva decorrenza del termine di usucapione e, in conseguenza, si pronuncerà.In tale fattispecie non c’è danno alcuno; peraltro Tizio non può rivendicare il fatto di non

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avere potuto utilizzare quel bene perché lo aveva scientemente prestato a Caio senza piùrichiederlo indietro. La situazione, quindi, non riguarda la signoria di fatto sulla cosa, bensìla signoria di diritto, cioè il rapporto giuridico di esclusivo godimento che si instaura tra un

 bene e il suo proprietario.


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