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CAPITOLO 3 L’Interpretazione classica e la modellistica...

Date post: 29-May-2020
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Geografia Economica: metodi e strumenti di pianificazione economico-territoriale di Maria Prezioso Capitolo IV Rev_07 del 6.10.2014 1 CAPITOLO 3 L’Interpretazione classica e la modellistica per funzioni e strategie Il capitolo ha lo scopo di introdurre il lettore nello studio delle dinamiche che conducono il territorio ad assumere forme organizzative differenti e mutevoli, nel tempo e nello spazio. Il territorio, come luogo di dominio dell’agire umano è oggi al centro di grandi cambiamenti, sia in termini istituzionali che formali (il suo assetto). All’interno dei paesi ad economia sviluppata, cosi come all’interno dei paesi emergenti o di quelli storicamente in una posizione di “in via” e ora “a basso livello di sviluppo” si osserva un serrato confronto tra differenti modelli di governo ed organizzazione del territorio, volto ad individuare quelle dinamiche che conducano allo sviluppo territoriale duraturo e sostenibile. La ricerca di una dimensione di equilibrio tra mera crescita economica (un accrescimento esclusivamente quantitativo) e la salvaguardia delle risorse naturali ha negli ultimi decenni chiesto agli studiosi delle diverse discipline (geografia, economia, socio-economia, scienze ambientali, ecc.) la definizione di modelli di sviluppo capaci di trasformare le limitare risorse endogene di cui un territorio dispone in occasioni di sviluppo sociale ed economico. Una realtà territoriale è un unicum, simile ad altre ma unica nella varietà delle sue componenti, fisiche (aspetto morfologico, clima, posizione, ecc) e antropiche (storia, cultura, formazione, maturità sociale ecc.) e tale unicità richiede un modello di organizzazione e gestione (ad opera dei policy maker) definito ad hoc. Il fallimento dell’esportazione dei modelli di organizzazione territoriale (economica e sociale) di natura top-down nell’esperienza dei PVS è testimonianza della necessità. di individuare modelli di sviluppo endogeno di tipo bottom-up. Lo sviluppo deve partire dall’analisi del “modo” con cui un territorio (ad opera dell’uomo) si è organizzato, cioè studiare il “modello” delle relazioni che altro non è che la rappresentazione di elementi puntuali (risorse ambientali, economiche e culturali) e delle loro dinamiche di trasformazione legate all’agire dell’uomo. L’uomo che per natura è vocato alla soddisfazione dei propri bisogni (individuali e collettivi) ha da sempre interagito con il proprio territorio, prima in maniera passiva (sottostando a quanto la natura poneva a sua disposizione) e poi via via in modo attivo, arrivando a modificarlo attraverso trasformazioni successive. Lasciando ad altri campi di studio l’analisi dell’evoluzioni delle modalità individuali e collettive dell’interazione uomo- natura, in questo capitolo ci si soffermerà su comeil territorio è stato storicamente organizzato e trasformato (i modelli predittivi) dall’uomo per soddisfare i propri bisogni; e su come ancora questo approccio sia perseguito alla ricerca di regole condivise che diano certezza all’agire economico. La Geografia Economica ha contribuito ad elaborare diverse teorie fondate sull’uso dello spazio geografico (inteso come territorio indifferenziato) e sui criteri che orientano la localizzazione degli insediamenti abitativi e delle attività produttive, cioè di come l’uomo trasforma il proprio ambiente per soddisfare i propri bisogni. 4.1 Modelli semplificativi della realtà Per lungo tempo Geografia ed Economia hanno ridotto i complessi dettagli in cui è articolato il territorio (sistema economico, sistema insediativio, sistema delle relazioni, ecc.) alle sue caratteristiche essenziali, attraverso cui comprendere le dinamiche che si nascondono dietro ad un sistema organizzativo (sia esso insediativo che produttivo).
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Geografia Economica: metodi e strumenti di pianificazione economico-territoriale di Maria Prezioso

Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 1

CAPITOLO 3

L’Interpretazione classica e la modellistica per funzioni e strategie

Il capitolo ha lo scopo di introdurre il lettore nello studio delle dinamiche che conducono il territorio ad

assumere forme organizzative differenti e mutevoli, nel tempo e nello spazio. Il territorio, come luogo

di dominio dell’agire umano è oggi al centro di grandi cambiamenti, sia in termini istituzionali che

formali (il suo assetto). All’interno dei paesi ad economia sviluppata, cosi come all’interno dei paesi

emergenti o di quelli storicamente in una posizione di “in via” e ora “a basso livello di sviluppo” si

osserva un serrato confronto tra differenti modelli di governo ed organizzazione del territorio, volto ad

individuare quelle dinamiche che conducano allo sviluppo territoriale duraturo e sostenibile.

La ricerca di una dimensione di equilibrio tra mera crescita economica (un accrescimento

esclusivamente quantitativo) e la salvaguardia delle risorse naturali ha negli ultimi decenni chiesto agli

studiosi delle diverse discipline (geografia, economia, socio-economia, scienze ambientali, ecc.) la

definizione di modelli di sviluppo capaci di trasformare le limitare risorse endogene di cui un territorio

dispone in occasioni di sviluppo sociale ed economico.

Una realtà territoriale è un unicum, simile ad altre ma unica nella varietà delle sue componenti, fisiche

(aspetto morfologico, clima, posizione, ecc) e antropiche (storia, cultura, formazione, maturità sociale

ecc.) e tale unicità richiede un modello di organizzazione e gestione (ad opera dei policy maker)

definito ad hoc. Il fallimento dell’esportazione dei modelli di organizzazione territoriale (economica e

sociale) di natura top-down nell’esperienza dei PVS è testimonianza della necessità. di individuare

modelli di sviluppo endogeno di tipo bottom-up. Lo sviluppo deve partire dall’analisi del “modo” con

cui un territorio (ad opera dell’uomo) si è organizzato, cioè studiare il “modello” delle relazioni che

altro non è che la rappresentazione di elementi puntuali (risorse ambientali, economiche e culturali) e

delle loro dinamiche di trasformazione legate all’agire dell’uomo. L’uomo che per natura è vocato alla

soddisfazione dei propri bisogni (individuali e collettivi) ha da sempre interagito con il proprio

territorio, prima in maniera passiva (sottostando a quanto la natura poneva a sua disposizione) e poi via

via in modo attivo, arrivando a modificarlo attraverso trasformazioni successive. Lasciando ad altri

campi di studio l’analisi dell’evoluzioni delle modalità individuali e collettive dell’interazione uomo-

natura, in questo capitolo ci si soffermerà su “come” il territorio è stato storicamente organizzato e

trasformato (i modelli predittivi) dall’uomo per soddisfare i propri bisogni; e su come ancora questo

approccio sia perseguito alla ricerca di regole condivise che diano certezza all’agire economico.

La Geografia Economica ha contribuito ad elaborare diverse teorie fondate sull’uso dello spazio

geografico (inteso come territorio indifferenziato) e sui criteri che orientano la localizzazione degli

insediamenti abitativi e delle attività produttive, cioè di come l’uomo trasforma il proprio ambiente per

soddisfare i propri bisogni.

4.1 Modelli semplificativi della realtà

Per lungo tempo Geografia ed Economia hanno ridotto i complessi dettagli in cui è articolato il

territorio (sistema economico, sistema insediativio, sistema delle relazioni, ecc.) alle sue caratteristiche

essenziali, attraverso cui comprendere le dinamiche che si nascondono dietro ad un sistema

organizzativo (sia esso insediativo che produttivo).

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I geografi economici per interpretare e spiegare la complessità dell’organizzazione territoriale hanno

simulato le condizioni reali, sulla base di osservazioni empiriche, riconducendo queste ultime a formule

unitarie, più razionali. Questa operazione di semplificazione prende il nome di modello geografico-

economico. La base logica ed l’approccio seguono le regole della ricerca induttiva (dal basso verso

l’alto, dal particolare al generale); tutto il contrario dell’approccio economico, micro o macro che sia.

I primi modelli geografico-economici presentano tuttavia una stretta relazione con l’economia ed i suoi

obiettivi, servendosi di rappresentazioni schematiche e semplificate e riducendo al minimo il numero

degli infiniti elementi (variabili) di cui si compone la realtà.

Questo concetto è condiviso nell’ambito della geografia quantitativa e della new geography: un

modello deve per forza di cose razionalizzare e semplificare, deve individuare le caratteristiche

essenziali nell’interazioni tra gli uomini, i beni e le modalità con cui i primi hanno scelto di organizzare

le proprie attività.

Questa opera di razionalizzazione e di sistematizzazione avviene mediate la formulazione di assiomi e

postulati che gettano le basi per la descrizione delle condizioni rilevanti su cui il modello opererà i

propri ragionamenti. Se razionalizzare comporta, da una parte, semplificazione, ovvero una perdita di

“dettagli”, dall’altra risulta essenziale per comprendere le connessioni e le relazioni esistenti fra gli

uomini, i mercati dei beni, del lavoro e delle attività produttive e finanziarie.

Un modello o descrizione semplificata di una realtà complessa viene utilizzato per descrivere

prevalentemente fenomeni fisici, sociali, economici. Nel primo caso prevalgono gli schemi illustrativi

dello stato di fatto e quelli descrittivi delle proprietà specifiche di un fenomeno, esempi sono i modelli

di erosione del suolo, le classificazioni climatiche.

Nel secondo caso il modello si presenta come un insieme organico di relazioni concettuali su gruppi

umani, classi sociali, servizi, insediamenti, modalità di utilizzazione delle risorse, per la spiegazione

delle conseguenze sociali dei fenomeni spaziali. Un esempio è il modello che contrappone il centro alla

periferia, il Nord (sviluppato) al Sud (sottosviluppato).

Infine, nel terzo caso, prevalgono le semplificazioni descrittive dei fatti e dei comportamenti, rilevanti

in chiave economica, che si manifestano sul territorio. I modelli della rendita di posizione nelle attività

agricole e minerarie, delle località centrali in relazione ai servizi, della localizzazione delle industrie in

base ai costi di trasporto, sono alcuni dei quelli che descriveremo in questo capitolo.

I modelli che analizzeremo nei paragrafi successivi possono essere suddivisi in:

Modelli semplificati delle attività primarie, in particolare dell’uso agricolo del suolo

Modelli semplificati localizzativi delle attività produttive secondarie, in particolare industriali

Modelli semplificati localizzativi delle attività terziarie e quaternarie, in particolare dei servizi

anche avanzati

Modelli complessi di interazione intersettoriale

Si vedrà di seguito come alcune ipotesi su cui questi modelli si basano, sono ricorrenti.

4.2 Modelli semplificati delle attività primarie o dell’uso agricolo del suolo

L'allocazione della risorsa “territorio” tra uso agricolo ed extragricolo è storicamente al centro degli

studi della geografia economica e dell’economia, la separazione tra terra ed industria, tra prodotti

agricoli ed industriali, tra le allocazione degli incentivi per i differenti settori (primario, secondario,

terziario, ecc) continua, oggi, a concentrato l’attenzione degli studi sullo sviluppo economico dei paesi

(sia sviluppati che in via di sviluppo). Comprendere le dinamiche che sottostanno le scelte che

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conducono al diverso uso del suolo, sia tra i diversi settori in generale, che in particolare all’interno di

quello agricolo, è un tema che ha interessato i geografi economici da più di due secoli.

A partire dal XIX secolo e grazie all’opera di geografi pionieri come von Thünen il territorio inizia a

prendere rilevanza non solo e non più sotto il mero aspetto morfologico ma anche sotto quello

economico. Sono questi gli anni in cui le attività economiche degli stati sono prevalentemente legate

all’agricoltura e quindi l’attenzione alla variabile territorio non può che legarsi alla produzione

agricola. Come viene allocato il terreno tra le diverse produzioni? Qual è la combinazione ottimale dei

tre fattori (terra, capitale, lavoro) che orientano la localizzazione di queste attività? Queste domande

diventano, allora, il centro di studi che mirano a spiegare il comportamento dell’uso agricolo dei suoli.

4.2.1 Il modello dello “Stato isolato”

Padre delle moderne teorie della localizzazione delle attività agricole è von Thünen, proprietario

terriero tedesco vissuto a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo che formalizza un modello di uso del

suolo a fini agricoli che getterà le basi per un importantissimo filone di studi ed analisi sulla

localizzazione delle attività primarie.

La teoria di von Thünen è sintetizzata nel modello dello stato isolato (1826)1. Le basi del ragionamento

di questo modello sono formulate in una serie di assiomi che descrivono una “realtà” territoriale

semplice che ai più potrebbe risultare particolarmente riduttiva, ma che in realtà non lo è, considerando

il periodo in cui questi ragionamenti vengono condotti: siamo nella campagna tedesca dei primi del

XIX.

Gli assunti semplificativi del modello sono:

1. si è sempre in presenza di una grande pianura isolata, “tagliata fuori” da qualsiasi possibilità di

relazioni con il resto del mondo (lo stato isolato);

2. all’interno dello stato isolato vi è un unico centro (città). Esso riveste il ruolo di unico mercato

di riferimento (lungo di incontro della domanda e della offerta per la formazione del prezzo dei

beni);

3. il territorio ha fertilità uniforme e pertanto si considera come una costante; la sua morfologia

piana fa sì che non vi siano ostacoli al movimento di persone e cose (isomorfismo), quindi i

costi di produzione e di spostamento unitario sono costanti per tutte le produzioni;

4. gli agricoltori forniscono la città di prodotti agricoli in cambio di altri prodotti;

5. il trasporto dei beni avviene a cura dei produttori che utilizzano strade convergenti (dalla

periferia al centro) con uguali caratteristiche di viabilità;

6. il regime di concorrenza espresso dal mercato è teoricamente perfetto, quindi sono prodotti

solamente quei beni che hanno una domanda ai prezzi stabiliti dal mercato (i produttori non

possono influenzarli), tutti gli agricoltori cercano di massimizzare i propri profitti

“risparmiando” sul costo di movimento complessivo dei beni prodotti.

Alla luce di questa premessa, von Thünen afferma che la distribuzione delle colture agricole e delle

attività connesse intorno alla città-mercato avviene secondo un modello di utilizzo del suolo a zone (o

fasce) concentriche. Questa affermazione viene dimostrata ricorrendo a due concetti fondamentali: la

distanza e la rendita di posizione. La distanza del luogo di produzione dal mercato di distribuzione dei

beni diventa quindi la discriminante o variabile fondamentale, da cui dipenderà il valore dei terreni.

Prima di von Thünen, pochi (Smith e Ricardo, ad esempio) avevano incentrato i propri studi sulle

1 Il titolo originale dell’opera è Der Isolierte Staat in Beziehung auf Landwirtshaft.

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dinamiche economiche del territorio considerando la frizione che la distanza frappone tra produzione e

mercato.

Legati alla distanza entrano in gioco i costi di trasporto, che, essendo (nel modello esaminato) a carico

dei produttori, vanno ad influire sulle cosiddette rendite che derivano dalla produzione; quindi sulle

loro scelte. I produttori agricoli producono, infatti, in questo modello, cercando di massimizzare i

propri profitti, cioè la differenza tra ricavi totali (prezzo di mercato per quantità venduta) e costi totali

(costi di produzione più costi di trasporto).

Nello stato isolato i produttori agiranno affinché si manifesti una funzione della redita (R) del tipo:

R= rp – (rdf + C) [4.1]

Dalla [4.1] si vede come la rendita del produttore agricolo per una unità di superficie coltivata sia pari

alla differenza tra ricavi della vendita (rp) e costi totali di produzione dovuti al trasporto ed alla

coltivazione del suolo (rdf + C). Con un semplice passaggio algebrico l’equazione può essere

trasformata in:

R = r (p - df) – C [4.2]

Dove:

r: rendimento o resa unitaria come peso del prodotto per unità di superficie (resa in termina di

Kg), costante in tutto lo spazio;

C: costo di coltivazione per unità di superficie (espresso in euro), costante in tutto lo spazio;

questo costo include l’acquisto di sementi e concimi, i costi fissi dell’azienda agraria per unità

di superficie e i costi del lavoro necessario per conseguire la produzione;

p: prezzo sul mercato per un’unità in peso del prodotto (espresso in euro);

d: distanza fisica del luogo di produzione dal mercato(espressa in km);

f: tariffa per unità di peso del prodotto e per unità di distanza (espresso in euro)

La [4.2] rappresenta l’equazione di una retta con inclinazione negativa che mostra come al variare della

distanza dal mercato diminuisce come la rendita, che per questo viene definita da von Thünen: rendita

di posizione.

Date le diverse caratteristiche che ciascuna produzione agricola ha in termini di rendimento per unità di

terreno (r), di costi di produzione (C) e prezzo di mercato (p), le rispettive funzioni di rendita avranno

un andamento differente. Questo può essere visto graficamente (Fig. IV.1 A) costruendo un grafico

dove sulle ascisse viene rappresentata la distanza dal mercato e sulle ordinate la rendita di posizione.

Possiamo vedere come prodotti diversi con una rendita di posizione diversa avranno una differente

intercetta con l’asse delle y che dipende dal prezzo di mercato del bene, ed una diversa pendenza che

dipende, invece, dai costi di trasporto legati alle caratteristiche di ogni singolo prodotto (Fig. IV.1 B).

Nella figura IV.1 B si nota come prodotti differenti, in termini di peso del prodotto per unità di

superficie, presentano un’inclinazione differente: un prodotto ingombrante (con elevato tonnellaggio

per unità di superficie) e di difficile trasportabilità è caratterizzato da curve di offerta molto inclinate

(ad esempio il caso del prodotto “x” rappresentato nel grafico); mentre un prodotto più leggero (con

scarso tonnellaggio per unità di superficie) o di facile trasportabilità presenterà un curva di offerta

meno inclinata (ad es. il caso del prodotto “z” rappresentato nel grafico). Quindi minore è

l’inclinazione della curva di offerta, minore sarà l’influenza dei costi di trasporto e la coltura del

prodotto risulterà meno sensibile alla distanza dal mercato. L’intersezione delle curve di rendita dei

differenti prodotti rappresentano i confini di impiego del suolo, oltre i quali non è più conveniente

produrre quel determino bene; e quindi sarà bene cambiare tipologia colturale.

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Ruotare il grafico con le zone di impegno del suolo attorno al mercato (attorno all’asse delle ordinate)

otteniamo un modello di utilizzo del suolo ad anelli concentrici dove al centro è posizionata la

città/mercato (Fig. IV.2). In ogni zona sarà posizionata la coltivazione/utilizzo che garantisce la più

elevata rendita di posizione.

Il modello originario di von Thünen (sulla base di quanto evidenziato nella Fig. IV.3) prevedeva una

organizzazione ad anelli concentrici nell’utilizzazione del suolo agricolo comprendente sei fasce:

una prima, a ridosso del mercato ed interna alle mura che circondano la città isolata, dedicata

alla coltivazione di prodotti ortofrutticoli;

una seconda, dedicata alla produzione di legname (silvicoltura);

una terza, con terreni destinati ad accogliere a rotazione diversi tipi di colture intensive;

una quarta, con terreni destinati alle coltivazioni foraggiere finalizzate all’allevamento di bovini

da latte ed alla produzione lattiero-casearia;

una quinta, dedicata al cosiddetto “sistema di coltivazione a tre campi”2;

sesta fascia, allevamento estensivo di bestiame.

Una variante al modello base del von Thünen è quella che prende in considerazione un elemento di non

isomorfismo, rappresentato dalla presenza di un elemento lineare naturale (fiume, mare) o artificiale

(via di comunicazione) lungo il quale si articola il mercato che da elemento puntuale e centrale si

trasforma in areale-lineare. Laddove dovesse avvenire questa sostituzione, il modello risulterebbe

comunque in grado di illustrare la formazione di zone ad utilizzo specifico, non più concentriche ma a

fasce parallele.

Nonostante variazioni nella condizione di isomorfismo introdotte nel tempo potremmo chiederci quale

possa essere oggi la validità di un modello come quello di Von Thunen? Anche se indubbiamente dal

1829 ad oggi l'evoluzione delle tecniche di produzione e di quelle di trasporto dei prodotti agricoli è

stata notevole comunque la distanza tra luogo di produzione e luogo di utilizzazione rappresenta tuttora

un fattore rilevante. Quindi tale modello può oggi ancora avere un qualche valore esplicativo su scala

territoriale molto limitata, specie nei paesi in via di sviluppo, oppure su scala territoriale molto grande

(Berry, Conkling e Ray, 1993; Conti, 1993; Formica, 1996).

4.3 Modelli semplificati localizzativi delle attività produttive secondarie, in

particolare industriali

Uno dei grandi temi della geografia economica è lo studio delle leggi che governano e determinano la

localizzazione delle attività secondarie sul territorio. Con una particolare attenzione agli insediamenti

industriali la scelta del sito dove istallare un complesso produttivo risulta fondamentale sia sotto gli

aspetti economici, sia sotto quelli sociali, a causa delle implicazioni che queste scelte hanno sull’assetto

2 Per coltivazione a tre campi o sistema triennale si intende quel sistema di coltivazione a campi aperti dove il primo anno si

seminava grano d’inverno, nel secondo un altro cereale (orzo, avena), nel terzo il terreno veniva lasciato a riposo e aperto al

pascolo brado. Ogni anno un terzo delle terre veniva lasciato incolto.

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del territorio e delle relazioni che lo muovono. Individuare cosa spinge un attore economico a

localizzarsi in un determinato territorio è fondamentale per comprendere le forze e le dinamiche che

sovrintendono il funzionamento di un sistema economico-territoriale che deve, oggi più che nel

passato, assumere le il ruolo di propulsore dello sviluppo. La distribuzione e la concentrazione delle

attività economiche sul territorio e della ricchezza tra i diversi attori non è frutto di combinazioni

causali tra eventi slegati, ma il risultato di un processo che per il tramite di aggiustamenti successivi

porta ad un utilizzazione “ottima” del territorio ai fini produttivi: le scelte localizzative vincenti.

Il numero crescente di studi commissionati a livello europeo dall’Unione per comprendere il perché le

localizzazioni degli impianti produttivi si concentrano in alcune aree geografiche piuttosto che in altre

(cfr. Progetti ESPON3) stanno a testimoniare come la dimensione territoriale delle azioni dell’uomo, in

merito all’organizzazione delle proprie attività produttive, è un importante punto di partenza per lo

studio e l’elaborazione di modelli di sviluppo endogeno delle realtà locali.

Nonostante in questo secolo vi sia stata un'indubbia evoluzione nella tecnologie produttive e nelle reti

di trasporto (reali e virtuali), la localizzazione (intesa come manifestazione puntuale della produzione

sul territorio) e il fattore distanza giocano, ancora oggi, un ruolo importante nell'influenzare la

dimensione spaziale delle attività industriali. Come si è già visto nel caso dell'agricoltura, quando ci

sono in gioco produzioni difficili o costose da trasportare, vuoi in ragione delle loro caratteristiche

intrinseche, vuoi in relazione ai modi di trasporto impiegabili (e quindi alla funzione del costo di

trasporto), la distanza, la morfologia del territorio e la distribuzione spaziale dei fattori produttivi

assumono crescente importanza.

4.3.1 Beni, fattori produttivi e distanze

L’uomo, da sempre, tende raggiunge il proprio benessere tramite la soddisfazione di bisogni. Questi

bisogni possono essere soddisfatti attraverso la disponibilità di determinati beni (risorse naturali, beni

frutto della produzione, servizi, ecc.), che siano adatti ad appagare le necessità per i quali vengono

utilizzati. Le problematiche connesse alla soddisfazione dei bisogni umani (sia dei singoli che delle

collettività) devono essere affrontate sotto un duplice aspetto, quello strettamente economico, da una

parte, e quello propriamente geografico-economico dall’altra. Dal punto di vista economico

fondamentale è il constatare che i bisogni sono per loro natura potenzialmente illimitati, mentre, i beni

dotati di utilità (cioè i beni in grado di soddisfare questi bisogni) sono necessariamente limitati. Infatti,

sia le risorse esistenti in natura, sia i beni producibili dall’uomo, sono in quantità limitata e non infinita.

Dal punto di vista geografico bisogna tener presente che i beni o meglio le risorse necessari a produrli

non sono sempre distribuiti in maniere uniforme nello spazio geografico. E’ da questa contrapposizione

tra illimitatezza dei bisogni e scarsità dei beni (risorse), da una parte e non uniforme distribuzione delle

risorse atte a soddisfare i primi, dall’altra, che nascono e si giustificano storicamente gli studi sulla

localizzazione territoriale degli impianti produttivi.

Gli attori economici di un sistema territoriale, qualunque esso sia, per temperare la suddetta

contrapposizione e cercare di soddisfare il maggior numero di bisogni possibili, devono organizzare il

proprio spazio produttivo e distributivo in modo ottimale (efficiente), tale cioè da realizzare la migliore

allocazione delle risorse.

Vista la possibilità che alcune (o molte) delle risorse naturali necessarie alla produzioni industriali di

beni non sono in natura uniformemente distribuite sul territorio, occorre procedere ad una

classificazione delle stesse. Le materie prime di non facile reperibilità sul territorio che richiedono

sacrifici economici in termini di costo di trasporto affinché possano essere utilizzati all’interno di un

3 ESPON – European Spatial Planning Observation Network – in particolare il progetto 3.4.2.

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ciclo produttivo, prendono il nome di materie prime ubicate, (ovvero presenti in alcune porzioni di

territorio e non in altre). Esempi di questa tipologia di materie prime sono i minerali o combustibili

estratti (da miniere o giacimenti). Al contrario vengono chiamate materie prime ubiquitarie quelle che

sono presenti con facilità ovunque sul territorio. Quindi anche passando dalla produzione agricola a

quella industriale il fattore “distanza” gioca un ruolo fondamentale per le scelte localizzative dei

produttori.

Oltre alla distanza altro elemento chiave nelle teorie sulla localizzazione degli impianti industriali è la

caratteristica intrinseca dei singoli fattori produttivi, ed in funzione di questa le risorse impiegate

vengono classificate in: fattori produttivi perdenti peso (o lordi) quei fattori il cui peso originario non

entra per intero nel prodotto finito (o semilavorato) a causa della produzione di scarti, fattori produttivi

“netti” quelli il cui peso entra per intero nel prodotto finito (non generano scarti).

Mantenendo invariati le semplificazioni introdotte dal modello di von Thünen sui trasporti e la

distribuzione della domanda, analizziamo ora con quali modalità le differenziazioni spaziali nella

distribuzione dei differenti fattori utili alla produzione influenzano le scelte localizzative delle attività

industriali nel modello semplificato di Weber.

4.3.2 La localizzazione delle attività industriali di Weber

La localizzazione delle unità produttive industriali non è, o meglio non dovrebbe essere, la

conseguenza di un fatto accidentale o casuale, ma bensì il frutto di uno specifico complesso di ragioni,

generalmente riconducibili agli aspetti imprenditoriali, economici, culturali e politici di un territorio.

Alfred Weber nei sui studi si pone come obiettivo quello di individuare con razionalità i criteri che

sottostanno alla localizzazione delle industrie manifatturiere, cercando di rispondere alla domanda:

quali sono i fattori che inducono un industria a localizzarsi in un territorio piuttosto che in un altro?

Weber nei suoi scritti arriva alla conclusione che la localizzazione degli impianti industriali è

fortemente legata alla distanza (tra fonte delle materie produttive e mercato di sbocco) ed alle funzione

di produzione dell’industria.

Assiomi fondamentali dell’analisi di Weber sono:

i costi di trasporto sono funzione lineare della distanza;

l'imprenditore opera in regime di concorrenza perfetta e conosce perfettamente l’ubicazione

delle materie prime e dei mercati (assenza di asimmetrie informative);

l’imprenditore è avverso al rischio e può vendere ad un determinato prezzo tutte le unità di

prodotto che è in grado di produrre (in altri termini: riducendo il prezzo non può vendere

quantità maggiori e aumentandolo non determina una riduzione della domanda);

la domanda di prodotti per un dato prezzo è illimitata così come l'offerta di mano d'opera è

considerata costante nello spazio.

Inoltre, Weber interessato ad indagare in maniera teorica sulle leggi che governano la distribuzione

delle attività industriali nello spazio, si serve di un modello semplificato di territorio: continuo,

isomorfo (che ha una forma uguale in tutte le direzioni) ed isotropo (che presenta le stesse proprietà -

ad es. uguale penetrabilità per i trasporti - in tutte le direzioni)

Date queste condizioni Weber prendendo in considerazione un settore industriale costituito da piccoli

imprenditori indipendenti che tendono alla massimizzazione dei profitti afferma che questi imprenditori

sceglieranno una localizzazione puntuale nello spazio isotropico secondo un criterio di minimizzazione

dei costi totali di trasporto.

Weber, nel suo modello, afferma, che in presenza di medesimi costi di produzione di base (assenza di

differenziazione spaziale dei costi), gli impianti produttivi si localizzano nel punto in cui i costi totali di

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trasporto sono minimi. Il costi di trasporto per ogni singola produzione sono funzione di due elementi:

il peso delle materie prime e del prodotto finito (o semilavorato) e la distanza alla quale questi devono

essere trasportati (pari alla somma della distanza tra la fonte delle materie prime ed il punto di

lavorazione e tra questo ultimo ed il mercato di vendita del prodotto finito o semilavorato).

La combinazione di questi due elementi (peso e distanza) rappresenta un indice semplice di costo di

trasporto (ICT) per tonnellata e per Km:

ICT = CTmp (pmp * dmp) + CTpd (ppd * dpd)

Dove:

ICT = costo totale di trasporto

CTmp = costo di trasporto delle materie prime per km e per tonnelata

CTpd = costo di trasporto del prodotto finito per km e per tonnelata

pmp = peso della materia prima

ppd = peso del prodotto finito (o semilavorato)

dmp = distanza tra la fonte della materia prima ed il sito della produzione

dpd = distanza tra il sito della produzione ed il mercato

Il problema della localizzazione si riduce nel trovare il punto in cui il costo totale di trasporto (ICT) sia

minimo. Volendo dettagliare il costo totale di trasporto, esso risulta scomponibile in due elementi: il

costo di trasporto a monte del processo produttivo (quello pagato per il trasporto delle materie prima

dalla loro fonte al sito produttivo) ed il costo di trasporto a valle del processo (sostenuto per portare il

prodotto finito al mercato di sbocco).

Nella scelta di dove localizzare il proprio sito produttivo l’imprenditore dovrà, secondo l’analisi

weberiana, tenere conto di una serie di elementi:

la natura del fattore produttivo, se ubicato od ubiquitario,

la caratteristica del fattore produttivo, se netto o lordo (perdente peso)

il peso del prodotto finito o semilavorato.

Tutto ciò detto, secondo Weber la produzione potrà avvenire in tre possibili localizzazioni:

1. alla fonte (delle materie prime);

2. sul mercato (di sbocco del prodotto finito o semilavorato);

3. in un punto intermedio tra i due;

e la migliore scelta localizzativi (in termini di costi di trasporto) sarà individuata tramite l’utilizzo

dell’indice delle materie prime (IM):

IM = pmuj / ppd

Dove

ppd = Peso del prodotto finito (considerato come numerario quindi posto uguale ad 1)

pmuj = Peso della jesima materie prime ubicate

L’indice delle materie prime sarà sempre positivo ed assumerà un valore pari ad 1 quando nel processo

produttivo verranno impiegate completamente materie prime nette, mentre un valore maggiore di 1 se

verranno impiegate materie prime lorde (o pesoperdenti).

Il caso più semplice affrontato da Weber nei sui studi sulla localizzazione è quello in cui l’imprenditore

utilizzi un solo fattore produttivo e venda il prodotto realizzato in un unico mercato (fig.IV.3). In

questo caso la localizzazione dipende semplicemente dalla natura della materia prima utilizzata nella

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 9

produzione: se questa è lorda (pesoperdente) allora il sito della localizzazione tenderà a spostarsi verso

la fonte della materia prima, mentre se è netta l’imprenditore potrà decidere di localizzarsi in un

qualsiasi punto tra la fonte ed il mercato. Per comprendere questo basta fare un esempio: se abbiamo a

che fare con la produzione di barbabietola da zucchero il cui peso entra nel prodotto finito solo per 1/8,

allora, capiremo bene che collocarsi in un posto diverso da quello della fonte comporterebbe il dover

sostenere il costo del trasporto di 7/8 del peso della materia prima che non utilizzeremo nel processo

produttivo (e quindi questi costi in eccesso non saranno mai recuperati).

Nel caso semplicistico, sopra analizzato, di un unico fattore ed un unico mercato l’imprenditore si

localizzerà nel luogo della fonte ogniqualvolta IM sarà >1, mentre nel caso di IM = 1 per

l’imprenditore sarà indifferente posizionarsi nel mercato od in altro luogo.

Fig. IV.4

Il discorso diviene più complesso, ma al contempo più realistico, con l’introduzione di altri fattori

produttivi (due o più). In questo caso vige una regola “generale” elaborata nella teoria weberiana che

afferma che: quando il costo di trasporto di una materia prima eccede la somma dei costi di trasporto di

tutte le altre (compreso il costo di trasporto del prodotto finito) allora la localizzazione avverrà alla

fonte di questa materia. Nessuna localizzazione intermedia sarebbe fattibile in quanto comporterebbe

l’assunzione di costi di trasporto non necessari.

Una localizzazione intermedia è possibile, invece, nel caso in cui non vi sia una materia prima il cui

costo di trasporto ecceda la somma di tutti gli altri (compreso quello del prodotto finito). In questo caso

Weber ricorre alla geometria.

Date due diverse materie prime (a e b), necessarie al processo produttivo, ubicate nei luoghi FA e FB

(fonti delle materie prime) ed un unico mercato Me, geometricamente congiungendo i punti dove sono

collocate le fonti delle materie prime ed il mercato otteniamo un poligono (nel caso specifico un

triangolo), i cui lati delimitano lo spazio all'interno del quale sarà individuato il punto ottimale di

localizzazione della produzione. Questo spazio prende il nome di poligono localizzatore (o triangolo

localizzatore nel caso specifico) (Fig. IV.5).

Secondo Weber, sfruttando le proprietà della geometria sarebbe possibile localizzare, in maniera

razionale un’industria in funzione dei costi totali di trasporto.

La soluzione di Weber muove dall’ipotesi che i vertici del triangolo (Fig IV.6) esercitino forze di

attrazione proporzionali alle loro caratteristiche di essere materie prime nette o lorde: le materie prime

lorde hanno una capacità attrattiva (un peso) maggiore di quelle nette e tra di lorde il peso maggiore è

rappresentato da quelle che hanno un livello di scarti nella produzione maggiore4. Quindi più una

materia prima è lorda (produce più scarti) maggiore sarà la capacità attrattiva della località in cui è

situata la sua fonte di approvvigionamento. Per Weber, il punto in cui l’intensità delle forze si annulla

(avendo un completo bilanciamento dei pesi) costituisce il luogo di localizzazione ottimale, dove

l’imprenditore può produrre al minimo costo totale di trasporto.

4 Questo maggiore capacità attrattiva è legato al fatto che il costo di trasporto di queste materie prime comprende anche il

trasporto degli “scarti”, un costo che, data la massimizzazione del profitto, sarebbe non necessario e quindi da evitare.

Quindi maggiori costi di trasporto legati alla caratteristica del fattore produttivo comportano una maggiore peso di questa

materia prima nelle scelte localizzative dell’impianto produttivo.

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Capitolo IV

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Il risultato di tale gioco di forze è rappresentabile tramite un modello meccanico5 in cui la forza di

attrazione di ciascun vertice del poligono e le distanze sono simulate da pesi e da cavi che scorrono su

pulegge. In questo modello il punto in cui la giunzione dei vari cavi si trova in equilibrio rappresenta la

localizzazione ottimale dell’impianto produttivo (Fig. IV.7). Il luogo di equilibrio, il baricentro6 delle

forze ed indicato in figura con la lettera F

Il punto F è individuato dall'equazione:

F = M1F . p1 + M2F . p2 + FC = min

dove M1F é la distanza che deve percorrere la materia 1 di peso p1 per andare dal luogo di estrazione a

quello di lavorazione; M2F é la distanza della materia 2 di peso p2; FC é la distanza dal luogo F al

mercato di una unità di prodotto finito7.

Nel caso in cui le materie prime utilizzate siano superiori a due il procedimento non cambia e invece di

un triangolo locazionale si avrebbe un poligono locazionale8..

La localizzazione industriale é, quindi, il risultato di un intricato gioco di forze che tende a divenire

sempre più complesso a mano a mano che i sistemi economici progrediscono lungo la strada della

complessità dello sviluppo. Le scelte localizzative degli impianti industriali di trasformazione della fine

dell’800-prima metà dell’900, erano afferenti alla prime fasi di crescita economica, e quindi erano

piuttosto limitate, in quanto condizionate in misura rilevante dalla incidenza dei fattori produttivi

utilizzati. In particolare i settori di base, la cosiddetta industria pesante, erano vincolati dalla presenza

di consistenti riserve di materie prime: gli elevati costi di trasporto e la scarsa tecnologia disponibile

impedivano localizzazioni alternative (alla fonte delle riserve naturali).

All'opposto, le industrie moderne, caratterizzate da un elevata componente di High-Tech, presentano

vincoli localizzativi meno pressanti, essendo per lo più attratte dal mercato di sbocco.

Quindi le industrie riconducibili alla prima fase del processo di industrializzazione, storicamente, sono

state fortemente condizionate dalle caratteristiche dei fattori naturali; mentre le industrie moderne che

costituiscono l'espressione più evoluta delle attività produttive, e che nascono in presenza di avanzati

stadi di maturità economica, a differenza delle prime, sono del tutto svincolate dall'incidenza dei fattori

naturali.

5 Sul tipo di quello di Varignon, matematico francese (1654-1722). Fu il primo ad enunciare la regola delle forze

concorrenti..

6 Le coordinate del baricentro si calcolano molto facilmente con procedura analitica: esse sono definite dalle medie

aritmetiche delle coordinate dei tre vertici del triangolo. Al riguardo, si ricorda in via incidentale una proprietà geometrica:

se i pesi ai vertici sono uguali, il punto baricentrico è dato da quello d’incontro delle 3 mediane del rettangolo.

7 La [1] si può anche scrivere:

F = ap1 + bp2 + c

il punto di minimo è individuato ove la derivata prima si annulla, pertanto

dF = p1da + p2db + dc = 0

a, b e c sono variabili di primo grado e, pertanto, il minimo trasportazionale dipende dai valori assunti da p1 e da p2.

8 Weber inoltre sottolinea come la distanza dal reperimento dei materiali a quello della fabbrica implichi necessariamente un

luogo di estrazione o di produzione, ossia la materia prima deve essere ubicata ; nel caso in cui il materiale sia ubiquitario ,

e quindi disponibile ovunque liberamente, verrebbe meno una distanza e quindi nonostante i materiali impiegati siano due

(o più di due) la localizzazione verrebbe fatta dipendere soltanto dal materiale ubicato

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Concludendo il merito maggiore del ragionamento di Weber risiede nell’impulso dato alle procedure

grafiche e, tra esse, all’impiego sistematico delle teoria della minimizzazione dei costi totali di

trasporto che ha portato alla elaborazione di concetti importanti come le isolinee e le isodapane nelle

teoria sulle scelte localizzative.

4.3.4 Isotime ed isodapane

Ripartendo dal caso semplicistico di un unico fattore produttivo ed un unico mercato di sbocco

abbiamo detto che l’individuazione del sito é in funzione della quantità di scorie che si ottengono dalla

lavorazione, in quanto se:

l'intera quantità delle materie prime viene trasformata in prodotto finito (materia prima netta)

all'impresa sarà indifferente localizzarsi in uno qualsiasi dei punti situati lungo la linea (X-Y)

(fig. IV.4)

nel corso del processo di trasformazione industriale non tutti i materiali entrano nel prodotto

finito (lavorazione a materiali o pesi lordi), la scelta è sottoposta a vincoli.

È evidente che la rappresentazione lineare della localizzazione è una semplificazione poco reale, infatti

anche se siamo all’interno di un modello semplificato dobbiamo considerare che gli operatori

economici sono rappresentati da un numero indefinito di imprese che producono il medesimo bene

partendo dallo stesso imput (siamo in concorrenza perfetta), quindi è impossibile immaginare che tutte

le impresi si collochino nello stesso identico punto sia esso il mercato o la fonte della materia prima.

In presenza di più unità produttive si osserva che la loro localizzazione avverrà nelle vicinanze del

punto di minore costo totale di trasporto (nell’area limitrofa), questo avviene in ragione del fatto che vi

saranno lunghi, attorno ad ogni punto dello spazio indifferenziato, che presentano identici costi di

trasporto. Il limite dei luoghi, nell’intorno del mercato o della fonte, che presentano identici costi di

trasporto è rappresentato da una linea chiusa che prende il nome di isolinea (o isotima)9.

Nella Fig. IV.8a sono indicati, oltre al mercato (M) ed alla fonte della materia prima (F), anche le

isolinee che sono quindi l’insieme dei punti (aree) con ugual costi di trasporto per un determinato

fattore o bene rispetto ad un determinato punto centrale (fonte o mercato). La distanza fra due isolinee

di uno stesso sistema dipende dal costo unitario di trasporto ed é inversamente proporzionale al peso

(unitario) del materiale trasportato.

Avendo ipotizzato una regione caratterizzata da un territorio continuo, isomorfo e isotropo le isolinee

sono rappresentate da cerchi concentrici equidistanti (il costo di trasporto é costante, ossia direttamente

proporzionale alla distanza), ciascuno dei quali sta ad indicare un incremento unitario di costo.

Il costo totale di movimento risulta dalla somma dei due costi unitari e il luogo dei punti che unisce un

identico costo totale di trasporto viene denominato isodapana. Le isodapane, al pari delle isolinee

hanno valori crescenti a mano a mano che ci si allontana dai luoghi di localizzazione ed hanno un

andamento che è funzione dei singoli costi di trasporto.

Così, nella fig.IV.8.a il sistema di isodapane é assimilabile a delle ellissi regolari, in quanto i costi di

trasporto della materia prima sono uguali ai costi di trasporto del prodotto finiti (infatti la distanza fra le

isolinee centrate nel mercato M é identica alla distanza delle isolinee centrate in alla fonte della materia

prima F). Pertanto il costo totale di trasporto è lo stesso lungo tutto il tratto MF, indipendentemente dal

sito di localizzazione. Nella fattispecie il costo total minimo é 8, questo è il costo totale di un impresa

che si colloca in uno qualsiasi dei punti nell'intervallo (MF).

9 Per essere precisi le isotime sono un caso particolare di isolinee.

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Diversa é invece la situazione in cui si è in presenza di materie prime lorde e quindi il costo di trasporto

delle materie prime é superiore al costo di trasporto del prodotto (Fig. IV.8b). In questo caso la distanza

fra due isolinee centrate in F, é inferiore alla distanza fra due isolinee centrate in M. La ragione é legata

alla caratteristica della materia prima di essere pesoperdente.

In questa seconda ipotesi il sistema di isodapane ha un baricentro nettamente spostato verso la fonte

della materia prima e la localizzazione dello stabilimento avverrà in un luogo tanto più vicino ad F,

quanto maggiore é il peso delle scorie della lavorazione (nella Fig. 4.b è all'interno dell'isodapana 5 che

si realizza il minimo costo totale di movimento).

Discorso simile sulle isolinee e sulle isodapane, per la definizione del luogo deputato all’insediamento

produttivo è valido anche quando, complessificando il ragionamento, si introducono più materie prime.

Il discorso del poligono localizzatore valido per un impresa ci supporta anche nel caso di più imprese e

ci permette di individuare aree all’interno delle quali le imprese sosterranno i più bassi costi totali di

trasporto.

Nella Fig IV.9a è rappresentato il caso di due materie prime (M1 e M2) e un mercato (C) dove i costo

di trasporto dei due materiali utilizzati e del prodotto finito è identico per tutti; di conseguenza l’area

(isodapana) di minore costo totale è ubicata nel centro del triangolo locazzatore. Nella Fig. IV.9 b,

invece, il costo di trasporto è leggermente diverso per le tre componenti considerate. Le isolinee

centrate su M1 sono molto più fitte di quelle che si originano su M2 (questo significa che esiste

maggiore scarto nell’impiego del fattore M1). Quindi l’area di minore costo totale risulta essere quella

più a ridosso di M1.

Box IV.1 - Isodapane in presenza di rete viaria (assenza di isomorfismo) Abbandonando la semplificazione iniziale di una perfetta isomorfia dello spazio geografico possiamo vedere come

cambia il modello appena formulato introducendo la rete delle vie di comunicazione.

Il territorio non può essere considerato isotropo in quanto su di esso insiste la maglia delle comunicazioni terrestri. I

punti di una regione a parità di distanza misurata in linea d'aria non sono ugualmente accessibili in quanto

diversamente disposti rispetto vie di comunicazioni. E' evidente allora come, a parità di distanza misurata in linea

d'aria, le località allineate lungo un'asse di trasporto godano di una condizione (in termini di tempi e di costi di

trasporto) molto più

favorevole rispetto ai centri situati meno a ridosso dei nodi di comunicazione più importanti.

Con l'introduzione di questa complicazione l'aspetto delle isolinee cambia, in quanto i costi di trasporto lungo le

principali direttrici sono inferiori rispetto alle zone non servite da infrastrutture direttamente collegate con il centro.

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Fig. IV.i

Fig IV.ii

Un esempio dell’introduzione di un sistema di comunicazione viario è illustrato nelle figg. IV.i e IVii. Nella prima

dal centro della materia prima M1 si dipartono tre vie di comunicazione e, di conseguenza, il sistema delle isolinee

centrato su M1 assume una forma stellare, i cui vertici si trovano in corrispondenza delle infrastrutture. Così, i

luoghi x1 e x2, pur giacendo sulla stessa isolinea in una ipotesi di spazio isotropo, di fatto, passando dalla distanza in

linea d'aria alla distanza itineraria, sono gravati da costi di trasporto diversi. Il punto x1 risulta infatti compreso fra

le isolinee 3 e 4, mentre x2 è ben oltre l'isolinea 5.

Le opportunità localizzative derivanti dal passaggio da uno spazio isotropo ad uno spazio anisotropo (un spazio in

cui il costo di trasporto dipende anche dalla rete delle vie di comunicazione) sono più evidenti nella fig. IV.ii, nella

quale sono ipotizzati due punti origine delle infrastrutture di trasporto (M1 e M2). Nella figura si constata come il

sistema di isodapane risulti modificato e come i valori di costo totale più elevato si abbiano nelle zone più lontane

dai percorsi seguiti dalle vie di comunicazioni.

Il ragionamento potrebbe essere ulteriormente approfondito introducendo delle differenziazioni nelle caratteristiche

delle vie di comunicazione in quanto non tutti gli assi di trasporti consentono una identica percorribilità. Allora,

lungo le autostrade la velocità media è più elevate rispetto ad altri tipi di strade e quindi le isolinee risultano più

distanziate; le strade pianeggianti (a parità di distanza) sono percorribili a velocità maggiori delle strade tortuose o di

montagna, ecc ecc. In tutti questi casi si modifica

Se pur è evidente come il sistema dei trasporti nel modificare i campi di forze operanti sul territorio modifichi la

geometria delle isolinee ed il sistema di isodapane, tutto ciò non mette in crisi il principio weberiano della

minimizzazione dei costi di totali di trasporto.

4.3.5 L’analisi sostitutiva di Isard

Patendo dagli studi di Weber l’economista nordamericano W. Isard (1956) propone una teoria sulla

localizzazione delle attività industriali più flessibille formulando una ipotesi se non del tutto innovativa

sicuramente interessante, capace di fornire uno strumento di previsione più perfetto rispetto al modello

iniziale weberiano. Il modello dell’ analisi sostitutiva10

di Isard, come quello di Weber, ribadisce

l’importanza del costo totale di trasporto nelle scelte localizzative industriali ma allo stesso tempo

inserisce nel ragionamento aspetti mutuati dall’analisi microeconomica.

L’individuazione delle punto ottimale per la localizzazione industriale dovrebbe abbandonare le

impostazioni weberiane desunte dalla meccanica razionale, per porre l’attenzione all'adozione di

strumenti tipici dell’analisi microeconomica.

10

Contenuta nel volume Location and Space Economy pubblicato nel 1956.

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Punto di partenza dell’impianto logico proposto da Isard è rappresentato dalla ipotesi che la

trasformazione industriale avvenga a pesi netti (con nessuna produzione di scarti) allora nel caso di una

sola materia prima (F) e di un unico mercato o luogo di consumo (Me) la localizzazione dell’impianto

industriale potrà avvenire in un punto qualsiasi lungo la retta FMe (Fig.IV.10A).

Costruendo un sistema cartesiano dove viene misurata sull’asse delle ascisse la distanza della fonte

della materia prima dal mercato (Me), e sull’asse delle ordinate la distanza del mercato dalla fonte della

materia prima (F) e rappresentando l’insieme della potenziale localizzazione otteniamo quella che Isard

chiama la retta di sostituzione (Fig. IV.10 B). Questa retta individua l’insieme dei possibili punti per la

localizzazione, che data la natura netta della materia prima, rappresentano tutte valide location in

quanto la somma dei costi di trasporto rimane comunque invariata. Nel punto di localizzazione L

,come nel punto la somma delle due tratte di trasporto (dalla materia alla localizzazione e dalla

localizzazione al mercato) rimane comunque la medesima.

Se quanto detto sin ora può sembrare banale e ridondante rispetto all’analisi originale di Weber il

discorso si complica quando si introduce una seconda materia prima localizzata in un altro punto (M2).

Quindi introducendo un secondo luogo di approvvigionamento le relazioni sostitutive, non sono più

due, ma diventano tre:

1. quella tra M1 e M2 (mantenendo costante la distanza da C);

2. quella tra M2 e C (mantenendo ferma la distanza da M1);

3. quella tra M1 e C (mantenendo costante la distanza da M2)

Il punto ottimale per la localizzazione dell’impianto industriale (optimum generale) si individua

attraverso un procedimento iterativo che parte dai punti di ottimo parziale individuati per ognuna delle

relazioni sopra descritte: di volta in volta si parte dal punto di ottimo parziale per ognuna delle relazioni

individuate e utilizzando la soluzione delle prime due come base per la soluzione finale. Per spiegarci

meglio utilizziamo quanto illustrato nelle Figg. IV.11 A, B, C dove si mette in evidenza il problema.

Isard utilizza come base del proprio ragionamento gli stessi termini e le medesime ipotesi formulate da

Weber; un triangolo localizzativo, due punti di reperimento delle risorse (M1 e M2), un luogo di

mercato (Me), uno spazio continuo e isotropo.

Detto questo si ragiona nel modo seguente: fissata una distanza arbitraria da dal mercato (Me) , di

raggio AMe, che ruota fino a BMe, si descrive sul triangolo locazzativo un arco di cerchio AB che

rappresenta per le fonti M1 e M2 una curva di sostituzione, in quanto tutti i punti allineati sulla curva

AB rappresentano una diversa combinazione fra le distanze da M1 e da M2 che comportano medesimi

costi totali di trasporto (Fig. IV.11 A).

Trasponendo l'arco AB in un sistema di assi cartesiani (Fig. IV.11 B) vediamo che questa curva

rappresendo il luogo dei punti corrispondenti alle varie combinazioni fra le distanza di M1 e di M2

(limitatamente alla distanza AMe) prende il nome di isoquanto.

Nella Fig. IV.11C viene, invece, rappresentata la funzione del costo di trasporto per il tramite delle

curve di isocosto , la cui pendenza é costante, ed é data dal rapporto tra i due pesi delle materie prime

utilizzate e che entrano nella configurazione del prodotto finito (nel caso che le due risorse entrino

ciascuna con il 50%, quindi M1 /M2 = 1, l'isocosto é inclinato di 45° ed é una normale rispetto alla

bisettrice).

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In corrispondenza del punto F (Fig. IV.12 A), nel punto cioè di tangenza fra l'isoquanto AB e il più

basso isocosto possibile (QZ), il costo di trasporto delle due materie prime é minimo (nell'ambito di un

prefissato costo di trasporto del prodotto finito), pertanto F rappresenta un minimo trasportazionale

relativo (optimum relativo). Da notare che la distanza AMe è predeterminata in modo arbitrario e

quindi F é un ottimo relativo, ossia il punto più conveniente limitatamente alle alternative contemplate

dall'arco AB.

Per passare dall’optimum relativo a quello assoluto occorre procedere con il medesimo processo, ma

fissando questa volta una distanza da M2. In questo caso non si tratterà più di procedere in modo

arbitrario, in quanto F è già un punto di minimo relativo, quindi la nuova distanza da M2 a F viene fatta

ruotare sul triangolo localizzativo disegnando l'arco di cerchio DE (Fig IV.12 B) che identifica il luogo

dei punti equidistanti da M2 (cioè con un identico costo di trasporto del materiale M2 ). Trasponendo

l’arco di DE nello spazio cartesiano questo rappresenta l'isoquanto che uguaglia gli input di M2 e Me.

Nel punto di tangenza tra l’isoquanto DE con la più bassa retta di isocosto (Q’-Z’) si individua il nuovo

punto minimo relativo (F').

Avendo individuato F' come secondo optimum relativo viene fissata la distanza da M1 (luogo dei punti

ove avviene la sostituzione fra M2 e Me) e all'interno dell'arco HL s'individua un terzo minimo

relativo (F") in corrispondenza del punto di tangenza dell'isoquanto HL con l'isocosto Q" - Z" (Fig.

IV.12 C).

Comunque questo punto di localizzazione F" potrebbe non essere ancora il minimo trasportazionale

assoluto: se cosi fosse il meccanismo di iterazione deve continuare con la fissazione di un'altra

distanza da Me come un nuovo luogo dei punti ove avviene la sostituzione fra M1 e M2; e cosi via.

Questo sistema di interazione conduce verso un progressivo avvicinarsi all’optimum assoluto o

comunque ad un punto in cui la distanza da esso può essere considerata sufficientemente accettabile.

4.3.6 La curva spazio costo di Smith

Un ulteriore contributo agli studi sulla localizzazione delle attività secondarie è quello di Smith

(1966)11

che partendo dal lavoro di Weber elabora un procedimento per individuare il luogo ove

ubicare una impresa industriale o, meglio, un'area di localizzazione economicamente conveniente per le

imprese. L’opera di Smith non si può definire un contributo originale alla teoria quanto piuttosto

un’opera di completamento e di rifinitura dell'opera weberiana, in un contesto che pur essendo ancora

semplificato e marginalista riesce comunque a conciliare gli schemi teorici frutto dell’astrazione e della

semplificazione con quanto è deducibile dalle logiche spaziali degli imprenditori.

Nei suoi studi Smith pone la sua attenzioni alla analisi del comportamento territoriale di un'impresa

industriale che nelle proprie scelte localizzative tende, non tanto, alla minimizzazione dei costi totali di

trasporto (come suggerito dall’analisi weberiana), quanto piuttosto al raggiungimento di un

soddisfacente livello di profitti. (in termini di ricavi meno costi).

La teoria di Smith (Fig. IV.13) prende in considerazione oltre ai costi di trasporto un elemento esogeno:

il prezzo di vendita del bene prodotto, che essendo in un regime di concorrenza perfetta risulterà

identico in ogni luogo ed indipendente dai comportamenti dei singoli produttori (rappresentato da una

linea retta parallelamente all'asse delle ascisse).

11

Proposto in D.M. SMITH “ Theoretical Frameworks for Geographical Studies of Industrial Location”, pubblicato nel

1966.

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Il ragionamento sviluppato da Smith che porta alla definizione della localizzazione industriale é

illustrato nella Fig. IV.14 (tratta dal volume che lo Smith ha pubblicato nel 1971, dal titolo Industrial

Location ): M1 e M2 rappresentano i punti di reperimento delle materie prime e del lavoro, C é il luogo

di mercato.

Da questi tre punti si dipartono tre sistemi di isolinee, dalla cui somma si perviene alla costruzione di

un complesso di isodapane. Nella figura il minimo costo di trasporto (trasportazionale) é situato al

centro del triangolo localizzatore (infatti le isolinee che si originano in M1, M2 e C sono equidistanti) e

corrisponde ad un costo globale di 151 dollari.

Immaginando le isodapane come delle curve di livello ed effettuando una sezione verticale si ottiene un

grafico nel quale viene rappresentata la curva spazio-costo dove il punto più basso della curva

rappresenta la localizzazione di minor costo. Nella figura muovendosi lungo l'asse PQ Smith effettua

una sezione dello schema, ottenendo così una rappresentazione cartesiana della dinamica dei costi totali

di trasporto (curva spazio-costo).

Introducendo la retta del prezzo che, essendo in concorrenza, viene fissato esogenamente dal libero

gioco delle forze di mercato vediamo che questo interseca la curva spazio-costo in due punti, chiamati i

limiti spaziali di profittabilità dell'impresa, (Lp1 e Lp2). Questi due punti delimitano l’area di interesse

per la localizzazione di un impresa che mira all’ottenimento di un profitto, mentre il punto di minimo

costo (F) che come si vede dalla figura coincide con il massimo profitto individua la localizzazione

ottimale per la massimizzazione dei profitti.

Ogni punto diverso da F rappresenta una localizzazione sub-ottimale, ma essendo comunque all’interno

dello spazio di profittabilità (Lp1-Lp2) è quindi pur sempre remunerativa.

Smith con l’introduzione del prezzo di vendita sposta l'ottica dell'imprenditore da una ubicazione sul

minimo costo di trasporto che seppure rappresenta una localizzazione possibile potrebbe non essere

economicamente auspicabile qualora, ad esempio, i costi totali fossero superiori al prezzo di mercato.

Quindi Smith conduce all’individuazione di uno spazio di localizzazione più realistico, all'interno del

quale l'impresa realizza comunque un profitto12

.

Box IV.2 Curva spazio-costo ed economie di agglomerazione

12

Il modello di Smith, richiama l'approccio elaborato per l’economia da H.A. SIMON, secondo il quale l'impresa moderna,

operando in un contesto di incertezza ed essendo costretta ad assumersi una serie di rischi, punta al raggiungimento di una

determinata soglia di profitto, che non è determinabile in via teorica od analitica in maniera assoluta in quanto dipende dalle

valutazioni che l'imprenditore dà alla capacità imprenditoriale ed alla contingenza del mercato; quindi essa varia da

situazione a situazione, da caso a caso, da impresa ad impresa.

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La teoria economica ha riconosciuto da tempo che le economie di agglomerazione sono in grado di

migliorare la produttività delle imprese e favorire processi di concentrazione territoriale dell’attività

produttiva (Marshall, 1890). Nel decennio passato queste idee hanno rappresentato il punto di partenza per

numerosi studi a carattere teorico (Krugman, 1991).

Le economie di agglomerazione sono quelle che derivano dal produrre in uno stesso luogo. Parliamo di

economie di agglomerazione (e non solo di economie di scala) per sottolineare il ruolo svolto dall’elemento

territoriale come forza significativa (il geografic benefit) nello spiegare la localizzazione e lo sviluppo delle

imprese. In questo modo si formano i cluster geografici di imprese.

Le economie di agglomerazione sono al centro del problema dei sistemi locali di impresa e quindi della

definizione dei distretti che sui sistemi locali è fondata. Le economie di agglomerazione sono economie di

scala esterne all’impresa e interne all’industria, e l’industria è localizzata in un luogo geografico circoscritto.

I legami tra le imprese della stessa industria sono più forti di quelli nelle (dentro le) imprese quindi le

imprese restano separate e di dimensione modesta ma tendono a agglomerarsi. Se i costi di trasporto sono

bassi, le imprese hanno benefici speciali dai legami con imprese nella stessa industria e le imprese alla fine

appaiono concentrate territorialmente.

Le economie di agglomerazione sono basate sulle tre esternalità marshalliane classiche:

l’uso delle stesse risorse di lavoro (specializzazione)

l’uso di comuni inputs non commerciati (infrastrutture)

spill-over tecnologici

Non tutti i settori industriali presentano la stessa forza di agglomerazione geografica: è medio-bassa la forza

di agglomerazione dei settori science based; medio-alta quella dei settori dominati dalla scienza (Silicon

Valley) e quelli tradizionali e basati sui fornitori specializzati (la meccanica).

Nella figura. é rappresentata la deviazione che subisce la curva spazio-costo in presenza di economie esterne

quali possono essere, ad esempio, l’abbattimento dei costi per la gestione di servizi comuni dovuti alle

economie di agglomerazione. In questo caso si osserva come la curva localizzate si sposta in un determinato

punto (F') dello spazio geografico dove la presenza di economie esterne di aglomerazione comporta un

abbattimento dei costi totali e quindi un ampliamento dell’area di profitto per l’impresa.

BOX IV.3 - L’ isodapana critica e l’agglomerazione L’idea di spiegare le aglomerazioni produttive con graficamente con l’utilizzo del concetto delle isodapane

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è un concetto che Weber riprende nei suoi studi anche se in maniera non del tutto chiara e convincente nelle

esemplificazioni cartografiche.

Partendo da un punto di minimo P1 dei costi di trasporto per una determinata attività industriale X

s’immagina di poter tracciare due famiglie d’isolinee: le isodapane d’ugual incremento dei costi di trasporto

e le isolinee d’uguale diminuzione del costo dei salari; laddove esista un’isodapana, per la quale

l’incremento dei costi di trasporto sia uguale al decremento del costo del lavoro, tale isodapana prende il

nome d’isodapana critica. Se a questo punto si prende in considerazione l’esistenza di un altro punto di

minimo P2 dei costi di trasporto per un’altra determinata attività industriale Y e si ipotizzi di poter tracciare

due nuove famiglie di isolinee: le isodapane di ugual incremento dei costi di trasporto e le isolinee di ugual

incremento delle economie esterne: laddove esista un’isodapana per la quale l’incremento dei costi di

trasporto risulti uguale all’incremento delle economie esterne, anche tale isodapana prende il nome di

isodapana critica e la si indichi con C2. L’eventuale l’intersezione delle due isodapane critiche delimita uno

spazio che prende il nome di area di agglomerazione.

La figura accanto mostra l’agglomerazione

secondo Weber: I luoghi L1, L2 e L3 sono

le localizzazioni ottimali di tre ipotetiche

industrie, mentre Is1, Is2 e Is3 sono le

corrispondenti isodapane critiche: le aree in

grigio, soprattutto delimitata

dall’intersezione delle tre isodapane critiche

(area T), offrono la possibilità di

incrementare le esternalità con le economie

di agglomerazione se gli imprenditori

localizzano gli impianti con una scelta

comune, il che implica piena trasparenza

nelle informazioni.

4.3.7 Moses e la teoria delle distanze e volume della produzione

Tra i modelli di analisi delle attività produttive che come Weber considerano il problema della

localizzazione ottima di un’impresa in termini di minimizzazione dei costi di produzione in un mercato

che ha struttura puntiforme (la domanda è tutta concentrata in un punto) deve ricordarsi quello di

Moses (1958).

Moses osservava che al crescere dell’area di mercato, in un territorio uniformemente popolato dai

consumatori si verificano le seguenti condizioni:

il volume della produzione tende a crescere in maniera esponenziale rispetto al raggio della

circonferenza, centrata sul luogo di produzione, che delimita l’area del mercato.

Al contempo il costo unitario di produzione alla fabbrica tende a decrescere per effetto delle

economie di scala sugli acquisti.

Il costo unitario di produzione alla fabbrica diminuisce anche per effetto di un più efficace

utilizzo dei fattori della produzione che nono sono più considerati in quantità fisse (vi è scambio

tra i fattori produttivi).

L1

L2

L3

T

Is1

Is2

Is3

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 19

Questa riduzione non avviene in maniera indefinita ma in genere, il decremento è prima lento, poi

rapido, per tornare progressivamente a decrescere ma con un ritmo inferiore all’espansione del volume

della produzione.

Un andamento del costi unitari di produzione del tipo descritta da Moses è rappresentabile con una

funzione del tipo:

Cu = A- f(v)

Dove:

Cu = costo unitario di produzione al consumo

f(v) = costo della logistica (costo di trasporto)

A = costo unitario per il volume corrispondente al mercato minimo

Se il produttore si accolla l’onere del trasporto del prodotto fino al consumatore e si assumono costi di

trasporto direttamente proporzionali alla distanza da percorrere, il costo unitario al consumo diminuisce

fino ad una certa distanza dal mercato, successivamente si accresce, precisamente dalla distanza in cui

l’incremento dei costi di trasporto risulta superiore al decremento dei costi unitari (Fig. IV.15).

4.3.7.1 Sostituzione fattoriale e localizzazione nella teoria di Moses

Il modello di Weber assume che le quantità di ciascun fattore produttivo utilizzato nella produzione di

una unità di prodotto finito siano fisse. L’analisi microeconomica standard ci insegna che la

sostituzione tra i fattori è possibile ed applicata dalle imprese che perseguono la massimizzazione dei

profitti. Quindi le condizioni di efficienza impongono che al mutare dei prezzi l’impresa sostituisca il

fattore produttivo divenuto più costoso con gli altri meno cari in modo da ottenere il minor costo di

produzione a parità di quantità prodotta.

Si deve a Moses (1958) l’introduzione del concetto di sostituzione fattoriale all’interno dell’analisi

weberiana. Riprendendo il triangolo localizzatore di Weber, Moses (Fig. IV.16) costruisce un arco IJ

lungo il quale si trovano tutte le localizzazioni possibili che presentano una distanza costante (d3) dal

punto di localizzazione del mercato Me.

Quindi assumendo che l’impresa si localizzi lungo questo arco, la distanza tra la localizzazione scelta

(K) ed il punto di mercato Me sarà fissa consentendo di analizzare la scelta della localizzazione

dell’impresa in funzione delle sole variazioni nei prezzi dei fattori prodotti in M1 e M2.

L’analisi microeconomica standard dell’efficienza dell’impresa ci insegna che, la combinazione ottima

dei fattori è determinata dalla ricerca del punto di tangenza tra l’isoquanto più alto e la retta di isocosto

(o vincolo di bilancio), dove la pendenza del vincolo di bilancio è determinato dai prezzi relativi dei

fattori. Nella Fig. IV.17 sono rappresentati i vincoli di bilancio dell’impresa con riferimento alle

localizzazioni I e J l’inclinazione della retta è data dal rapporto tra i prezzi relativi. Se i rapporti tra i

prezzi alla consegna variano tra le differenti localizzazioni, allora la pendenza del vincolo di bilancio in

corrispondenza di ciascuna possibile localizzazione lungo l’arco IJ sarà differente, avremo, quindi, una

serie di vincoli di bilancio il cui inviluppo (cioè una curva che contenga tutti i vincoli di bilancio

associati a ciascun punto di localizzazione lungo IJ) (Fig. IV:18) deve essere utilizzato per individuare

la localizzazione ottima.

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 20

Applicando le condizioni di efficienza che richiede di individuare il punto di tangenza tra l’inviluppo

del vincolo di bilancio ed il più alto isoquanto raggiungibile (punto E* nella Fig. 14) individuiamo di

conseguenza anche il punto ottimo per la localizzazione k* che è dato dalla combinazione dei fattori

x1* ed x2*. La combinazione ottima dei fattori e la localizzazione ottima dell’impresa sono quindi

determinate congiuntamente.

Ipotizzando la sostituibilità dei fattori produttivi il modello di Moses arriva ad affermare che quando si

verifica una riduzione dei cosi di trasporto di un fattore produttivo la localizzazione ottima per

un’impresa si sposterà verso la fonte divenuta meno costosa in termini di costi totali. Quindi se ad

esempio nell’analisi grafica condotta fino ad ora ipotizziamo che in seguito alla costruzione di una

strada i costi di trasporto del fattore 1 diminuiscono e se tutti gli altri parametri rimangono costanti, ciò

implica che il rapporto tra i prezzi alla consegna (p1 + td1)/ (p2 + td2) per ciascun punto in IJ,

diminuirà. In altre parole, la pendenza di ciascun vincolo di bilancio aumenterà, a parità di altre

condizioni, e l’inviluppo del vincolo di bilancio diverrà anch’esso più pendente, spostandosi a sinistra.

La combinazione ottima dei fattori (e quindi anche la localizzazione ottima dell’impresa) si sposterà da

E* a E’ (Fig. IV.19). Quindi, come si vede dall’analisi grafica, la localizzazione ottima si sposta da K*

a K’, ovvero in un punto più vicino a X1 e l’impresa sostituisce parte del fattore 2 con il fattore 1,

adesso più economico.

Confrontando il risultato del modello di Moses con quello del modello di Weber si osserva che, una

riduzione del costo di trasporto, ad esempio per il fattore 1 (t1), a parità di altre condizioni, nell’analisi

di Moses avrà come effetto un avvicinarsi della localizzazione dell’impresa verso la fonte meno

costosa X1. Mentre nel modello weberiano avremmo un effetto contrario ovvero un allontanamento

dalla fonte divenuta meno costosa verso l’altro fattore. La ragione è che il fattore 2 diventa

relativamente più costoso da trasportare e, dato che i coefficienti di produzione, nella analisi weberiana,

sono fissi (ovvero le quantità x1 e x2 sono immutabili) l’impresa al fine di ridurre i costi totali di

trasporto si sposta verso la fonte del fattore più costoso (il fattore 2). La differenza tra i risultati dei due

modelli è che nel modello di Weber i coefficienti fissi non consentono sostituzione tra i fattori, mentre

in quello di Moses la sostituzione è possibile.

4.4 Modelli semplificati localizzativi delle attività terziarie e quaternarie

4.4.1 Il modello delle località centrali di Christaller

Il geografo tedesco W. Christaller con la con teoria delle località centrali13

porta all’attenzione degli

studiosi l’importanza delle funzioni e dei servizi localizzati14

per la definizione dell’assetto delle città o

dei centri urbani. Questa teoria cerca di dare una risposta ai problemi riguardanti l'assetto degli

13

Questa teoria fa la sua comparsa nella pubblicazione del 1933 dal titolo “Die zentralen Orte in Süddeutschland”

14 La tradizionale classificazione nei settori primario, secondario e terziario, proposta negli anni Quaranta da C. CLARK si

dimostra del tutto insoddisfacente e non in grado di cogliere la complessità delle funzioni espletate settore dei servizi. Più

che da un insieme di attività omogenee questi viene definito in modo residuale, nel senso che racchiude tutte quelle attività

che non concorrono alla produzione materiale di un bene, e quindi che non possono considerarsi né agricoltura né industria.

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 21

insediamenti urbani.piuttosto che individuare quelli che sono i fattori che sovrintendono la

distribuzione territoriale dei servizi;

Il nucleo forte della teoria delle località centrali è rappresentato dallo studio delle leggi che governano

la distribuzione degli insediamenti e delle città all'interno di uno spazio geografico, cercando di dare

una risposta alla quesito: se le città si dispongano sul territorio secondo criteri di casualità oppure, al

contrario, la loro ubicazione rappresenti l'osservanza di una logica o di un principio razionale? A questa

domanda Christaller risponde con il suo studio.

Con il suo studio Christaller constata che la distribuzione e la concentrazione degli insediamenti sul

territorio è fortemente eterogenea e che questa differenza nelle orditure urbane dei territori non è la

conseguenza di un fatto occasionale e fortuito, ma l'espressione locale di una logica economica

generale, operante cioè in modo uniforme sul territorio.

Gli assunti alla base del modello delle località centrali sono:

1. lo spazio è costituito da una superficie omogenea percorribile in tutte le direzioni con costi di

trasporto proporzionali alle distanze;

2. la popolazione è distribuita in maniera uniforme nello spazio indifferenziato

3. ciascuna località abitata ha la stessa quantità di popolazione;

4. gli agenti economici hanno un comportamento razionale e quindi tendono alla minimizzazione

del costo totale per il consumatore ed alla massimizzazione del profitto per il produttore;

5. l'influenza di un agente sul prezzo è nulla, benché a livello globale il prezzo varia in funzione

della domanda e dell'offerta. Per il consumatore, il trasporto di un bene comporta un costo, in

funzione crescente alla distanza. La spesa del consumatore è data dalla somma del costo di

acquisto sul luogo di produzione e del costo di trasporto;

6. vi sono economie di scala nella produzione e quindi il costo medio di produzione di alcuni beni

domandati decresce all’aumentare della quantità prodotta. I beni che beneficiano delle

economie di scala sono chiamati beni centrali.

Dati questi assunti Christaller elabora la definizione di località centrale, come quella località che

dispone di un determinato servizio assente in tutte le località; quindi, de residuo, le località limitrofe

risultano periferiche (con riferimento al servizio specifico). Nella sua teoria Christaller, inoltre, sostiene

che la forma migliore che deve assumere un mercato è quella di un esagono.

Per costruire il modello degli esagoni di Christaller parte dal concetto di “prezzo effettivo”: per il

consumatore ovvero il costo totale che il consumatore deve sostenere per fruire del servizio. Tale costo

è risultante dalla somma del prezzo del bene sul luogo di mercato e del costo di trasporto sostenuto per

recarsi nella “località centrale” dove il bene/servizio è disponibile. Questo prezzo può essere

rappresentato nella funzione seguente:cresce al crescere della distanza, secondo il costo di trasporto t

pe = pm + td [4.3]

dove:

pe = prezzo effettivo in euro

pm = prezzo del bene/servizio in euro praticato dagli operatori economici

td = costo del trasporto (pari alla distanza in km moltiplicata per la tariffa t) che il consumatore deve

sostenere per recarsi dal proprio luogo di residenza al centro dover può acquistare il bene/servizio

La funzione del prezzo effettivo [4.3] può essere rappresentata in un grafico cartesiano (Fig. IV.20)

dove si vede che il prezzo definisce l’intercetta verticale della funzione, mentre (in uno spazio

fisicamente isotropico) il costo di trasporto t (dato) indica l’inclinazione della funzione del prezzo

effettivo che è crescente al crescere della distanza d.

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 22

Passando dalla funzione del prezzo effettivo per il consumatore alla funzione di domanda, vediamo che

in condizioni di un bene/servizio “normale”, ovvero di un bene la cui domanda diminuisce al crescere

della distanza (che incrementa il prezzo effettivo), la funzione assumerà la forma seguente

D = D(d) = D0 – δd [4.4]

:

D = quantità domandata del bene/servizio

D0 = quantità domanda del bene/servizio nel caso in cui il consumatore non dovesse sopportare i costi

di trasporto

Δd = fattore di correzione legato ai costi di trasporto e quindi alla distanza tra mercato e luogo di

residenza dei consumatori

Rappresentando la funzione [4.4] su un grafico cartesiano dove sull’asse delle ordinate poniamo la

quantità domandata e su quello delle ascisse la distanza dal mercato (Fig. IV.21) otteniamo una

rappresentazione grafica della domanda in funzione della distanza. Questa curva rappresenta per

Christaller la “soglia” del servizio, ovvero la distanza massima che i consumatori sono disposti a

percorrere per approvvigionarsi del servizio. Superata questa distanza non si ha più domanda per il

servizio.

Facendo ruotare il grafico IV.21 intorno al suo asse otteniamo una rappresentazione tridimensionale

della soglia, che assume una forma circolare intorno al mercato (o centro che eroga il servizio).

Secondo la consueta ipotesi di un territorio continuo e ugualmente percorribile in tutte le sue direzioni,

la soglia si concretizza con il raggio di un cerchio che individua l'area di mercato del bene/servizio per

il consumatore (Fig. IV.22).

In particolare, la figura solida ottenuta dalla rotazione della curva di domanda viene chiamata anche

conoide di domanda., ed il suo volume esprime la quantità totale domandata dalla popolazione che

abita in una determinata area geografica, area rappresentata dalla base del conoide, cioè dal cerchio.

Questo cerchio (area di base) si definisce area complementare, nel senso che è la superficie che fa da

complemento alla località centrale O. Tutta la popolazione che risiede in periferia ma all’interno della

regione complementare tende a gravitare sul centro O, e quindi si dice che è l’area di attrazione (sfera

di influenza)

Oltre al concetto di portata Christaller, introduce, in quanto funzionale al proprio ragionamento, quello

di portata. Si definisce “portata” la distanza dalla località centrale al cui interno si riscontra la quantità

di utenza minima necessaria a ricoprire i costi di gestione del servizio stesso, quindi la portata

rappresenta la quantità minima di un servizio che deve essere erogata affinché il produttore riesca a

coprire i costi di produzione (operi non in perdita). Anche la portata cosi come la soglia avrà una forma

circolare-conoidale. La portata sta ad indicare quel valore critico al di sotto del quale la domanda

esistente non è in grado di remunerare i costi necessari alla istituzione o alla sopravvivenza di un

servizio. Nel linguaggio corrente la portata viene normalmente rapportata al numero di abitanti, ciò non

è del tutto esatto, in quanto più che alla popolazione di una regione è necessario fare riferimento alla

capacità di consumo che questa possiede e ciò implica il coinvolgimento di altri parametri quali il

tenore di vita, le abitudini di spesa e via dicendo. La Fig. IV.23 mostra una rappresentazione grafica

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 23

delle due aree, portata e soglia, da qui si evince che affinché vi sia mercato per un determinato

bene/servizio la soglia deve essere almeno pari alla portata.

Da quanto sopra esposto si evince che per Christaller il cerchio è la figura ideale per un mercato (di un

bene/servizo) in una regione geografica caratterizzata da isomorfismo, in quanto è uniforme dal punto

di vista fisico, e al suo interno la popolazione registra la stessa intensità. Inoltre, secondo l’autore,

soddisfa il principio di isotropia, perché è l’unica figura in cui, spostandoci dal centro verso la linea

perimetrale, abbiamo segmenti della stessa lunghezza (raggi).

Considerando il fatto che non vi possa essere un unico centro che sia in grado di fornire un servizio a

tutta la collettività residente, e quindi si è in presenza di più centri deputati a questa erogazione, allora

nasce il problema di capire come questi centri (mercati) si localizzeranno nella pianura isotropia che

caratterizza il modello.

Lo spazio geografico isotropico ed isomorfo potrebbe essere suddiviso in tante regioni tutte circolari,

senza creare sovrapposizioni come nella Fig. IV.24 ,ma questa suddivisione del territorio risulterebbe

inefficiente perché si originano degli sprechi di spazio (terre di nessuno) dove la popolazione residente

non sarebbe servita da nessun centro (o mercato)

Christaller afferma che la migliore suddivisione dello spazio geografico ai fini della erogazione di

servizi sia rappresentato da una serie di centri (portata) che si sovrappongono (Fig.IV.25), in fatti in

questo modo nessuna porzione di spazio è sprecata, anche se vi saranno delle e zone di

sovrapposizione, zone che risultano contemporaneamente di appartenenza di due regioni. Queste zone

saranno ripartite in maniere equa tra i centri (mercati) interessati.

Così, nella figura IV.25 coloro che risiedono nei dintorni del punto b si rivolgeranno al centro B, in

quanto è più vicino rispetto al centro A. Quindi per motivi di distanza le zone di sovrapposizione

vengono divise in due parti. In questo modo la configurazione regionale della spazio si modifica e da

una iniziale configurazione di tipo circolare si passa ad una configurazione a maglia esagonale, che

evita l’inconveniente degli sprechi di spazio (Fig. IV.26).

Fissati questi concetti ne deriva l’assunto per cui “ogni bene viene prodotto solo se la sua soglia

supera la portata territoriale minima ed è collocato lungo una scala gerarchica di beni individuata

dalla dimensione delle rispettive soglie “ (Christaller,). Seguendo questo ragionamento si sviluppa una

rappresentazione per livelli gerarchici inferiori di beni/servizi e di centri con le seguenti caratteristiche:

che ogni centro produce il bene relativo al suo livello gerarchico e tutti i beni di ordine

inferiore; che per ciascun centro di ordine superiore esiste, a cascata, una pluralità di centri di ordine

inferire, fino a raggiungere le agglomerazioni di livello più basso (es. il villaggio) di cui esiste il

numero più elevato.

Il principio di localizzazione dei centri di ordine inferiore è denominato, da Christaller, principio del

mercato perchè è il principio che ottimizza la localizzazione di questi centri, ciascuna località centrale

avrà una clientela potenziale pari,in termini demografici, alla sua popolazione residente e a un terzo di

ciascuna dei sei centri che la circonda. La località servirà per intero la popolazione che risiede nel suo

interno e per 1/3 quella dei centri limitrofi, il valore della clientela potenziale è indicato, come fatto

generale, dalla lettera k e risulta in questo caso particolare pari a tre. Cambiando la caratteristica dei

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 24

servizi presenti ed erogati in un mercato si avremo una serie di centri che assumono una

conformazione gerarchica, che Christaller organizza in ranghi. Centralità che forniscono beni/servizi

più importati (in termini di dimensione della soglia), avranno una estensione territoriale maggiore ed

una forma dell’esagono che aumenta inglobando una seri di esagoni minori. Questi esagoni di

dimensione maggiore saranno caratterizzati da una parte da un rango maggiore e da un maggiore valore

di K, dall’altra da un orientamento differente (infatti cambiando il rango la forma dell’esagono ruota)

(Fig. IV. 27). A valori differenti di K vengono associati principi organizzativi dello spazio differenti :

Principio di mercato (k=3) = (1 + 1/3*6): il nuovo sito è al baricentro fra 3 centri

Principio di trasporto (k=4) = (1+ ½ *6): il nuovo sito è al baricentro fra 2 centri

(direttrice stradale)

Principio di amministrazione (k=7)= (1+ 6): il nuovo sito è tutto interno all’influenza di

1 centro

4.4.2 Il modello di Moses (1958)

Moses si pone l’obiettivo di superare un limite comune alla impostazione di Weber e di Isard: l’assunto

della funzione di produzione come data. Weber e Isard, infatti, partono da una combinazione dei fattori

della produzione considerata nota e costante, per cui nella ricerca dell’ottimo localizzativo la funzione

non cambia, così come non cambia al variare della localizzazione. L’idea di Moses, invece, è che vi sia

una stretta correlazione tra scelta localizzativa e combinazione dei fattori usati nel processo produttivo,

per cui a seconda della quantità di fattori che l’impresa usa il punto di minimo costo di trasporto può

evidentemente cambiare.

In particolare, Moses è interessato al fenomeno delle economie di scala, ai rendimenti crescenti della

produzione, per cui cerca di elaborare un modello che metta in relazione la localizzazione con il livello

di produzione. Supponiamo che l’impresa produca Y con quantità M1+M2 di materie prime, al quale

corrisponde (secondo la logica Weber/Isard) un certo punto ottimale di localizzazione nel quale sono

minimizzati i costi di trasporto; qualora l’impresa aumenti il suo volume di produzione fino a Y’, può

darsi che possa guadagnare economie di scala in modo tale che

Se la produzione diventa Y’=X*Y

Può darsi che M’1<X*M1 e anche M’2<X*M2.

Ovviamente, se cambia il peso relativo dei due materiali cambierà anche il punto di ottima

localizzazione e potrà essere diverso da quello nel quale l’impresa si trovava.

Obiettivo di Moses, dunque, è quello di elaborare un modello che possa individuare un punto di ottima

localizzazione che corrisponda al minimo costo di trasporto e in più all’ottimo livello di produzione.

Egli dunque comincia da dove Isard aveva più o meno concluso, ossia dal triangolo localizzativo dove

Isard applica il metodo iterativo per l’individuazione del punto di minimo costo di trasporto (triangolo

M1M2C).

Traccia un arco di cerchio ad una distanza arbitraria (segmento IJ) da C, assumendo come dato e

costante il costo di trasporto del prodotto finito da qualsiasi punto di localizzazione lungo IJ fino al

mercato C; e assumendo come costante la spesa totale che l’impresa deve sostenere per procurarsi le

due materie prime

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 25

A questo punto stabilisce che il prezzo delle materie prime deve considerarsi comprensivo del costo di

trasporto e definisce P1 il prezzo della materia prima M1 e P2 quello della materia prima M2.

Definita come K la spesa complessiva, in corrispondenza del punto I, si avrà

P1*M1 + P2*M2 = K

Che si può scrivere anche come M1 = (K/P1) – (P2/P1)M2

In questo modo, ottiene la funzione di una retta, detta ISOCOSTO (o ancora meglio ISOSPESA), che

ha come termine noto K/P1 e come coefficiente angolare il rapporto tra i prezzi delle materie prime

(comprensivo del costo di trasporto) P2/P1.

Si avranno allora due rette di isocosto, con stessa spesa totale, che hanno diverse inclinazioni e diversi

termini noti, una corrispondente alla localizzazione in I e una corrispondente alla localizzazione in J.

LOCALIZZAZIONE IN I (K=180)

P1 P2

10 20

M1

I

9

Coefficiente

angolare (P2/P1) è

pari a 2

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 26

LOCALIZZAZIONE IN J (K=180)

P1 P2

15 12

Dall’esempio numerico si vedono le due ipotetiche rette di isocosto, cui corrispondono prezzi di

materie prime (comprensive del costo di trasporto) diverse a seconda che la localizzazione dell’impresa

sia in I o in J. E dalla sovrapposizione delle due rette, si individua un primo principio sancito dal

modello. A sinistra del punto in cui si incrociano le rette (F), a parità di spesa totale (K) l’impresa avrà

convenienza a localizzarsi in I, perché con la stessa spesa a parità di quantità di M2 può acquistare una

maggiore quantità di M1. Analogamente, a destra del punto F sarà più conveniente localizzarsi in J,

perché a parità di spesa e di quantità di M1 l’impresa potrà acquistare quantità maggiori di M2.

M1

M2

J

M2

4.

5

Coefficiente

angolare (P2/P1) è

pari a 0.8

7.5

6

M2

M1

J

I

F

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A questo punto, la localizzazione ottimale dipende dalla funzione di produzione, ossia dalle

caratteristiche dell’isoquanto che incorpora il livello di output e la combinazione dei fattori M1 e M2.

Se l’isoquanto fosse tangente in A, sulla retta di isocosto I la localizzazione non sarebbe ottimale,

perché localizzandosi in I l’impresa perderebbe la maggiore quantità di M2 che potrebbe ottenere

spostandosi su J.

Ma per spostarsi in modo ottimale su J, l’impresa deve modificare i valori della sua funzione di

produzione, in modo tale che il suo isoquanto diventi quello tangente l’isocosto J nel punto B. Il punto

B in questo modo rappresenta il punto di ottimo localizzativo sia sul piano del costo di trasporto che su

quello della produzione.

Ovviamente, tutti i punti dell’arco I e J sono punti di possibile localizzazione, e ad ognuno di essi si

può associare un certo valore del rapporto P2/P1 e definiti termini noti su M1. Considerando soltanto le

parti a sinistra e a destra di F, allora, si può ottenere una sorta di spezzata e, all’infinito, una curva,

quella che Moses definisce “curva di preferenza” dell’impresa.

La tangenza tra la curva di preferenza, che rappresenta tutte le possibili localizzazioni sull’arco IJ dato

un livello di spesa K, e l’isoquanto migliore dal punto di vista della quantità di output e della

combinazione dei fattori, sarà allora il punto di ottima localizzazione perché minimizza il costo di

trasporto e assicura la ottima combinazione dei fattori produttivi per un certo livello di output.

Ma, allora, si può anche ipotizzare di muovere il valore K, cioè di considerare diverse curve di

preferenza da confrontare con diverse curve di isoquanto, per definire la possibilità dell’impresa di

accettare maggiori costi di trasporto pur di avere migliori combinazione Output/Input.

Curva di preferenza

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Sull’arco IJ iniziale, allora, il punto di minimo costo di trasporto non sarà più unicamente determinato

ma dipenderà anche dalla dimensione che l’impresa ha convenienza ad assumere. Al variare della

dimensione d’impresa e quindi al variare dell’isoquanto, l’impresa può avere convenienza a scegliere

valori crescenti di K, per cui la localizzazione lungo l’arco IJ può essere diversa perché incorpora la

teoria della produzione (quantità ottimale di output, combinazioni di imput tali da consentire di

guadagnare in economie di scala) nella teoria della localizzazione. Anzi, il grafico finale mostra quello

che Moses definisce il “sentiero di espansione” dell’impresa, la successione di punti B lungo i quali

l’impresa può scegliere di muoversi su isocosti (trasporto) maggiori e quantità di produzioni maggiori

che comunque assicurano una localizzazione sul minimo costo di

4.5 Verso la nuova modellizzazione

Negli ultimi anni un ritrovato interesse per la localizzazione strategica delle attività produttive (di beni

e servizi) e dei suoi effetti localizzativi per lo sviluppo è testimoniato dall’attenzione riversata su questi

argomenti dagli studiosi sia della crescita sia dello sviluppo. Tutto ciò si lega all’affermarsi di modelli

di tipo core-periphery (centro periferia), originati da lavori, definiti pionieristici, come quello di P.

Krugman (es. Krugman, 1991).

Dopo l’analisi dei sistemi distrettuali inglesi avviata da Marshall (1890)15

, teorie e modelli della

localizzazione delle imprese e delle loro attività produttive si sono sviluppate nella prima parte del

‘900, anche se spesso scarsamente integrati con le teorie sulla crescita economica, come invece fanno

le teorie basate su modelli core-periphery.

15

Il termine distretto industriale venne coniato da Alfred Marshall, nella seconda metà del XIX sec., in riferimento alle

zone tessili di Lancashire e Sheffield. La definizione che Marshall diede, in seguito, fu la seguente: «Quando si parla di

distretto industriale si fa riferimento ad un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente

parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche

concorrenza.»

Dunque gli elementi individuati dall’economista inglese erano:

l’individuazione di una specifica realtà sociale, oltre che economica

la specializzazione in una precisa categoria di prodotti

la concentrazione in un’area geografica

il particolare rapporto tra le imprese: allo stesso tempo collaborazione e concorrenza

Diverse curve di preferenza a

confronto con diverse curve di

isocosto individuano il

sentiero di espansione

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 29

Se gli sviluppi spaziali della teoria economica neoclassica sono legati principalmente alla scuola

tedesca della prima metà del ‘900, fiorita con i contributi di Christaller (1933) e Lösch (1940), che

riprende i concetti della teoria neoclassica applicandoli alla distribuzione geografica delle attività

economiche16

; i modelli di localizzazione e crescita che si distaccano dall’approccio neoclassico si

affermano negli anni Cinquanta, quando inizia a diffondersi il principio della causalità cumulativa: le

imprese si localizzano dove vi sono altre imprese per beneficiare di una riduzione dei costi (economie

di scala), grazie alla vicinanza dei mercati di input e di output. Inoltre, la presenza di rendimenti di

scala crescenti17

contribuisce all’aggregazione sul territorio di imprese e lavoratori, contribuendo a

formare la cosiddetta polarizzazione spaziale18

(Harris, 1954; Pred, 1966).

Seguendo questo filone di studi si perviene a modelli di crescita spaziale dell’economia che, nella loro

configurazione di equilibrio, non determino uno sviluppo omogeneo nello spazio e del territorio. Ad

esempio, la scuola teorica del “sottosviluppo” segnala come gli squilibri regionali, dovuti ad un non

omogeneo sviluppo dei territori e delle loro economie, siano una caratteristica permanente del sistema

economico, e che quindi l’unica cosa da fare è incentivare le politiche per la generazione di economie

di scala esterne (in questo caso di agglomerazione) in quanto esse, con un processo di causalità

cumulativa, sono in grado di creare uno sviluppo autopropulsivo. Rientrano in questo filone, che ha

avuto non solo sviluppi teorici ma anche numerosi tentativi di applicazioni concrete di policy, studi

come quelli degli economisti, Myrdal (1957) e Pred (1966), che hanno teorizzato ed evidenziato

empiricamente i meccanismi dei processi cumulativi; di Perroux (1964) che ha proposto poli di

sviluppo come luoghi motrici della crescita locale, in quanto i poli sono da una parte attori

dell’innovazione e dall’altra centri delle relazioni tra fornitori, imprese e consumatori; per arrivare poi

agli studi di Hirshman (1968) che ha posto in evidenza i legami che si creano a monte e a valle del

processo produttivo, e di come essi siano fonte di sviluppo.

L’analisi di questi modelli, mostra come alcuni di essi sostanzialmente integrano il modello neoclassico

con la presenza di esternalità legate all’aggregazione di imprese, cosi i modelli generati da Perroux e

Hirshman suppongono uno sviluppo “per contagio”, cioè per contiguità: essi prevedono che la crescita

si generi da poli di sviluppo (prevalentemente industriali, contraddistinti talvolta da imprese di grandi

dimensioni) e si diffonda, mediante gli effetti di linkages a monte e a valle (Hirshman, 1968) nelle zone

limitrofe.

Nelle stesse teorie core-periphery, che hanno spesso ripreso questi temi, la presenza di costi di

congestione, che generano frizione alla localizzazione nei poli già affermati, possono ridurre la

concentrazione e avviare processi di diffusione esterna.

16

Il risultato è che i mercati sono individuati intorno a luoghi centrali che, se la popolazione è distribuita in maniera

uniforme sul territorio, saranno anch’essi omogeneamente sparsi nell’economia. 17

Il concento di rendimento di scala è legato alla funzione di produzione. Quando in una produzione il variare della

quantità impiegata dei fattori produttivi (in una stessa proporzione) porta a una variazione più che proporzionale dell'output

prodotto si parla di rendimenti di scala crescenti. Se una variazione di tutti gli input in una stessa proporzione dà luogo a una

variazione della stessa proporzione del prodotto, la funzione di produzione presenta rendimenti di scala costanti

Infine, se una variazione di tutti i fattori in una stessa proporzione dà luogo a una variazione meno che proporzionale del

prodotto, la funzione di produzione presenta rendimenti di scala decrescenti (in questo caso la grande dimensione è uno

svantaggio, e non ci aspetteremo che grandi imprese operino in questi settori). 18 La teorie della polarizzazione spaziale è sostenitrice di un tipo di sviluppo territoriale irregolare e discontinuo determinato da effetti

cumulativi, dove le aree periferiche subiscono effetti negativi in quanto la distanza dalle aree centrali può impedire di beneficiare degli

effetti di diffusione. Infatti la massa ridotta delle produzioni non consente lo sviluppo di imprese di servizi associate. Friedmann

propone una formulazione in termini spaziali della teoria della convergenza che unisce tra loro teoria dello sviluppo

economico e teoria della localizzazione, riformulando la dinamica centro-periferia in due aree: i principali centri di

innovazione definiti come regioni centrali, mentre tutte le altre aree all’interno di un dato sistema spaziale saranno

periferiche.

Geografia Economica: metodi e strumenti di pianificazione economico-territoriale di Maria Prezioso

Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 30

L’esistenza di vantaggi localizzativi è anche alla base delle teorie della nuova geografia economica

(new geography), che mettono assieme gli aspetti della localizzazione con quelli dello sviluppo delle

attività produttive con lo scopo di spiegare la concentrazione o le migrazioni delle attività economiche

e dei fattori produttivi da e verso determinate localizzazioni territoriali. Questi sono i modelli di

causazione cumulativa che hanno come conseguenza esplicita la polarizzazione spaziale delle attività.

Un esempio, come detto, è il modello core-periphery di Krugman (1991), nel quale le forze

agglomerative sono principalmente legate all’esistenza di economie di scala crescenti, in presenza di

costi di trasporto sufficientemente bassi19

.

4.5.1 I modelli della new geography

Gli studi condotti a partire dalla fine degli anni ‘80, sostengono che la creazione di centri di

agglomerazione e la loro dinamica di sviluppo inducono un aumento nelle prospettive di reddito

individuali. Sono questi, studi in cui l’attenzione viene posta all’analisi delle dinamiche economiche

derivanti dall’utilizzo di modelli di location theory, che a partire dai contributi di Krugman, portano

alla diffusione dei modelli della New Economic Geography (Cfr. Cap. 0).

Questo tipo di modelli è stato introdotto da Paul Krugman nel 1991 ed elaborato negli anni successivi

dallo stesso Autore insieme a Venables (1995 e 1996) e a Puga (1999).

Modelli che vedono le dinamiche territoriali del fattore lavoro strettamente legate alle scelte

localizzative ed agglomerative delle imprese. Se la localizzazione delle famiglie (distribuzione

geografica della domanda di beni e dell’offerta di lavoro) costituisce infatti uno dei fattori localizzativi

più rilevanti per le imprese, la localizzazione delle imprese (distribuzione geografica dell’offerta di

beni e della domanda di lavoro) costituisce uno dei fattori localizzativi più rilevanti per le famiglie.

Questi modelli hanno quindi il vantaggio di considerare congiuntamente fattori rilevanti per l’impresa,

quali costi di trasporto, economie di scala e domanda di mercato, con le aspettative occupazionali e

salariali dei lavoratori, in un’ottica di equilibrio economico generale.

La migrazione (intesa come propensione della forza lavoro allo spostamento) è vista in questi modelli

come “incipit” per sostenere il processo di agglomerazione, in questi modelli la decisione di migrare

è determinata solamente dal differenziale di reddito tra le aree periferiche e quelle centrali (centri di

affari).

In estrema sintesi, il modello “core-periphery” (o “centro-periferia”) di Krugman si basa su due assunti:

1. la presenza di due localizzazioni alternative

2. l’esistenza di due settori: manifattura ed agricoltura

Nel modello “centro periferia” Krugman ipotizza che il settore manifatturierio sia caratterizzato da

rendimenti di scala crescenti operanti in un sistema di competizione monopolistica alla Dixit e Stiglitz

(1977); mentre il settore agricolo si caratterizzata per rendimenti costanti di scala in regime di

concorrenza perfetta.

In queste ipotesi l’economista spiega la localizzazione dell’attività manifatturiera come dipendente

dall’interazione di tre forze:

le imprese manifatturiere vogliono localizzarsi nelle vicinanze del mercato più vasto possibile;

19

Altri fattori di concentrazione sono stati aggiunti in letteratura, spesso sotto forma di esternalità, come gli spillover

tecnologici, l’accesso al mercato del lavoro e l’accesso al mercato degli input produttivi più diretto.

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Capitolo IV

Rev_07 del 6.10.2014 31

i lavoratori vogliono avere accesso al maggior numero di beni (in termini di alternative di

scelta, cioè di varietà e non solo di quantità) e dunque vogliono localizzarsi vicino alla

agglomerazione di imprese più vasta possibile;

le imprese manifatturiere vogliono fornire il mercato agricolo periferico.

Krugman definisce le prime due forze come centripete in quanto portano all’aglomerazione mentre la

terza come una forza centrifuga in quanto porta alla deconcentrazione delle attività verso le zone

periferiche.

L’economista spiega come l’esistenza e la persistenza di fenomeni di concentrazione geografica

dell’attività manifatturiera viene fatta dipendere da tre parametri chiave che descrivono

rispettivamente: la quota dei beni manufatti nella spesa totale, il livello dei costi di trasporto, il livello

di economie di scala. Quindi se i costi di trasporto sono elevati e/o la quota di beni manufatti sulla

spesa totale è ridotta non si verificherà alcun agglomerazione; tuttavia quando le economie di scala

sono abbastanza forti le imprese tenderanno ad agglomerarsi e, a causa dell’esistenza di costi di

trasporto, tenderanno ad agglomerarsi lì dove la domanda è maggiore.

Parallelamente ed in parte integrata alla teoria di Krugman si sviluppa una modellistica che trae

ispirazione dai lavori condotti da Greenwood, Hunt e McDowell (1986) sulla relazione tra lo sviluppo

territoriale (inteso come spaziale) e crescita della popolazione e dei posti di lavoro nelle aree urbane.

Lavori interessanti in al riguardo sono quelli di Adams (1994), Benabou, (1993) e Henry (1997), tutti

lavori volti a dimostrare come nelle aree metropolitane le attività economiche e la popolazione si

aggiustino al fine di permettere una distribuzione efficiente di imprese e individui e come l’effetto degli

investimenti pubblici e delle attività economiche abbia una duplice direzione dalle città verso le aree

periferiche e viceversa, cosicché l’effetto finale sarà quello di indurre i lavoratori ad una più ampia

mobilità lavorativa piuttosto che residenziale. Tali prospettive possono spingere gli individui a decidere

di non emigrare, ma di mantenere la propria residenza e contemporaneamente lavorare nei centri di

business (Kahn et al., 2001).

4.6 Come coniugare competitività e sostenibilità: le risorse localizzate, il capitale sociale, la

tecnologia, la qualità, le risorse finanziarie

La flessibilità, intesa come rapido ed efficace adattamento ai mutamenti di mercato è diventata

un'esigenza primaria dell'organizzazione produttiva (Trigilia, 1994).

Inizialmente sono state le imprese più piccole a cogliere le opportunità che la nuova situazione dei

mercati offrivano per la loro struttura più agile e più capace di rapidi adattamenti, facilitate dal

diffondersi di nuove tecnologie flessibili, che riducono i costi della produzione di beni in serie limitate

e favoriscono la "specializzazione flessibile" (Sabel, 1987). In seguito anche le grandi imprese,

adeguatamente ristrutturate al loro interno e nella collaborazione esterna con imprese minori, hanno

saputo restare competitive sui mercati, trasformandosi in un'organizzazione che si adatta

continuamente o un'organizzazione che apprende (learning organisation) (Cappellin, 1995) secondo

regole dinamiche e condivise (governance).

Streeck (1992) discute, ad esempio, le rinnovate condizioni dell'organizzazione economica proprio

partendo da quella che lui chiama "la produzione diversificata di qualità" legata ad un ambiente

appropriato allo sviluppo, cioè a condizioni esterne alle imprese che favoriscono l'organizzazione della

produzione (modello bottom-up).

La complessità non è dunque più vista come un ostacolo ma come la possibilità di delineare scenari

possibili. Ogni comunità locale è chiamato ad esprimere la propria progettualità, sulla base delle

opportunità che il proprio territorio offre.

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Ciò spiega la pluralità dei contributi geografico economici allo studio del locale, tra i quali

ripercorriamo sinteticamente i più significativi. Ogni approccio, se pur con risultati diversi tra loro,

pone l'accento su alcuni fattori piuttosto che altri, a conferma del ruolo che hanno le risorse endogene

nel realizzare pratiche di sviluppo virtuose.

BOX IV.4 - L'approccio marshalliano e la sua diffusione in Italia Le ricerche economiche sullo sviluppo locale ispirate all'opera di Alfred Marshall presero avvio con gli studi relativi

alle caratteristiche sociali dei sistemi di piccole imprese, emersi con successo nelle aree ad industrializzazione diffusa

dell'Italia periferica (ma anche della Spagna, della Grecia e del Portogallo), sulla base delle quali si perveniva alla

spiegazione dell'eterogeneità delle forme organizzative evidenziate (cfr. i lavori di Becattini, Bagnasco, Brusco, Fuà,

Landini e Salvatori, Sforzi, Tinacci Massello, Trigilia ed altri).

L'atmosfera distrettuale (in qualche modo già presente nell'opera marshalliana) trascende la crescita economica

localizzata per dare priorità a fenomeni di cooperazione.

L'organizzazione economica dei distretti è stata studiata in Italia tra il 1975 ed il 1995 coinvolgendo nell'analisi la

sfera dei rapporti familiari, istituzionali, lavorativi in senso lato (come i rapporti fra imprenditori e lavoratori). La

portata innovativa di questo approccio, al di là del successo economico dei distretti industriali italiani, sta nell'aver

sollevato le differenze sul territorio dei processi storico-culturali di lunga durata, ponendosi in evidente contrasto con

le tendenze livellatrici dell'economia globale moderna.

L'ampio dibattito sulle componenti non economiche dell'ambiente distrettuale ha contribuito ad incrinare una delle

"certezze" su cui poggiava la teoria economica tradizionale, che considerava come residuali per la crescita economica

alcune fenomenologie: le differenze sociali, i rapporti familiari, istituzionali e lavorativi, intaccandone il rigore

ideologico; contemporaneamente ha contribuito ad affermare l'idea che esistono entità economico-territoriali capaci di

attivare percorsi di sviluppo e modelli organizzativi differenziati nel tempo e nello spazio (Conti, 1995), ormai

comunemente definiti sistemi locali.

Il sistema locale - inteso quale radicata articolazione di relazione fra istituzioni e soggetti economici e sociali -

rappresentò, fra il 1975 ed il 1985, sia un modello teorico dello sviluppo autocentrato, cioè basato su variabili

controllate all'interno dell'area (Garofoli, 1994), sia una politica di sviluppo generata dal basso (bottom-up) in aperto

contrasto con quello ‘calato dall'alto’ (top-down).

I costi di transazione stabiliscono il confine fra organizzazione interna ed esterna di un sistema

produttivo; contribuisce, nei periodi di frammentazione (o disintegrazione) della produzione, a

spiegare alle imprese i vantaggi che si possono ottenere ricorrendo alle economie esterne, quindi a dar

vita a nuove forme organizzative, diverse da quella gerarchica.

Essi aiutano anche a spiegare perché si formano sistemi produttivi come insiemi di impianti di piccola

e media dimensione (oggi anche piccolissima) e a rivalutare i processi di agglomerazione (aspetto

particolare delle economie esterne).

Una vasta produzione scientifica (Amin e Robins, Piore e Sabel, Scott e Storper, Aoki ed altri) ha

riguardato questo argomento, più noto con il nome di teoria della specializzazione flessibile,

individuando molti fattori, tra cui si ricordano: il ruolo delle imprese esterne specializzate, le

condizioni poste dalla domanda; le condizioni di stabilità/instabilità, certezza/incertezza dei mercati.

Secondo questo tipo di approccio, un sistema locale è assimilato ad un sistema coordinato di reti

contrattuali e istituzionali, che si regge sui vantaggi competitivi dei costi di

produzione(iposocializzazione), per cui lo studio delle relazioni sociali diventa basilare per spiegarne il

funzionamento.

L’approccio transazionale offre una visione "ordinata" dell’economia: l'economia globale è vista come

un mosaico di regioni specializzate, ognuna dotata di una propria rete di accordi di scambio e di uno

specifico funzionamento in relazione al mercato del lavoro.

BOX IV.5 - L'approccio neotecnologico L'approccio neotecnologico considera il processo innovativo come un fattore territoriale, in quanto localizzato e

localizzabile attraverso pratiche del tipo learning by doing e learning by using. Il loro impiego da parte delle imprese,

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Capitolo IV

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che ne usufruiscono anche come supporto logistico (esternalità, effetti di prossimità, ecc.), consente di realizzare un

processo di apprendimento che influenza i rapporti di scambio e di cooperazione fra imprese, istituzioni e altri

soggetti, contribuendo ad instaurare relazioni di prossimità, vitali per incrementare l’innovazione (processo

incrementale).

Al modello gerarchico, fondato su una logica funzionale (innovazione prodotta esternamente e diffusa tramite l'azione

della grande impresa) si sostituisce quindi un modello secondo cui lo spazio ed il territorio diventano agenti attivi nella

creazione di tecnologia, grazie all'azione non di una sola impresa ma da di una collettività, fondata su una complessa

rete di interdipendenze che si manifestano a livello territoriale.

Importanti contributi scientifici sull’argomento sono contenuti nelle ricerche del GREMI (Groupe de Recherche sur le

Milieu Innovateur) e di autori come Maillat, Quévit, Senn. Per tutti il milieu innovateur è alla base della creazione di

tecnologia, poiché la cooperazione fra soggetti localizzati e spazialmente vicini innescherebbe un processo di

territorializzazione (non dissimile da quello dell'approccio marshalliano) favorevole alla localizzazione concentrata

(polarizzazione) di nuove imprese che utilizzano il know how esistente, l'infrastrutturazione tipica di quel sistema

locale.

Sempre collegata all'approccio neotecnologico, anche se più spostata verso il sapere in quanto tale piuttosto che sulle

innovazioni tecnologiche, esiste una versione proposta da Becattini e Rullani (1993), che riesce ad eliminare la

dicotomia locale/globale, senza tuttavia limitare la portata interpretativa del modello.

L'idea di fondo del modello è che nello sviluppo il fattore decisivo, prima ancora dell'accumulazione di capitale, sia il

sapere nelle due varie forme: la conoscenza scientifica e tecnica, ed il saper fare degli uomini. Due le sfere della

conoscenza, con diversi contenuti, diversi linguaggi, diversa collocazione nello spazio.

La prima è la conoscenza codificata, che si scambia, con linguaggio scientifico e tecnico, nelle riviste specializzate e nei

libri di testo; utilizza codici unificati ed universali: tecnologici, organizzativi, comunicativi.

Il luogo di questa conoscenza è la comunità scientifica, cioè un luogo immateriale, non sempre ubicato. La conoscenza

codificata è, quindi, un fattore esogeno, che si può spostare nello spazio con relativa facilità, essendo sufficiente aderire

alla comunità scientifica, o più semplicemente essere capaci di decodificarla.

Il secondo tipo di conoscenza è il sapere locale, sedimentato nell'intelligenza, nella fantasia, nella creatività e nell'abilità

di persone che vivono vicine, si scambiano notizie ed esperienze, lavorano insieme, sono cioè relazionate socialmente.

Questa conoscenza si diffonde attraverso il fare ed il saper fare, attraverso ‘chiacchierate informali’ ed un linguaggio

ricco di locuzioni vernacolari, "spesso giocato su metafore o riferimenti che non hanno alcun valore fuori dall'area d'uso

in cui il linguaggio stesso è stato elaborato" (Brusco, 1994, p. 68).

Questo sapere non può che essere radicato in un'area specifica, una porzione di territorio, in cui le persone sono legate

da una storia e da valori comuni, in cui istituzioni particolari operano al servizio degli individui, in cui codici di

comportamento, stili di vita, percorsi di lavoro, aspettative, si mescolano inestricabilmente con le attività produttive.

Questo sapere localizzato, legato inequivocabilmente a quella porzione di territorio, si muove in modo limitato nello

spazio. La lettura territoriale diventa quindi indispensabile per evidenziare le specificità dei vari contesti produttivi e,

contemporaneamente, la natura composita del processo produttivo che, se da un lato tende all'internazionalizzazione

delle tecnologie e dei prodotti, dall'altro si alimenta del saper locale per la sua realizzazione pratica. Da un punto di vista

interno ai sistemi locali la continua interazione tra "conoscenza codificata" e "sapere locale" dà vita ad un processo

circolare continuo, in entrata ed in uscita, che Becattini e Rullani (1993) hanno definito "contestualizzazione" e

"decontestualizzazione" della conoscenza.

Un sistema locale, quindi, deve essere capace di integrare la conoscenza codificata, decodificandola e

contestualizzandola, in modo da valorizzare e rendere maggiormente "fertile" il proprio sapere. Dove ciò non avviene, o

perché l'identità locale e la capacità di autoregolazione sono scarse, o perché sono scarse le risorse endogene, si

attiveranno vasti processi di deterritorializzazione20

(Turco, 1988).

Questi processi vanno si sono sviluppati con il venir meno dell'idea secondo cui lo spazio geografico tende a ordinarsi

"naturalmente" per zone tendenzialmente omogenee, dai centri alle periferie, dalle regioni forti a quelle deboli; ma,

soprattutto al venir meno dell'idea, che le differenze tra i luoghi crescano gradualmente con la distanza fisica e quelle

tra i centri e tra le regioni con i livelli gerarchici interposti.

Tale complessità è rappresentata, oggi, dalla diversificazione delle condizioni locali, diversità che mentre fino a venti

anni fa erano viste come ostacolo alla creazione di condizioni territoriali omogenee, oggi diventano risorse potenziali,

fattori di sviluppo, che "premiano" alcuni luoghi e relegano altri a condizioni di dipendenza funzionale.

20

Perdita delle specificità proprie di quel luogo, perdita di identità nonché progressiva dispersione delle potenzialità.

Conseguentemente i luoghi perdono la capacità di autoregolarsi; per dirla con Turco, la territorializzazione non è più

autocentrata, cioè è sempre meno "governata da attori o gruppi che si riconoscono parte integrante di un corpo sociale

unitario, che è come è". Se ne deduce che la deterritorializzazione può essere associata alla perdita di autonomia.

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Il tema del vantaggio competitivo di un'impresa (o di una nazione, secondo M. Porter, 1982 e 1991)

richiama ancora una volta l'attenzione sull'importanza della chiave territoriale nello sviluppo, segnando

contemporaneamente: la rottura con gli strumenti teorici della pianificazione tradizionale e con la

metodologia dei costi di transazione; proponendo l'ambiente locale (o milieu) nel quale l'impresa è

collocata come elemento di vantaggio.

L'ambiente più prossimo all'impresa definisce, infatti, secondo Porter, molti degli input dei quali

l'impresa si avvale, comprese le informazioni che guidano le scelte strategiche, gli incentivi e le

pressioni ad innovare.

Il vantaggio competitivo risiede sia nell'ambiente sia nella singola impresa, per cui l'ambiente cessa di

essere un dato oggettivo per diventare il "prodotto" dell'azione strategica dell'impresa, che questa

costruisce instaurando relazioni di concorrenza/cooperazione con altre imprese ed istituzioni.

Al centro della teoria di Porte ci sono l'impresa ed il settore produttivo in cui essa opera. Entrambi

contribuiscono a definire due concetti: la catena del valore e l'ambiente competitivo, poiché un'impresa

è qualcosa di più della semplice somma delle sue attività. E’ una catena del valore in quanto sistema di

interdipendenze o una rete di attività connesse, che incidono sui costi o sull'efficacia di altre attività.

La competizione economica non avviene pertanto contrapponendo imprese isolate, bensì catene del

valore alternative, ciascuna delle quali organizza in genere più imprese. Le imprese di successo creano

e sostengono il vantaggio competitivo con la loro capacita di migliorare continuamente, di innovare e

di accrescere i loro vantaggi competitivi nel tempo.

Concorrenti, fornitori, clienti beneficiano dell’ambiente competitivo delineato dalla catena del valore e

definiscono appunto l'estensione delle attività che l'impresa svolge al fine di competere in un

determinato settore (Conti, 1995).

Con la nozione di ambiente competitivo, Porter recupera come componenti fondamentali la

dimensione storica e quella geografica. La prima è fondamentale per comprendere la dinamica delle

forze in gioco, la loro naturale evoluzione, le variazioni temporali; la seconda permette di capire i

meccanismi di espansione dell’ambiente e la strategia localizzativi.

La portata del discorso di Porter travalica quindi le imprese, indicando nei contesti localizzati (stati,

regioni) in cui le imprese operano le ragioni del successo della competizione globale.

Porter basa la sua teoria sullo studio delle cause di successo internazionale in un campione

significativo di imprese localizzate in dieci paesi leader nella commercializzazione (tra cui anche

l'Italia), e le sintetizza in quattro attributi (o determinanti) rappresentati nel cosiddetto “diamante” (Fig.

I.9, in grigio chiaro i fattori concepiti da Porter).

1. i fattori della produzione

2. la domanda

3. le industrie correlate e di supporto

4. la strategia dell'impresa, la sua struttura e rivalità

Porter aggiungerà a questi quattro attributi del contesto locale due altre variabili: il caso e le politiche

governative regionali e nazionali

Lo sviluppo che chiamiamo “territoriale” ha posto attenzione più alle risorse che rendono una località

‘vincente’ in termini di benessere economico piuttosto che sul tipo di modello espresso dal sistema

economico di riferimento.

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Capitolo IV

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In Europa e in Italia gli studi sullo sviluppo economico hanno prodotto un aumento d'interesse anche

nei confronti del contesto istituzionale e del cosiddetto “capitale sociale”21

, il quale può essere

considerato come l'insieme delle relazioni sociali di cui un individuo (per esempio un imprenditore o

un lavoratore) o una collettività (pubblica o privata) dispone in un determinato momento (Trigilia,

1999). Attraverso il capitale sociale si rendono disponibili relazioni e bei relazionali (come quelli

culturali), know-how, informazioni, capaci di abbattere i costi dei moderni fattori della produzione.

Anche il concetto di competitività (competitiveness) è dunque mutato, territorializzandosi, soprattutto

dopo i primi tentativi di applicazione della cosiddetta Strategia di Lisbona (2000-2005),

complessificandosi con l’aggiunta di molti fattori e coinvolgendo il concetto di sviluppo sostenibile in

un’inevitabile integrazione con la Strategia di Gothenburg (2001-2005).

La complessificazione consiste nell’agire contemporaneamente sia alla scala globale (la scala delle

politiche e dei principi comuni che orientano lo sviluppo), sia alla scala locale (la scala dei programmi

e dei progetti attuativi dello sviluppo) tenendo conto delle differenze nazionali e regionali, dunque

territoriali.

I fattori ed indicatori della competitività così come indicata da Porter non sono dunque più sufficienti.

La letteratura scientifica ha contribuito non poco nell’ultimo decennio ad affrontare la questione,

soprattutto in campo economico. Ad essa si sono aggiunti recentemente molti documenti di riflessione

prodotti, su base scientifica, dall’Unione Europea22

e, per quanto la discussione sia ancora in corso,

alcune controversie sono state risolte:

1) l’economia, il territorio, l’ambiente devono essere considerati un tutt’uno nella trattazione dello

sviluppo. Essi rappresentano I caratteri distintivi di un sistema complesso, da considerare tipico e

rappresentativo di una regione, base territoriale per lo studio della competitività;

2) la competitività non può essere disgiunta dalla sostenibilità, e dalla capacità endogena di essere

competitivi ed allo stesso tempo sostenibili sia a livello regionale che nazionale;

3) la ricerca delle differenze territoriali consentirà all’Europa delle regioni e degli stati la possibilità di

essere cooperativi sulla base della comune capacità di accedere all’arena della competitività

(rappresentata ad esempio dai nuovi Fondi Strutturali 2007-2013).

Alla ricerca di una soluzione da dare in tempi brevi al problema globale della perdita di competitività, i

paesi che aderiscono all’Unione Europea hanno convenuto che:

i) una regione competitiva ha una base territoriale imprenditoriale cooperativa;

ii) il livello di efficienza delle istituzioni pubbliche giocano un ruolo fondamentale affinché le regioni

siano competitive in sostenibilità, perché l’efficienza può essere considerato un fattore direttamente

correlato al livello di agglomerazione territoriale;

iii) la simmetria informativa sulle opportunità e sui limiti di sviluppo di un territorio consente di

scegliere progetti ed investimenti appropriati;

21

Nei primi anni del Novecento, Max Weber aveva tentato di spiegare l'influenza dei fattori culturali sullo sviluppo

economico americano studiandole sette protestanti, in cui l'appartenenza religiosa era alla base di un'intensa rete di relazioni

sociali personali di natura extraeconomica. 22

Tra i più recenti vale la pena ricordare:

- The Kok Final Report about Facing the Challenge. The Lisbon Strategy for growth and employment

(November 2004)

- The study Adaptation of Cohesion Policy to the Enlarged Europe and the Lisbon and Gothenburg

Objectives dell’European Parliament's Committee sullo sviluppo regionale (provisional version,

January, 2005) per valutare la coerenza delle proposte di riforma (finanziaria e sociale) con particolare

riguardo ai cambiamenti attuali e future richiesti per porre in coerenza I Fondi Strutturali con gli

obiettivi di Lisbona e Gothenburg.

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Capitolo IV

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iv) l’organizzazione commune della struttura finanziaria dei mercati regionali consente di perseguire

obiettivi comuni.

Ciò significa che la performance competitiva di una regione si basa su:

la quantità e la qualità dei beni e dei servizi offerti;

le economie esterne (di urbanizzazione e di agglomerazione)

i caratteri regionali distintivi e strutturanti (specializzazione, relazioni, organizzazione,

infrastrutture, ecc.)che rendono alcune aree primate rispetto al mercato globale;

la presenza in loco di comunità che lavorano a sistema;

l’incremento progressive del reddito e degli standard di vita a livello regionale o nazionale,

disponibilità di assorbimento della forza lavoro locale (CEC, 2002, p. 4);

standard nazionali elevati in materia di qualità della vita ed un basso livello di disoccupazione.

Ne consegue una nuova tassonomia geografico-economica, che considera la competitività in una

prospettiva strettamente legata alla sostenibilità, correlandola:

- alla capacità territoriale di sostenere la concorrenza di mercato impiegando fattori endogeni che

distinguono inequivocabilmente l’ambito regionale e nazionale di appartenenza (mix di aspetti

economici, sociali, ambientali che influenzano la posizione di una regione nel contesto

internazionale o, ad esempio, dell’Europa dell’allargamento);

- al possesso di materie prime considerate vitali ed innovative per l’impresa all’interno di un

contesto socialmente stabile;

- alla capacità di orientare il mercato della competizione verso scenari strategici in grado di

garantire stabilmente la sostenibilità ambientale, sociale, culturale della produzione;

- al possesso di alcune capacità organizzative e gestionali: conoscenza delle capacità di

innovazione locali, organizzazione a rete, capacità di integrare differenti settori e livelli di

attività e di cooperare fuori e dentro i confini di appartenenza, coinvolgimento di differenti

livelli delle istituzioni pubbliche e private, possesso di una visione coerente dello sviluppo a

livello locale e globale, organizzazione internazionale, rispetto nell’uso delle risorse locali,

capacità recepire sussidiariamente le politiche europee, nazionali, regionali;

- alla capacità di cooperare con differenti soggetti, anche a livello transnazionale europeo, in

materia ambientale e per lo sviluppo.

Questa concezione assimila concetti sino ad oggi trattati separatamente:

la competitività economica, cioè la capacità di produrre e mantenere nel territorio il massimo del

valore aggiunto, valorizzando le risorse anche attraverso la cooperazione locale;

la competitività sociale, cioè la capacità dei soggetti di intervenire insieme ed efficacemente, in

base alla concertazione fra i vari livelli istituzionali;

la competitività ambientale, cioè la capacità di valorizzare l’ambiente in quanto “peculiarità” del

territorio, garantendo al contempo la tutela e il rinnovamento delle risorse naturali e del patrimonio

in senso lato;

al punto da far ritenere, sino al 2002, che competitività e produttività fossero un tutt’uno, che la

competitività riguardasse solo le imprese e che in fattori interni ed endogeni (domestic factors) fossero

meno importanti rispetto al comportamento dei sistemi produttivi nel misurare il posizionamento dei

territori all’interno del contesto europeo ed internazionale,cioè alla capacità di trovare una collocazione

rispetto agli altri territori e al mondo esterno nel rank della globalizzazione.

Nel 2003 il Rapporto sulla Competitività dell’Unione Europea aveva incentrato gli aspetti regionali

della competitività sulla produttività (calcolata come PIL regionale per ora di lavoro), work-leisure

balance (totale delle ore lavorative per occupato), il tasso di occupazione, i fattori demografici del

lavoro (tasso di popolazione in età lavorativa).

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Tuttavia questi indicatori non sono sembrati sufficienti a spiegare le diversità regionali (solo macro

indicatori, solo 15 settori misuravano la produttività tra il 1980 ed il 2000), inducendo ad introdurre

nuove correlazioni. Ad esempio tra produttività e sistema della conoscenza, della ricerca, della

formazione superiore; o tra produttività e capitale fisico, capitale umano, infrastrutture (materiali ed

immateriali); sino ad inserire fattori (anche intangibili) come l’innovazione, la tecnologia

dell’informazione e la comunicazione (ICT), la protezione ambientale.

In questo contesto è stata riconosciuta anche l’importanza rivestita dalla good governance per la

competitività regionale (European Commission, 2004, p. xiii).

Dal 2004 un altro concetto, la coesione, orienta, per l’Unione Europea, la misura della competitività di

un territorio. Il termine sta ad indicare la capacità di tenuta, di cooperazione, di pacifica e produttiva

coesistenza tra tutte le componenti di un sistema produttivo; ma anche l’idoneità e l’efficienza delle

istituzioni nel mettere in pratica regole di governance partecipativa inducendo la comunità d’imprese a

perseguire, nei comportamenti individuali, obiettivi quali:

1) l’inserimento positivo e produttivo nel circuito sociale ed economico,

2) lo sviluppo di atteggiamenti “proattivi” di inclusione nelle scelte collettive (giungendo a “farsi

carico” di responsabilità individuali e sociali),

3) il concorrere con le istituzioni (formali ed informali) al governo stesso della comunità

condividendone le “buone pratiche”.

Gli intendimenti della nuova politica europea (quella che diventerà operativa dal 2007 con i nuovi

Fondi Strutturali) punta a valorizzare (competitività) le differenze di contesto valutandone la coesione:

• stabilita’ delle condizioni (approccio statico-interno)

• convergenza dinamica di indicatori comparativi (approccio dinamico-comparativo)

• miglioramento delle condizioni di vita (contenuto generale)

• performance di occupazione, reddito, produttivita’ (contenuto specifico)

La territorial capability, o capacità del territorio di produrre valore e di possedere competitività in

sostenibilità, è dunque il nuovo fattore di posizionamento dello sviluppo a livello mondiale. E’ formato

da otto componenti:

1. l’attitudine degli operatori di sviluppare e valorizzare le competenze e il know-how locali,

anche attraverso l’idoneo utilizzo delle nuove tecnologie;

2. la capacità degli operatori di garantire la valorizzazione delle risorse finanziarie pubbliche e

private presenti nel territorio;

3. la capacità degli operatori di creare imprese, organizzarle e gestirle nel tempo;

4. la capacità di accedere a mercati che generano plusvalore economico;

5. la disponibilità di risorse umane e di operatori collettivi, nonché le capacità di rapporto che si

generano tra loro;

6. la dimensione della cultura e dell’identità del territorio, misurabili anche dai legami che

nascono dalla condivisione di alcuni valori tra gli operatori del territorio;

7. la capacità di corretta gestione degli affari pubblici: i rapporti di interesse, di affinità o di rifiuto,

le strutture per la gestione del potere, le tensioni e i conflitti tra i soggetti e la capacità di

cooperare e di intervenire in modo concertato tra le varie istituzioni pubbliche e tra il settore

pubblico e quello privato;

8. il potenziale dovuto al know-how e alle competenze: le conoscenze acquisite per quanto

riguarda la gestione sociale e democratica, ma anche la capacità di valorizzarle e di acquisirne

delle nuove.

The Lisbon Scorecard IV (Centre for Economic Reform’s Report and Murray, 2004) ha associato la

competitività a cinque temi portanti:

1. innovazione

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Capitolo IV

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2. liberalizzazione dei mercati e nuovi strumenti finanziari

3. imprese

4. occupazione ed esclusione sociale

5. sviluppo sostenibile

e alla necessità di non trattare più i territori regionali e nazionali come spazi indifferenziati dell’azione

sociale ed economica (Cfr. Cap. 1).

BOX IV.6 – I nuovi strumenti finanziari a sostegno dello sviluppo regionale Stock markets, venture capital and altre risorse della cosiddetta equità finanziaria sono divenuti fondamentali per la

competitività, perché consentono investimenti in beni intangibili, come la R&S, fondamentali per lo sviluppo delle piccole e

medie imprese europee, tradizionalmente legate al sistema bancario e del credito nazionale e locale, legato sostanzialmente

al meccanismo dei prestiti e dei mutui, che incide in modo rilevante su quelle che la nuova classificazione europea definisce

micro-imprese.

La capitalizzazione di mercato (market capitalisation, calcolato come % del Pil) è un indicatore di questo fenomeno,

utilizzato per misurare la dimensione dello stock market, ma anche come indicatore della cosiddetta cultura dell’equità se

correlato al rapporto tra grande e piccola impresa o al rapporto tra imprese di nuova e vecchia quotazione.

La sua applicazione ha permesso di rilevare profonde differenza tra vecchi e nuovi stati membri dell’UE nel processo di

capitalizzazione, per cui resta fondamentale il collegamento con le tradizionali piazze finanziarie di Lussemburgo, Londra,

New York.

Il numero di imprese quotate nei vari stock markets dropped tra il 2000 ed il 2003 in tutti i paesi, ad eccezione di Gran

Bretagna e Spagna. I numeri in questi due mercati sono molto più altri che nel resto d’Europa (la Spagna può essere

equiparata al Giappone e raccoglie un terzo delle imprese quotate europee). In rapporto alla loro capitalizzazione ed alla

loro dimensione, si distinguono anche Slovakia and Slovenia.

A dicembre 2013, il Consiglio dell’Unione europea ha formalmente adottato le nuove normative e le leggi che regolano il

ciclo successivo di investimenti effettuati nell’ambito della Politica di coesione dell’UE per il periodo 2014-2020.

L’investimento territoriale integrato (ITI) è una nuova modalità di assegnazione finalizzata ad accorpare fondi di diversi assi

prioritari di uno o più programmi operativi per interventi pluridimensionali o tra più settori. L’ITI può rappresentare uno

strumento ideale per sostenere azioni integrate nelle aree urbane perché permette di coniugare finanziamenti connessi a

obiettivi tematici differenti, prevedendo anche la possibilità di combinare fondi di assi prioritari e programmi operativi

supportati dal FESR, dall’FSE e dal Fondo di coesione (articolo 36 del regolamento «disposizioni comuni»). Un ITI può

anche essere integrato da aiuti finanziari erogati attraverso il FEASR o il FEAMP.

4.7 Le nuove frontiere della modellistica geografico-economica: rendimento economico e

progresso sociale: un binomio possibile

Nel 2008, la Commissione per la misurazione del rendimento economico e progresso sociale

(CMEPSP) (Stiglitz, Sen, Fitussi, 2009) proponeva di ricercare nuovi indicatori per meglio

rappresentare la situazione sociale ed economica superando “la religione del numero”, per ripensare, in

vista di una crisi che allora si immaginava di breve durata, i criteri su cui stimare la qualità della vita

scostandosi da quelli esclusivamente economico-quantitativi. Per molti decenni il benessere dell’individuo è stato correlato al reddito, alle esperienze personali e di contesto;

per scoprire(economisti, educatori, filosofi, geografi) in tempi più recenti che i cosiddetti modelli di sviluppo

includono, oltre la relazione reddito – felicità/ soddisfazione, anche la necessità individuale di accedere a beni

immateriali spesso largamente sottovalutati, come la cultura e la formazione permanente.

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La Commissione concludeva i lavori rilevando, oltre la carenza di appropriati indicatori economici da

colmare con riforme strutturali e sociali23

, l’urgenza di statistiche incentrate sul benessere e sulla

sostenibilità dell’azione antropica.

Nel 2009, la domanda di «soluzioni per migliorare, rettificare o completare il PIL» (Commissione

Europea, 2009, p. 4) si affermava anche in Europa, incentivando il monitoraggio della percezione

dell’impatto (sensitivity) che i cittadini europei hanno delle politiche europee sulla qualità della vita e

sul benessere. Reddito, servizi pubblici, salute, tempo libero, cultura, mobilità, ambiente vengono

rilevati come "input" da inserire prioritariamente nell’offerta di policy governative (Monfort, 2011).

Per queste: «Le scienze sociali stanno mettendo a punto forme dirette di misura della qualità della vita

e del benessere sempre più affidabili e tali indicatori "di risultato" potrebbero utilmente completare gli

indicatori dei fattori "input" (…) allo scopo di (…) misurare i progressi compiuti nel raggiungere in

modo sostenibile gli obiettivi sociali, economici ed ambientali» (Commissione Europea, 2009, p. 10).

Riconoscere l’importanza che rivestono fattori di “godibilità” oltre che di utilità e rarità legati al

benessere individuale, consente di individuarli, rilevarli, interpretarli e condividerli al fine di valutare la

qualità della vita e la coesione in Europa.

Molte istituzioni internazionali hanno proposto a questo scopo indici sentitici di misura24

più o meno

scientificamente soddisfacenti:

- l’indice di sviluppo umano (HDI) elaborato nell’ambito del Programma di Sviluppo delle Nazioni

Unite (UNDP) al fine di effettuare un'analisi comparata dei paesi sulla base del calcolo combinato del

PIL, della sanità e dell'istruzione. L’HDI ha sostituito il “calcolo dei risparmi reali” elaborato dalla

Banca Mondiale che pure include aspetti sociali ed ambientali nella valutazione dello stato di salute

delle nazioni;

- gli indicatori partecipati OCSE, attraverso il "Global Project on Measuring the Progress of Societies",

che si affiancano a quelli elaborati in seno alle esperienze delle organizzazioni non governative per

misurare l'"impronta ecologica", una misura che alcune istituzioni hanno formalmente riconosciuto

come uno strumento/obiettivo in materia di sostenibilità o nel campo della ricerca pilota sul benessere e

sulla soddisfazione di vita;

- l’Index of Sustainable Welfare (ISEW), proposto già nel 1989 dagli economisti Daly e Cobb, da cui è

derivato, nel 1994, il Genuine Progress Indicator25

(GPI), proposto dall’associazione no profit

Redefining Progress, per misurare l’aumento della qualità della vita considerando solo l’aumento di

produzione che ha un riscontro effettivamente positivo sul benessere degli individui.

Questi indicatori o indici compositi (Carbonaro, 2011), al contrario del PIL, non considerano tutti gli

aspetti economici e finanziari sullo stesso piano, scindendo, ad esempio, la spesa “positiva” che

aumenta il benessere, da quella “negativa” che lo diminuisce (come nel caso dei costi

dell’inquinamento). Quest’ultima, insieme ai costi sociali (riduzione del tempo libero, aumento della

criminalità, ecc.), viene sottratta dal conteggio delle spese del primo tipo.

Il Genuine Progress Indicator (GPI) considera positivi anche i beni e servizi prodotti che non generano

una transazione economica (volontariato, lavori domestici, assistenza, ecc.); così da non vincolare la

reale crescita del livello di qualità della vita degli individui all’aumento del PIL, operando una

compensazione che tiene conto delle disuguaglianze e della distribuzione reale del reddito. E per avere

un’idea di quanto il GPI si distanzi dal PIL si osservi l’andamento che i due indici hanno avuto nella

seconda metà del XX secolo negli Stati Uniti, dove mentre il PIL è cresciuto costantemente durante

23 Si pensi ad esempio all’incremento che c’è stato nella qualità dei prodotti e dei servizi, per nulla considerato nel PIL. 24

A quelli più noti di seguito descritti, si aggiungono: l’Happy Planet Index (HPI della New Economic Foundation); il

Gross National Happiness (GNH), ovvero Felicità Interna Lorda (FIL). 25

La versione italiana del GPI, proposta dal WWF Italia e dalla Fondazione Enrico Mattei, è il RIBES ovvero Ricostruzione

dell’Indice di Benessere Economico Sostenibile.

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tutto il periodo, il GPI ha registrato una crescita fino agli anni Settanta dello scorso secolo, per poi

decrescere.

Grafico 1. Andamento del PIL e del GPI negli Stati Uniti durante la seconda metà del ventesimo secolo

Fonte: Redefining Progress, 2009, p. 4

Dunque, sebbene il PIL e altri indicatori prettamente quantitativi restino validi strumenti di

monitoraggio della situazione finanziaria di uno stato o di una regione (soprattutto di quelli lagging), lo

stesso non può ritenersi in campo economico, dove altri fattori incidono maggiormente sulla misura

della qualità della vita.

I nuovi indicatori del benessere sono considerati ancora poco attendibile dall’economia tradizionale

sempre alla ricerca di un indice composito ma sintetico; per cui gli indicatori settoriali (ambientali e

sociali) sono utili ad affiancare e completare il PIL, ma non a sostituirlo.

Un ulteriore interessante contributo allo sviluppo di indicatori sintetici sostitutivi viene dalla

Fondazione per le Qualità italiane Symbola che ha sviluppato il cosiddetto Prodotto Interno di Qualità

(PIQ), definito da molti la nuova misura dell’economia.

Il presupposto per calcolarlo è che si stia operando nel campo della Soft Economy, ovvero all’interno di

«un modello di sviluppo non più basato sulla quantità, destinata a perdere posizioni rispetto alle grandi

economie emergenti, ma sulla qualità, cioè su assetti nei quali a sistemi produttivi specializzati e

posizionati nei segmenti alti ed altissimi di mercato si associano politiche industriali centrate

sull’innovazione, il territorio, sul mantenimento degli stock ambientali e culturali e sulla valorizzazione

del capitale umano» (Symbola, 2009, p.27).

Il PIQ misura dunque la quota di PIL (o meglio di valore aggiunto) che può essere considerata di

qualità.

Sebbene sia possibile correlare il concetto di qualità a quello di benessere, cosa peraltro tentata da molti

ricercatori, è la stessa Fondazione Symbola ad ammettere che il PIQ potrebbe rappresentare una misura

del benessere più in prospettiva che attuale, poiché dipende dal livello di qualità che le generazioni

future potranno o sapranno raggiungere, anche se la sua stima mostra per l’Italia incrementi di valore

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costanti nella composizione dell’economia dal 2005, raggiungendo il 53,7% (pari a 430,5 miliardi di

euro) contro il 46,3% del PIL nel 2009.

Grafico 2 - Quota percentuale di prodotto interno di qualità e di non qualità dell’economia italiana – Anno 2009

Fonte: Fondazione Symbola - Istituto Tagliacarne, 2009, p. 47.

I nuovi indicatori sottolineano un evidente sforzo di riconsiderare lo sviluppo in termini di benessere e

qualità della vita, tuttavia rimane il dubbio se questi possano realmente rappresentare il Subjective well-

being (SWB), ovvero la percezione che gli individui hanno della propria vita, cioè quello che gli

economisti definiscono il vero indicatore di misura della felicità degli individui e, come tale, secondo

molti analisti, troppo soggettivo. A questo proposito, è interessante notare che, nei decenni prima della

crisi, laddove il PIL è cresciuto (UK, Germania, Belgio), il SWB è cresciuto molto meno rapidamente

se non è addirittura diminuito (Bruni, La Porta, 2005).

Sen, Nussbaum e i membri dell’Human Development and Capability Association sono convinti che

questo sia il segno che il raggiungimento del benessere dipenda dalle politiche che stati e regioni

adottano. E dunque che sia tempo di indirizzare definitivamente verso la sostenibilità la formulazione

delle politiche economiche e occupazionali e che queste debbano essere finalizzate a rimuovere gli

ostacoli all’accesso discriminato al mercato del lavoro; che sia tempo di politiche che promuovano la

conciliazione fra vita e lavoro. Soprattutto, che sia tempo di attuare un nuovo modello di società basato

sullo “sviluppo umano” e la creazione/valorizzazione di capability, come afferma la Nussbaum

nell’omonimo libro, che reca il sottotitolo: liberarsi dalla dittatura del PIL, di cui proporne la

sostituzione con l’ “approccio dello sviluppo umano o delle capacità” (Hdc)

Questa “contro-teoria necessaria” (Nussbaum, 2012, p. 51) contiene le risposte che la sostenibilità e

l’Hdc possono effettivamente offrire alla crescita del benessere, hanno una base fortemente geografica -

di cui non possono fare a meno- che si collega, altrettanto strettamente, alla pianificazione territoriale,

perché innescano un ciclo di sviluppo che incrocia la “capability” dell’individuo territorializzato con

quelle dell’home place e delle scelte di sviluppo dell’insieme: i cosiddetti capitali potenziali territoriali.

L’esperienza europea dell’ultimo decennio non ha sostenuto al meglio questa posizione, di cui pure si

dichiara la necessità. Molti sembrano al momento essere i vincoli di bilancio che frenano, anche nel

nostro Paese, l’inclusione di nuovi indicatori che, al pari di quelli più noti, stimino la qualità dei

processi e delle azioni di riforma strutturale verso una migliore qualità della vita per giustificarne il

costo.

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Un’occasione è offerta dai bilanci di genere (D’Orazio e Macchi, 2009) nati in Italia sull’onda di molte

iniziative promosse dagli anni ’90 (Dichiarazione di Pechino, Piattaforma di Azione) che hanno molto

a che fare con lo sviluppo sostenibile e il benessere.

Recenti casi studio (Wiest, Leibert, 2012) condotti sulle regioni rurali europee mostrano come

l’opportunità di entrare nel complesso delle politiche e di valutarne l’impatto diverso su donne e

uomini costituisca un mezzo per evitare la settorialità nelle analisi delle singole policy, consentendo di

entrare nello specifico della rendicontazione finanziaria (spese e entrate) dello Stato o degli Enti Locali

per coglierne la struttura e l’assetto distributivo delle risorse. Quest’ultimo riflette, anche se in modo

non facilmente decifrabile, l’articolazione e la visione del sistema economico e sociale di governo del

territorio, determinando la rilevanza gerarchica delle politiche e il loro impatto.

L’ordine di rilevanza degli interventi pubblici, le loro dimensioni quantitative misurate in valore

monetario e le connessioni che strutturano il quadro analitico del bilancio influenzano la prospettiva di

sviluppo delle capability di genere e non, offrendo alle potenzialità del capitale territoriale nuove e

differenziate possibilità in tutti i tipi e a tutti i livelli delle politiche.

Ripercorrere i processi di formazione dei documenti di bilancio e leggere i processi politici e

amministrativi che vi sono sottesi – anche in termini di genere - è un esercizio abbastanza diffuso, che

si inserisce nella crescente tendenza in atto ad essere trasparenti e responsabili nella spesa pubblica.

Molto meno diffusa è invece la pratica di adottare questo approccio “a monte” della formazione del

bilancio, soprattutto quando la prospettiva delle capability sostenibili si lega alla pianificazione

territoriale.

Negli articoli fondativi dei gender budget si riconosce pienamente l’approccio al benessere e il

riferimento teorico principale allo sviluppo umano come definito da Amartya Sen, il quale adotta come

chiavi di valutazione delle politiche pubbliche il benessere di donne ed uomini evidenziandone le

diseguaglianze. La novità di questo approccio non sta nello scegliere il benessere per valutare le

politiche, perché in teoria questo è il fine pubblico; l’innovazione sta nell’utilizzare metodologie, anche

tradizionali, dell’analisi geografico-economica per mettere direttamente in evidenza i risultati delle

politiche in termini di benessere senza dare per scontato che gli indicatori economici tradizionali siano i

migliori per misuralo, come pure le usuali gerarchia che relazionano l’economia al sociale.

Difficilmente, infatti, un unico indicatore darà conto delle diverse dimensioni territoriali di vita e

raramente comprenderà al suo interno dimensioni diverse da quelle di mercato, come nel caso di quelle

valutazioni etiche e relazionali.

Il Fondo di coesione e il Fondo sociale dell’UE 2013 non hanno dedicato a questa misura più del 10%,

pur identificando con chiarezza questo aspetto e la necessità di dedicare azioni specifiche per

migliorare l'accesso e la partecipazione al mercato del lavoro istituendo assi prioritari di intervento in

ambito regionale.

PER APPROFONDIRE

BECCHETTI L., Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Roma,

Città Nuova Editrice, 2009.

CARBONARO I., Measuring wellbeing with TOPSIS. In: Proceedings of 58th World Statistics

Congress. Dublin, 21-26 Ago., ISI Dublin, 2011

COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione della Commissione Europea al Consiglio e al

Parlamento Europeo: Non solo il PIL. Misurare il progresso in un mondo in cambiamento, Bruxelles,

2009.

NUSSBAUM M.C., Creare Capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Bologna, il Mulino, 2012.

NUSSBAUM M.C., SEN A., The Quality of Life, Oxford, Clarendon Press, 1993.

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REDEFINING PROGRESS, The Genuine Progress Indicator 1950-2002 (2004 Update), Oakland,

Redefining Progress, 2004.

STIGLITZ J.E., SEN A., FITOUSSI J.P., Report by the Commission on the Measurement of Economic

Performance and Social Progress, 2009, http://www.stiglitz-sen-

fitoussi.fr/documents/rapport_anglais.pdf, (accesso 22/01/2011).

SYMBOLA, UNIONCAMERE (a cura di), PIQ Prodotto Interno Qualità. Una nuova misura

dell’economia per leggere l’Italia e affrontare la crisi. Rapporto Nazionale 2009, Roma, I quaderni di

Symbola, 2009.

UNDP, Human Development Report, New York, Oxford University Press, 2011.


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