Geografia Economica: metodi e strumenti di pianificazione economico-territoriale di Maria Prezioso
Capitolo IV
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CAPITOLO 3
L’Interpretazione classica e la modellistica per funzioni e strategie
Il capitolo ha lo scopo di introdurre il lettore nello studio delle dinamiche che conducono il territorio ad
assumere forme organizzative differenti e mutevoli, nel tempo e nello spazio. Il territorio, come luogo
di dominio dell’agire umano è oggi al centro di grandi cambiamenti, sia in termini istituzionali che
formali (il suo assetto). All’interno dei paesi ad economia sviluppata, cosi come all’interno dei paesi
emergenti o di quelli storicamente in una posizione di “in via” e ora “a basso livello di sviluppo” si
osserva un serrato confronto tra differenti modelli di governo ed organizzazione del territorio, volto ad
individuare quelle dinamiche che conducano allo sviluppo territoriale duraturo e sostenibile.
La ricerca di una dimensione di equilibrio tra mera crescita economica (un accrescimento
esclusivamente quantitativo) e la salvaguardia delle risorse naturali ha negli ultimi decenni chiesto agli
studiosi delle diverse discipline (geografia, economia, socio-economia, scienze ambientali, ecc.) la
definizione di modelli di sviluppo capaci di trasformare le limitare risorse endogene di cui un territorio
dispone in occasioni di sviluppo sociale ed economico.
Una realtà territoriale è un unicum, simile ad altre ma unica nella varietà delle sue componenti, fisiche
(aspetto morfologico, clima, posizione, ecc) e antropiche (storia, cultura, formazione, maturità sociale
ecc.) e tale unicità richiede un modello di organizzazione e gestione (ad opera dei policy maker)
definito ad hoc. Il fallimento dell’esportazione dei modelli di organizzazione territoriale (economica e
sociale) di natura top-down nell’esperienza dei PVS è testimonianza della necessità. di individuare
modelli di sviluppo endogeno di tipo bottom-up. Lo sviluppo deve partire dall’analisi del “modo” con
cui un territorio (ad opera dell’uomo) si è organizzato, cioè studiare il “modello” delle relazioni che
altro non è che la rappresentazione di elementi puntuali (risorse ambientali, economiche e culturali) e
delle loro dinamiche di trasformazione legate all’agire dell’uomo. L’uomo che per natura è vocato alla
soddisfazione dei propri bisogni (individuali e collettivi) ha da sempre interagito con il proprio
territorio, prima in maniera passiva (sottostando a quanto la natura poneva a sua disposizione) e poi via
via in modo attivo, arrivando a modificarlo attraverso trasformazioni successive. Lasciando ad altri
campi di studio l’analisi dell’evoluzioni delle modalità individuali e collettive dell’interazione uomo-
natura, in questo capitolo ci si soffermerà su “come” il territorio è stato storicamente organizzato e
trasformato (i modelli predittivi) dall’uomo per soddisfare i propri bisogni; e su come ancora questo
approccio sia perseguito alla ricerca di regole condivise che diano certezza all’agire economico.
La Geografia Economica ha contribuito ad elaborare diverse teorie fondate sull’uso dello spazio
geografico (inteso come territorio indifferenziato) e sui criteri che orientano la localizzazione degli
insediamenti abitativi e delle attività produttive, cioè di come l’uomo trasforma il proprio ambiente per
soddisfare i propri bisogni.
4.1 Modelli semplificativi della realtà
Per lungo tempo Geografia ed Economia hanno ridotto i complessi dettagli in cui è articolato il
territorio (sistema economico, sistema insediativio, sistema delle relazioni, ecc.) alle sue caratteristiche
essenziali, attraverso cui comprendere le dinamiche che si nascondono dietro ad un sistema
organizzativo (sia esso insediativo che produttivo).
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I geografi economici per interpretare e spiegare la complessità dell’organizzazione territoriale hanno
simulato le condizioni reali, sulla base di osservazioni empiriche, riconducendo queste ultime a formule
unitarie, più razionali. Questa operazione di semplificazione prende il nome di modello geografico-
economico. La base logica ed l’approccio seguono le regole della ricerca induttiva (dal basso verso
l’alto, dal particolare al generale); tutto il contrario dell’approccio economico, micro o macro che sia.
I primi modelli geografico-economici presentano tuttavia una stretta relazione con l’economia ed i suoi
obiettivi, servendosi di rappresentazioni schematiche e semplificate e riducendo al minimo il numero
degli infiniti elementi (variabili) di cui si compone la realtà.
Questo concetto è condiviso nell’ambito della geografia quantitativa e della new geography: un
modello deve per forza di cose razionalizzare e semplificare, deve individuare le caratteristiche
essenziali nell’interazioni tra gli uomini, i beni e le modalità con cui i primi hanno scelto di organizzare
le proprie attività.
Questa opera di razionalizzazione e di sistematizzazione avviene mediate la formulazione di assiomi e
postulati che gettano le basi per la descrizione delle condizioni rilevanti su cui il modello opererà i
propri ragionamenti. Se razionalizzare comporta, da una parte, semplificazione, ovvero una perdita di
“dettagli”, dall’altra risulta essenziale per comprendere le connessioni e le relazioni esistenti fra gli
uomini, i mercati dei beni, del lavoro e delle attività produttive e finanziarie.
Un modello o descrizione semplificata di una realtà complessa viene utilizzato per descrivere
prevalentemente fenomeni fisici, sociali, economici. Nel primo caso prevalgono gli schemi illustrativi
dello stato di fatto e quelli descrittivi delle proprietà specifiche di un fenomeno, esempi sono i modelli
di erosione del suolo, le classificazioni climatiche.
Nel secondo caso il modello si presenta come un insieme organico di relazioni concettuali su gruppi
umani, classi sociali, servizi, insediamenti, modalità di utilizzazione delle risorse, per la spiegazione
delle conseguenze sociali dei fenomeni spaziali. Un esempio è il modello che contrappone il centro alla
periferia, il Nord (sviluppato) al Sud (sottosviluppato).
Infine, nel terzo caso, prevalgono le semplificazioni descrittive dei fatti e dei comportamenti, rilevanti
in chiave economica, che si manifestano sul territorio. I modelli della rendita di posizione nelle attività
agricole e minerarie, delle località centrali in relazione ai servizi, della localizzazione delle industrie in
base ai costi di trasporto, sono alcuni dei quelli che descriveremo in questo capitolo.
I modelli che analizzeremo nei paragrafi successivi possono essere suddivisi in:
Modelli semplificati delle attività primarie, in particolare dell’uso agricolo del suolo
Modelli semplificati localizzativi delle attività produttive secondarie, in particolare industriali
Modelli semplificati localizzativi delle attività terziarie e quaternarie, in particolare dei servizi
anche avanzati
Modelli complessi di interazione intersettoriale
Si vedrà di seguito come alcune ipotesi su cui questi modelli si basano, sono ricorrenti.
4.2 Modelli semplificati delle attività primarie o dell’uso agricolo del suolo
L'allocazione della risorsa “territorio” tra uso agricolo ed extragricolo è storicamente al centro degli
studi della geografia economica e dell’economia, la separazione tra terra ed industria, tra prodotti
agricoli ed industriali, tra le allocazione degli incentivi per i differenti settori (primario, secondario,
terziario, ecc) continua, oggi, a concentrato l’attenzione degli studi sullo sviluppo economico dei paesi
(sia sviluppati che in via di sviluppo). Comprendere le dinamiche che sottostanno le scelte che
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conducono al diverso uso del suolo, sia tra i diversi settori in generale, che in particolare all’interno di
quello agricolo, è un tema che ha interessato i geografi economici da più di due secoli.
A partire dal XIX secolo e grazie all’opera di geografi pionieri come von Thünen il territorio inizia a
prendere rilevanza non solo e non più sotto il mero aspetto morfologico ma anche sotto quello
economico. Sono questi gli anni in cui le attività economiche degli stati sono prevalentemente legate
all’agricoltura e quindi l’attenzione alla variabile territorio non può che legarsi alla produzione
agricola. Come viene allocato il terreno tra le diverse produzioni? Qual è la combinazione ottimale dei
tre fattori (terra, capitale, lavoro) che orientano la localizzazione di queste attività? Queste domande
diventano, allora, il centro di studi che mirano a spiegare il comportamento dell’uso agricolo dei suoli.
4.2.1 Il modello dello “Stato isolato”
Padre delle moderne teorie della localizzazione delle attività agricole è von Thünen, proprietario
terriero tedesco vissuto a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo che formalizza un modello di uso del
suolo a fini agricoli che getterà le basi per un importantissimo filone di studi ed analisi sulla
localizzazione delle attività primarie.
La teoria di von Thünen è sintetizzata nel modello dello stato isolato (1826)1. Le basi del ragionamento
di questo modello sono formulate in una serie di assiomi che descrivono una “realtà” territoriale
semplice che ai più potrebbe risultare particolarmente riduttiva, ma che in realtà non lo è, considerando
il periodo in cui questi ragionamenti vengono condotti: siamo nella campagna tedesca dei primi del
XIX.
Gli assunti semplificativi del modello sono:
1. si è sempre in presenza di una grande pianura isolata, “tagliata fuori” da qualsiasi possibilità di
relazioni con il resto del mondo (lo stato isolato);
2. all’interno dello stato isolato vi è un unico centro (città). Esso riveste il ruolo di unico mercato
di riferimento (lungo di incontro della domanda e della offerta per la formazione del prezzo dei
beni);
3. il territorio ha fertilità uniforme e pertanto si considera come una costante; la sua morfologia
piana fa sì che non vi siano ostacoli al movimento di persone e cose (isomorfismo), quindi i
costi di produzione e di spostamento unitario sono costanti per tutte le produzioni;
4. gli agricoltori forniscono la città di prodotti agricoli in cambio di altri prodotti;
5. il trasporto dei beni avviene a cura dei produttori che utilizzano strade convergenti (dalla
periferia al centro) con uguali caratteristiche di viabilità;
6. il regime di concorrenza espresso dal mercato è teoricamente perfetto, quindi sono prodotti
solamente quei beni che hanno una domanda ai prezzi stabiliti dal mercato (i produttori non
possono influenzarli), tutti gli agricoltori cercano di massimizzare i propri profitti
“risparmiando” sul costo di movimento complessivo dei beni prodotti.
Alla luce di questa premessa, von Thünen afferma che la distribuzione delle colture agricole e delle
attività connesse intorno alla città-mercato avviene secondo un modello di utilizzo del suolo a zone (o
fasce) concentriche. Questa affermazione viene dimostrata ricorrendo a due concetti fondamentali: la
distanza e la rendita di posizione. La distanza del luogo di produzione dal mercato di distribuzione dei
beni diventa quindi la discriminante o variabile fondamentale, da cui dipenderà il valore dei terreni.
Prima di von Thünen, pochi (Smith e Ricardo, ad esempio) avevano incentrato i propri studi sulle
1 Il titolo originale dell’opera è Der Isolierte Staat in Beziehung auf Landwirtshaft.
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dinamiche economiche del territorio considerando la frizione che la distanza frappone tra produzione e
mercato.
Legati alla distanza entrano in gioco i costi di trasporto, che, essendo (nel modello esaminato) a carico
dei produttori, vanno ad influire sulle cosiddette rendite che derivano dalla produzione; quindi sulle
loro scelte. I produttori agricoli producono, infatti, in questo modello, cercando di massimizzare i
propri profitti, cioè la differenza tra ricavi totali (prezzo di mercato per quantità venduta) e costi totali
(costi di produzione più costi di trasporto).
Nello stato isolato i produttori agiranno affinché si manifesti una funzione della redita (R) del tipo:
R= rp – (rdf + C) [4.1]
Dalla [4.1] si vede come la rendita del produttore agricolo per una unità di superficie coltivata sia pari
alla differenza tra ricavi della vendita (rp) e costi totali di produzione dovuti al trasporto ed alla
coltivazione del suolo (rdf + C). Con un semplice passaggio algebrico l’equazione può essere
trasformata in:
R = r (p - df) – C [4.2]
Dove:
r: rendimento o resa unitaria come peso del prodotto per unità di superficie (resa in termina di
Kg), costante in tutto lo spazio;
C: costo di coltivazione per unità di superficie (espresso in euro), costante in tutto lo spazio;
questo costo include l’acquisto di sementi e concimi, i costi fissi dell’azienda agraria per unità
di superficie e i costi del lavoro necessario per conseguire la produzione;
p: prezzo sul mercato per un’unità in peso del prodotto (espresso in euro);
d: distanza fisica del luogo di produzione dal mercato(espressa in km);
f: tariffa per unità di peso del prodotto e per unità di distanza (espresso in euro)
La [4.2] rappresenta l’equazione di una retta con inclinazione negativa che mostra come al variare della
distanza dal mercato diminuisce come la rendita, che per questo viene definita da von Thünen: rendita
di posizione.
Date le diverse caratteristiche che ciascuna produzione agricola ha in termini di rendimento per unità di
terreno (r), di costi di produzione (C) e prezzo di mercato (p), le rispettive funzioni di rendita avranno
un andamento differente. Questo può essere visto graficamente (Fig. IV.1 A) costruendo un grafico
dove sulle ascisse viene rappresentata la distanza dal mercato e sulle ordinate la rendita di posizione.
Possiamo vedere come prodotti diversi con una rendita di posizione diversa avranno una differente
intercetta con l’asse delle y che dipende dal prezzo di mercato del bene, ed una diversa pendenza che
dipende, invece, dai costi di trasporto legati alle caratteristiche di ogni singolo prodotto (Fig. IV.1 B).
Nella figura IV.1 B si nota come prodotti differenti, in termini di peso del prodotto per unità di
superficie, presentano un’inclinazione differente: un prodotto ingombrante (con elevato tonnellaggio
per unità di superficie) e di difficile trasportabilità è caratterizzato da curve di offerta molto inclinate
(ad esempio il caso del prodotto “x” rappresentato nel grafico); mentre un prodotto più leggero (con
scarso tonnellaggio per unità di superficie) o di facile trasportabilità presenterà un curva di offerta
meno inclinata (ad es. il caso del prodotto “z” rappresentato nel grafico). Quindi minore è
l’inclinazione della curva di offerta, minore sarà l’influenza dei costi di trasporto e la coltura del
prodotto risulterà meno sensibile alla distanza dal mercato. L’intersezione delle curve di rendita dei
differenti prodotti rappresentano i confini di impiego del suolo, oltre i quali non è più conveniente
produrre quel determino bene; e quindi sarà bene cambiare tipologia colturale.
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Ruotare il grafico con le zone di impegno del suolo attorno al mercato (attorno all’asse delle ordinate)
otteniamo un modello di utilizzo del suolo ad anelli concentrici dove al centro è posizionata la
città/mercato (Fig. IV.2). In ogni zona sarà posizionata la coltivazione/utilizzo che garantisce la più
elevata rendita di posizione.
Il modello originario di von Thünen (sulla base di quanto evidenziato nella Fig. IV.3) prevedeva una
organizzazione ad anelli concentrici nell’utilizzazione del suolo agricolo comprendente sei fasce:
una prima, a ridosso del mercato ed interna alle mura che circondano la città isolata, dedicata
alla coltivazione di prodotti ortofrutticoli;
una seconda, dedicata alla produzione di legname (silvicoltura);
una terza, con terreni destinati ad accogliere a rotazione diversi tipi di colture intensive;
una quarta, con terreni destinati alle coltivazioni foraggiere finalizzate all’allevamento di bovini
da latte ed alla produzione lattiero-casearia;
una quinta, dedicata al cosiddetto “sistema di coltivazione a tre campi”2;
sesta fascia, allevamento estensivo di bestiame.
Una variante al modello base del von Thünen è quella che prende in considerazione un elemento di non
isomorfismo, rappresentato dalla presenza di un elemento lineare naturale (fiume, mare) o artificiale
(via di comunicazione) lungo il quale si articola il mercato che da elemento puntuale e centrale si
trasforma in areale-lineare. Laddove dovesse avvenire questa sostituzione, il modello risulterebbe
comunque in grado di illustrare la formazione di zone ad utilizzo specifico, non più concentriche ma a
fasce parallele.
Nonostante variazioni nella condizione di isomorfismo introdotte nel tempo potremmo chiederci quale
possa essere oggi la validità di un modello come quello di Von Thunen? Anche se indubbiamente dal
1829 ad oggi l'evoluzione delle tecniche di produzione e di quelle di trasporto dei prodotti agricoli è
stata notevole comunque la distanza tra luogo di produzione e luogo di utilizzazione rappresenta tuttora
un fattore rilevante. Quindi tale modello può oggi ancora avere un qualche valore esplicativo su scala
territoriale molto limitata, specie nei paesi in via di sviluppo, oppure su scala territoriale molto grande
(Berry, Conkling e Ray, 1993; Conti, 1993; Formica, 1996).
4.3 Modelli semplificati localizzativi delle attività produttive secondarie, in
particolare industriali
Uno dei grandi temi della geografia economica è lo studio delle leggi che governano e determinano la
localizzazione delle attività secondarie sul territorio. Con una particolare attenzione agli insediamenti
industriali la scelta del sito dove istallare un complesso produttivo risulta fondamentale sia sotto gli
aspetti economici, sia sotto quelli sociali, a causa delle implicazioni che queste scelte hanno sull’assetto
2 Per coltivazione a tre campi o sistema triennale si intende quel sistema di coltivazione a campi aperti dove il primo anno si
seminava grano d’inverno, nel secondo un altro cereale (orzo, avena), nel terzo il terreno veniva lasciato a riposo e aperto al
pascolo brado. Ogni anno un terzo delle terre veniva lasciato incolto.
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del territorio e delle relazioni che lo muovono. Individuare cosa spinge un attore economico a
localizzarsi in un determinato territorio è fondamentale per comprendere le forze e le dinamiche che
sovrintendono il funzionamento di un sistema economico-territoriale che deve, oggi più che nel
passato, assumere le il ruolo di propulsore dello sviluppo. La distribuzione e la concentrazione delle
attività economiche sul territorio e della ricchezza tra i diversi attori non è frutto di combinazioni
causali tra eventi slegati, ma il risultato di un processo che per il tramite di aggiustamenti successivi
porta ad un utilizzazione “ottima” del territorio ai fini produttivi: le scelte localizzative vincenti.
Il numero crescente di studi commissionati a livello europeo dall’Unione per comprendere il perché le
localizzazioni degli impianti produttivi si concentrano in alcune aree geografiche piuttosto che in altre
(cfr. Progetti ESPON3) stanno a testimoniare come la dimensione territoriale delle azioni dell’uomo, in
merito all’organizzazione delle proprie attività produttive, è un importante punto di partenza per lo
studio e l’elaborazione di modelli di sviluppo endogeno delle realtà locali.
Nonostante in questo secolo vi sia stata un'indubbia evoluzione nella tecnologie produttive e nelle reti
di trasporto (reali e virtuali), la localizzazione (intesa come manifestazione puntuale della produzione
sul territorio) e il fattore distanza giocano, ancora oggi, un ruolo importante nell'influenzare la
dimensione spaziale delle attività industriali. Come si è già visto nel caso dell'agricoltura, quando ci
sono in gioco produzioni difficili o costose da trasportare, vuoi in ragione delle loro caratteristiche
intrinseche, vuoi in relazione ai modi di trasporto impiegabili (e quindi alla funzione del costo di
trasporto), la distanza, la morfologia del territorio e la distribuzione spaziale dei fattori produttivi
assumono crescente importanza.
4.3.1 Beni, fattori produttivi e distanze
L’uomo, da sempre, tende raggiunge il proprio benessere tramite la soddisfazione di bisogni. Questi
bisogni possono essere soddisfatti attraverso la disponibilità di determinati beni (risorse naturali, beni
frutto della produzione, servizi, ecc.), che siano adatti ad appagare le necessità per i quali vengono
utilizzati. Le problematiche connesse alla soddisfazione dei bisogni umani (sia dei singoli che delle
collettività) devono essere affrontate sotto un duplice aspetto, quello strettamente economico, da una
parte, e quello propriamente geografico-economico dall’altra. Dal punto di vista economico
fondamentale è il constatare che i bisogni sono per loro natura potenzialmente illimitati, mentre, i beni
dotati di utilità (cioè i beni in grado di soddisfare questi bisogni) sono necessariamente limitati. Infatti,
sia le risorse esistenti in natura, sia i beni producibili dall’uomo, sono in quantità limitata e non infinita.
Dal punto di vista geografico bisogna tener presente che i beni o meglio le risorse necessari a produrli
non sono sempre distribuiti in maniere uniforme nello spazio geografico. E’ da questa contrapposizione
tra illimitatezza dei bisogni e scarsità dei beni (risorse), da una parte e non uniforme distribuzione delle
risorse atte a soddisfare i primi, dall’altra, che nascono e si giustificano storicamente gli studi sulla
localizzazione territoriale degli impianti produttivi.
Gli attori economici di un sistema territoriale, qualunque esso sia, per temperare la suddetta
contrapposizione e cercare di soddisfare il maggior numero di bisogni possibili, devono organizzare il
proprio spazio produttivo e distributivo in modo ottimale (efficiente), tale cioè da realizzare la migliore
allocazione delle risorse.
Vista la possibilità che alcune (o molte) delle risorse naturali necessarie alla produzioni industriali di
beni non sono in natura uniformemente distribuite sul territorio, occorre procedere ad una
classificazione delle stesse. Le materie prime di non facile reperibilità sul territorio che richiedono
sacrifici economici in termini di costo di trasporto affinché possano essere utilizzati all’interno di un
3 ESPON – European Spatial Planning Observation Network – in particolare il progetto 3.4.2.
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ciclo produttivo, prendono il nome di materie prime ubicate, (ovvero presenti in alcune porzioni di
territorio e non in altre). Esempi di questa tipologia di materie prime sono i minerali o combustibili
estratti (da miniere o giacimenti). Al contrario vengono chiamate materie prime ubiquitarie quelle che
sono presenti con facilità ovunque sul territorio. Quindi anche passando dalla produzione agricola a
quella industriale il fattore “distanza” gioca un ruolo fondamentale per le scelte localizzative dei
produttori.
Oltre alla distanza altro elemento chiave nelle teorie sulla localizzazione degli impianti industriali è la
caratteristica intrinseca dei singoli fattori produttivi, ed in funzione di questa le risorse impiegate
vengono classificate in: fattori produttivi perdenti peso (o lordi) quei fattori il cui peso originario non
entra per intero nel prodotto finito (o semilavorato) a causa della produzione di scarti, fattori produttivi
“netti” quelli il cui peso entra per intero nel prodotto finito (non generano scarti).
Mantenendo invariati le semplificazioni introdotte dal modello di von Thünen sui trasporti e la
distribuzione della domanda, analizziamo ora con quali modalità le differenziazioni spaziali nella
distribuzione dei differenti fattori utili alla produzione influenzano le scelte localizzative delle attività
industriali nel modello semplificato di Weber.
4.3.2 La localizzazione delle attività industriali di Weber
La localizzazione delle unità produttive industriali non è, o meglio non dovrebbe essere, la
conseguenza di un fatto accidentale o casuale, ma bensì il frutto di uno specifico complesso di ragioni,
generalmente riconducibili agli aspetti imprenditoriali, economici, culturali e politici di un territorio.
Alfred Weber nei sui studi si pone come obiettivo quello di individuare con razionalità i criteri che
sottostanno alla localizzazione delle industrie manifatturiere, cercando di rispondere alla domanda:
quali sono i fattori che inducono un industria a localizzarsi in un territorio piuttosto che in un altro?
Weber nei suoi scritti arriva alla conclusione che la localizzazione degli impianti industriali è
fortemente legata alla distanza (tra fonte delle materie produttive e mercato di sbocco) ed alle funzione
di produzione dell’industria.
Assiomi fondamentali dell’analisi di Weber sono:
i costi di trasporto sono funzione lineare della distanza;
l'imprenditore opera in regime di concorrenza perfetta e conosce perfettamente l’ubicazione
delle materie prime e dei mercati (assenza di asimmetrie informative);
l’imprenditore è avverso al rischio e può vendere ad un determinato prezzo tutte le unità di
prodotto che è in grado di produrre (in altri termini: riducendo il prezzo non può vendere
quantità maggiori e aumentandolo non determina una riduzione della domanda);
la domanda di prodotti per un dato prezzo è illimitata così come l'offerta di mano d'opera è
considerata costante nello spazio.
Inoltre, Weber interessato ad indagare in maniera teorica sulle leggi che governano la distribuzione
delle attività industriali nello spazio, si serve di un modello semplificato di territorio: continuo,
isomorfo (che ha una forma uguale in tutte le direzioni) ed isotropo (che presenta le stesse proprietà -
ad es. uguale penetrabilità per i trasporti - in tutte le direzioni)
Date queste condizioni Weber prendendo in considerazione un settore industriale costituito da piccoli
imprenditori indipendenti che tendono alla massimizzazione dei profitti afferma che questi imprenditori
sceglieranno una localizzazione puntuale nello spazio isotropico secondo un criterio di minimizzazione
dei costi totali di trasporto.
Weber, nel suo modello, afferma, che in presenza di medesimi costi di produzione di base (assenza di
differenziazione spaziale dei costi), gli impianti produttivi si localizzano nel punto in cui i costi totali di
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trasporto sono minimi. Il costi di trasporto per ogni singola produzione sono funzione di due elementi:
il peso delle materie prime e del prodotto finito (o semilavorato) e la distanza alla quale questi devono
essere trasportati (pari alla somma della distanza tra la fonte delle materie prime ed il punto di
lavorazione e tra questo ultimo ed il mercato di vendita del prodotto finito o semilavorato).
La combinazione di questi due elementi (peso e distanza) rappresenta un indice semplice di costo di
trasporto (ICT) per tonnellata e per Km:
ICT = CTmp (pmp * dmp) + CTpd (ppd * dpd)
Dove:
ICT = costo totale di trasporto
CTmp = costo di trasporto delle materie prime per km e per tonnelata
CTpd = costo di trasporto del prodotto finito per km e per tonnelata
pmp = peso della materia prima
ppd = peso del prodotto finito (o semilavorato)
dmp = distanza tra la fonte della materia prima ed il sito della produzione
dpd = distanza tra il sito della produzione ed il mercato
Il problema della localizzazione si riduce nel trovare il punto in cui il costo totale di trasporto (ICT) sia
minimo. Volendo dettagliare il costo totale di trasporto, esso risulta scomponibile in due elementi: il
costo di trasporto a monte del processo produttivo (quello pagato per il trasporto delle materie prima
dalla loro fonte al sito produttivo) ed il costo di trasporto a valle del processo (sostenuto per portare il
prodotto finito al mercato di sbocco).
Nella scelta di dove localizzare il proprio sito produttivo l’imprenditore dovrà, secondo l’analisi
weberiana, tenere conto di una serie di elementi:
la natura del fattore produttivo, se ubicato od ubiquitario,
la caratteristica del fattore produttivo, se netto o lordo (perdente peso)
il peso del prodotto finito o semilavorato.
Tutto ciò detto, secondo Weber la produzione potrà avvenire in tre possibili localizzazioni:
1. alla fonte (delle materie prime);
2. sul mercato (di sbocco del prodotto finito o semilavorato);
3. in un punto intermedio tra i due;
e la migliore scelta localizzativi (in termini di costi di trasporto) sarà individuata tramite l’utilizzo
dell’indice delle materie prime (IM):
IM = pmuj / ppd
Dove
ppd = Peso del prodotto finito (considerato come numerario quindi posto uguale ad 1)
pmuj = Peso della jesima materie prime ubicate
L’indice delle materie prime sarà sempre positivo ed assumerà un valore pari ad 1 quando nel processo
produttivo verranno impiegate completamente materie prime nette, mentre un valore maggiore di 1 se
verranno impiegate materie prime lorde (o pesoperdenti).
Il caso più semplice affrontato da Weber nei sui studi sulla localizzazione è quello in cui l’imprenditore
utilizzi un solo fattore produttivo e venda il prodotto realizzato in un unico mercato (fig.IV.3). In
questo caso la localizzazione dipende semplicemente dalla natura della materia prima utilizzata nella
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produzione: se questa è lorda (pesoperdente) allora il sito della localizzazione tenderà a spostarsi verso
la fonte della materia prima, mentre se è netta l’imprenditore potrà decidere di localizzarsi in un
qualsiasi punto tra la fonte ed il mercato. Per comprendere questo basta fare un esempio: se abbiamo a
che fare con la produzione di barbabietola da zucchero il cui peso entra nel prodotto finito solo per 1/8,
allora, capiremo bene che collocarsi in un posto diverso da quello della fonte comporterebbe il dover
sostenere il costo del trasporto di 7/8 del peso della materia prima che non utilizzeremo nel processo
produttivo (e quindi questi costi in eccesso non saranno mai recuperati).
Nel caso semplicistico, sopra analizzato, di un unico fattore ed un unico mercato l’imprenditore si
localizzerà nel luogo della fonte ogniqualvolta IM sarà >1, mentre nel caso di IM = 1 per
l’imprenditore sarà indifferente posizionarsi nel mercato od in altro luogo.
Fig. IV.4
Il discorso diviene più complesso, ma al contempo più realistico, con l’introduzione di altri fattori
produttivi (due o più). In questo caso vige una regola “generale” elaborata nella teoria weberiana che
afferma che: quando il costo di trasporto di una materia prima eccede la somma dei costi di trasporto di
tutte le altre (compreso il costo di trasporto del prodotto finito) allora la localizzazione avverrà alla
fonte di questa materia. Nessuna localizzazione intermedia sarebbe fattibile in quanto comporterebbe
l’assunzione di costi di trasporto non necessari.
Una localizzazione intermedia è possibile, invece, nel caso in cui non vi sia una materia prima il cui
costo di trasporto ecceda la somma di tutti gli altri (compreso quello del prodotto finito). In questo caso
Weber ricorre alla geometria.
Date due diverse materie prime (a e b), necessarie al processo produttivo, ubicate nei luoghi FA e FB
(fonti delle materie prime) ed un unico mercato Me, geometricamente congiungendo i punti dove sono
collocate le fonti delle materie prime ed il mercato otteniamo un poligono (nel caso specifico un
triangolo), i cui lati delimitano lo spazio all'interno del quale sarà individuato il punto ottimale di
localizzazione della produzione. Questo spazio prende il nome di poligono localizzatore (o triangolo
localizzatore nel caso specifico) (Fig. IV.5).
Secondo Weber, sfruttando le proprietà della geometria sarebbe possibile localizzare, in maniera
razionale un’industria in funzione dei costi totali di trasporto.
La soluzione di Weber muove dall’ipotesi che i vertici del triangolo (Fig IV.6) esercitino forze di
attrazione proporzionali alle loro caratteristiche di essere materie prime nette o lorde: le materie prime
lorde hanno una capacità attrattiva (un peso) maggiore di quelle nette e tra di lorde il peso maggiore è
rappresentato da quelle che hanno un livello di scarti nella produzione maggiore4. Quindi più una
materia prima è lorda (produce più scarti) maggiore sarà la capacità attrattiva della località in cui è
situata la sua fonte di approvvigionamento. Per Weber, il punto in cui l’intensità delle forze si annulla
(avendo un completo bilanciamento dei pesi) costituisce il luogo di localizzazione ottimale, dove
l’imprenditore può produrre al minimo costo totale di trasporto.
4 Questo maggiore capacità attrattiva è legato al fatto che il costo di trasporto di queste materie prime comprende anche il
trasporto degli “scarti”, un costo che, data la massimizzazione del profitto, sarebbe non necessario e quindi da evitare.
Quindi maggiori costi di trasporto legati alla caratteristica del fattore produttivo comportano una maggiore peso di questa
materia prima nelle scelte localizzative dell’impianto produttivo.
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Capitolo IV
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Il risultato di tale gioco di forze è rappresentabile tramite un modello meccanico5 in cui la forza di
attrazione di ciascun vertice del poligono e le distanze sono simulate da pesi e da cavi che scorrono su
pulegge. In questo modello il punto in cui la giunzione dei vari cavi si trova in equilibrio rappresenta la
localizzazione ottimale dell’impianto produttivo (Fig. IV.7). Il luogo di equilibrio, il baricentro6 delle
forze ed indicato in figura con la lettera F
Il punto F è individuato dall'equazione:
F = M1F . p1 + M2F . p2 + FC = min
dove M1F é la distanza che deve percorrere la materia 1 di peso p1 per andare dal luogo di estrazione a
quello di lavorazione; M2F é la distanza della materia 2 di peso p2; FC é la distanza dal luogo F al
mercato di una unità di prodotto finito7.
Nel caso in cui le materie prime utilizzate siano superiori a due il procedimento non cambia e invece di
un triangolo locazionale si avrebbe un poligono locazionale8..
La localizzazione industriale é, quindi, il risultato di un intricato gioco di forze che tende a divenire
sempre più complesso a mano a mano che i sistemi economici progrediscono lungo la strada della
complessità dello sviluppo. Le scelte localizzative degli impianti industriali di trasformazione della fine
dell’800-prima metà dell’900, erano afferenti alla prime fasi di crescita economica, e quindi erano
piuttosto limitate, in quanto condizionate in misura rilevante dalla incidenza dei fattori produttivi
utilizzati. In particolare i settori di base, la cosiddetta industria pesante, erano vincolati dalla presenza
di consistenti riserve di materie prime: gli elevati costi di trasporto e la scarsa tecnologia disponibile
impedivano localizzazioni alternative (alla fonte delle riserve naturali).
All'opposto, le industrie moderne, caratterizzate da un elevata componente di High-Tech, presentano
vincoli localizzativi meno pressanti, essendo per lo più attratte dal mercato di sbocco.
Quindi le industrie riconducibili alla prima fase del processo di industrializzazione, storicamente, sono
state fortemente condizionate dalle caratteristiche dei fattori naturali; mentre le industrie moderne che
costituiscono l'espressione più evoluta delle attività produttive, e che nascono in presenza di avanzati
stadi di maturità economica, a differenza delle prime, sono del tutto svincolate dall'incidenza dei fattori
naturali.
5 Sul tipo di quello di Varignon, matematico francese (1654-1722). Fu il primo ad enunciare la regola delle forze
concorrenti..
6 Le coordinate del baricentro si calcolano molto facilmente con procedura analitica: esse sono definite dalle medie
aritmetiche delle coordinate dei tre vertici del triangolo. Al riguardo, si ricorda in via incidentale una proprietà geometrica:
se i pesi ai vertici sono uguali, il punto baricentrico è dato da quello d’incontro delle 3 mediane del rettangolo.
7 La [1] si può anche scrivere:
F = ap1 + bp2 + c
il punto di minimo è individuato ove la derivata prima si annulla, pertanto
dF = p1da + p2db + dc = 0
a, b e c sono variabili di primo grado e, pertanto, il minimo trasportazionale dipende dai valori assunti da p1 e da p2.
8 Weber inoltre sottolinea come la distanza dal reperimento dei materiali a quello della fabbrica implichi necessariamente un
luogo di estrazione o di produzione, ossia la materia prima deve essere ubicata ; nel caso in cui il materiale sia ubiquitario ,
e quindi disponibile ovunque liberamente, verrebbe meno una distanza e quindi nonostante i materiali impiegati siano due
(o più di due) la localizzazione verrebbe fatta dipendere soltanto dal materiale ubicato
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Concludendo il merito maggiore del ragionamento di Weber risiede nell’impulso dato alle procedure
grafiche e, tra esse, all’impiego sistematico delle teoria della minimizzazione dei costi totali di
trasporto che ha portato alla elaborazione di concetti importanti come le isolinee e le isodapane nelle
teoria sulle scelte localizzative.
4.3.4 Isotime ed isodapane
Ripartendo dal caso semplicistico di un unico fattore produttivo ed un unico mercato di sbocco
abbiamo detto che l’individuazione del sito é in funzione della quantità di scorie che si ottengono dalla
lavorazione, in quanto se:
l'intera quantità delle materie prime viene trasformata in prodotto finito (materia prima netta)
all'impresa sarà indifferente localizzarsi in uno qualsiasi dei punti situati lungo la linea (X-Y)
(fig. IV.4)
nel corso del processo di trasformazione industriale non tutti i materiali entrano nel prodotto
finito (lavorazione a materiali o pesi lordi), la scelta è sottoposta a vincoli.
È evidente che la rappresentazione lineare della localizzazione è una semplificazione poco reale, infatti
anche se siamo all’interno di un modello semplificato dobbiamo considerare che gli operatori
economici sono rappresentati da un numero indefinito di imprese che producono il medesimo bene
partendo dallo stesso imput (siamo in concorrenza perfetta), quindi è impossibile immaginare che tutte
le impresi si collochino nello stesso identico punto sia esso il mercato o la fonte della materia prima.
In presenza di più unità produttive si osserva che la loro localizzazione avverrà nelle vicinanze del
punto di minore costo totale di trasporto (nell’area limitrofa), questo avviene in ragione del fatto che vi
saranno lunghi, attorno ad ogni punto dello spazio indifferenziato, che presentano identici costi di
trasporto. Il limite dei luoghi, nell’intorno del mercato o della fonte, che presentano identici costi di
trasporto è rappresentato da una linea chiusa che prende il nome di isolinea (o isotima)9.
Nella Fig. IV.8a sono indicati, oltre al mercato (M) ed alla fonte della materia prima (F), anche le
isolinee che sono quindi l’insieme dei punti (aree) con ugual costi di trasporto per un determinato
fattore o bene rispetto ad un determinato punto centrale (fonte o mercato). La distanza fra due isolinee
di uno stesso sistema dipende dal costo unitario di trasporto ed é inversamente proporzionale al peso
(unitario) del materiale trasportato.
Avendo ipotizzato una regione caratterizzata da un territorio continuo, isomorfo e isotropo le isolinee
sono rappresentate da cerchi concentrici equidistanti (il costo di trasporto é costante, ossia direttamente
proporzionale alla distanza), ciascuno dei quali sta ad indicare un incremento unitario di costo.
Il costo totale di movimento risulta dalla somma dei due costi unitari e il luogo dei punti che unisce un
identico costo totale di trasporto viene denominato isodapana. Le isodapane, al pari delle isolinee
hanno valori crescenti a mano a mano che ci si allontana dai luoghi di localizzazione ed hanno un
andamento che è funzione dei singoli costi di trasporto.
Così, nella fig.IV.8.a il sistema di isodapane é assimilabile a delle ellissi regolari, in quanto i costi di
trasporto della materia prima sono uguali ai costi di trasporto del prodotto finiti (infatti la distanza fra le
isolinee centrate nel mercato M é identica alla distanza delle isolinee centrate in alla fonte della materia
prima F). Pertanto il costo totale di trasporto è lo stesso lungo tutto il tratto MF, indipendentemente dal
sito di localizzazione. Nella fattispecie il costo total minimo é 8, questo è il costo totale di un impresa
che si colloca in uno qualsiasi dei punti nell'intervallo (MF).
9 Per essere precisi le isotime sono un caso particolare di isolinee.
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Diversa é invece la situazione in cui si è in presenza di materie prime lorde e quindi il costo di trasporto
delle materie prime é superiore al costo di trasporto del prodotto (Fig. IV.8b). In questo caso la distanza
fra due isolinee centrate in F, é inferiore alla distanza fra due isolinee centrate in M. La ragione é legata
alla caratteristica della materia prima di essere pesoperdente.
In questa seconda ipotesi il sistema di isodapane ha un baricentro nettamente spostato verso la fonte
della materia prima e la localizzazione dello stabilimento avverrà in un luogo tanto più vicino ad F,
quanto maggiore é il peso delle scorie della lavorazione (nella Fig. 4.b è all'interno dell'isodapana 5 che
si realizza il minimo costo totale di movimento).
Discorso simile sulle isolinee e sulle isodapane, per la definizione del luogo deputato all’insediamento
produttivo è valido anche quando, complessificando il ragionamento, si introducono più materie prime.
Il discorso del poligono localizzatore valido per un impresa ci supporta anche nel caso di più imprese e
ci permette di individuare aree all’interno delle quali le imprese sosterranno i più bassi costi totali di
trasporto.
Nella Fig IV.9a è rappresentato il caso di due materie prime (M1 e M2) e un mercato (C) dove i costo
di trasporto dei due materiali utilizzati e del prodotto finito è identico per tutti; di conseguenza l’area
(isodapana) di minore costo totale è ubicata nel centro del triangolo locazzatore. Nella Fig. IV.9 b,
invece, il costo di trasporto è leggermente diverso per le tre componenti considerate. Le isolinee
centrate su M1 sono molto più fitte di quelle che si originano su M2 (questo significa che esiste
maggiore scarto nell’impiego del fattore M1). Quindi l’area di minore costo totale risulta essere quella
più a ridosso di M1.
Box IV.1 - Isodapane in presenza di rete viaria (assenza di isomorfismo) Abbandonando la semplificazione iniziale di una perfetta isomorfia dello spazio geografico possiamo vedere come
cambia il modello appena formulato introducendo la rete delle vie di comunicazione.
Il territorio non può essere considerato isotropo in quanto su di esso insiste la maglia delle comunicazioni terrestri. I
punti di una regione a parità di distanza misurata in linea d'aria non sono ugualmente accessibili in quanto
diversamente disposti rispetto vie di comunicazioni. E' evidente allora come, a parità di distanza misurata in linea
d'aria, le località allineate lungo un'asse di trasporto godano di una condizione (in termini di tempi e di costi di
trasporto) molto più
favorevole rispetto ai centri situati meno a ridosso dei nodi di comunicazione più importanti.
Con l'introduzione di questa complicazione l'aspetto delle isolinee cambia, in quanto i costi di trasporto lungo le
principali direttrici sono inferiori rispetto alle zone non servite da infrastrutture direttamente collegate con il centro.
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Fig. IV.i
Fig IV.ii
Un esempio dell’introduzione di un sistema di comunicazione viario è illustrato nelle figg. IV.i e IVii. Nella prima
dal centro della materia prima M1 si dipartono tre vie di comunicazione e, di conseguenza, il sistema delle isolinee
centrato su M1 assume una forma stellare, i cui vertici si trovano in corrispondenza delle infrastrutture. Così, i
luoghi x1 e x2, pur giacendo sulla stessa isolinea in una ipotesi di spazio isotropo, di fatto, passando dalla distanza in
linea d'aria alla distanza itineraria, sono gravati da costi di trasporto diversi. Il punto x1 risulta infatti compreso fra
le isolinee 3 e 4, mentre x2 è ben oltre l'isolinea 5.
Le opportunità localizzative derivanti dal passaggio da uno spazio isotropo ad uno spazio anisotropo (un spazio in
cui il costo di trasporto dipende anche dalla rete delle vie di comunicazione) sono più evidenti nella fig. IV.ii, nella
quale sono ipotizzati due punti origine delle infrastrutture di trasporto (M1 e M2). Nella figura si constata come il
sistema di isodapane risulti modificato e come i valori di costo totale più elevato si abbiano nelle zone più lontane
dai percorsi seguiti dalle vie di comunicazioni.
Il ragionamento potrebbe essere ulteriormente approfondito introducendo delle differenziazioni nelle caratteristiche
delle vie di comunicazione in quanto non tutti gli assi di trasporti consentono una identica percorribilità. Allora,
lungo le autostrade la velocità media è più elevate rispetto ad altri tipi di strade e quindi le isolinee risultano più
distanziate; le strade pianeggianti (a parità di distanza) sono percorribili a velocità maggiori delle strade tortuose o di
montagna, ecc ecc. In tutti questi casi si modifica
Se pur è evidente come il sistema dei trasporti nel modificare i campi di forze operanti sul territorio modifichi la
geometria delle isolinee ed il sistema di isodapane, tutto ciò non mette in crisi il principio weberiano della
minimizzazione dei costi di totali di trasporto.
4.3.5 L’analisi sostitutiva di Isard
Patendo dagli studi di Weber l’economista nordamericano W. Isard (1956) propone una teoria sulla
localizzazione delle attività industriali più flessibille formulando una ipotesi se non del tutto innovativa
sicuramente interessante, capace di fornire uno strumento di previsione più perfetto rispetto al modello
iniziale weberiano. Il modello dell’ analisi sostitutiva10
di Isard, come quello di Weber, ribadisce
l’importanza del costo totale di trasporto nelle scelte localizzative industriali ma allo stesso tempo
inserisce nel ragionamento aspetti mutuati dall’analisi microeconomica.
L’individuazione delle punto ottimale per la localizzazione industriale dovrebbe abbandonare le
impostazioni weberiane desunte dalla meccanica razionale, per porre l’attenzione all'adozione di
strumenti tipici dell’analisi microeconomica.
10
Contenuta nel volume Location and Space Economy pubblicato nel 1956.
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Punto di partenza dell’impianto logico proposto da Isard è rappresentato dalla ipotesi che la
trasformazione industriale avvenga a pesi netti (con nessuna produzione di scarti) allora nel caso di una
sola materia prima (F) e di un unico mercato o luogo di consumo (Me) la localizzazione dell’impianto
industriale potrà avvenire in un punto qualsiasi lungo la retta FMe (Fig.IV.10A).
Costruendo un sistema cartesiano dove viene misurata sull’asse delle ascisse la distanza della fonte
della materia prima dal mercato (Me), e sull’asse delle ordinate la distanza del mercato dalla fonte della
materia prima (F) e rappresentando l’insieme della potenziale localizzazione otteniamo quella che Isard
chiama la retta di sostituzione (Fig. IV.10 B). Questa retta individua l’insieme dei possibili punti per la
localizzazione, che data la natura netta della materia prima, rappresentano tutte valide location in
quanto la somma dei costi di trasporto rimane comunque invariata. Nel punto di localizzazione L
,come nel punto la somma delle due tratte di trasporto (dalla materia alla localizzazione e dalla
localizzazione al mercato) rimane comunque la medesima.
Se quanto detto sin ora può sembrare banale e ridondante rispetto all’analisi originale di Weber il
discorso si complica quando si introduce una seconda materia prima localizzata in un altro punto (M2).
Quindi introducendo un secondo luogo di approvvigionamento le relazioni sostitutive, non sono più
due, ma diventano tre:
1. quella tra M1 e M2 (mantenendo costante la distanza da C);
2. quella tra M2 e C (mantenendo ferma la distanza da M1);
3. quella tra M1 e C (mantenendo costante la distanza da M2)
Il punto ottimale per la localizzazione dell’impianto industriale (optimum generale) si individua
attraverso un procedimento iterativo che parte dai punti di ottimo parziale individuati per ognuna delle
relazioni sopra descritte: di volta in volta si parte dal punto di ottimo parziale per ognuna delle relazioni
individuate e utilizzando la soluzione delle prime due come base per la soluzione finale. Per spiegarci
meglio utilizziamo quanto illustrato nelle Figg. IV.11 A, B, C dove si mette in evidenza il problema.
Isard utilizza come base del proprio ragionamento gli stessi termini e le medesime ipotesi formulate da
Weber; un triangolo localizzativo, due punti di reperimento delle risorse (M1 e M2), un luogo di
mercato (Me), uno spazio continuo e isotropo.
Detto questo si ragiona nel modo seguente: fissata una distanza arbitraria da dal mercato (Me) , di
raggio AMe, che ruota fino a BMe, si descrive sul triangolo locazzativo un arco di cerchio AB che
rappresenta per le fonti M1 e M2 una curva di sostituzione, in quanto tutti i punti allineati sulla curva
AB rappresentano una diversa combinazione fra le distanze da M1 e da M2 che comportano medesimi
costi totali di trasporto (Fig. IV.11 A).
Trasponendo l'arco AB in un sistema di assi cartesiani (Fig. IV.11 B) vediamo che questa curva
rappresendo il luogo dei punti corrispondenti alle varie combinazioni fra le distanza di M1 e di M2
(limitatamente alla distanza AMe) prende il nome di isoquanto.
Nella Fig. IV.11C viene, invece, rappresentata la funzione del costo di trasporto per il tramite delle
curve di isocosto , la cui pendenza é costante, ed é data dal rapporto tra i due pesi delle materie prime
utilizzate e che entrano nella configurazione del prodotto finito (nel caso che le due risorse entrino
ciascuna con il 50%, quindi M1 /M2 = 1, l'isocosto é inclinato di 45° ed é una normale rispetto alla
bisettrice).
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In corrispondenza del punto F (Fig. IV.12 A), nel punto cioè di tangenza fra l'isoquanto AB e il più
basso isocosto possibile (QZ), il costo di trasporto delle due materie prime é minimo (nell'ambito di un
prefissato costo di trasporto del prodotto finito), pertanto F rappresenta un minimo trasportazionale
relativo (optimum relativo). Da notare che la distanza AMe è predeterminata in modo arbitrario e
quindi F é un ottimo relativo, ossia il punto più conveniente limitatamente alle alternative contemplate
dall'arco AB.
Per passare dall’optimum relativo a quello assoluto occorre procedere con il medesimo processo, ma
fissando questa volta una distanza da M2. In questo caso non si tratterà più di procedere in modo
arbitrario, in quanto F è già un punto di minimo relativo, quindi la nuova distanza da M2 a F viene fatta
ruotare sul triangolo localizzativo disegnando l'arco di cerchio DE (Fig IV.12 B) che identifica il luogo
dei punti equidistanti da M2 (cioè con un identico costo di trasporto del materiale M2 ). Trasponendo
l’arco di DE nello spazio cartesiano questo rappresenta l'isoquanto che uguaglia gli input di M2 e Me.
Nel punto di tangenza tra l’isoquanto DE con la più bassa retta di isocosto (Q’-Z’) si individua il nuovo
punto minimo relativo (F').
Avendo individuato F' come secondo optimum relativo viene fissata la distanza da M1 (luogo dei punti
ove avviene la sostituzione fra M2 e Me) e all'interno dell'arco HL s'individua un terzo minimo
relativo (F") in corrispondenza del punto di tangenza dell'isoquanto HL con l'isocosto Q" - Z" (Fig.
IV.12 C).
Comunque questo punto di localizzazione F" potrebbe non essere ancora il minimo trasportazionale
assoluto: se cosi fosse il meccanismo di iterazione deve continuare con la fissazione di un'altra
distanza da Me come un nuovo luogo dei punti ove avviene la sostituzione fra M1 e M2; e cosi via.
Questo sistema di interazione conduce verso un progressivo avvicinarsi all’optimum assoluto o
comunque ad un punto in cui la distanza da esso può essere considerata sufficientemente accettabile.
4.3.6 La curva spazio costo di Smith
Un ulteriore contributo agli studi sulla localizzazione delle attività secondarie è quello di Smith
(1966)11
che partendo dal lavoro di Weber elabora un procedimento per individuare il luogo ove
ubicare una impresa industriale o, meglio, un'area di localizzazione economicamente conveniente per le
imprese. L’opera di Smith non si può definire un contributo originale alla teoria quanto piuttosto
un’opera di completamento e di rifinitura dell'opera weberiana, in un contesto che pur essendo ancora
semplificato e marginalista riesce comunque a conciliare gli schemi teorici frutto dell’astrazione e della
semplificazione con quanto è deducibile dalle logiche spaziali degli imprenditori.
Nei suoi studi Smith pone la sua attenzioni alla analisi del comportamento territoriale di un'impresa
industriale che nelle proprie scelte localizzative tende, non tanto, alla minimizzazione dei costi totali di
trasporto (come suggerito dall’analisi weberiana), quanto piuttosto al raggiungimento di un
soddisfacente livello di profitti. (in termini di ricavi meno costi).
La teoria di Smith (Fig. IV.13) prende in considerazione oltre ai costi di trasporto un elemento esogeno:
il prezzo di vendita del bene prodotto, che essendo in un regime di concorrenza perfetta risulterà
identico in ogni luogo ed indipendente dai comportamenti dei singoli produttori (rappresentato da una
linea retta parallelamente all'asse delle ascisse).
11
Proposto in D.M. SMITH “ Theoretical Frameworks for Geographical Studies of Industrial Location”, pubblicato nel
1966.
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Il ragionamento sviluppato da Smith che porta alla definizione della localizzazione industriale é
illustrato nella Fig. IV.14 (tratta dal volume che lo Smith ha pubblicato nel 1971, dal titolo Industrial
Location ): M1 e M2 rappresentano i punti di reperimento delle materie prime e del lavoro, C é il luogo
di mercato.
Da questi tre punti si dipartono tre sistemi di isolinee, dalla cui somma si perviene alla costruzione di
un complesso di isodapane. Nella figura il minimo costo di trasporto (trasportazionale) é situato al
centro del triangolo localizzatore (infatti le isolinee che si originano in M1, M2 e C sono equidistanti) e
corrisponde ad un costo globale di 151 dollari.
Immaginando le isodapane come delle curve di livello ed effettuando una sezione verticale si ottiene un
grafico nel quale viene rappresentata la curva spazio-costo dove il punto più basso della curva
rappresenta la localizzazione di minor costo. Nella figura muovendosi lungo l'asse PQ Smith effettua
una sezione dello schema, ottenendo così una rappresentazione cartesiana della dinamica dei costi totali
di trasporto (curva spazio-costo).
Introducendo la retta del prezzo che, essendo in concorrenza, viene fissato esogenamente dal libero
gioco delle forze di mercato vediamo che questo interseca la curva spazio-costo in due punti, chiamati i
limiti spaziali di profittabilità dell'impresa, (Lp1 e Lp2). Questi due punti delimitano l’area di interesse
per la localizzazione di un impresa che mira all’ottenimento di un profitto, mentre il punto di minimo
costo (F) che come si vede dalla figura coincide con il massimo profitto individua la localizzazione
ottimale per la massimizzazione dei profitti.
Ogni punto diverso da F rappresenta una localizzazione sub-ottimale, ma essendo comunque all’interno
dello spazio di profittabilità (Lp1-Lp2) è quindi pur sempre remunerativa.
Smith con l’introduzione del prezzo di vendita sposta l'ottica dell'imprenditore da una ubicazione sul
minimo costo di trasporto che seppure rappresenta una localizzazione possibile potrebbe non essere
economicamente auspicabile qualora, ad esempio, i costi totali fossero superiori al prezzo di mercato.
Quindi Smith conduce all’individuazione di uno spazio di localizzazione più realistico, all'interno del
quale l'impresa realizza comunque un profitto12
.
Box IV.2 Curva spazio-costo ed economie di agglomerazione
12
Il modello di Smith, richiama l'approccio elaborato per l’economia da H.A. SIMON, secondo il quale l'impresa moderna,
operando in un contesto di incertezza ed essendo costretta ad assumersi una serie di rischi, punta al raggiungimento di una
determinata soglia di profitto, che non è determinabile in via teorica od analitica in maniera assoluta in quanto dipende dalle
valutazioni che l'imprenditore dà alla capacità imprenditoriale ed alla contingenza del mercato; quindi essa varia da
situazione a situazione, da caso a caso, da impresa ad impresa.
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La teoria economica ha riconosciuto da tempo che le economie di agglomerazione sono in grado di
migliorare la produttività delle imprese e favorire processi di concentrazione territoriale dell’attività
produttiva (Marshall, 1890). Nel decennio passato queste idee hanno rappresentato il punto di partenza per
numerosi studi a carattere teorico (Krugman, 1991).
Le economie di agglomerazione sono quelle che derivano dal produrre in uno stesso luogo. Parliamo di
economie di agglomerazione (e non solo di economie di scala) per sottolineare il ruolo svolto dall’elemento
territoriale come forza significativa (il geografic benefit) nello spiegare la localizzazione e lo sviluppo delle
imprese. In questo modo si formano i cluster geografici di imprese.
Le economie di agglomerazione sono al centro del problema dei sistemi locali di impresa e quindi della
definizione dei distretti che sui sistemi locali è fondata. Le economie di agglomerazione sono economie di
scala esterne all’impresa e interne all’industria, e l’industria è localizzata in un luogo geografico circoscritto.
I legami tra le imprese della stessa industria sono più forti di quelli nelle (dentro le) imprese quindi le
imprese restano separate e di dimensione modesta ma tendono a agglomerarsi. Se i costi di trasporto sono
bassi, le imprese hanno benefici speciali dai legami con imprese nella stessa industria e le imprese alla fine
appaiono concentrate territorialmente.
Le economie di agglomerazione sono basate sulle tre esternalità marshalliane classiche:
l’uso delle stesse risorse di lavoro (specializzazione)
l’uso di comuni inputs non commerciati (infrastrutture)
spill-over tecnologici
Non tutti i settori industriali presentano la stessa forza di agglomerazione geografica: è medio-bassa la forza
di agglomerazione dei settori science based; medio-alta quella dei settori dominati dalla scienza (Silicon
Valley) e quelli tradizionali e basati sui fornitori specializzati (la meccanica).
Nella figura. é rappresentata la deviazione che subisce la curva spazio-costo in presenza di economie esterne
quali possono essere, ad esempio, l’abbattimento dei costi per la gestione di servizi comuni dovuti alle
economie di agglomerazione. In questo caso si osserva come la curva localizzate si sposta in un determinato
punto (F') dello spazio geografico dove la presenza di economie esterne di aglomerazione comporta un
abbattimento dei costi totali e quindi un ampliamento dell’area di profitto per l’impresa.
BOX IV.3 - L’ isodapana critica e l’agglomerazione L’idea di spiegare le aglomerazioni produttive con graficamente con l’utilizzo del concetto delle isodapane
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è un concetto che Weber riprende nei suoi studi anche se in maniera non del tutto chiara e convincente nelle
esemplificazioni cartografiche.
Partendo da un punto di minimo P1 dei costi di trasporto per una determinata attività industriale X
s’immagina di poter tracciare due famiglie d’isolinee: le isodapane d’ugual incremento dei costi di trasporto
e le isolinee d’uguale diminuzione del costo dei salari; laddove esista un’isodapana, per la quale
l’incremento dei costi di trasporto sia uguale al decremento del costo del lavoro, tale isodapana prende il
nome d’isodapana critica. Se a questo punto si prende in considerazione l’esistenza di un altro punto di
minimo P2 dei costi di trasporto per un’altra determinata attività industriale Y e si ipotizzi di poter tracciare
due nuove famiglie di isolinee: le isodapane di ugual incremento dei costi di trasporto e le isolinee di ugual
incremento delle economie esterne: laddove esista un’isodapana per la quale l’incremento dei costi di
trasporto risulti uguale all’incremento delle economie esterne, anche tale isodapana prende il nome di
isodapana critica e la si indichi con C2. L’eventuale l’intersezione delle due isodapane critiche delimita uno
spazio che prende il nome di area di agglomerazione.
La figura accanto mostra l’agglomerazione
secondo Weber: I luoghi L1, L2 e L3 sono
le localizzazioni ottimali di tre ipotetiche
industrie, mentre Is1, Is2 e Is3 sono le
corrispondenti isodapane critiche: le aree in
grigio, soprattutto delimitata
dall’intersezione delle tre isodapane critiche
(area T), offrono la possibilità di
incrementare le esternalità con le economie
di agglomerazione se gli imprenditori
localizzano gli impianti con una scelta
comune, il che implica piena trasparenza
nelle informazioni.
4.3.7 Moses e la teoria delle distanze e volume della produzione
Tra i modelli di analisi delle attività produttive che come Weber considerano il problema della
localizzazione ottima di un’impresa in termini di minimizzazione dei costi di produzione in un mercato
che ha struttura puntiforme (la domanda è tutta concentrata in un punto) deve ricordarsi quello di
Moses (1958).
Moses osservava che al crescere dell’area di mercato, in un territorio uniformemente popolato dai
consumatori si verificano le seguenti condizioni:
il volume della produzione tende a crescere in maniera esponenziale rispetto al raggio della
circonferenza, centrata sul luogo di produzione, che delimita l’area del mercato.
Al contempo il costo unitario di produzione alla fabbrica tende a decrescere per effetto delle
economie di scala sugli acquisti.
Il costo unitario di produzione alla fabbrica diminuisce anche per effetto di un più efficace
utilizzo dei fattori della produzione che nono sono più considerati in quantità fisse (vi è scambio
tra i fattori produttivi).
L1
L2
L3
T
Is1
Is2
Is3
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Questa riduzione non avviene in maniera indefinita ma in genere, il decremento è prima lento, poi
rapido, per tornare progressivamente a decrescere ma con un ritmo inferiore all’espansione del volume
della produzione.
Un andamento del costi unitari di produzione del tipo descritta da Moses è rappresentabile con una
funzione del tipo:
Cu = A- f(v)
Dove:
Cu = costo unitario di produzione al consumo
f(v) = costo della logistica (costo di trasporto)
A = costo unitario per il volume corrispondente al mercato minimo
Se il produttore si accolla l’onere del trasporto del prodotto fino al consumatore e si assumono costi di
trasporto direttamente proporzionali alla distanza da percorrere, il costo unitario al consumo diminuisce
fino ad una certa distanza dal mercato, successivamente si accresce, precisamente dalla distanza in cui
l’incremento dei costi di trasporto risulta superiore al decremento dei costi unitari (Fig. IV.15).
4.3.7.1 Sostituzione fattoriale e localizzazione nella teoria di Moses
Il modello di Weber assume che le quantità di ciascun fattore produttivo utilizzato nella produzione di
una unità di prodotto finito siano fisse. L’analisi microeconomica standard ci insegna che la
sostituzione tra i fattori è possibile ed applicata dalle imprese che perseguono la massimizzazione dei
profitti. Quindi le condizioni di efficienza impongono che al mutare dei prezzi l’impresa sostituisca il
fattore produttivo divenuto più costoso con gli altri meno cari in modo da ottenere il minor costo di
produzione a parità di quantità prodotta.
Si deve a Moses (1958) l’introduzione del concetto di sostituzione fattoriale all’interno dell’analisi
weberiana. Riprendendo il triangolo localizzatore di Weber, Moses (Fig. IV.16) costruisce un arco IJ
lungo il quale si trovano tutte le localizzazioni possibili che presentano una distanza costante (d3) dal
punto di localizzazione del mercato Me.
Quindi assumendo che l’impresa si localizzi lungo questo arco, la distanza tra la localizzazione scelta
(K) ed il punto di mercato Me sarà fissa consentendo di analizzare la scelta della localizzazione
dell’impresa in funzione delle sole variazioni nei prezzi dei fattori prodotti in M1 e M2.
L’analisi microeconomica standard dell’efficienza dell’impresa ci insegna che, la combinazione ottima
dei fattori è determinata dalla ricerca del punto di tangenza tra l’isoquanto più alto e la retta di isocosto
(o vincolo di bilancio), dove la pendenza del vincolo di bilancio è determinato dai prezzi relativi dei
fattori. Nella Fig. IV.17 sono rappresentati i vincoli di bilancio dell’impresa con riferimento alle
localizzazioni I e J l’inclinazione della retta è data dal rapporto tra i prezzi relativi. Se i rapporti tra i
prezzi alla consegna variano tra le differenti localizzazioni, allora la pendenza del vincolo di bilancio in
corrispondenza di ciascuna possibile localizzazione lungo l’arco IJ sarà differente, avremo, quindi, una
serie di vincoli di bilancio il cui inviluppo (cioè una curva che contenga tutti i vincoli di bilancio
associati a ciascun punto di localizzazione lungo IJ) (Fig. IV:18) deve essere utilizzato per individuare
la localizzazione ottima.
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Capitolo IV
Rev_07 del 6.10.2014 20
Applicando le condizioni di efficienza che richiede di individuare il punto di tangenza tra l’inviluppo
del vincolo di bilancio ed il più alto isoquanto raggiungibile (punto E* nella Fig. 14) individuiamo di
conseguenza anche il punto ottimo per la localizzazione k* che è dato dalla combinazione dei fattori
x1* ed x2*. La combinazione ottima dei fattori e la localizzazione ottima dell’impresa sono quindi
determinate congiuntamente.
Ipotizzando la sostituibilità dei fattori produttivi il modello di Moses arriva ad affermare che quando si
verifica una riduzione dei cosi di trasporto di un fattore produttivo la localizzazione ottima per
un’impresa si sposterà verso la fonte divenuta meno costosa in termini di costi totali. Quindi se ad
esempio nell’analisi grafica condotta fino ad ora ipotizziamo che in seguito alla costruzione di una
strada i costi di trasporto del fattore 1 diminuiscono e se tutti gli altri parametri rimangono costanti, ciò
implica che il rapporto tra i prezzi alla consegna (p1 + td1)/ (p2 + td2) per ciascun punto in IJ,
diminuirà. In altre parole, la pendenza di ciascun vincolo di bilancio aumenterà, a parità di altre
condizioni, e l’inviluppo del vincolo di bilancio diverrà anch’esso più pendente, spostandosi a sinistra.
La combinazione ottima dei fattori (e quindi anche la localizzazione ottima dell’impresa) si sposterà da
E* a E’ (Fig. IV.19). Quindi, come si vede dall’analisi grafica, la localizzazione ottima si sposta da K*
a K’, ovvero in un punto più vicino a X1 e l’impresa sostituisce parte del fattore 2 con il fattore 1,
adesso più economico.
Confrontando il risultato del modello di Moses con quello del modello di Weber si osserva che, una
riduzione del costo di trasporto, ad esempio per il fattore 1 (t1), a parità di altre condizioni, nell’analisi
di Moses avrà come effetto un avvicinarsi della localizzazione dell’impresa verso la fonte meno
costosa X1. Mentre nel modello weberiano avremmo un effetto contrario ovvero un allontanamento
dalla fonte divenuta meno costosa verso l’altro fattore. La ragione è che il fattore 2 diventa
relativamente più costoso da trasportare e, dato che i coefficienti di produzione, nella analisi weberiana,
sono fissi (ovvero le quantità x1 e x2 sono immutabili) l’impresa al fine di ridurre i costi totali di
trasporto si sposta verso la fonte del fattore più costoso (il fattore 2). La differenza tra i risultati dei due
modelli è che nel modello di Weber i coefficienti fissi non consentono sostituzione tra i fattori, mentre
in quello di Moses la sostituzione è possibile.
4.4 Modelli semplificati localizzativi delle attività terziarie e quaternarie
4.4.1 Il modello delle località centrali di Christaller
Il geografo tedesco W. Christaller con la con teoria delle località centrali13
porta all’attenzione degli
studiosi l’importanza delle funzioni e dei servizi localizzati14
per la definizione dell’assetto delle città o
dei centri urbani. Questa teoria cerca di dare una risposta ai problemi riguardanti l'assetto degli
13
Questa teoria fa la sua comparsa nella pubblicazione del 1933 dal titolo “Die zentralen Orte in Süddeutschland”
14 La tradizionale classificazione nei settori primario, secondario e terziario, proposta negli anni Quaranta da C. CLARK si
dimostra del tutto insoddisfacente e non in grado di cogliere la complessità delle funzioni espletate settore dei servizi. Più
che da un insieme di attività omogenee questi viene definito in modo residuale, nel senso che racchiude tutte quelle attività
che non concorrono alla produzione materiale di un bene, e quindi che non possono considerarsi né agricoltura né industria.
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Capitolo IV
Rev_07 del 6.10.2014 21
insediamenti urbani.piuttosto che individuare quelli che sono i fattori che sovrintendono la
distribuzione territoriale dei servizi;
Il nucleo forte della teoria delle località centrali è rappresentato dallo studio delle leggi che governano
la distribuzione degli insediamenti e delle città all'interno di uno spazio geografico, cercando di dare
una risposta alla quesito: se le città si dispongano sul territorio secondo criteri di casualità oppure, al
contrario, la loro ubicazione rappresenti l'osservanza di una logica o di un principio razionale? A questa
domanda Christaller risponde con il suo studio.
Con il suo studio Christaller constata che la distribuzione e la concentrazione degli insediamenti sul
territorio è fortemente eterogenea e che questa differenza nelle orditure urbane dei territori non è la
conseguenza di un fatto occasionale e fortuito, ma l'espressione locale di una logica economica
generale, operante cioè in modo uniforme sul territorio.
Gli assunti alla base del modello delle località centrali sono:
1. lo spazio è costituito da una superficie omogenea percorribile in tutte le direzioni con costi di
trasporto proporzionali alle distanze;
2. la popolazione è distribuita in maniera uniforme nello spazio indifferenziato
3. ciascuna località abitata ha la stessa quantità di popolazione;
4. gli agenti economici hanno un comportamento razionale e quindi tendono alla minimizzazione
del costo totale per il consumatore ed alla massimizzazione del profitto per il produttore;
5. l'influenza di un agente sul prezzo è nulla, benché a livello globale il prezzo varia in funzione
della domanda e dell'offerta. Per il consumatore, il trasporto di un bene comporta un costo, in
funzione crescente alla distanza. La spesa del consumatore è data dalla somma del costo di
acquisto sul luogo di produzione e del costo di trasporto;
6. vi sono economie di scala nella produzione e quindi il costo medio di produzione di alcuni beni
domandati decresce all’aumentare della quantità prodotta. I beni che beneficiano delle
economie di scala sono chiamati beni centrali.
Dati questi assunti Christaller elabora la definizione di località centrale, come quella località che
dispone di un determinato servizio assente in tutte le località; quindi, de residuo, le località limitrofe
risultano periferiche (con riferimento al servizio specifico). Nella sua teoria Christaller, inoltre, sostiene
che la forma migliore che deve assumere un mercato è quella di un esagono.
Per costruire il modello degli esagoni di Christaller parte dal concetto di “prezzo effettivo”: per il
consumatore ovvero il costo totale che il consumatore deve sostenere per fruire del servizio. Tale costo
è risultante dalla somma del prezzo del bene sul luogo di mercato e del costo di trasporto sostenuto per
recarsi nella “località centrale” dove il bene/servizio è disponibile. Questo prezzo può essere
rappresentato nella funzione seguente:cresce al crescere della distanza, secondo il costo di trasporto t
pe = pm + td [4.3]
dove:
pe = prezzo effettivo in euro
pm = prezzo del bene/servizio in euro praticato dagli operatori economici
td = costo del trasporto (pari alla distanza in km moltiplicata per la tariffa t) che il consumatore deve
sostenere per recarsi dal proprio luogo di residenza al centro dover può acquistare il bene/servizio
La funzione del prezzo effettivo [4.3] può essere rappresentata in un grafico cartesiano (Fig. IV.20)
dove si vede che il prezzo definisce l’intercetta verticale della funzione, mentre (in uno spazio
fisicamente isotropico) il costo di trasporto t (dato) indica l’inclinazione della funzione del prezzo
effettivo che è crescente al crescere della distanza d.
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Capitolo IV
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Passando dalla funzione del prezzo effettivo per il consumatore alla funzione di domanda, vediamo che
in condizioni di un bene/servizio “normale”, ovvero di un bene la cui domanda diminuisce al crescere
della distanza (che incrementa il prezzo effettivo), la funzione assumerà la forma seguente
D = D(d) = D0 – δd [4.4]
:
D = quantità domandata del bene/servizio
D0 = quantità domanda del bene/servizio nel caso in cui il consumatore non dovesse sopportare i costi
di trasporto
Δd = fattore di correzione legato ai costi di trasporto e quindi alla distanza tra mercato e luogo di
residenza dei consumatori
Rappresentando la funzione [4.4] su un grafico cartesiano dove sull’asse delle ordinate poniamo la
quantità domandata e su quello delle ascisse la distanza dal mercato (Fig. IV.21) otteniamo una
rappresentazione grafica della domanda in funzione della distanza. Questa curva rappresenta per
Christaller la “soglia” del servizio, ovvero la distanza massima che i consumatori sono disposti a
percorrere per approvvigionarsi del servizio. Superata questa distanza non si ha più domanda per il
servizio.
Facendo ruotare il grafico IV.21 intorno al suo asse otteniamo una rappresentazione tridimensionale
della soglia, che assume una forma circolare intorno al mercato (o centro che eroga il servizio).
Secondo la consueta ipotesi di un territorio continuo e ugualmente percorribile in tutte le sue direzioni,
la soglia si concretizza con il raggio di un cerchio che individua l'area di mercato del bene/servizio per
il consumatore (Fig. IV.22).
In particolare, la figura solida ottenuta dalla rotazione della curva di domanda viene chiamata anche
conoide di domanda., ed il suo volume esprime la quantità totale domandata dalla popolazione che
abita in una determinata area geografica, area rappresentata dalla base del conoide, cioè dal cerchio.
Questo cerchio (area di base) si definisce area complementare, nel senso che è la superficie che fa da
complemento alla località centrale O. Tutta la popolazione che risiede in periferia ma all’interno della
regione complementare tende a gravitare sul centro O, e quindi si dice che è l’area di attrazione (sfera
di influenza)
Oltre al concetto di portata Christaller, introduce, in quanto funzionale al proprio ragionamento, quello
di portata. Si definisce “portata” la distanza dalla località centrale al cui interno si riscontra la quantità
di utenza minima necessaria a ricoprire i costi di gestione del servizio stesso, quindi la portata
rappresenta la quantità minima di un servizio che deve essere erogata affinché il produttore riesca a
coprire i costi di produzione (operi non in perdita). Anche la portata cosi come la soglia avrà una forma
circolare-conoidale. La portata sta ad indicare quel valore critico al di sotto del quale la domanda
esistente non è in grado di remunerare i costi necessari alla istituzione o alla sopravvivenza di un
servizio. Nel linguaggio corrente la portata viene normalmente rapportata al numero di abitanti, ciò non
è del tutto esatto, in quanto più che alla popolazione di una regione è necessario fare riferimento alla
capacità di consumo che questa possiede e ciò implica il coinvolgimento di altri parametri quali il
tenore di vita, le abitudini di spesa e via dicendo. La Fig. IV.23 mostra una rappresentazione grafica
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Capitolo IV
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delle due aree, portata e soglia, da qui si evince che affinché vi sia mercato per un determinato
bene/servizio la soglia deve essere almeno pari alla portata.
Da quanto sopra esposto si evince che per Christaller il cerchio è la figura ideale per un mercato (di un
bene/servizo) in una regione geografica caratterizzata da isomorfismo, in quanto è uniforme dal punto
di vista fisico, e al suo interno la popolazione registra la stessa intensità. Inoltre, secondo l’autore,
soddisfa il principio di isotropia, perché è l’unica figura in cui, spostandoci dal centro verso la linea
perimetrale, abbiamo segmenti della stessa lunghezza (raggi).
Considerando il fatto che non vi possa essere un unico centro che sia in grado di fornire un servizio a
tutta la collettività residente, e quindi si è in presenza di più centri deputati a questa erogazione, allora
nasce il problema di capire come questi centri (mercati) si localizzeranno nella pianura isotropia che
caratterizza il modello.
Lo spazio geografico isotropico ed isomorfo potrebbe essere suddiviso in tante regioni tutte circolari,
senza creare sovrapposizioni come nella Fig. IV.24 ,ma questa suddivisione del territorio risulterebbe
inefficiente perché si originano degli sprechi di spazio (terre di nessuno) dove la popolazione residente
non sarebbe servita da nessun centro (o mercato)
Christaller afferma che la migliore suddivisione dello spazio geografico ai fini della erogazione di
servizi sia rappresentato da una serie di centri (portata) che si sovrappongono (Fig.IV.25), in fatti in
questo modo nessuna porzione di spazio è sprecata, anche se vi saranno delle e zone di
sovrapposizione, zone che risultano contemporaneamente di appartenenza di due regioni. Queste zone
saranno ripartite in maniere equa tra i centri (mercati) interessati.
Così, nella figura IV.25 coloro che risiedono nei dintorni del punto b si rivolgeranno al centro B, in
quanto è più vicino rispetto al centro A. Quindi per motivi di distanza le zone di sovrapposizione
vengono divise in due parti. In questo modo la configurazione regionale della spazio si modifica e da
una iniziale configurazione di tipo circolare si passa ad una configurazione a maglia esagonale, che
evita l’inconveniente degli sprechi di spazio (Fig. IV.26).
Fissati questi concetti ne deriva l’assunto per cui “ogni bene viene prodotto solo se la sua soglia
supera la portata territoriale minima ed è collocato lungo una scala gerarchica di beni individuata
dalla dimensione delle rispettive soglie “ (Christaller,). Seguendo questo ragionamento si sviluppa una
rappresentazione per livelli gerarchici inferiori di beni/servizi e di centri con le seguenti caratteristiche:
che ogni centro produce il bene relativo al suo livello gerarchico e tutti i beni di ordine
inferiore; che per ciascun centro di ordine superiore esiste, a cascata, una pluralità di centri di ordine
inferire, fino a raggiungere le agglomerazioni di livello più basso (es. il villaggio) di cui esiste il
numero più elevato.
Il principio di localizzazione dei centri di ordine inferiore è denominato, da Christaller, principio del
mercato perchè è il principio che ottimizza la localizzazione di questi centri, ciascuna località centrale
avrà una clientela potenziale pari,in termini demografici, alla sua popolazione residente e a un terzo di
ciascuna dei sei centri che la circonda. La località servirà per intero la popolazione che risiede nel suo
interno e per 1/3 quella dei centri limitrofi, il valore della clientela potenziale è indicato, come fatto
generale, dalla lettera k e risulta in questo caso particolare pari a tre. Cambiando la caratteristica dei
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Capitolo IV
Rev_07 del 6.10.2014 24
servizi presenti ed erogati in un mercato si avremo una serie di centri che assumono una
conformazione gerarchica, che Christaller organizza in ranghi. Centralità che forniscono beni/servizi
più importati (in termini di dimensione della soglia), avranno una estensione territoriale maggiore ed
una forma dell’esagono che aumenta inglobando una seri di esagoni minori. Questi esagoni di
dimensione maggiore saranno caratterizzati da una parte da un rango maggiore e da un maggiore valore
di K, dall’altra da un orientamento differente (infatti cambiando il rango la forma dell’esagono ruota)
(Fig. IV. 27). A valori differenti di K vengono associati principi organizzativi dello spazio differenti :
Principio di mercato (k=3) = (1 + 1/3*6): il nuovo sito è al baricentro fra 3 centri
Principio di trasporto (k=4) = (1+ ½ *6): il nuovo sito è al baricentro fra 2 centri
(direttrice stradale)
Principio di amministrazione (k=7)= (1+ 6): il nuovo sito è tutto interno all’influenza di
1 centro
4.4.2 Il modello di Moses (1958)
Moses si pone l’obiettivo di superare un limite comune alla impostazione di Weber e di Isard: l’assunto
della funzione di produzione come data. Weber e Isard, infatti, partono da una combinazione dei fattori
della produzione considerata nota e costante, per cui nella ricerca dell’ottimo localizzativo la funzione
non cambia, così come non cambia al variare della localizzazione. L’idea di Moses, invece, è che vi sia
una stretta correlazione tra scelta localizzativa e combinazione dei fattori usati nel processo produttivo,
per cui a seconda della quantità di fattori che l’impresa usa il punto di minimo costo di trasporto può
evidentemente cambiare.
In particolare, Moses è interessato al fenomeno delle economie di scala, ai rendimenti crescenti della
produzione, per cui cerca di elaborare un modello che metta in relazione la localizzazione con il livello
di produzione. Supponiamo che l’impresa produca Y con quantità M1+M2 di materie prime, al quale
corrisponde (secondo la logica Weber/Isard) un certo punto ottimale di localizzazione nel quale sono
minimizzati i costi di trasporto; qualora l’impresa aumenti il suo volume di produzione fino a Y’, può
darsi che possa guadagnare economie di scala in modo tale che
Se la produzione diventa Y’=X*Y
Può darsi che M’1<X*M1 e anche M’2<X*M2.
Ovviamente, se cambia il peso relativo dei due materiali cambierà anche il punto di ottima
localizzazione e potrà essere diverso da quello nel quale l’impresa si trovava.
Obiettivo di Moses, dunque, è quello di elaborare un modello che possa individuare un punto di ottima
localizzazione che corrisponda al minimo costo di trasporto e in più all’ottimo livello di produzione.
Egli dunque comincia da dove Isard aveva più o meno concluso, ossia dal triangolo localizzativo dove
Isard applica il metodo iterativo per l’individuazione del punto di minimo costo di trasporto (triangolo
M1M2C).
Traccia un arco di cerchio ad una distanza arbitraria (segmento IJ) da C, assumendo come dato e
costante il costo di trasporto del prodotto finito da qualsiasi punto di localizzazione lungo IJ fino al
mercato C; e assumendo come costante la spesa totale che l’impresa deve sostenere per procurarsi le
due materie prime
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Capitolo IV
Rev_07 del 6.10.2014 25
A questo punto stabilisce che il prezzo delle materie prime deve considerarsi comprensivo del costo di
trasporto e definisce P1 il prezzo della materia prima M1 e P2 quello della materia prima M2.
Definita come K la spesa complessiva, in corrispondenza del punto I, si avrà
P1*M1 + P2*M2 = K
Che si può scrivere anche come M1 = (K/P1) – (P2/P1)M2
In questo modo, ottiene la funzione di una retta, detta ISOCOSTO (o ancora meglio ISOSPESA), che
ha come termine noto K/P1 e come coefficiente angolare il rapporto tra i prezzi delle materie prime
(comprensivo del costo di trasporto) P2/P1.
Si avranno allora due rette di isocosto, con stessa spesa totale, che hanno diverse inclinazioni e diversi
termini noti, una corrispondente alla localizzazione in I e una corrispondente alla localizzazione in J.
LOCALIZZAZIONE IN I (K=180)
P1 P2
10 20
M1
I
9
Coefficiente
angolare (P2/P1) è
pari a 2
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Capitolo IV
Rev_07 del 6.10.2014 26
LOCALIZZAZIONE IN J (K=180)
P1 P2
15 12
Dall’esempio numerico si vedono le due ipotetiche rette di isocosto, cui corrispondono prezzi di
materie prime (comprensive del costo di trasporto) diverse a seconda che la localizzazione dell’impresa
sia in I o in J. E dalla sovrapposizione delle due rette, si individua un primo principio sancito dal
modello. A sinistra del punto in cui si incrociano le rette (F), a parità di spesa totale (K) l’impresa avrà
convenienza a localizzarsi in I, perché con la stessa spesa a parità di quantità di M2 può acquistare una
maggiore quantità di M1. Analogamente, a destra del punto F sarà più conveniente localizzarsi in J,
perché a parità di spesa e di quantità di M1 l’impresa potrà acquistare quantità maggiori di M2.
M1
M2
J
M2
4.
5
Coefficiente
angolare (P2/P1) è
pari a 0.8
7.5
6
M2
M1
J
I
F
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A questo punto, la localizzazione ottimale dipende dalla funzione di produzione, ossia dalle
caratteristiche dell’isoquanto che incorpora il livello di output e la combinazione dei fattori M1 e M2.
Se l’isoquanto fosse tangente in A, sulla retta di isocosto I la localizzazione non sarebbe ottimale,
perché localizzandosi in I l’impresa perderebbe la maggiore quantità di M2 che potrebbe ottenere
spostandosi su J.
Ma per spostarsi in modo ottimale su J, l’impresa deve modificare i valori della sua funzione di
produzione, in modo tale che il suo isoquanto diventi quello tangente l’isocosto J nel punto B. Il punto
B in questo modo rappresenta il punto di ottimo localizzativo sia sul piano del costo di trasporto che su
quello della produzione.
Ovviamente, tutti i punti dell’arco I e J sono punti di possibile localizzazione, e ad ognuno di essi si
può associare un certo valore del rapporto P2/P1 e definiti termini noti su M1. Considerando soltanto le
parti a sinistra e a destra di F, allora, si può ottenere una sorta di spezzata e, all’infinito, una curva,
quella che Moses definisce “curva di preferenza” dell’impresa.
La tangenza tra la curva di preferenza, che rappresenta tutte le possibili localizzazioni sull’arco IJ dato
un livello di spesa K, e l’isoquanto migliore dal punto di vista della quantità di output e della
combinazione dei fattori, sarà allora il punto di ottima localizzazione perché minimizza il costo di
trasporto e assicura la ottima combinazione dei fattori produttivi per un certo livello di output.
Ma, allora, si può anche ipotizzare di muovere il valore K, cioè di considerare diverse curve di
preferenza da confrontare con diverse curve di isoquanto, per definire la possibilità dell’impresa di
accettare maggiori costi di trasporto pur di avere migliori combinazione Output/Input.
Curva di preferenza
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Sull’arco IJ iniziale, allora, il punto di minimo costo di trasporto non sarà più unicamente determinato
ma dipenderà anche dalla dimensione che l’impresa ha convenienza ad assumere. Al variare della
dimensione d’impresa e quindi al variare dell’isoquanto, l’impresa può avere convenienza a scegliere
valori crescenti di K, per cui la localizzazione lungo l’arco IJ può essere diversa perché incorpora la
teoria della produzione (quantità ottimale di output, combinazioni di imput tali da consentire di
guadagnare in economie di scala) nella teoria della localizzazione. Anzi, il grafico finale mostra quello
che Moses definisce il “sentiero di espansione” dell’impresa, la successione di punti B lungo i quali
l’impresa può scegliere di muoversi su isocosti (trasporto) maggiori e quantità di produzioni maggiori
che comunque assicurano una localizzazione sul minimo costo di
4.5 Verso la nuova modellizzazione
Negli ultimi anni un ritrovato interesse per la localizzazione strategica delle attività produttive (di beni
e servizi) e dei suoi effetti localizzativi per lo sviluppo è testimoniato dall’attenzione riversata su questi
argomenti dagli studiosi sia della crescita sia dello sviluppo. Tutto ciò si lega all’affermarsi di modelli
di tipo core-periphery (centro periferia), originati da lavori, definiti pionieristici, come quello di P.
Krugman (es. Krugman, 1991).
Dopo l’analisi dei sistemi distrettuali inglesi avviata da Marshall (1890)15
, teorie e modelli della
localizzazione delle imprese e delle loro attività produttive si sono sviluppate nella prima parte del
‘900, anche se spesso scarsamente integrati con le teorie sulla crescita economica, come invece fanno
le teorie basate su modelli core-periphery.
15
Il termine distretto industriale venne coniato da Alfred Marshall, nella seconda metà del XIX sec., in riferimento alle
zone tessili di Lancashire e Sheffield. La definizione che Marshall diede, in seguito, fu la seguente: «Quando si parla di
distretto industriale si fa riferimento ad un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente
parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche
concorrenza.»
Dunque gli elementi individuati dall’economista inglese erano:
l’individuazione di una specifica realtà sociale, oltre che economica
la specializzazione in una precisa categoria di prodotti
la concentrazione in un’area geografica
il particolare rapporto tra le imprese: allo stesso tempo collaborazione e concorrenza
Diverse curve di preferenza a
confronto con diverse curve di
isocosto individuano il
sentiero di espansione
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Se gli sviluppi spaziali della teoria economica neoclassica sono legati principalmente alla scuola
tedesca della prima metà del ‘900, fiorita con i contributi di Christaller (1933) e Lösch (1940), che
riprende i concetti della teoria neoclassica applicandoli alla distribuzione geografica delle attività
economiche16
; i modelli di localizzazione e crescita che si distaccano dall’approccio neoclassico si
affermano negli anni Cinquanta, quando inizia a diffondersi il principio della causalità cumulativa: le
imprese si localizzano dove vi sono altre imprese per beneficiare di una riduzione dei costi (economie
di scala), grazie alla vicinanza dei mercati di input e di output. Inoltre, la presenza di rendimenti di
scala crescenti17
contribuisce all’aggregazione sul territorio di imprese e lavoratori, contribuendo a
formare la cosiddetta polarizzazione spaziale18
(Harris, 1954; Pred, 1966).
Seguendo questo filone di studi si perviene a modelli di crescita spaziale dell’economia che, nella loro
configurazione di equilibrio, non determino uno sviluppo omogeneo nello spazio e del territorio. Ad
esempio, la scuola teorica del “sottosviluppo” segnala come gli squilibri regionali, dovuti ad un non
omogeneo sviluppo dei territori e delle loro economie, siano una caratteristica permanente del sistema
economico, e che quindi l’unica cosa da fare è incentivare le politiche per la generazione di economie
di scala esterne (in questo caso di agglomerazione) in quanto esse, con un processo di causalità
cumulativa, sono in grado di creare uno sviluppo autopropulsivo. Rientrano in questo filone, che ha
avuto non solo sviluppi teorici ma anche numerosi tentativi di applicazioni concrete di policy, studi
come quelli degli economisti, Myrdal (1957) e Pred (1966), che hanno teorizzato ed evidenziato
empiricamente i meccanismi dei processi cumulativi; di Perroux (1964) che ha proposto poli di
sviluppo come luoghi motrici della crescita locale, in quanto i poli sono da una parte attori
dell’innovazione e dall’altra centri delle relazioni tra fornitori, imprese e consumatori; per arrivare poi
agli studi di Hirshman (1968) che ha posto in evidenza i legami che si creano a monte e a valle del
processo produttivo, e di come essi siano fonte di sviluppo.
L’analisi di questi modelli, mostra come alcuni di essi sostanzialmente integrano il modello neoclassico
con la presenza di esternalità legate all’aggregazione di imprese, cosi i modelli generati da Perroux e
Hirshman suppongono uno sviluppo “per contagio”, cioè per contiguità: essi prevedono che la crescita
si generi da poli di sviluppo (prevalentemente industriali, contraddistinti talvolta da imprese di grandi
dimensioni) e si diffonda, mediante gli effetti di linkages a monte e a valle (Hirshman, 1968) nelle zone
limitrofe.
Nelle stesse teorie core-periphery, che hanno spesso ripreso questi temi, la presenza di costi di
congestione, che generano frizione alla localizzazione nei poli già affermati, possono ridurre la
concentrazione e avviare processi di diffusione esterna.
16
Il risultato è che i mercati sono individuati intorno a luoghi centrali che, se la popolazione è distribuita in maniera
uniforme sul territorio, saranno anch’essi omogeneamente sparsi nell’economia. 17
Il concento di rendimento di scala è legato alla funzione di produzione. Quando in una produzione il variare della
quantità impiegata dei fattori produttivi (in una stessa proporzione) porta a una variazione più che proporzionale dell'output
prodotto si parla di rendimenti di scala crescenti. Se una variazione di tutti gli input in una stessa proporzione dà luogo a una
variazione della stessa proporzione del prodotto, la funzione di produzione presenta rendimenti di scala costanti
Infine, se una variazione di tutti i fattori in una stessa proporzione dà luogo a una variazione meno che proporzionale del
prodotto, la funzione di produzione presenta rendimenti di scala decrescenti (in questo caso la grande dimensione è uno
svantaggio, e non ci aspetteremo che grandi imprese operino in questi settori). 18 La teorie della polarizzazione spaziale è sostenitrice di un tipo di sviluppo territoriale irregolare e discontinuo determinato da effetti
cumulativi, dove le aree periferiche subiscono effetti negativi in quanto la distanza dalle aree centrali può impedire di beneficiare degli
effetti di diffusione. Infatti la massa ridotta delle produzioni non consente lo sviluppo di imprese di servizi associate. Friedmann
propone una formulazione in termini spaziali della teoria della convergenza che unisce tra loro teoria dello sviluppo
economico e teoria della localizzazione, riformulando la dinamica centro-periferia in due aree: i principali centri di
innovazione definiti come regioni centrali, mentre tutte le altre aree all’interno di un dato sistema spaziale saranno
periferiche.
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Capitolo IV
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L’esistenza di vantaggi localizzativi è anche alla base delle teorie della nuova geografia economica
(new geography), che mettono assieme gli aspetti della localizzazione con quelli dello sviluppo delle
attività produttive con lo scopo di spiegare la concentrazione o le migrazioni delle attività economiche
e dei fattori produttivi da e verso determinate localizzazioni territoriali. Questi sono i modelli di
causazione cumulativa che hanno come conseguenza esplicita la polarizzazione spaziale delle attività.
Un esempio, come detto, è il modello core-periphery di Krugman (1991), nel quale le forze
agglomerative sono principalmente legate all’esistenza di economie di scala crescenti, in presenza di
costi di trasporto sufficientemente bassi19
.
4.5.1 I modelli della new geography
Gli studi condotti a partire dalla fine degli anni ‘80, sostengono che la creazione di centri di
agglomerazione e la loro dinamica di sviluppo inducono un aumento nelle prospettive di reddito
individuali. Sono questi, studi in cui l’attenzione viene posta all’analisi delle dinamiche economiche
derivanti dall’utilizzo di modelli di location theory, che a partire dai contributi di Krugman, portano
alla diffusione dei modelli della New Economic Geography (Cfr. Cap. 0).
Questo tipo di modelli è stato introdotto da Paul Krugman nel 1991 ed elaborato negli anni successivi
dallo stesso Autore insieme a Venables (1995 e 1996) e a Puga (1999).
Modelli che vedono le dinamiche territoriali del fattore lavoro strettamente legate alle scelte
localizzative ed agglomerative delle imprese. Se la localizzazione delle famiglie (distribuzione
geografica della domanda di beni e dell’offerta di lavoro) costituisce infatti uno dei fattori localizzativi
più rilevanti per le imprese, la localizzazione delle imprese (distribuzione geografica dell’offerta di
beni e della domanda di lavoro) costituisce uno dei fattori localizzativi più rilevanti per le famiglie.
Questi modelli hanno quindi il vantaggio di considerare congiuntamente fattori rilevanti per l’impresa,
quali costi di trasporto, economie di scala e domanda di mercato, con le aspettative occupazionali e
salariali dei lavoratori, in un’ottica di equilibrio economico generale.
La migrazione (intesa come propensione della forza lavoro allo spostamento) è vista in questi modelli
come “incipit” per sostenere il processo di agglomerazione, in questi modelli la decisione di migrare
è determinata solamente dal differenziale di reddito tra le aree periferiche e quelle centrali (centri di
affari).
In estrema sintesi, il modello “core-periphery” (o “centro-periferia”) di Krugman si basa su due assunti:
1. la presenza di due localizzazioni alternative
2. l’esistenza di due settori: manifattura ed agricoltura
Nel modello “centro periferia” Krugman ipotizza che il settore manifatturierio sia caratterizzato da
rendimenti di scala crescenti operanti in un sistema di competizione monopolistica alla Dixit e Stiglitz
(1977); mentre il settore agricolo si caratterizzata per rendimenti costanti di scala in regime di
concorrenza perfetta.
In queste ipotesi l’economista spiega la localizzazione dell’attività manifatturiera come dipendente
dall’interazione di tre forze:
le imprese manifatturiere vogliono localizzarsi nelle vicinanze del mercato più vasto possibile;
19
Altri fattori di concentrazione sono stati aggiunti in letteratura, spesso sotto forma di esternalità, come gli spillover
tecnologici, l’accesso al mercato del lavoro e l’accesso al mercato degli input produttivi più diretto.
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i lavoratori vogliono avere accesso al maggior numero di beni (in termini di alternative di
scelta, cioè di varietà e non solo di quantità) e dunque vogliono localizzarsi vicino alla
agglomerazione di imprese più vasta possibile;
le imprese manifatturiere vogliono fornire il mercato agricolo periferico.
Krugman definisce le prime due forze come centripete in quanto portano all’aglomerazione mentre la
terza come una forza centrifuga in quanto porta alla deconcentrazione delle attività verso le zone
periferiche.
L’economista spiega come l’esistenza e la persistenza di fenomeni di concentrazione geografica
dell’attività manifatturiera viene fatta dipendere da tre parametri chiave che descrivono
rispettivamente: la quota dei beni manufatti nella spesa totale, il livello dei costi di trasporto, il livello
di economie di scala. Quindi se i costi di trasporto sono elevati e/o la quota di beni manufatti sulla
spesa totale è ridotta non si verificherà alcun agglomerazione; tuttavia quando le economie di scala
sono abbastanza forti le imprese tenderanno ad agglomerarsi e, a causa dell’esistenza di costi di
trasporto, tenderanno ad agglomerarsi lì dove la domanda è maggiore.
Parallelamente ed in parte integrata alla teoria di Krugman si sviluppa una modellistica che trae
ispirazione dai lavori condotti da Greenwood, Hunt e McDowell (1986) sulla relazione tra lo sviluppo
territoriale (inteso come spaziale) e crescita della popolazione e dei posti di lavoro nelle aree urbane.
Lavori interessanti in al riguardo sono quelli di Adams (1994), Benabou, (1993) e Henry (1997), tutti
lavori volti a dimostrare come nelle aree metropolitane le attività economiche e la popolazione si
aggiustino al fine di permettere una distribuzione efficiente di imprese e individui e come l’effetto degli
investimenti pubblici e delle attività economiche abbia una duplice direzione dalle città verso le aree
periferiche e viceversa, cosicché l’effetto finale sarà quello di indurre i lavoratori ad una più ampia
mobilità lavorativa piuttosto che residenziale. Tali prospettive possono spingere gli individui a decidere
di non emigrare, ma di mantenere la propria residenza e contemporaneamente lavorare nei centri di
business (Kahn et al., 2001).
4.6 Come coniugare competitività e sostenibilità: le risorse localizzate, il capitale sociale, la
tecnologia, la qualità, le risorse finanziarie
La flessibilità, intesa come rapido ed efficace adattamento ai mutamenti di mercato è diventata
un'esigenza primaria dell'organizzazione produttiva (Trigilia, 1994).
Inizialmente sono state le imprese più piccole a cogliere le opportunità che la nuova situazione dei
mercati offrivano per la loro struttura più agile e più capace di rapidi adattamenti, facilitate dal
diffondersi di nuove tecnologie flessibili, che riducono i costi della produzione di beni in serie limitate
e favoriscono la "specializzazione flessibile" (Sabel, 1987). In seguito anche le grandi imprese,
adeguatamente ristrutturate al loro interno e nella collaborazione esterna con imprese minori, hanno
saputo restare competitive sui mercati, trasformandosi in un'organizzazione che si adatta
continuamente o un'organizzazione che apprende (learning organisation) (Cappellin, 1995) secondo
regole dinamiche e condivise (governance).
Streeck (1992) discute, ad esempio, le rinnovate condizioni dell'organizzazione economica proprio
partendo da quella che lui chiama "la produzione diversificata di qualità" legata ad un ambiente
appropriato allo sviluppo, cioè a condizioni esterne alle imprese che favoriscono l'organizzazione della
produzione (modello bottom-up).
La complessità non è dunque più vista come un ostacolo ma come la possibilità di delineare scenari
possibili. Ogni comunità locale è chiamato ad esprimere la propria progettualità, sulla base delle
opportunità che il proprio territorio offre.
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Ciò spiega la pluralità dei contributi geografico economici allo studio del locale, tra i quali
ripercorriamo sinteticamente i più significativi. Ogni approccio, se pur con risultati diversi tra loro,
pone l'accento su alcuni fattori piuttosto che altri, a conferma del ruolo che hanno le risorse endogene
nel realizzare pratiche di sviluppo virtuose.
BOX IV.4 - L'approccio marshalliano e la sua diffusione in Italia Le ricerche economiche sullo sviluppo locale ispirate all'opera di Alfred Marshall presero avvio con gli studi relativi
alle caratteristiche sociali dei sistemi di piccole imprese, emersi con successo nelle aree ad industrializzazione diffusa
dell'Italia periferica (ma anche della Spagna, della Grecia e del Portogallo), sulla base delle quali si perveniva alla
spiegazione dell'eterogeneità delle forme organizzative evidenziate (cfr. i lavori di Becattini, Bagnasco, Brusco, Fuà,
Landini e Salvatori, Sforzi, Tinacci Massello, Trigilia ed altri).
L'atmosfera distrettuale (in qualche modo già presente nell'opera marshalliana) trascende la crescita economica
localizzata per dare priorità a fenomeni di cooperazione.
L'organizzazione economica dei distretti è stata studiata in Italia tra il 1975 ed il 1995 coinvolgendo nell'analisi la
sfera dei rapporti familiari, istituzionali, lavorativi in senso lato (come i rapporti fra imprenditori e lavoratori). La
portata innovativa di questo approccio, al di là del successo economico dei distretti industriali italiani, sta nell'aver
sollevato le differenze sul territorio dei processi storico-culturali di lunga durata, ponendosi in evidente contrasto con
le tendenze livellatrici dell'economia globale moderna.
L'ampio dibattito sulle componenti non economiche dell'ambiente distrettuale ha contribuito ad incrinare una delle
"certezze" su cui poggiava la teoria economica tradizionale, che considerava come residuali per la crescita economica
alcune fenomenologie: le differenze sociali, i rapporti familiari, istituzionali e lavorativi, intaccandone il rigore
ideologico; contemporaneamente ha contribuito ad affermare l'idea che esistono entità economico-territoriali capaci di
attivare percorsi di sviluppo e modelli organizzativi differenziati nel tempo e nello spazio (Conti, 1995), ormai
comunemente definiti sistemi locali.
Il sistema locale - inteso quale radicata articolazione di relazione fra istituzioni e soggetti economici e sociali -
rappresentò, fra il 1975 ed il 1985, sia un modello teorico dello sviluppo autocentrato, cioè basato su variabili
controllate all'interno dell'area (Garofoli, 1994), sia una politica di sviluppo generata dal basso (bottom-up) in aperto
contrasto con quello ‘calato dall'alto’ (top-down).
I costi di transazione stabiliscono il confine fra organizzazione interna ed esterna di un sistema
produttivo; contribuisce, nei periodi di frammentazione (o disintegrazione) della produzione, a
spiegare alle imprese i vantaggi che si possono ottenere ricorrendo alle economie esterne, quindi a dar
vita a nuove forme organizzative, diverse da quella gerarchica.
Essi aiutano anche a spiegare perché si formano sistemi produttivi come insiemi di impianti di piccola
e media dimensione (oggi anche piccolissima) e a rivalutare i processi di agglomerazione (aspetto
particolare delle economie esterne).
Una vasta produzione scientifica (Amin e Robins, Piore e Sabel, Scott e Storper, Aoki ed altri) ha
riguardato questo argomento, più noto con il nome di teoria della specializzazione flessibile,
individuando molti fattori, tra cui si ricordano: il ruolo delle imprese esterne specializzate, le
condizioni poste dalla domanda; le condizioni di stabilità/instabilità, certezza/incertezza dei mercati.
Secondo questo tipo di approccio, un sistema locale è assimilato ad un sistema coordinato di reti
contrattuali e istituzionali, che si regge sui vantaggi competitivi dei costi di
produzione(iposocializzazione), per cui lo studio delle relazioni sociali diventa basilare per spiegarne il
funzionamento.
L’approccio transazionale offre una visione "ordinata" dell’economia: l'economia globale è vista come
un mosaico di regioni specializzate, ognuna dotata di una propria rete di accordi di scambio e di uno
specifico funzionamento in relazione al mercato del lavoro.
BOX IV.5 - L'approccio neotecnologico L'approccio neotecnologico considera il processo innovativo come un fattore territoriale, in quanto localizzato e
localizzabile attraverso pratiche del tipo learning by doing e learning by using. Il loro impiego da parte delle imprese,
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che ne usufruiscono anche come supporto logistico (esternalità, effetti di prossimità, ecc.), consente di realizzare un
processo di apprendimento che influenza i rapporti di scambio e di cooperazione fra imprese, istituzioni e altri
soggetti, contribuendo ad instaurare relazioni di prossimità, vitali per incrementare l’innovazione (processo
incrementale).
Al modello gerarchico, fondato su una logica funzionale (innovazione prodotta esternamente e diffusa tramite l'azione
della grande impresa) si sostituisce quindi un modello secondo cui lo spazio ed il territorio diventano agenti attivi nella
creazione di tecnologia, grazie all'azione non di una sola impresa ma da di una collettività, fondata su una complessa
rete di interdipendenze che si manifestano a livello territoriale.
Importanti contributi scientifici sull’argomento sono contenuti nelle ricerche del GREMI (Groupe de Recherche sur le
Milieu Innovateur) e di autori come Maillat, Quévit, Senn. Per tutti il milieu innovateur è alla base della creazione di
tecnologia, poiché la cooperazione fra soggetti localizzati e spazialmente vicini innescherebbe un processo di
territorializzazione (non dissimile da quello dell'approccio marshalliano) favorevole alla localizzazione concentrata
(polarizzazione) di nuove imprese che utilizzano il know how esistente, l'infrastrutturazione tipica di quel sistema
locale.
Sempre collegata all'approccio neotecnologico, anche se più spostata verso il sapere in quanto tale piuttosto che sulle
innovazioni tecnologiche, esiste una versione proposta da Becattini e Rullani (1993), che riesce ad eliminare la
dicotomia locale/globale, senza tuttavia limitare la portata interpretativa del modello.
L'idea di fondo del modello è che nello sviluppo il fattore decisivo, prima ancora dell'accumulazione di capitale, sia il
sapere nelle due varie forme: la conoscenza scientifica e tecnica, ed il saper fare degli uomini. Due le sfere della
conoscenza, con diversi contenuti, diversi linguaggi, diversa collocazione nello spazio.
La prima è la conoscenza codificata, che si scambia, con linguaggio scientifico e tecnico, nelle riviste specializzate e nei
libri di testo; utilizza codici unificati ed universali: tecnologici, organizzativi, comunicativi.
Il luogo di questa conoscenza è la comunità scientifica, cioè un luogo immateriale, non sempre ubicato. La conoscenza
codificata è, quindi, un fattore esogeno, che si può spostare nello spazio con relativa facilità, essendo sufficiente aderire
alla comunità scientifica, o più semplicemente essere capaci di decodificarla.
Il secondo tipo di conoscenza è il sapere locale, sedimentato nell'intelligenza, nella fantasia, nella creatività e nell'abilità
di persone che vivono vicine, si scambiano notizie ed esperienze, lavorano insieme, sono cioè relazionate socialmente.
Questa conoscenza si diffonde attraverso il fare ed il saper fare, attraverso ‘chiacchierate informali’ ed un linguaggio
ricco di locuzioni vernacolari, "spesso giocato su metafore o riferimenti che non hanno alcun valore fuori dall'area d'uso
in cui il linguaggio stesso è stato elaborato" (Brusco, 1994, p. 68).
Questo sapere non può che essere radicato in un'area specifica, una porzione di territorio, in cui le persone sono legate
da una storia e da valori comuni, in cui istituzioni particolari operano al servizio degli individui, in cui codici di
comportamento, stili di vita, percorsi di lavoro, aspettative, si mescolano inestricabilmente con le attività produttive.
Questo sapere localizzato, legato inequivocabilmente a quella porzione di territorio, si muove in modo limitato nello
spazio. La lettura territoriale diventa quindi indispensabile per evidenziare le specificità dei vari contesti produttivi e,
contemporaneamente, la natura composita del processo produttivo che, se da un lato tende all'internazionalizzazione
delle tecnologie e dei prodotti, dall'altro si alimenta del saper locale per la sua realizzazione pratica. Da un punto di vista
interno ai sistemi locali la continua interazione tra "conoscenza codificata" e "sapere locale" dà vita ad un processo
circolare continuo, in entrata ed in uscita, che Becattini e Rullani (1993) hanno definito "contestualizzazione" e
"decontestualizzazione" della conoscenza.
Un sistema locale, quindi, deve essere capace di integrare la conoscenza codificata, decodificandola e
contestualizzandola, in modo da valorizzare e rendere maggiormente "fertile" il proprio sapere. Dove ciò non avviene, o
perché l'identità locale e la capacità di autoregolazione sono scarse, o perché sono scarse le risorse endogene, si
attiveranno vasti processi di deterritorializzazione20
(Turco, 1988).
Questi processi vanno si sono sviluppati con il venir meno dell'idea secondo cui lo spazio geografico tende a ordinarsi
"naturalmente" per zone tendenzialmente omogenee, dai centri alle periferie, dalle regioni forti a quelle deboli; ma,
soprattutto al venir meno dell'idea, che le differenze tra i luoghi crescano gradualmente con la distanza fisica e quelle
tra i centri e tra le regioni con i livelli gerarchici interposti.
Tale complessità è rappresentata, oggi, dalla diversificazione delle condizioni locali, diversità che mentre fino a venti
anni fa erano viste come ostacolo alla creazione di condizioni territoriali omogenee, oggi diventano risorse potenziali,
fattori di sviluppo, che "premiano" alcuni luoghi e relegano altri a condizioni di dipendenza funzionale.
20
Perdita delle specificità proprie di quel luogo, perdita di identità nonché progressiva dispersione delle potenzialità.
Conseguentemente i luoghi perdono la capacità di autoregolarsi; per dirla con Turco, la territorializzazione non è più
autocentrata, cioè è sempre meno "governata da attori o gruppi che si riconoscono parte integrante di un corpo sociale
unitario, che è come è". Se ne deduce che la deterritorializzazione può essere associata alla perdita di autonomia.
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Il tema del vantaggio competitivo di un'impresa (o di una nazione, secondo M. Porter, 1982 e 1991)
richiama ancora una volta l'attenzione sull'importanza della chiave territoriale nello sviluppo, segnando
contemporaneamente: la rottura con gli strumenti teorici della pianificazione tradizionale e con la
metodologia dei costi di transazione; proponendo l'ambiente locale (o milieu) nel quale l'impresa è
collocata come elemento di vantaggio.
L'ambiente più prossimo all'impresa definisce, infatti, secondo Porter, molti degli input dei quali
l'impresa si avvale, comprese le informazioni che guidano le scelte strategiche, gli incentivi e le
pressioni ad innovare.
Il vantaggio competitivo risiede sia nell'ambiente sia nella singola impresa, per cui l'ambiente cessa di
essere un dato oggettivo per diventare il "prodotto" dell'azione strategica dell'impresa, che questa
costruisce instaurando relazioni di concorrenza/cooperazione con altre imprese ed istituzioni.
Al centro della teoria di Porte ci sono l'impresa ed il settore produttivo in cui essa opera. Entrambi
contribuiscono a definire due concetti: la catena del valore e l'ambiente competitivo, poiché un'impresa
è qualcosa di più della semplice somma delle sue attività. E’ una catena del valore in quanto sistema di
interdipendenze o una rete di attività connesse, che incidono sui costi o sull'efficacia di altre attività.
La competizione economica non avviene pertanto contrapponendo imprese isolate, bensì catene del
valore alternative, ciascuna delle quali organizza in genere più imprese. Le imprese di successo creano
e sostengono il vantaggio competitivo con la loro capacita di migliorare continuamente, di innovare e
di accrescere i loro vantaggi competitivi nel tempo.
Concorrenti, fornitori, clienti beneficiano dell’ambiente competitivo delineato dalla catena del valore e
definiscono appunto l'estensione delle attività che l'impresa svolge al fine di competere in un
determinato settore (Conti, 1995).
Con la nozione di ambiente competitivo, Porter recupera come componenti fondamentali la
dimensione storica e quella geografica. La prima è fondamentale per comprendere la dinamica delle
forze in gioco, la loro naturale evoluzione, le variazioni temporali; la seconda permette di capire i
meccanismi di espansione dell’ambiente e la strategia localizzativi.
La portata del discorso di Porter travalica quindi le imprese, indicando nei contesti localizzati (stati,
regioni) in cui le imprese operano le ragioni del successo della competizione globale.
Porter basa la sua teoria sullo studio delle cause di successo internazionale in un campione
significativo di imprese localizzate in dieci paesi leader nella commercializzazione (tra cui anche
l'Italia), e le sintetizza in quattro attributi (o determinanti) rappresentati nel cosiddetto “diamante” (Fig.
I.9, in grigio chiaro i fattori concepiti da Porter).
1. i fattori della produzione
2. la domanda
3. le industrie correlate e di supporto
4. la strategia dell'impresa, la sua struttura e rivalità
Porter aggiungerà a questi quattro attributi del contesto locale due altre variabili: il caso e le politiche
governative regionali e nazionali
Lo sviluppo che chiamiamo “territoriale” ha posto attenzione più alle risorse che rendono una località
‘vincente’ in termini di benessere economico piuttosto che sul tipo di modello espresso dal sistema
economico di riferimento.
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In Europa e in Italia gli studi sullo sviluppo economico hanno prodotto un aumento d'interesse anche
nei confronti del contesto istituzionale e del cosiddetto “capitale sociale”21
, il quale può essere
considerato come l'insieme delle relazioni sociali di cui un individuo (per esempio un imprenditore o
un lavoratore) o una collettività (pubblica o privata) dispone in un determinato momento (Trigilia,
1999). Attraverso il capitale sociale si rendono disponibili relazioni e bei relazionali (come quelli
culturali), know-how, informazioni, capaci di abbattere i costi dei moderni fattori della produzione.
Anche il concetto di competitività (competitiveness) è dunque mutato, territorializzandosi, soprattutto
dopo i primi tentativi di applicazione della cosiddetta Strategia di Lisbona (2000-2005),
complessificandosi con l’aggiunta di molti fattori e coinvolgendo il concetto di sviluppo sostenibile in
un’inevitabile integrazione con la Strategia di Gothenburg (2001-2005).
La complessificazione consiste nell’agire contemporaneamente sia alla scala globale (la scala delle
politiche e dei principi comuni che orientano lo sviluppo), sia alla scala locale (la scala dei programmi
e dei progetti attuativi dello sviluppo) tenendo conto delle differenze nazionali e regionali, dunque
territoriali.
I fattori ed indicatori della competitività così come indicata da Porter non sono dunque più sufficienti.
La letteratura scientifica ha contribuito non poco nell’ultimo decennio ad affrontare la questione,
soprattutto in campo economico. Ad essa si sono aggiunti recentemente molti documenti di riflessione
prodotti, su base scientifica, dall’Unione Europea22
e, per quanto la discussione sia ancora in corso,
alcune controversie sono state risolte:
1) l’economia, il territorio, l’ambiente devono essere considerati un tutt’uno nella trattazione dello
sviluppo. Essi rappresentano I caratteri distintivi di un sistema complesso, da considerare tipico e
rappresentativo di una regione, base territoriale per lo studio della competitività;
2) la competitività non può essere disgiunta dalla sostenibilità, e dalla capacità endogena di essere
competitivi ed allo stesso tempo sostenibili sia a livello regionale che nazionale;
3) la ricerca delle differenze territoriali consentirà all’Europa delle regioni e degli stati la possibilità di
essere cooperativi sulla base della comune capacità di accedere all’arena della competitività
(rappresentata ad esempio dai nuovi Fondi Strutturali 2007-2013).
Alla ricerca di una soluzione da dare in tempi brevi al problema globale della perdita di competitività, i
paesi che aderiscono all’Unione Europea hanno convenuto che:
i) una regione competitiva ha una base territoriale imprenditoriale cooperativa;
ii) il livello di efficienza delle istituzioni pubbliche giocano un ruolo fondamentale affinché le regioni
siano competitive in sostenibilità, perché l’efficienza può essere considerato un fattore direttamente
correlato al livello di agglomerazione territoriale;
iii) la simmetria informativa sulle opportunità e sui limiti di sviluppo di un territorio consente di
scegliere progetti ed investimenti appropriati;
21
Nei primi anni del Novecento, Max Weber aveva tentato di spiegare l'influenza dei fattori culturali sullo sviluppo
economico americano studiandole sette protestanti, in cui l'appartenenza religiosa era alla base di un'intensa rete di relazioni
sociali personali di natura extraeconomica. 22
Tra i più recenti vale la pena ricordare:
- The Kok Final Report about Facing the Challenge. The Lisbon Strategy for growth and employment
(November 2004)
- The study Adaptation of Cohesion Policy to the Enlarged Europe and the Lisbon and Gothenburg
Objectives dell’European Parliament's Committee sullo sviluppo regionale (provisional version,
January, 2005) per valutare la coerenza delle proposte di riforma (finanziaria e sociale) con particolare
riguardo ai cambiamenti attuali e future richiesti per porre in coerenza I Fondi Strutturali con gli
obiettivi di Lisbona e Gothenburg.
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iv) l’organizzazione commune della struttura finanziaria dei mercati regionali consente di perseguire
obiettivi comuni.
Ciò significa che la performance competitiva di una regione si basa su:
la quantità e la qualità dei beni e dei servizi offerti;
le economie esterne (di urbanizzazione e di agglomerazione)
i caratteri regionali distintivi e strutturanti (specializzazione, relazioni, organizzazione,
infrastrutture, ecc.)che rendono alcune aree primate rispetto al mercato globale;
la presenza in loco di comunità che lavorano a sistema;
l’incremento progressive del reddito e degli standard di vita a livello regionale o nazionale,
disponibilità di assorbimento della forza lavoro locale (CEC, 2002, p. 4);
standard nazionali elevati in materia di qualità della vita ed un basso livello di disoccupazione.
Ne consegue una nuova tassonomia geografico-economica, che considera la competitività in una
prospettiva strettamente legata alla sostenibilità, correlandola:
- alla capacità territoriale di sostenere la concorrenza di mercato impiegando fattori endogeni che
distinguono inequivocabilmente l’ambito regionale e nazionale di appartenenza (mix di aspetti
economici, sociali, ambientali che influenzano la posizione di una regione nel contesto
internazionale o, ad esempio, dell’Europa dell’allargamento);
- al possesso di materie prime considerate vitali ed innovative per l’impresa all’interno di un
contesto socialmente stabile;
- alla capacità di orientare il mercato della competizione verso scenari strategici in grado di
garantire stabilmente la sostenibilità ambientale, sociale, culturale della produzione;
- al possesso di alcune capacità organizzative e gestionali: conoscenza delle capacità di
innovazione locali, organizzazione a rete, capacità di integrare differenti settori e livelli di
attività e di cooperare fuori e dentro i confini di appartenenza, coinvolgimento di differenti
livelli delle istituzioni pubbliche e private, possesso di una visione coerente dello sviluppo a
livello locale e globale, organizzazione internazionale, rispetto nell’uso delle risorse locali,
capacità recepire sussidiariamente le politiche europee, nazionali, regionali;
- alla capacità di cooperare con differenti soggetti, anche a livello transnazionale europeo, in
materia ambientale e per lo sviluppo.
Questa concezione assimila concetti sino ad oggi trattati separatamente:
la competitività economica, cioè la capacità di produrre e mantenere nel territorio il massimo del
valore aggiunto, valorizzando le risorse anche attraverso la cooperazione locale;
la competitività sociale, cioè la capacità dei soggetti di intervenire insieme ed efficacemente, in
base alla concertazione fra i vari livelli istituzionali;
la competitività ambientale, cioè la capacità di valorizzare l’ambiente in quanto “peculiarità” del
territorio, garantendo al contempo la tutela e il rinnovamento delle risorse naturali e del patrimonio
in senso lato;
al punto da far ritenere, sino al 2002, che competitività e produttività fossero un tutt’uno, che la
competitività riguardasse solo le imprese e che in fattori interni ed endogeni (domestic factors) fossero
meno importanti rispetto al comportamento dei sistemi produttivi nel misurare il posizionamento dei
territori all’interno del contesto europeo ed internazionale,cioè alla capacità di trovare una collocazione
rispetto agli altri territori e al mondo esterno nel rank della globalizzazione.
Nel 2003 il Rapporto sulla Competitività dell’Unione Europea aveva incentrato gli aspetti regionali
della competitività sulla produttività (calcolata come PIL regionale per ora di lavoro), work-leisure
balance (totale delle ore lavorative per occupato), il tasso di occupazione, i fattori demografici del
lavoro (tasso di popolazione in età lavorativa).
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Tuttavia questi indicatori non sono sembrati sufficienti a spiegare le diversità regionali (solo macro
indicatori, solo 15 settori misuravano la produttività tra il 1980 ed il 2000), inducendo ad introdurre
nuove correlazioni. Ad esempio tra produttività e sistema della conoscenza, della ricerca, della
formazione superiore; o tra produttività e capitale fisico, capitale umano, infrastrutture (materiali ed
immateriali); sino ad inserire fattori (anche intangibili) come l’innovazione, la tecnologia
dell’informazione e la comunicazione (ICT), la protezione ambientale.
In questo contesto è stata riconosciuta anche l’importanza rivestita dalla good governance per la
competitività regionale (European Commission, 2004, p. xiii).
Dal 2004 un altro concetto, la coesione, orienta, per l’Unione Europea, la misura della competitività di
un territorio. Il termine sta ad indicare la capacità di tenuta, di cooperazione, di pacifica e produttiva
coesistenza tra tutte le componenti di un sistema produttivo; ma anche l’idoneità e l’efficienza delle
istituzioni nel mettere in pratica regole di governance partecipativa inducendo la comunità d’imprese a
perseguire, nei comportamenti individuali, obiettivi quali:
1) l’inserimento positivo e produttivo nel circuito sociale ed economico,
2) lo sviluppo di atteggiamenti “proattivi” di inclusione nelle scelte collettive (giungendo a “farsi
carico” di responsabilità individuali e sociali),
3) il concorrere con le istituzioni (formali ed informali) al governo stesso della comunità
condividendone le “buone pratiche”.
Gli intendimenti della nuova politica europea (quella che diventerà operativa dal 2007 con i nuovi
Fondi Strutturali) punta a valorizzare (competitività) le differenze di contesto valutandone la coesione:
• stabilita’ delle condizioni (approccio statico-interno)
• convergenza dinamica di indicatori comparativi (approccio dinamico-comparativo)
• miglioramento delle condizioni di vita (contenuto generale)
• performance di occupazione, reddito, produttivita’ (contenuto specifico)
La territorial capability, o capacità del territorio di produrre valore e di possedere competitività in
sostenibilità, è dunque il nuovo fattore di posizionamento dello sviluppo a livello mondiale. E’ formato
da otto componenti:
1. l’attitudine degli operatori di sviluppare e valorizzare le competenze e il know-how locali,
anche attraverso l’idoneo utilizzo delle nuove tecnologie;
2. la capacità degli operatori di garantire la valorizzazione delle risorse finanziarie pubbliche e
private presenti nel territorio;
3. la capacità degli operatori di creare imprese, organizzarle e gestirle nel tempo;
4. la capacità di accedere a mercati che generano plusvalore economico;
5. la disponibilità di risorse umane e di operatori collettivi, nonché le capacità di rapporto che si
generano tra loro;
6. la dimensione della cultura e dell’identità del territorio, misurabili anche dai legami che
nascono dalla condivisione di alcuni valori tra gli operatori del territorio;
7. la capacità di corretta gestione degli affari pubblici: i rapporti di interesse, di affinità o di rifiuto,
le strutture per la gestione del potere, le tensioni e i conflitti tra i soggetti e la capacità di
cooperare e di intervenire in modo concertato tra le varie istituzioni pubbliche e tra il settore
pubblico e quello privato;
8. il potenziale dovuto al know-how e alle competenze: le conoscenze acquisite per quanto
riguarda la gestione sociale e democratica, ma anche la capacità di valorizzarle e di acquisirne
delle nuove.
The Lisbon Scorecard IV (Centre for Economic Reform’s Report and Murray, 2004) ha associato la
competitività a cinque temi portanti:
1. innovazione
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2. liberalizzazione dei mercati e nuovi strumenti finanziari
3. imprese
4. occupazione ed esclusione sociale
5. sviluppo sostenibile
e alla necessità di non trattare più i territori regionali e nazionali come spazi indifferenziati dell’azione
sociale ed economica (Cfr. Cap. 1).
BOX IV.6 – I nuovi strumenti finanziari a sostegno dello sviluppo regionale Stock markets, venture capital and altre risorse della cosiddetta equità finanziaria sono divenuti fondamentali per la
competitività, perché consentono investimenti in beni intangibili, come la R&S, fondamentali per lo sviluppo delle piccole e
medie imprese europee, tradizionalmente legate al sistema bancario e del credito nazionale e locale, legato sostanzialmente
al meccanismo dei prestiti e dei mutui, che incide in modo rilevante su quelle che la nuova classificazione europea definisce
micro-imprese.
La capitalizzazione di mercato (market capitalisation, calcolato come % del Pil) è un indicatore di questo fenomeno,
utilizzato per misurare la dimensione dello stock market, ma anche come indicatore della cosiddetta cultura dell’equità se
correlato al rapporto tra grande e piccola impresa o al rapporto tra imprese di nuova e vecchia quotazione.
La sua applicazione ha permesso di rilevare profonde differenza tra vecchi e nuovi stati membri dell’UE nel processo di
capitalizzazione, per cui resta fondamentale il collegamento con le tradizionali piazze finanziarie di Lussemburgo, Londra,
New York.
Il numero di imprese quotate nei vari stock markets dropped tra il 2000 ed il 2003 in tutti i paesi, ad eccezione di Gran
Bretagna e Spagna. I numeri in questi due mercati sono molto più altri che nel resto d’Europa (la Spagna può essere
equiparata al Giappone e raccoglie un terzo delle imprese quotate europee). In rapporto alla loro capitalizzazione ed alla
loro dimensione, si distinguono anche Slovakia and Slovenia.
A dicembre 2013, il Consiglio dell’Unione europea ha formalmente adottato le nuove normative e le leggi che regolano il
ciclo successivo di investimenti effettuati nell’ambito della Politica di coesione dell’UE per il periodo 2014-2020.
L’investimento territoriale integrato (ITI) è una nuova modalità di assegnazione finalizzata ad accorpare fondi di diversi assi
prioritari di uno o più programmi operativi per interventi pluridimensionali o tra più settori. L’ITI può rappresentare uno
strumento ideale per sostenere azioni integrate nelle aree urbane perché permette di coniugare finanziamenti connessi a
obiettivi tematici differenti, prevedendo anche la possibilità di combinare fondi di assi prioritari e programmi operativi
supportati dal FESR, dall’FSE e dal Fondo di coesione (articolo 36 del regolamento «disposizioni comuni»). Un ITI può
anche essere integrato da aiuti finanziari erogati attraverso il FEASR o il FEAMP.
4.7 Le nuove frontiere della modellistica geografico-economica: rendimento economico e
progresso sociale: un binomio possibile
Nel 2008, la Commissione per la misurazione del rendimento economico e progresso sociale
(CMEPSP) (Stiglitz, Sen, Fitussi, 2009) proponeva di ricercare nuovi indicatori per meglio
rappresentare la situazione sociale ed economica superando “la religione del numero”, per ripensare, in
vista di una crisi che allora si immaginava di breve durata, i criteri su cui stimare la qualità della vita
scostandosi da quelli esclusivamente economico-quantitativi. Per molti decenni il benessere dell’individuo è stato correlato al reddito, alle esperienze personali e di contesto;
per scoprire(economisti, educatori, filosofi, geografi) in tempi più recenti che i cosiddetti modelli di sviluppo
includono, oltre la relazione reddito – felicità/ soddisfazione, anche la necessità individuale di accedere a beni
immateriali spesso largamente sottovalutati, come la cultura e la formazione permanente.
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La Commissione concludeva i lavori rilevando, oltre la carenza di appropriati indicatori economici da
colmare con riforme strutturali e sociali23
, l’urgenza di statistiche incentrate sul benessere e sulla
sostenibilità dell’azione antropica.
Nel 2009, la domanda di «soluzioni per migliorare, rettificare o completare il PIL» (Commissione
Europea, 2009, p. 4) si affermava anche in Europa, incentivando il monitoraggio della percezione
dell’impatto (sensitivity) che i cittadini europei hanno delle politiche europee sulla qualità della vita e
sul benessere. Reddito, servizi pubblici, salute, tempo libero, cultura, mobilità, ambiente vengono
rilevati come "input" da inserire prioritariamente nell’offerta di policy governative (Monfort, 2011).
Per queste: «Le scienze sociali stanno mettendo a punto forme dirette di misura della qualità della vita
e del benessere sempre più affidabili e tali indicatori "di risultato" potrebbero utilmente completare gli
indicatori dei fattori "input" (…) allo scopo di (…) misurare i progressi compiuti nel raggiungere in
modo sostenibile gli obiettivi sociali, economici ed ambientali» (Commissione Europea, 2009, p. 10).
Riconoscere l’importanza che rivestono fattori di “godibilità” oltre che di utilità e rarità legati al
benessere individuale, consente di individuarli, rilevarli, interpretarli e condividerli al fine di valutare la
qualità della vita e la coesione in Europa.
Molte istituzioni internazionali hanno proposto a questo scopo indici sentitici di misura24
più o meno
scientificamente soddisfacenti:
- l’indice di sviluppo umano (HDI) elaborato nell’ambito del Programma di Sviluppo delle Nazioni
Unite (UNDP) al fine di effettuare un'analisi comparata dei paesi sulla base del calcolo combinato del
PIL, della sanità e dell'istruzione. L’HDI ha sostituito il “calcolo dei risparmi reali” elaborato dalla
Banca Mondiale che pure include aspetti sociali ed ambientali nella valutazione dello stato di salute
delle nazioni;
- gli indicatori partecipati OCSE, attraverso il "Global Project on Measuring the Progress of Societies",
che si affiancano a quelli elaborati in seno alle esperienze delle organizzazioni non governative per
misurare l'"impronta ecologica", una misura che alcune istituzioni hanno formalmente riconosciuto
come uno strumento/obiettivo in materia di sostenibilità o nel campo della ricerca pilota sul benessere e
sulla soddisfazione di vita;
- l’Index of Sustainable Welfare (ISEW), proposto già nel 1989 dagli economisti Daly e Cobb, da cui è
derivato, nel 1994, il Genuine Progress Indicator25
(GPI), proposto dall’associazione no profit
Redefining Progress, per misurare l’aumento della qualità della vita considerando solo l’aumento di
produzione che ha un riscontro effettivamente positivo sul benessere degli individui.
Questi indicatori o indici compositi (Carbonaro, 2011), al contrario del PIL, non considerano tutti gli
aspetti economici e finanziari sullo stesso piano, scindendo, ad esempio, la spesa “positiva” che
aumenta il benessere, da quella “negativa” che lo diminuisce (come nel caso dei costi
dell’inquinamento). Quest’ultima, insieme ai costi sociali (riduzione del tempo libero, aumento della
criminalità, ecc.), viene sottratta dal conteggio delle spese del primo tipo.
Il Genuine Progress Indicator (GPI) considera positivi anche i beni e servizi prodotti che non generano
una transazione economica (volontariato, lavori domestici, assistenza, ecc.); così da non vincolare la
reale crescita del livello di qualità della vita degli individui all’aumento del PIL, operando una
compensazione che tiene conto delle disuguaglianze e della distribuzione reale del reddito. E per avere
un’idea di quanto il GPI si distanzi dal PIL si osservi l’andamento che i due indici hanno avuto nella
seconda metà del XX secolo negli Stati Uniti, dove mentre il PIL è cresciuto costantemente durante
23 Si pensi ad esempio all’incremento che c’è stato nella qualità dei prodotti e dei servizi, per nulla considerato nel PIL. 24
A quelli più noti di seguito descritti, si aggiungono: l’Happy Planet Index (HPI della New Economic Foundation); il
Gross National Happiness (GNH), ovvero Felicità Interna Lorda (FIL). 25
La versione italiana del GPI, proposta dal WWF Italia e dalla Fondazione Enrico Mattei, è il RIBES ovvero Ricostruzione
dell’Indice di Benessere Economico Sostenibile.
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tutto il periodo, il GPI ha registrato una crescita fino agli anni Settanta dello scorso secolo, per poi
decrescere.
Grafico 1. Andamento del PIL e del GPI negli Stati Uniti durante la seconda metà del ventesimo secolo
Fonte: Redefining Progress, 2009, p. 4
Dunque, sebbene il PIL e altri indicatori prettamente quantitativi restino validi strumenti di
monitoraggio della situazione finanziaria di uno stato o di una regione (soprattutto di quelli lagging), lo
stesso non può ritenersi in campo economico, dove altri fattori incidono maggiormente sulla misura
della qualità della vita.
I nuovi indicatori del benessere sono considerati ancora poco attendibile dall’economia tradizionale
sempre alla ricerca di un indice composito ma sintetico; per cui gli indicatori settoriali (ambientali e
sociali) sono utili ad affiancare e completare il PIL, ma non a sostituirlo.
Un ulteriore interessante contributo allo sviluppo di indicatori sintetici sostitutivi viene dalla
Fondazione per le Qualità italiane Symbola che ha sviluppato il cosiddetto Prodotto Interno di Qualità
(PIQ), definito da molti la nuova misura dell’economia.
Il presupposto per calcolarlo è che si stia operando nel campo della Soft Economy, ovvero all’interno di
«un modello di sviluppo non più basato sulla quantità, destinata a perdere posizioni rispetto alle grandi
economie emergenti, ma sulla qualità, cioè su assetti nei quali a sistemi produttivi specializzati e
posizionati nei segmenti alti ed altissimi di mercato si associano politiche industriali centrate
sull’innovazione, il territorio, sul mantenimento degli stock ambientali e culturali e sulla valorizzazione
del capitale umano» (Symbola, 2009, p.27).
Il PIQ misura dunque la quota di PIL (o meglio di valore aggiunto) che può essere considerata di
qualità.
Sebbene sia possibile correlare il concetto di qualità a quello di benessere, cosa peraltro tentata da molti
ricercatori, è la stessa Fondazione Symbola ad ammettere che il PIQ potrebbe rappresentare una misura
del benessere più in prospettiva che attuale, poiché dipende dal livello di qualità che le generazioni
future potranno o sapranno raggiungere, anche se la sua stima mostra per l’Italia incrementi di valore
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costanti nella composizione dell’economia dal 2005, raggiungendo il 53,7% (pari a 430,5 miliardi di
euro) contro il 46,3% del PIL nel 2009.
Grafico 2 - Quota percentuale di prodotto interno di qualità e di non qualità dell’economia italiana – Anno 2009
Fonte: Fondazione Symbola - Istituto Tagliacarne, 2009, p. 47.
I nuovi indicatori sottolineano un evidente sforzo di riconsiderare lo sviluppo in termini di benessere e
qualità della vita, tuttavia rimane il dubbio se questi possano realmente rappresentare il Subjective well-
being (SWB), ovvero la percezione che gli individui hanno della propria vita, cioè quello che gli
economisti definiscono il vero indicatore di misura della felicità degli individui e, come tale, secondo
molti analisti, troppo soggettivo. A questo proposito, è interessante notare che, nei decenni prima della
crisi, laddove il PIL è cresciuto (UK, Germania, Belgio), il SWB è cresciuto molto meno rapidamente
se non è addirittura diminuito (Bruni, La Porta, 2005).
Sen, Nussbaum e i membri dell’Human Development and Capability Association sono convinti che
questo sia il segno che il raggiungimento del benessere dipenda dalle politiche che stati e regioni
adottano. E dunque che sia tempo di indirizzare definitivamente verso la sostenibilità la formulazione
delle politiche economiche e occupazionali e che queste debbano essere finalizzate a rimuovere gli
ostacoli all’accesso discriminato al mercato del lavoro; che sia tempo di politiche che promuovano la
conciliazione fra vita e lavoro. Soprattutto, che sia tempo di attuare un nuovo modello di società basato
sullo “sviluppo umano” e la creazione/valorizzazione di capability, come afferma la Nussbaum
nell’omonimo libro, che reca il sottotitolo: liberarsi dalla dittatura del PIL, di cui proporne la
sostituzione con l’ “approccio dello sviluppo umano o delle capacità” (Hdc)
Questa “contro-teoria necessaria” (Nussbaum, 2012, p. 51) contiene le risposte che la sostenibilità e
l’Hdc possono effettivamente offrire alla crescita del benessere, hanno una base fortemente geografica -
di cui non possono fare a meno- che si collega, altrettanto strettamente, alla pianificazione territoriale,
perché innescano un ciclo di sviluppo che incrocia la “capability” dell’individuo territorializzato con
quelle dell’home place e delle scelte di sviluppo dell’insieme: i cosiddetti capitali potenziali territoriali.
L’esperienza europea dell’ultimo decennio non ha sostenuto al meglio questa posizione, di cui pure si
dichiara la necessità. Molti sembrano al momento essere i vincoli di bilancio che frenano, anche nel
nostro Paese, l’inclusione di nuovi indicatori che, al pari di quelli più noti, stimino la qualità dei
processi e delle azioni di riforma strutturale verso una migliore qualità della vita per giustificarne il
costo.
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Un’occasione è offerta dai bilanci di genere (D’Orazio e Macchi, 2009) nati in Italia sull’onda di molte
iniziative promosse dagli anni ’90 (Dichiarazione di Pechino, Piattaforma di Azione) che hanno molto
a che fare con lo sviluppo sostenibile e il benessere.
Recenti casi studio (Wiest, Leibert, 2012) condotti sulle regioni rurali europee mostrano come
l’opportunità di entrare nel complesso delle politiche e di valutarne l’impatto diverso su donne e
uomini costituisca un mezzo per evitare la settorialità nelle analisi delle singole policy, consentendo di
entrare nello specifico della rendicontazione finanziaria (spese e entrate) dello Stato o degli Enti Locali
per coglierne la struttura e l’assetto distributivo delle risorse. Quest’ultimo riflette, anche se in modo
non facilmente decifrabile, l’articolazione e la visione del sistema economico e sociale di governo del
territorio, determinando la rilevanza gerarchica delle politiche e il loro impatto.
L’ordine di rilevanza degli interventi pubblici, le loro dimensioni quantitative misurate in valore
monetario e le connessioni che strutturano il quadro analitico del bilancio influenzano la prospettiva di
sviluppo delle capability di genere e non, offrendo alle potenzialità del capitale territoriale nuove e
differenziate possibilità in tutti i tipi e a tutti i livelli delle politiche.
Ripercorrere i processi di formazione dei documenti di bilancio e leggere i processi politici e
amministrativi che vi sono sottesi – anche in termini di genere - è un esercizio abbastanza diffuso, che
si inserisce nella crescente tendenza in atto ad essere trasparenti e responsabili nella spesa pubblica.
Molto meno diffusa è invece la pratica di adottare questo approccio “a monte” della formazione del
bilancio, soprattutto quando la prospettiva delle capability sostenibili si lega alla pianificazione
territoriale.
Negli articoli fondativi dei gender budget si riconosce pienamente l’approccio al benessere e il
riferimento teorico principale allo sviluppo umano come definito da Amartya Sen, il quale adotta come
chiavi di valutazione delle politiche pubbliche il benessere di donne ed uomini evidenziandone le
diseguaglianze. La novità di questo approccio non sta nello scegliere il benessere per valutare le
politiche, perché in teoria questo è il fine pubblico; l’innovazione sta nell’utilizzare metodologie, anche
tradizionali, dell’analisi geografico-economica per mettere direttamente in evidenza i risultati delle
politiche in termini di benessere senza dare per scontato che gli indicatori economici tradizionali siano i
migliori per misuralo, come pure le usuali gerarchia che relazionano l’economia al sociale.
Difficilmente, infatti, un unico indicatore darà conto delle diverse dimensioni territoriali di vita e
raramente comprenderà al suo interno dimensioni diverse da quelle di mercato, come nel caso di quelle
valutazioni etiche e relazionali.
Il Fondo di coesione e il Fondo sociale dell’UE 2013 non hanno dedicato a questa misura più del 10%,
pur identificando con chiarezza questo aspetto e la necessità di dedicare azioni specifiche per
migliorare l'accesso e la partecipazione al mercato del lavoro istituendo assi prioritari di intervento in
ambito regionale.
PER APPROFONDIRE
BECCHETTI L., Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Roma,
Città Nuova Editrice, 2009.
CARBONARO I., Measuring wellbeing with TOPSIS. In: Proceedings of 58th World Statistics
Congress. Dublin, 21-26 Ago., ISI Dublin, 2011
COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione della Commissione Europea al Consiglio e al
Parlamento Europeo: Non solo il PIL. Misurare il progresso in un mondo in cambiamento, Bruxelles,
2009.
NUSSBAUM M.C., Creare Capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Bologna, il Mulino, 2012.
NUSSBAUM M.C., SEN A., The Quality of Life, Oxford, Clarendon Press, 1993.
Geografia Economica: metodi e strumenti di pianificazione economico-territoriale di Maria Prezioso
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REDEFINING PROGRESS, The Genuine Progress Indicator 1950-2002 (2004 Update), Oakland,
Redefining Progress, 2004.
STIGLITZ J.E., SEN A., FITOUSSI J.P., Report by the Commission on the Measurement of Economic
Performance and Social Progress, 2009, http://www.stiglitz-sen-
fitoussi.fr/documents/rapport_anglais.pdf, (accesso 22/01/2011).
SYMBOLA, UNIONCAMERE (a cura di), PIQ Prodotto Interno Qualità. Una nuova misura
dell’economia per leggere l’Italia e affrontare la crisi. Rapporto Nazionale 2009, Roma, I quaderni di
Symbola, 2009.
UNDP, Human Development Report, New York, Oxford University Press, 2011.