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Capitolo III - criminologi.com - tesi criminologia galli... · Capitolo I Il concetto di violenza e...

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Indice Indice Indice Indice Capitolo I Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi della natura umana I.I Introduzione I.II Comprendere l’essere umano: la sua natura alla base dello studio di ogni forma di crimine Capitolo II Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso lo studio del reato in generale e del terrorismo in particolare Capitolo III Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la ricerca del terrorismo: un problema di comprensione III.I L’ esperienza irlandese come esempio di fenomeno terroristico III.II Il fenomeno terroristico attraverso lo studio della sua definizione Capitolo IV Analisi del concetto di comprensione: dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale alla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnano l’uomo in relazione al suo comportamento terroristico IV.I Rapporto tra i crimini comuni ed il terrorismo IV.II Aspetti psicologici del terrorismo: può essere definito “psicopatico” l’autore di atti terroristici? Studio ed analisi di casi legati al particolare contesto dell’Irlanda del Nord IV.III La “normalità” dietro al terrore: la personalità del terrorista
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IndiceIndiceIndiceIndice Capitolo I Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi della natura umana I.I Introduzione

I.II Comprendere l’essere umano: la sua natura alla base dello studio di ogni forma di crimine Capitolo II Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso lo studio del reato in generale e del terrorismo in particolare

Capitolo III Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la ricerca del terrorismo: un problema di comprensione III.I L’ esperienza irlandese come esempio di fenomeno terroristico

III.II Il fenomeno terroristico attraverso lo studio della sua definizione Capitolo IV Analisi del concetto di comprensione: dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale alla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnano l’uomo in relazione al suo comportamento terroristico IV.I Rapporto tra i crimini comuni ed il terrorismo

IV.II Aspetti psicologici del terrorismo: può essere definito “psicopatico” l’autore di atti terroristici? Studio ed analisi di casi legati al particolare contesto dell’Irlanda del Nord

IV.III La “normalità” dietro al terrore: la personalità del terrorista

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Capitolo V Reportage di Roy Nugent, “Inside the IRA”: Organizzazione, Struttura, Tattiche e Fini del più significativo gruppo terroristico irlandese

Capitolo VI Analisi dei vari tentativi di risposta dello Stato al fenomeno terroristico con particolare riferimento alle misure speciali applicate nel contesto Nordirlandese VI.I La misura della pena di morte come rimedio “speciale” per i crimini di violenza politica. E’ efficace contro i terroristi?

VI.II Sviluppo legislativo in tema di lotta al terrorismo politico-religioso peculiare della realtà nord irlandese

VI.III Democrazia e ruolo della legge: Il principio di imparzialità; il principio di chiarezza ed equità; il principio della dignità umana. Rapporto tra i tre principi e la legislazione di emergenza nella lotta al terrorismo

VI.IV Il Supergrass System in Nord Irlanda: evoluzione storica e psicologica

VI.V Rapporto tra diritto e morale: rilevanza giuridica ed efficacia del pentimento all’ interno del sistema giuridico italiano CapitoloVII L’assassinio dell’Avvocato Patrick Finucane: analisi di un caso ancora irrisolto a testimonianza della situazione della realtà irlandese VII.I Racconto del delitto

VII.II Racconto di una vita all’ interno del conflitto BibliografiaBibliografiaBibliografiaBibliografia

NOTA REDAZIONALE Questa tesi si compone di 207 pagine

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“Alzo lo sguardo e guardo l’orizzonte

Vedo fuoco e fiamme, i campi distese deserte,

le città messe a saccheggio.

Mostruoso! Sento un terribile rumore. Come un tumulto, come lamenti e pianti! Si avvicinava sempre più;

prima delle mie idee fallaci una scena di omicidio;

dieci mila massacrati, la morte ammassata in mucchi,

i moribondi calpestati dagli zoccoli dei cavalli,

l’immagine e l’agonia della morte.

E questo è il frutto delle vostre pacifiche istituzioni!

Pietà ed indignazione crescevano dal profondo del mio cuore.

Sì, filosofo insensibile! Vieni e leggici il tuo libro circa il campo di battaglia!”

( Rousseau, L’età della guerra, 1752)

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CAPITOLO I

Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi Il concetto di violenza e di aggressività attraverso l’analisi

della natura umanadella natura umanadella natura umanadella natura umana “I conflitti non possono essere esclusi dalla vita sociale…

…la pace non è niente di più che una forma diversa di conflitto

un cambiamento di protagonisti ed antagonisti

un cambiamento negli elementi della battaglia

un cambiamento di scelte.”

Weber M., 1949

I.I Introduzione

“Quello che nella mia vita reale mi è stato sempre e dappertutto di ostacolo, sin negli anni più

tardivi, è stata la mia incapacità di fornirmi di una ragione sufficiente della piccolezza e della

bassezza degli uomini.”1

Voler collimare tale “appunto di “saggezza” di Schopenhauer con la storia dell’uomo e con i fatti

da lui stesso compiuti non mi risulta facile, almeno ad una prima analisi.

Ciò che l’essere umano è in grado di rendere visibile agli occhi dei suoi simili è segno di grandezza,

intelligenza e forza di volontà non indifferenti.

Lasciando da parte, sebbene solo temporaneamente, i motivi che possono spingere ad agire in

determinate forme e modalità di azione, il comportamento umano in generale, e l’atto criminale in

particolare, sono e riescono ad essere così grandi che noi, facenti parte della stessa specie animale,

non riusciamo a spiegarci, a fornirci spiegazioni plausibili, valide, razionali di fronte a quello che ci

è stato mostrato, di fronte al prodotto. Ecco allora che, così impostato, così interpretato il pensiero

del filosofo…esce dai suoi binari originari, viene storpiato e facilmente confutato da fatti che tutti

noi possiamo, abbiamo avuto modo di conoscere o ancor più drammaticamente, ne siamo stati

direttamente coinvolti. Il problema principale che mi sento di affrontare in questo mio lavoro è

l’approccio, il modo di porsi, di considerare un evento accaduto realmente, e lo voglio fare

1 Schopenhauer A., Appunti di saggezza per me stesso, Acquaviva Edizioni, Bari 1994.

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partendo proprio da come, in base alle mie esperienze, alla mia formazione scolastica, ho osservato

chi osserva. Fin da adesso, però sento, con sincerità, di affermare i rischi della mia ricerca, rischi

basati su dei dati ben precisi che affondano le loro radici nello studio fatto da Robert F. Bales, nel

1951.Nell’opera intitolata”Interaction Process Analysis”2, frutto di un lavoro iniziato circa

vent’anni prima all’Università di Harvard, l’autore, studiando quella che è la dinamica della

interazione, prende in considerazione i “metodi dell’osservazione”3, all’interno dei quali una

sezione è dedicata appositamente all’addestramento degli osservatori, che devono, quindi, prima

di iniziare il loro lavoro essere preparati. L’addestramento degli osservatori fu preso con grande

serietà e fu analizzato con massima cura sebbene, mentre da una parte si davano regole molto

precise e dall’altra si scoraggiavano eccessivi razionalismi, fu sollevato il problema

dell’attendibilità e della ripetibilità dell’osservazione. Tre erano gli errori possibili:

- errori di “unitarizzazione”, cioè nella distinzione dei singoli atti.

- errori di “categorizzazione”, cioè nella designazione degli atti a certe categorie.

- errori di “attribuzione”, cioè nella designazione dell’originatore e del recettore di un atto.

E’ con questi tipi di errori che anche io ho dovuto fare i conti, ma la consapevolezza dell’intrinseca

possibilità di sbaglio non mi ha certo fermato, anzi mi ha dato spunto per utilizzare maggiore

attenzione e soprattutto maggior desiderio di porre in discussione, lasciare almeno aperta una

qualche diversa possibile interpretazione delle varie conclusioni a cui, in generale, ognuno di noi

arriva al termine di un processo di ricerca.

Tutto, quindi, nasce dalla osservazione.

Poniamo che abbia in mente di passare un week-end in campagna e che il tempo sia incerto.

Potrei dire: ”sono ottimista”per quanto riguarda il tempo.

2 Bales F. R., Interaction Process Analysis, Reading, Mass., Addison-Wesley 1951. 3 Il punto di partenza di Bales è l’asserzione che tutte le osservazioni empiriche possono essere descritte sotto due voci: azione, che comprende anche l’interazione, e situazione, in cui si svolge l’azione. Qualsiasi generalizzazione deve identificare sia l’azione concreta, sia la situazione dell’azione, quale sia il suo oggetto: personalità, sistema sociale o cultura. Il compito dell’osservatore è quello di registrare l’atto o, più propriamente, la singola interazione. Ecco allora che da questo punto di vista la personalità è trattata non come un’unità irriducibile, ma come una serie di segmenti ognuno dei quali è in azione in un dato momento. Il termine “attore” non deve quindi essere considerato come sinonimo di individuo, ma esclusivamente come punto di riferimento adottato per l’analisi di un atto in particolare. “Questo autore o attore sta dietro all’atto palese, persiste attraverso di esso, e unisce l’atto presente agli atti passati e a quelli futuri, ma tuttavia non è identico all’io visto come oggetto dell’attore stesso.” (Ibidem, p. 43). Ciò sta ad affermare che le condizioni dell’osservatore non contemplano l’intero background dell’attore, ma lo considerano semplicemente come oggetto che si comporta in un certo modo in un data situazione. L’analisi è strettamente limitata al comportamento e prende in esame soltanto ciò che può esser visto o dedotto direttamente dagli indizi comportamentistici mentre l’attore è sotto osservazione. Ne consegue che tutto ciò che sta al di fuori dell’attore, compresa quella parte di esso che non può essere osservata, costituisce la situazione. In ogni fase dell’analisi tutto ciò che deve essere registrato riguarda o l’attore o la situazione.

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Ma se mio figlio è gravemente malato tanto che la sua vita è in bilico, dire: ”sono ottimista”,

suonerebbe strano ad orecchie sensibili, perché, in un simile contesto l’espressione avrebbe

perlomeno un qualche cosa di freddo e di distaccato.

Cosa potrei allora pronunciare?

“Sono convinto che mio figlio sopravviverà” - neppure, poiché in quelle circostanze la mia

convinzione non ha alcuna base realistica.

La migliore potrebbe allora essere

“Ho fede che mio figlio sopravviverà.”

Nell’usare la parola fede esprimo un elemento molto importante, che caratterizza quella mia

espressione, esprimo il desiderio ardente ed intenso che mio figlio viva e, conseguentemente, ogni

sforzo da me possibile per ottenere la sua guarigione.

Non sono distaccato, un semplice osservatore passivo, separato da mio figlio come quando uso

l’espressione “sono ottimista”. Sono, al contrario, parte della situazione che osservo; sono

impegnato; il mio bambino, sul quale io “Soggetto” faccio un pronostico, non è “Oggetto”, la mia

fede è radicata nel mio rapporto col figlio, è un misto di conoscenza e di partecipazione, a patto,

però che sia una fede “razionale” e non un’illusione basata sui nostri desideri, e, quindi,

”irrazionale”.

Ciò che conta, dunque, non è tanto l’essere “Ottimista”, forma alienata di fede, o, ”Pessimista”,

forma alienata di disperazione. Il semplice dichiarasi in una maniera piuttosto che un altra è

illusorio e, ancor più grave, implica un assurdo e “criminale” atto di rinuncia a districarsi da quella

che sembra essere una fatale ragnatela di circostanze create dall’uomo.

Ecco allora che quello contro cui bisogna combattere è l’ipocrita e subdola indifferenza dell’uomo.

Questo si cela tristemente dietro la complessa e fitta serie di circostanze che caratterizzano un

determinato fatto.

Questo è l’atteggiamento che la maggioranza dimostra dichiarando passivamente la propria “fede”

o meno nei riguardi di ogni genere di atto criminale, nei riguardi della natura umana in generale e

della distruttività in particolare.

Di fronte ad atti di atroce aggressività e violenza è troppo facile dire: ”L’uomo è sempre stato

assassino”; ”Il desiderio di sfruttare il prossimo fa parte della natura umana”; ”E’ insito nell’uomo

aggredire”.

Sono tutte espressioni incomplete, che trascurano determinati fatti, scoraggiano, confondono, come

ogni non verità. La diffusione che si è creata della disperazione (“La natura umana è cattiva”) non è

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realistica, ma, ancor di più, come ho già sostenuto sopra, è distruttiva di per sé, è causa stessa della

nostra falsa “disperazione”.

Il porsi passivamente, a prescindere dal proprio ottimismo o meno, nei riguardi di crimini

caratterizzati soprattutto da alte forme di violenza, è un vile atteggiamento di rinuncia nei

confronti di se stessi, un voler sentirsi meglio, un voler essere “normali”, non voler essere

etichettati “diversi”, non voler accettare cambiamenti profondi non solo nella nostra struttura

politica ed economica, ma anche e principalmente nel nostro concetto di obiettivi umani, nella

nostra condotta personale.

Ecco allora, in base a quanto appena affermato, anche la frase di Schopenhauer acquista un

significato diverso, e, letta sotto un’altra chiave interpretativa, quella da me espressa, è difficile da

confutare.

E’ un pensiero elevato, con il quale non si può non essere d’accordo, a meno che…

…non si prendano in esame fatti reali…a meno che…non si abbia il coraggio di ammettere la

nostra natura e di immettersi in essa…

I.II Comprendere l’essere umano: la sua natura alla base dello studio

di ogni forma di crimine

Per la maggior parte dei pensatori, a cominciare dai filosofo greci, era autoevidente l’esistenza di

un qualche cosa chiamato natura umana, qualche cosa che costituisce l’essenza dell’uomo. Non vi

erano dubbi di alcun genere circa il fatto che esistesse un qualche cosa in virtù del quale l’uomo è

uomo, differenze riguardavano circa i vari tipi di elementi che caratterizzassero questo “quid

pluris.” Gia’ ma cosa fosse realmente non si sa, tanto che fu proprio l’approccio storico all’uomo

che mise in discussione tale opinione: Come può considerarsi alla stessa maniera l’uomo della

nostra epoca con quello degli stadi precedenti? Successivamente è stato l’abuso di questo astratto

concetto, usato spesso come paravento dietro al quale si commettono gli atti più inumani, a cercare

di negare il presupposto di una natura umana fissa. In nome di questa natura, infatti, Aristotele e la

maggior parte dei pensatori fino al diciottesimo secolo hanno difeso la schiavitù, e lasciando da

parte i filosofi, a livello popolare, si parla cinicamente di tale “natura umana” per accettare

l’inevitabilità di comportamenti umani indesiderabili come l’avidità, la menzogna, l’inganno e

perfino l’omicidio. Anche il pensiero evoluzionistico, una volta che, appunto, riuscì ad inquadrare

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l’uomo nel processo di evoluzione, mise in crisi il concetto stesso di natura umana e l’idea

consequenziale di una sostanza contenuta nella sua essenza.

Lasciando da parte una analisi specifica dello studio fatto da Darwin ne ”L’origine dell’uomo”4, ma

senza dimenticare il progresso del suo pensiero che si trova riflesso in uno dei più eminenti

ricercatori contemporanei quale G. G. Simpson (“L’uomo ha degli attributi che lo

contraddistinguono dagli animali. Il suo posto nella natura e la suprema importanza non sono

definiti dalla sua animalità ma dalla sua umanità.”)5, il tentativo di definire la natura umana nei

termini delle condizioni specifiche, biologiche e mentali, della specie ha portato Erich Fromm alla

conclusione circa la stessa e ad una sua qualche possibile definizione.

Sebbene egli scarti quella parte del pensiero evolutivo che fa risalire l’uomo ad un determinato

evento (la fabbricazione di utensili, per esempio, secondo la definizione data da Benjamin Franklin

dell’uomo come “Homo faber”, uomo costruttore) egli, per arrivare a un concetto della natura

umana, considera tutto il processo evolutivo, non limitandosi alla considerazione di singoli aspetti

isolati, sostenendo, in conclusione, che bisogna arrivare a capire tale concetto “sulla base della

fusione delle due fondamentali condizioni biologiche che caratterizzano la comparsa dell’uomo.

Una di esse fu che gli istinti determinano sempre meno il comportamento, l’altra è la crescita del

cervello, particolarmente del “neocortex.”6

Questa combinazione di determinazione istintiva minima e di massimo sviluppo celebrale,

secondo Fromm, non si era mai verificata prima nell’evoluzione animale, e costituisce un fenomeno

completamente nuovo, arrivando così a definire l’uomo “come il primate che emerse in quella fase

dell’evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello

raggiunse il massimo.”

Ecco allora che è alla luce di tale definizione, il cervello controbilancia il deficit istintivo, ma il

cervello è debole e si lascia influenzare, ma da cosa?

4 Darwin C., The Descent of Man, Watts, Londra, 1946; I ed. 1872 (trad. Italiana: L’origine dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 1966). Si veda inoltre The Origin of Species and the Descent of Man, Modern Library, New York 1936 (trad. italiana: L’Origine della specie, Boringhieri, Torino 1967). 5 Simpson G. G., Tempo and Mode in Evolution, Columbia Univ. Press, New York 1944. 6 “Ogni neurone della corteccia cerebrale è avviluppato da un groviglio di fibre molto sottili, di grande complessità, alcune delle quali giungono da parti molto remote. Probabilmente è esatto dire che la maggioranza dei neuroni corticali è direttamente o indirettamente connessa con ogni campo corticale. Questa è la base anatomica dei processi corticali associativi. L’interconnessione di queste fibre associative forma un meccanismo anatomico che permette, durante una serie di associazioni corticali, parecchie combinazioni funzionali differenti di neuroni corticali, che superano di gran lunga qualsiasi cifra mai proposta dagli astronomi nel misurare le distanze delle stelle…E’ la capacità di fare questo tipo di combinazione e ri-combinazione degli elementi nervosi che determina il valore pratico del sistema…” (Da Herrick C. J., Brains of Rats and Man, Univ. of Chicago Press, Chicago 1928.)

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E’ a questa domanda che Fromm tenta di dare una interpretazione differente dal semplice modo di

pensare l’uomo avente una “intelligenza strumentale”, cioè un uomo condizionato dalle proprie

esigenze e quindi tutto dedito alla manipolazione degli oggetti legati a particolari desideri o

passioni.

Egli considera un aspetto nuovo del pensiero umano, una sua nuova qualità, la “coscienza di sé!”

L’uomo è l’unico animale che non solo conosca gli oggetti ma sappia di sapere.

E’ l’unico animale che, oltre all’intelligenza strumentale abbia la ragione, la capacità di usare il suo

pensiero per capire oggettivamente, cioè per conoscere la natura delle cose come sono di per sé, e

non solo come strumenti per la propria soddisfazione.

Dotato della ragione e della autocoscienza l’uomo è consapevole di se stesso come essere distinto

dalla natura e dagli altri; è consapevole della propria impotenza, della propria ignoranza, della

propria fine; è consapevole cioè della morte.

Ecco allora che l’uomo è anomalia, un capriccio dell’universo; essendo consapevole di se stesso, si

rende conto della sua impotenza, dei limiti della sua esistenza;

tale dicotomia non lo abbandona mai e la contraddizione umana sfocia in uno stato di squilibrio

costante.

La natura umana, quindi, non può essere definita in termini di qualità specifiche quali amore e

odio, bene e male, ma soltanto secondo le contraddizioni che caratterizzano l’esistenza umana.

Il conflitto esistenziale produce certe esigenze psichiche comuni ad ogni uomo, costretto a superare

l’orrore dell’isolamento, dell’impotenza, dello smarrimento, trovare nuove strade per entrare in

contatto con il mondo e per sentirsi a casa. Tali esigenze psichiche sono radicate nelle condizioni

stesse dell’esistenza umana, condivise da tutti, senza alcun tipo di distinzione.

Tutti i dati che l’uomo possiede, come quelli ancora da scoprire, non potranno mai rilevare la

natura della mente se non si possiede la chiave per decifrarli, chiave che non può essere altro che la

nostra stessa mente. Il problema è come utilizzare tale chiave, cioè se riusciamo a trascendere il

nostro normale schema mentale e trasferirci in quello dell’uomo originario, nella mente dell’uomo

oggetto della nostra ricerca. Quel che Fromm propone è di usare non solo il passato per capire il

presente, il nostro inconscio, ma anche di usare l’inconscio come chiave per capire la storia.

Ciò, però, richiede la pratica della conoscenza di sé in senso psicoanalitico: ”rimuovere gran parte

della nostra resistenza a prendere consapevolezza del nostro inconscio, facilitando così la

penetrazione della nostra mente cosciente nelle profondità del nostro nucleo.”7

7 Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondatori Editore, 1975, p. 290.

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Se ne saremo capaci, conclude, riusciremo a capire chi vive nella nostra cultura, ma anche individui

di culture diverse e persino i “pazzi”, o perlomeno chi è considerato tale.

“La coscienza di sé e la capacità di previsione, tuttavia, portarono i tremendi doni della libertà e

della responsabilità.

L’uomo si sente libero di dar esecuzione a certi suoi progetti e di lasciarne altri in disparte;

prova la gioia di esserne padrone, anziché schiavo, del mondo e di se stesso; ma la gioia è

temperata dal senso di responsabilità; sa che deve rendere conto dei suoi atti:

ha acquistato la conoscenza del bene e del male.

Questo è un carico terribilmente pesante da portare; nessun altro animale deve fare fronte a niente

di simile.

Vi è un tragico conflitto nell’anima dell’uomo;

e, fra le imperfezioni della natura umana, questa è molto più grave dei travagli del parto.”

(T. Dobzhansky, 1962)8

Ecco allora che, solo alla luce di tali osservazioni, di tale approccio psicoanalitico alla comprensione

dell’aggressione, si può arrivare a superare la dicotomia pericolosa tra istintivismo e

comportamentismo.

Secondo la prima corrente di pensiero, il cui più alto esponente fu Konrad Lorenz,9 il

comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti

personali e in tutte le modalità distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato

filogeneticamente, che non aspetta altro che l’occasione propizia per esprimersi.

Se l’uomo è aggressivo l’unico responsabile è la natura ed allora tale teoria è facile farla diventare

un’ ideologia che aiuta a sopire la paura per ciò che comunque dovrà accadere e a razionalizzare il

senso di impotenza.

8 Dobzhansky T., Mankind Evolving: The evolution of Human Species, Yale Univ. Press, New Haven 1962 (trad. Italiana: L’evoluzione della specie umana, Einaudi, Torino 1965). 9 Si veda Lorenz K., Das sognante Bose. Zur Naturgeschichte der Aggression, Vienna 1963, (trad. italiana : Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano 1969.)

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Opposta a tale schieramento vi è il comportamentismo di B. F. Skinner,10 che si occupa e prende in

considerazione solo il modo di comportarsi dell’uomo e il condizionamento sociale che plasma il

suo comportamento. Diversamente dall’istintivismo, tale teoria non si interessa delle forze

soggettive che spingono l’uomo ad agire in un certo modo, affermando che il loro metodo è

“scientifico”, occupandosi di ciò che è visibile, del comportamento manifesto.

Due padri ciascuno con una diversa struttura caratteriale, picchiano i rispettivi figli, convinti che

tale punizione sia necessaria per un loro sano sviluppo. Siamo di fronte allo stesso

comportamento, i due padri si comportano in maniera identica, schiaffeggiando i loro figli.

Se, però si mettono a confronto le modalità di tali comportamenti, essi risultano solo

apparentemente uguali, ma profondamente diversi, caratterizzati da come tengono i figli, da come

gli parlano dopo la punizione, dalle loro espressioni, e, ancor più importante, varia la reazione dei

bambini che possono percepire il comportamento come puramente distruttivo, sadico, oppure, in

fondo, giusto, non avendo modo di dubitare dell’amore del padre.

Ecco quindi che secondo tale teoria è il comportamento fine a se stesso ad essere protagonista;

è il comportamento, e non l’uomo che adotta questo comportamento, che diviene l’argomento

centrale di tutta questa scuola di pensiero degli anni Venti.

Superata tale alternativa, si può quindi affermare che distruttività e crudeltà umana non sono

pulsioni istintuali, ma passioni radicate nell’esistenza complessiva dell’uomo.

Tali passioni sono ciò che permette di distinguere l’aggressione benigna, biologicamente adattiva,

reattiva e difensiva, caratterizzata dalla reazione a minacce contro interessi vitali, dall’aggressione

maligna, biologicamente non adattiva, spontanea e non reattiva, in quanto non è al servizio della

sopravvivenza dell’uomo e della specie.

Mentre la prima è comune ad animali e uomini, la seconda è quella che caratterizza l’essere umano;

l’uomo è assassino, è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza

motivo, nè biologico nè economico, traendone profonda soddisfazione.

Tale distinzione permette di eliminare alcune confusioni circa il generale concetto di aggressione,

inteso quale atto che causa o intende causare danni ad un’altra persona animale o oggetto

inanimato. La parte maligna dell’aggressione umana non è innata e può essere sradicata, pur

ammettendo che essa è un potenziale umano e non soltanto una schema acquisito di

comportamento, che, come tale, sparisce rapidamente non appena ne vengano introdotti di nuovi.

Sebbene non siano direttamente al servizio della sopravvivenza fisica, le passioni sono altrettanto

forti, ancor più degli istinti; costituiscono l’interesse che l’uomo ha per la vita, la sua voglia di

10 Skinner B. F., Science and Human Behavior, Macmillan, New York 1953.

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essere attivo, di non essere mero oggetto ma di essere, al contrario, ricercatore, di essere alla ricerca

del dramma, dell’eccitante, e, se non riesce ad ottenere una soddisfazione superiore crea per se

stesso il dramma della distruzione.

Ecco allora smantellato l’assioma riduzionistico secondo il quale la motivazione può essere intesa

soltanto se serve ad un bisogno organico, legata strettamente e solamente agli istinti, le passioni

umane devono essere considerate all’interno della loro funzione rispetto a quella che è la natura

umana, come ho dimostrato, essere intesa da Fromm. L’intensità di tali passioni, quindi, non

dipende da bisogni fisiologici specifici, ma dalla necessità di sopravvivenza dell’intero organismo,

dalla sua esigenza di crescere sia fisicamente che mentalmente, cercando quindi di dare un senso

alla propria vita, trascendendo le pure e semplici esigenze di sussistenza.

Con questo non voglio certo affermare che crudeltà e distruttività non siano maligne, che siano

quindi giustificate, ma che il vizio è umano ed è un “malvagio” paradosso con il quale bisogna fare

i conti: ”la vita che si rivolta conto se stessa nel tentativo di darsi un senso.”11

Capirle non significa perdonarle, me se non le capiamo non abbiamo modo di scoprire come

limitarle e quali fattori tendono ad accrescerle.

11 Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondatori Editore 1975, p. 27.

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“Questo studio tenta di chiarire la natura della passione necrofila e le condizioni sociali che tendono a

incoraggiarla.

La conclusione sarà che un rimedio in senso lato potrà prodursi soltanto attraverso cambiamenti radicali

nella nostra struttura politica e sociale, tali da reintegrare l’uomo nel suo ruolo supremo all’interno della

società.

Il moto ‘legge e ordine’ (piuttosto che vita e struttura), la richiesta di punizioni più severe contro i criminali,

come l’ossessione per la violenza e la distruzione che caratterizzano certi ‘rivoluzionari’, sono soltanto

ulteriori esempi della potente attrazione che la necrofilia esercita sul mondo contemporaneo.

Abbiamo bisogno di creare le condizioni adatte perché la crescita dell’uomo, quanto essere imperfetto,

incompleto – unico nella sua natura – diventi l’obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali.

La libertà genuina, l’indipendenza, la fine di ogni forma di controllo e di sfruttamento sono le premesse

indispensabili per mobilitare l’amore per la vita, l’unica forza che possa sconfiggere l’amore per la morte.”

Erick F., 1973

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CAPITOLO II

Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso

lo studio del reato in generale e delo studio del reato in generale e delo studio del reato in generale e delo studio del reato in generale e del terrorismo in particolarel terrorismo in particolarel terrorismo in particolarel terrorismo in particolare “Nonostante un uomo abbia combattuto battaglie per mille volte contro mille uomini, se lui vince se stesso è

il più grande dei combattenti.”

Des Cartes

La riflessione sul crimine e sulla reazione sociale nei confronti del reato rappresenta un aspetto

fondamentale della cultura dell’uomo, che, fin dall’inizio della sua storia ha elaborato all’interno di

sistemi religiosi, filosofici e mitologici, concezioni ed interpretazioni in qualche modo anticipatrici

le sistematiche elaborazioni della criminologia.

Le scienze criminologiche hanno sempre avuto l’esigenza di classificare, selezionare: suddividere

la delinquenza e i delinquenti in differenti categorie.

L’orientamento classificatorio cerca di trovare un compromesso tra coloro che sostengono che

esiste fondamentalmente un’unica causa della delinquenza e coloro che affermano che ogni delitto

costituisce una realtà estremamente specifica, irripetibile, individuale: entrambi questi

orientamenti ritengono, per ragioni opposte, che le classificazioni non siano opportune ed utili per

lo studio della criminalità.

Una delle più importanti discussioni che si sono avute in criminologia riguarda la possibilità di

definire, di delineare, tracciare un confine, una linea netta di demarcazione tra chi è delinquente e

chi non lo è.

In tale ambito ha assunto notevole rilievo la criminologia clinica, iniziata con l’opera di cesare

Lombroso (1835-1909), medico e psichiatra, che sotto l’influenza del pensiero di Darwin (una

citazione sarà sufficiente a dimostrare quanto stretto fosse il loro legame: “Nel caso del genere

umano” - scrisse Darwin nel 1874 nel ‘The Descent of Man and Selection in Relation to sex’ –

“alcune delle disposizioni peggiori che occasionalmente, e senza una causa apparente, fanno la loro

comparsa nelle famiglie, possono essere considerate, forse, come reversioni ad uno stato selvaggio,

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dal quale non stati rimossi dalle molte generazioni trascorse. Questo punto di vista sembra

riconosciuto, in effetti, nella espressione comune che questi casi sono le pecore nere della

famiglia.”), identificò un gran numero di “stigmate”, quali l’asimmetria facciale, alcune anomalie

delle orecchie, la fronte bassa, gli zigomi sporgenti, le mascelle enormi, l’insensibilità al dolore, ecc,

tipiche del “delinquente nato”. Egli tentò di verificare le sue ipotesi mediante l’osservazione di

innumerevoli casi clinici, la raccolta puntigliosa ed inesauribile di reperti collegati con il mondo del

crimine (quali disegni, tatuaggi, manufatti, ecc.), l’analitica descrizione di comportamenti e di

situazioni particolari. Lombroso ritenne di aver trovato una spiegazione decisiva delle cause della

delinquenza allorquando, nel corso dell’autopsia dl brigante Vitella, scoprì alla base del cranio una

fossetta occipitale mediana, tipica degli stadi embrionali e degli animali inferiori: ”alla vista di

quella fossetta - egli afferma - mi apparve d ‘un tratto come una larga pianura sotto un infinito

orizzonte, illuminato il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre ai nostri

tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù sino ai carnivori.”12

Attraverso i suoi studi egli costruì una teoria globale del crimine, di tipo bioantropologico, secondo

la quale i delinquenti sarebbero caratterizzati da particolari anomalie somatiche o costituzionali,

che sarebbero, appunto, alla base del comportamento criminale.

Il “delinquente nato”, secondo i sui studi presenta caratteristiche ataviche o degenerative tipiche di

uno stadio evolutivo primitivo della razza umana, tali da rendergli difficile l’adattamento alla

società moderna e da spingerlo al delitto. Oltre a questo “tipo” biologico (delinquente ”fin dal

grembo materno”), successivamente identificato da un lato con l’epilettico e dall’altro col “pazzo

morale”, Lombroso distinse anche altri “tipi” criminali, come il ”delinquente d’occasione” (con

tratti patologici attenuati cui apparteneva anche il vasto gruppo dei cosiddetti “mattoidi”), che può

“evolvere” nel “delinquente d’abitudine”, ed il “delinquente per passione”, che viene spinto al

delitto da un offuscamento momentaneo del senso morale.

I matti delinquenti, cioè gli autori di reato malati di mente, costituiscono in quest’ottica, una varietà

del delinquente nato e se ne differenziano solo per le modalità di elaborazione o di esecuzione del

delitto.

Nacque così l’antropologia criminale, una nuova disciplina che aggregò intorno a sé molti studiosi

e molti ricercatori.

12 Lombroso C., discorso di apertura in Competes-Rendus du VI Congrès International d’Anthropologie Criminelle, Torino 1906.

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Siamo nel XIX secolo

1860 ”Improvvisamente, una mattina, in un nuvoloso giorno di dicembre, nel teschio di un

brigante trovai una lunga serie di anomalie ataviche…analoghe a quelle che si riscontrano negli

invertebrati inferiori. Di fronte a queste strane anomalie - come avviene quando una grande

pianura è rischiarata da un orizzonte illuminato - mi sono reso conto che il problema della natura e

dell’origine dei criminali era per me risolto.”13

1830 “Possiamo dire in anticipo quanti individui si macchieranno le mani col sangue dei loro

simili, quanti saranno i truffatori, quanti gli avvelenatori; possiamo predirlo quasi come possiamo

predire le nascite e le morti che avranno luogo…

Ecco un bilancio che dobbiamo affrontare con spaventosa regolarità, quello delle prigioni, delle

catene e del patibolo.”14

La prima di queste dichiarazioni venne fatta da Cesare Lombroso.

La seconda da Lambert-Adolphe-Jacques Quetelet.

Siamo di fronte alle origini dei due principali indirizzi nello studio del reato: il reato quale

espressione o prodotto della società e il reato espressione o prodotto della costituzione individuale.

Da essi si svilupparono due scuole di pensiero.

Per l’una, lo scopo principale della criminologia era quello di spiegare l’esistenza e le distribuzione

dei reati nella società, e la sua tendenza naturale era quella di considerare i fattori sociali come

prevalentemente importanti.

Per l’altra scuola lo scopo della criminologia consisteva nello scoprire perché alcuni individui

divenissero delinquenti. In questo caso la tendenza era quella di insistere sull’importanza dei

fattori costituzionali.

Sebbene completamente diverse, queste due concezioni furono una risposta a quello che fu il

pensiero liberale, sviluppatosi in seguito al diffondersi dell’illuminismo, ove la visione dei diritti

dell’uomo e dei doveri della società era in aperto conflitto con ciò che i suoi esponenti vedevano

13 Lombroso C., Op. cit. pp. XXXI-XXXII 14 Quetelet L. A. J., Recherches sur le Penchant au Crime aux diffèreents ages, rapporto presenatto alla Accademia Reale Belga delle Scienze (9 Luglio 1831), pubblicato sulle Nouveaux Mèmoires de l’Acadèmie, 1831, vol. VII.

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intorno a se stessi. Il loro punto di partenza era l’appello alla “legge naturale”, ai”diritti naturali”,

all’ eguaglianza naturale così come veniva interpretata dalla voce della ragione.

La scuola classica, che si oppone all’autorità arbitraria della monarchia e della chiesa, che avevano

caratterizzato l’ancient regime, propone un sistema penale basato sul principio del contratto sociale

e caratterizzato dalla chiarezza della legge, dall’eguaglianza dei cittadini, dalla proporzionalità

della pena rispetto ai delitti e da una serie di garanzie a tutela dei diritti dell’individuo. Un sistema

penale di questo tipo deve anche servire, secondo Beccaria, ad esercitare un’azione di prevenzione,

in quanto gli individui, messi di fronte a leggi chiare e giuste, essendo in grado di scegliere

liberamente, più difficilmente dovrebbero compiere azioni criminose.

Come ha mostrato Foucault (1975)15, la nuova concezione dell’uomo e della società, derivante dal

movimento illuministico, ha potato all’abbandono del “barbaro splendore dei supplizi”, per

sostituirvi un sistema razionale, ordinato e gerarchico, da gestire attraverso il carcere.

E’ in quest’ atmosfera, in questo contesto sociale fortemente agitato dalla preoccupazione per il

delitto che i metodi e le conclusioni di Quetelet, pioniere nello studio della distribuzione dei reati

nella società e nella valutazione del suo significato, insieme a Andrè-Michel Guerry, avvocato

francese, spostarono il campo di studio del crimine, staccandosi completamente dalla scuola

classica.

Stava per essere realizzato un modo di interpretare la società e le sue istituzioni che era assai

lontano dalla dottrina liberale della legge e dei diritti naturali.

Guerry sosteneva che “è passato il tempo in cui si poteva pretendere di regolare la società con delle

leggi basate unicamente su teorie metafisiche e su di una sorta di tipo ideale che si riteneva

rispondesse ad una giustizia assoluta. Le leggi non sono fatte per gli uomini presi in astratto, per

l’umanità in generale, ma per uomini reali, posti in condizioni particolari e ben determinate.”16

Tale dichiarazione è la chiave di lettura del passaggio di concezioni a cui ho fatto riferimento

precedentemente; il punto di partenza preso in considerazione, quindi, non è più un immaginario

stato di natura, ma sono i delitti reali, noti in una vera comunità.

I totali annuali dei delitti denunciati, e quello dei tipi principali di reati, rimanevano

fondamentalmente uguali; una simile regolarità diede la concreta possibilità di utilizzare un

approccio scientifico senza il quale non si sarebbe mai giunti ad una comprensione del reato come

fenomeno sociale.

15 Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976. 16 Guerry A. M., Statisque Morale de l’Angleterre comparè avec la Statisque Morale de la France, 1984, p. lvii.

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Ecco allora che da questi fatti sia Quetelet che Guerry fondarono la loro affermazione secondo la

quale il bilancio dei reati si sarebbe potuto calcolare in precedenza e “ogni qual volta, finora, si ha a

che fare con risultati medi riuniti e non con fatti individuali, ogni cosa si mescola insieme, ogni

cosa si mette al passo. Dato un piccolo numero di dati, si può spesso dedurre da essi la maggior

parte degli altri, con una certezza che non è inferiore a quella che si può avere per quanto riguarda

i fenomeni fisici, la direzione media dei venti o i cambiamenti annuali della temperatura.”17

Fui da questa base che essi iniziarono la ricerca delle cause sociali presenti dietro quel fenomeno

sociale veramente importante che è il delitto, studiato e analizzato secondo una concezione

deterministica.

Il metodo non era più deduttivo ma induttivo, ”l’analisi delle statistiche morali” - sosteneva il

Guerry - “non deduce le verità l’una dall’altra, non cerca di scoprire ciò che dovrebbe essere;

afferma ciò che è…Per apprezzare, da un punto di vista morale, i fatti esterni di natura umana18

avvenuti nel tal paese o nell’altro, in un determinato tempo o in un altro, la meditazione non basta:

ci si deve preoccupare di rilevare quei fatti.”19

Ecco allora trovato l’anello di congiunzione tra le due correnti deterministiche l’una di marca

individuale e l’altra di marca sociale.

La scuola di criminologia che ebbe origine dalla dottrina di Lombroso prese il nome di Scuola

Positiva, per dare importanza alla propria adesione ai metodi sperimentale e induttivo, quali quelli

usati nelle scienze naturali e sociali, contro quelli del ragionamento giuridico e deduttivo. Come i

ricercatori statistici e sociali quali Quetelet e Guerry, i positivisti dichiararono di considerare, come

loro punto di partenza, i fatti osservabili; la loro interpretazione dei dati rilevanti li condusse ad

una posizione filosofica simile.

Quale è, dunque, l’approccio che la criminologia deve avere nei confronti di chi, sulla base di fatti,

appunto, di elementi attinti dalla realtà, è considerato deviante, diverso dalla società stessa in cui si

trova sempre e comunque a confrontarsi?

Ecco quindi, che, proprio dallo studio storico dell’evoluzione circa i vari modi di porsi della

criminologia nello studio del crimine si arriva a sostenere come essa stia indubbiamente

attraversando una crisi di identità essendo imprigionata, da una parte, dai fautori di una teoria

compiutamente sociale della devianza, libera e slegata dai vari presupposti biologici e psicologici,

17 Quetelet L. A. J., Phiysique Sociale, 1989, vol. I, p. lix. 18 L’espressione i “fatti esterni di natura umana” comprende un fondamentale concetto sociologico, elaborato più tardi da Durkheim. Vedere in particolare: Durkheim E., Suicide, (edizione del 1952; apparso per la prima volta nel 1987). On the Division of Labour in Society, (edizione del 1933). Professional Ethics and Civic Morals, 1957. The rules of Sociological Method, (ottava edizione, 1958). 19 Guerry A. M., Op. cit., p. xlvi.

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dall’altra, dai sostenitori dell’impostazione clinica ed antropologica, che considerano i fattori

sociali rilevanti soprattutto a livello individuale. Alla criminologia si chiede, quindi, e si impone

uno sforzo di chiarificazione riguardo sia al proprio oggetto sia agli strumenti di indagine.

Di fronte ad una realtà caratterizzata da una dinamica conflittuale sempre più complessa, diventa

necessario l’impegno per una verifica dei rapporti tra la criminologia non solo con il diritto, la

psicologia e la sociologia, ma anche con l’economia politica e la scienza politica. In tale sforzo di

verifica, dunque, il tema della devianza politica, cioè tutte di tutte quelle condotte oggettivamente

e soggettivamente politiche che escono dall’ambito dell’indifferenza sociale, permette all’indagine

criminologica di analizzare sia il momento del passaggio all’atto deviante o criminale da parte del

soggetto, sia la reazione da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica, come aspetti distinti ma

complementari di uno stesso processo sociale, nel quale, ciò che desta maggior preoccupazione,

allarme, paura, terrore è quella particolare forma estrema di devianza politica che è costituita dal

terrorismo. Lo studio del fenomeno del terrorismo permette, quindi, di verificare l’attuale fase di

sviluppo dello studio sulla criminalità, il suo continuo mutamento nella realtà oltre che ad essere di

grande utilità nel tentativo di chiarire il rapporto stesso tra devianza i particolare, intesa come

differenza, l’insieme, cioè, di tutte quelle condotte che in una qualche maniera comportano una

reazione sociale (l’indifferenza sociale è, invece, da equipararsi alla conformità), e criminalità in

generale, comprendente atti e comportamenti passibili di sanzioni giuridiche. Non

necessariamente, infatti, un comportamento di tipo differenziale è anche passibile di sanzioni

giuridiche. Considerando il fenomeno della devianza politica ed in particolare del terrorismo,

quindi, la criminologia deve compiere lo sforzo di sciogliere alcuni nodi rappresentati da quei

parametri che, come ho ampliamente descritto in questo capitolo (studio del reato secondo la

concezione dell’autore del reato considerato come individuo oppure inserito nel gruppo, studio del

crimine attraverso un approccio esclusivamente sociologico, patologizzazione del reo ecc.), ne

hanno caratterizzato la sua evoluzione, hanno rappresentato i suoi vari metodi di studio del

crimine. Ecco allora che, una volta scelta la strada rappresentata dal voler inglobare e non

escludere dalla propria area di indagine la devianza politica, la “criminologia deve fare i conti e

prendere in considerazione la complessità della realtà sociale sottoponendo costantemente a

verifica la legittimità delle norme e dei processi dominanti nella dinamica della

criminalizzazione.”20

20 Fiorentini Gallina P, - Pisapia G. V., Terrorismo e criminalità organizzata: schema per un approccio socio-criminologico, estratto da : “Quaderni” dell’Istituto Superiore Internqazionel di scienze criminali di Siracusa Anno II – vol. I – Marzo 1979.

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“…- la più grande…differenza…fra le persone…è…la qualità…dell’attenzione - .

E dato che la qualità dell’attenzione è una delle poche cose che un essere umano può effettivamente

controllare, allora sarà meglio che la controlli, dico io. Mettete questa frase insieme alla Regola Aurea( non

fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te), e avrete la mia filosofia di vita…e non occorre la religione

per questo.”

Banks R.

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CAPITOLO III

Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la Spiegazione del tipo di metodo utilizzato per lo studio e la

ricerca del terrorismo: un problema di comprensione.ricerca del terrorismo: un problema di comprensione.ricerca del terrorismo: un problema di comprensione.ricerca del terrorismo: un problema di comprensione. “Alcuni non avevano pensieri di vittoria,

Ma erano andati a morire,

Perché lo spirito dell’Irlanda fosse più grande,

E il suo cuore si elevasse in alto.

Eppure, chissà cosa deve ancora accadere”

Yeats W. B.

“Metodi di coercizione e di soppressione sono da sempre

utilizzati nella vita politica…i moderni miti della

politica…non iniziano col demandare o proibire certe

azioni essi si impegnano a cambiare gli uomini, con

l’obiettivo di regolare e controllare le loro azioni.”

Cassirer E., 1955

III.I L’esperienza irlandese come esempio di fenomeno terroristico

I disordini che ebbero inizio in Irlanda del Nord verso la fine degli anni Sessanta colsero di

sorpresa molti osservatori esterni, ed io sono uno di questi.

La causa di tale sconcerto fu il fatto che, non vivendo direttamente sul posto, risultava strano come

il conflitto politico-religioso che occupava sempre più le prime pagine di tutti i giornali, avesse

inizio solo da allora.

La ricerca che ho condotto personalmente, la mia esperienza diretta in Irlanda, invece, hanno

chiarito alcuni punti che trovavo oscuri, non chiari.

Tra tutte la mie incertezze, fin dalle prime letture di testi e di dibattiti tra le mura dell’Università da

una parte e a da gente comune lungo le strade dall’altra, un punto si fece chiaro in me, un punto

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che non ho mai scordato e che costituisce parte fondamentale del filo conduttore di tutta la mia

ricerca: gli anni di violenza e di dolore che l’Irlanda del Nord ha vissuto e che continua a vivere,

sono solamente l’ultimo atto di una storia che risale molto addietro nel tempo.

Alcune persone con le quali ho avuto modo di parlare e di confrontarmi sostenevano che

avventurarsi nella storia irlandese fosse perlomeno pericoloso in quanto, rovistando tra vecchie

contese, si sarebbe potuto correre il rischio di crearne e di suscitarne delle nuove.

A questa osservazione voglio rispondere qui, nella mia tesi, e lo voglio fare riportando le parole di

uno storico irlandese A. G. Richey, secondo il quale “la conoscenza della verità non può mai essere

pericolosa, l’ignoranza sì, e ancor più pericolosa una conoscenza parziale della verità storica,

perché di essa potrebbero servirsi politicanti senza scrupoli per influenzare le passioni delle loro

vittime, traendole in inganno con ricostruzioni distorte del passato.”21

Da dove iniziare, quindi, l’indagine su di un passato che ha portato ad un presente così terribile?

Come ogni persona ha la sua storia, così le cose, costruite dagli uomini, hanno la loro storia.

Come ogni persona ha la sua storia, così ogni paese ed ogni nazione, frutto di ciò che ha creato

l’uomo, ha la sua storia.

All’interno del suo personale libro, ogni pagina scritta appunto dall’uomo e dalle cose da lui create,

ha la sua storia ed è importante come tutte le altre.

Ce ne sono alcune, tuttavia, che vengono conservate nella memoria di chi legge quel libro, vengono

ricordate e studiate, approfondite più di ogni altra.

I motivi sono diversi ed ognuno è comunque meritevole di rispetto, ma quello che mi preme

sottolineare è che ci sono date, fatti, eventi, che più di ogni altro lasciano un marchio indelebile, un

segno profondo, segnando appunto uno spartiacque, un confine tra ciò che prima c’era e ciò che si

produrrà, in conseguenza di quello.

Nella storia dell’Irlanda una di queste cose è la prigione di Dublino, Kilmainham gaol, aperta nel

1796 dopo che, solo dieci anni prima, la Gran giuria della contea di Dublino decise di costruire una

nuova prigione sempre nello stesso posto. Ciò fu conseguenza dell’ondata di critiche sollevate in

Inghilterra ed in Irlanda dal prete inglese John Howard che decise di portare avanti una campagna

contro le condizioni disumane in cui versavano i prigionieri durante il 1700.

Visitando personalmente le prigioni, scrisse dettagliati referti circa le orribili condizioni.

Uno di tali referti del 1786 denunciava appunto la situazione della prigione di Kilmainham,

”estremamente insicura, insalubre cattiva situazione, niente ospedale. Attraverso la finestre i

condannati conversano tranquillamente con i propri conoscenti che gli procurano i mezzi per

21 Citato da Kee R., Storia dell’Irlanda, Bompiani, Milano 2000, VI ed., p. 11.

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fuggire. Liquori sono costantemente serviti ai prigionieri che versano in un permanente stato di

intossicazione.”22

L’influenza di tale prete si fece sentire a tal punto che la costruzione della nuova prigione

procedette rapidamente ed aperta appunto dieci anni dopo nel 1796.

Sebbene costruita sottola spinta di buoni propositi di riforma, la realtà circa il terribile modo in cui

erano trattati i prigionieri smentiva crudelmente l’animo originario di tali principi.

Da quando fu aperta fino al 1860, niente fu fatto per cercare di ovviare a quello che sembrava

essere, tra tanti, il problema principale, il sovraffollamento.

Diverse erano le cause che costringevano i prigionieri a condizioni inumane,ma una su tutte lasciò

un segno indelebile nella storia della prigione stessa ma soprattutto dell’Irlanda.

L’evento a cui mi riferisco è la Grande carestia, ”THE GREAT FAMINE” degli anni 1845-1849.

La coltivazione di patate era la fonte principale di sostentamento dell’intera isola. I viaggiatori che

percorrevano l’Irlanda erano colpiti dall’estrema miseria dei contadini che campavano coltivando

una piccola parcella di terra per la quale pagavano un canone talmente alto che tutto o quasi il

raccolto di cereali doveva essere venduto per far fronte all’affitto.

Le famiglie dei contadini erano quindi costrette a vivere soltanto di patate.

La popolazione era in aumento e la pressione che essa esercitava sulla terra era diventata

insopportabile; un cattivo raccolto avrebbe prodotto conseguenze sociali incalcolabili.

Tali conseguenze si ebbero nel 1845.

L’11 Settembre il Freeman’s Journal pubblicò tale notizia:

MALATTIA DELLE PATATE

“Siamo spiacenti di comunicare che abbiamo ricevuto da diverse fonti ben informate la notizia

che..

..si sono avuti casi di quello che è stato chiamato il “colera” delle patate.

Si è saputo che un contadino che aveva estratto le patate - le migliori che avesse mai visto - in un

campo il lunedì, il giorno dopo nello stesso campo scoprì che le patate erano tutte avariate e

inutilizzabili, sia dagli uomini che dal bestiame.”23

22 Cooke P., A history of Kilmainham gaol, Stationery Office, Government of Ireland, Dublino 1995, p. 7. 23 Riportato da Kee R., Storia dell’Irlanda, Bompiani, Milano 1997, p. 62.

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Durante la terza settimana di ottobre, giunsero da ogni parte d’Irlanda notizie sui pessimi raccolti

di quello che era il prodotto fondamentale per l’alimentazione degli abitanti.

La situazione si faceva particolarmente grave man mano che l’epidemia si diffondeva verso ovest;

le notizie più preoccupanti provenivano dalla conte di Mayo, all’estremità occidentale dell’isola, e

possono essere sintetizzate in quello che un sacerdote di quelle zone scrisse al Freeman’s Journal:

”Mi duole molto informarvi che la carestia sta facendo danni terribili anche alle patate che circa

otto giorni fa erano intatte. Il paese si trova in uno stato deplorevole:la disperazione e lo sconforto

traspaiono da tutti i volti.”

Le testimonianze sulle terribili condizioni in cui si trovava la gente si stavano moltiplicando, ”mi

piange il cuore alla vista di tante vite umane moribonde. Anche se il programma di lavori pubblici

avesse inizio, moltissimi di loro non sarebbero neanche in grado di lavorare, tanto sono debilitati

dalla denutrizione. Ho visto centinaia di donne e bambini vagare nei campi di stoppie alla ricerca

di un vecchio gambo di patata.” - così scrisse un giudice di pace dalla contea di Mayo.24

La testimonianza di Richard Henry, reverendo della stessa contea, nel novembre del 1846 è ancora

più significativa: ”Folle di derelitti affamati che si aggirano intorno alla mia casa mi affliggono e mi

sconvolgono con gli spaventosi racconti della loro miseria…non potevo dar loro alcuna speranza

concreta, le lacrime di sfinimento e di disperazione che vidi sgorgare dagli occhi di uomini maturi

mi diedero la prova dell’intensità delle loro sofferenze. Anche se questa gente ricevesse oggi un

lavoro, temo che la maggior parte di loro non sarebbe in grado di svolgerlo. Le loro forze sono

esaurite, il loro spirito annientato. Ogni giorno di più diventano incapaci di andarsene, languono

nelle loro capanne e muoiono dimenticati e ignorati da tutti.”25

La confusione mentale e lo sfinimento erano la conseguenza della febbre e del tifo, malattie

trasmesse dai pidocchi che stavano ormai dilagando nel paese e presto raggiunsero città

relativamente ben approvvigionate come Belfast e Dublino. Con il diffondersi del tifo le

conseguenze della carestia cominciarono a farsi sentire anche sugli strati più elevati della società e

ormai, ”ogni strada era un lazzaretto che ha per protezione la volta del cielo. Persone di tutte le età

muoiono ovunque e vengono sepolte con difficoltà dopo che i topi si sono accaniti sui loro resti.”

E dei supersiti, di chi riusciva a sopravvivere, che dire, ”la pena, la sofferenza ed una muta

disperazione sembravano essersi impadronite di loro. I loro sensi sono ottenebrati, la loro mente

24 Kee R., Op. cit. p. 71. 25 Kee R., Op. cit. p: 74.

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confusa e le energie paralizzate. La fame li ha talmente prostrati che sembrano fantasmi più che

esseri umani.” 26

Eppure il peggio doveva ancora venire, e così fu.

Nell’ultima settimana di aprile del 1849, nella sola contea di Galway, 226 furono i morti, la

settimana seguente, nel mese di maggio, il totale salì a 490 (“Le strade sono piene di scheletri

ambulanti. I campi sono pieni di morti…”).27

Ecco allora che solo alla luce di tali dati e testimonianze si può arrivare a capire il perché del

sovraffollamento alla prigione di Kilmainham, il perché la gente comune, contadini dediti

esclusivamente al loro umile lavoro, preferissero finire in prigione, commettendo appositamente

reati che gli consentivano di sopravvivere.

In tali condizioni, infatti, la “dieta” della prigione era una lussuria, era vista come un qualche cosa

di meraviglioso, come qualcosa di…”vitale”, necessario, esigenza fisiologica inevitabile, e, come

tale, incontestabile.

Posto di fronte alla morte, l’unica alternativa che io ho, che conosco, che è nelle mie capacità, la

intraprendo, senza esitare, senza rimorsi, senza preoccuparmi delle conseguenze che ne possono

derivare o se sia giusto o meno farlo; lo faccio e basta.

Posto di fronte alla morte, l’unica alternativa che ho è l’aggressione, un atto criminale, lo faccio e

basta, lo metto in atto.

Se un uomo ruba o rapina perché lui e la sua famiglia non hanno nemmeno il minimo

indispensabile nutrimento, aggressione è chiaramente un atto motivato dalla necessità fisiologica.

“I furti si sono moltiplicati” - dichiarò l’Ispettore Generale nel suo rapporto nel 1848 - “perché gli

uomini rubano cibo piuttosto che morire.”

In quegli anni, quindi, durante la Grande Carestia, l’unica alternativa, l’unica possibilità concreta,

reale, che aveva quella gente, per poter sopravvivere, era finire in carcere avendo “un bicchiere di

latte per colazione ed un pezzo di pane con un bicchiere di latte per cena” - secondo i documenti

ufficiali della prigione di Kilmainham.28

Questo è un tipico esempio di quella che Fromm chiama aggressione benigna, in particolar modo,

”aggressione strumentale”, biologicamente adattiva, che ha lo scopo, cioè, di ottenere qualche cosa

di necessario, o di desiderabile. Il suo obiettivo non è la distruzione in quanto tale; questa serve

soltanto come strumento per raggiungere il vero scopo, la sopravvivenza, il pezzo di pane, nel caso

da me preso in considerazione. 26 Kinealy C., This Great Calamity, Dublin 1994. 27 Williams D. Edwards K, The Great Famine, Dublin 1956. 28Cooke P., Op. cit., p. 12.

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La Grande Carestia lasciò nella memoria collettiva un segno tanto profondo come nessun altro

avvenimento nella storia dell’Irlanda.

“La mia attenzione sul keen29 fu attratta per la prima volta nel 1813 dalle seguenti circostanze.

Nell’estate di quell’anno mi recai, con Josep Humphreys…al lago di Gougane Barra, nella parte

occidentale della contea di Cork. Scopo della nostra breve escursione era di assistere a quello che

chiamano Pattern, che si svolge la vigilia di San Giovanni, quando molte migliaia di persone della

classe contadina si riunivano lì per tradizione, con intenti di pietà e divertimento, di penitenza e

trasgressione. Questa commissione di scopi può suonare strampalata a orecchio inglese, e tuttavia,

descrive con precisione questa e riunioni analoghe in Irlanda…

Quando calò la notte, la tenda s’era riempita all’inverosimile…e un uomo che, come seppi, aveva

prestato servizio nella milizia di Kerry ed era stato frustato a Tralee circa cinque anni prima, perché

facente parte dei White Boys,30 iniziò ad assumere un ruolo preminente nell’intrattenere

l’assemblea,cantando canzoni irlandesi con voce alta e piena. Alla fine di una di queste canzoni,

un’anziana donna, che era nativa di Bantry, mi disse: ”Bene, se Dio è giusto e buono con noi,

potremo vivere fino a vedere la fine di quel cospiratore di Moriarty e delle sue canzoni ribelli,

come è successo per quel povero giovane, Flory Sullivan”…Un’altra vecchia, che sedeva accanto a

noi,confermava tutto questo con cenni di assenso, guardandomi e assentendo in modo in modo

espressivo…e poi iniziò a recitare, o piuttosto a mormorare, con una modulazione monotona, una

dozzina di strofe irlandesi, battendo le mani e dondolando il corpo avanti e indietro tra una strofa

e l’altra. Chiesi all’anziana traduttrice di spiegarmi il senso di ciò che la vecchia diceva. Mi disse

che si trattava di una lamentazione funebre, che la madre di Flory Sullivan aveva composto per lui;

e sotto la sua dettatura annotai sul mio taccuino la traduzione di tre di quelle strofe, che ora riporto

fedelmente:

Freddo e silenzioso è il tuo letto; umida è la rugiada benedetta della notte;

ma il sole del mattino, caldo e tiepido asciugherà la rugiada.

E il tuo cuore non sente il calore del sole mattutino:

mai più l’impronta del tuo passo segnerà la brina del mattino, sui monti Ivrea, dove cacciavi volpi

e lepri, primo tra i giovani.

29 Keen (compianto o lamentazione funebre) è il termine inglese per l’irlandese caoìne. 30 I White Boys erano una di quelle società segrete, o gruppi organizzati di ribelli, sostenuti economicamente dalla Francia, che ebbero un ruolo fondamentale nella Grande Ribellione, ma furono miseramente sconfitti, pur se non annientati, dagli inglesi.

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Freddo e silenzioso è il tuo letto.

Eri il mio sole. Ed io ti amavo più del sole stesso.

Quando il sole tramonta ad occidente, penso a mio figlio

e alla notte tetra di dolore.

Come il sole nascente, aveva un raggio rosso sulle guance.

Splendeva come il sole a mezzogiorno;

ma venne oscura una tempesta ed il mio sole

fu perso a me per sempre. Il mio sole non sorgerà mai più.

Freddo e silenzioso è il tuo letto.

Linfa del mio cuore. Tenevo a questo mondo

Soltanto per amore di mio figlio. Ed era coraggioso e generoso.

Animo nobile, amato da signori e da straccioni. Bianca la pelle.

Ma perché dire quel che tutti sanno? Quel che non potrà essere mai più?

E’ morto. Perso a me per sempre.

Freddo e silenzioso è il suo riposo.

Con queste parole Thomas Crofton Croker, che ancora non conosceva l’irlandese, descrive il suo

primo sconvolgente incontro diretto con la cultura e la lingua gaeliche, incontro legato ad un

avvenimento che si svolse il 23 giugno 1813 al lago di Gougane, nella contea di Cork.31

Seguendo una tradizione antichissima, ogni anno in quel giorno, migliaia di persone si riunivano

in quel posto per un Pattern, il pellegrinaggio alla sorgente sacra, così era chiamato.

Le acque di questa sorgente, che si trova sull’isoletta del lago, dove Finnbarr, il fondatore della città

aveva stabilito il suo eremo, venivano e vengono considerate miracolose.

Il Pattern aveva un’origine pagana e celebrava il raccolto, la crescita, gli dei della terra, e solo dopo

avervi partecipato personalmente Croker focalizzò l’attenzione sul folklore irlandese, diventando il

pioniere degli studi folkloristici nelle Isole Britanniche.

Le “Researches”,32 lavoro a cui si dedicò per diversi anni, è un’opera di fusione tra un diario di

viaggio ed una descrizione antiquaria e folkloristica. Una sorta di viaggio sperimentale dotato di

31 Croker T. C., The Keen of the South of Ireland, London, 1884, pp. XVIII-XXI. 32 Croker T. C., Researches in the South of Ireland, Illustrative of the Scenery, Architectural Remains, and the Manners and Superstitions of the Peasantry, London 1824.

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grande originalità dove le ricche descrizioni sono spesso intervallate da qualche dialogo con i

nativi dando così un tono di ironia tipicamente irlandese.

L’unico suo intento era quello di svelare l’Irlanda in tutti i suoi aspetti, in tutta la sua sfaccettata

realtà, offrire un panorama più vasto e stratificato di questa terra così diversa e lontana, eppur

geograficamente vicina, rispetto all’Inghilterra alla quale era legato, essendo i suoi genitori

britannici.

Il rifiuto prevenuto a voler comprendere è frutto dell’ignoranza e solo dissolvendo l’ignoranza si

può arrivare a dissipare il rifiuto.

L’unico e solo modo che lui aveva di dissipare tale ignoranza era quello di compiere ricerche, di

imparare e soprattutto di informare.

Nessuno prima di lui aveva tentano un lavoro così sistematico e originale sulla cultura irlandese

tradizionale; nessuno si era avventurato nel campo minato di una visione diversa, attenta,

comprensiva della realtà irlandese, una dimensione mistica, spirituale che non ha rivali,

letteralmente imbevuta di soprannaturale che si tramandava oralmente.

La tradizione orale, la cui nobiltà non aveva niente da invidiare alla cultura codificata della

scrittura, era un aspetto fondamentale della civiltà contadina, il racconto orale di fate, di ogni corso

d’acqua, di ogni pietra era semplicemente l’anima stessa dei loro antenati, i Celti.

Questo era quello che Croker aveva capito e che riteneva dovesse essere considerato con maggiore

attenzione.

Era quella umile classe contadina, quella classe sociale che più di ogni altra conservava l’identità

della cultura celtica, cultura dove l’unico mezzo di trasmissione della conoscenza era quello orale

non tanto perché la scrittura vi fosse proibita o sconosciuta ma perchè i druidi, depositari di quella

conoscenza, ritenevano che solo il suo continuo rinnovarsi attraverso la parola parlata la rendesse

eternamente viva senza mai congelarla e uccisa.

Era quella umile classe contadina, quella classe sociale che rappresentava l’Irlanda, il suddito

popolo infelice.

Crocker, quindi, si muove in una prospettiva diversa. Le sue storie, raccolte nelle campagne, da lui

personalmente e da altri, ma sempre dalla viva voce di una fonte originale, mantengono intatta la

presenza della gente che le ha narrate. Nascosti tra questi racconti ricchi di mito, leggenda, fiabe e

tradizioni, affiorano anche la miseria della gente, la cruda lotta per l’esistenza, la fame, la povertà,

lo sfruttamento dei proprietari terrieri.

Sebbene egli neghi che il suo lavoro possa prestarsi ad una qualsivoglia lettura politica, la sua

attenzione per la miserevole condizione delle classi inferiori è evidente.

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Egli non voleva inimicarsi l’etsablishmemt che lo circondava, i circoli esclusivi tra i quali si

muoveva, avendo assunto sempre più una posizione di rilievo tra i suoi amici politici potenti,

artisti di grido ed letterati illustri.

Eppure, sotto il tono lieve e giocoso, ma soprattutto ironico che accompagna i suoi racconti, emerge

forte e prepotente quell’aspetto atroce e crude della realtà, fatta di desolazione e di povertà; come

non coglierlo ne “La cena del prete”, dove, tutto ciò che una giovane coppia si sposini può offire al

ministro di Dio è solo una grossa patata bollita che spariranno in tre: ”non c’è bisogno di dire che

padre Horrigan era ospite gradito dovunque si recasse, perché non c’era persona più pia o più

amata in tutto il paese.

Ora, Dermond era molto dispiaciuto di non aver nulla da offrire per cena a Sua Reverenza per

accompagnare le patate che la vecchia, come Dermond chiamava sua moglie, benché non avesse

più di vent’anni, aveva messo a bollire nella pignatta sul fuoco…”33

Crocker, quindi, ben comprende che nella tradizione orale della classe contadina si radica l’identità

culturale d’Irlanda e tanto più prezioso, quindi, è il documento che ci lascia, se si pensa che la

spaventosa tragedia della Grande Carestia e delle successive emigrazioni di massa, devastarono

soprattutto quella “parte importante” dei suoi compatrioti, una parte che l’autore fu il primo a

tenere nella dovuta considerazione e rispetto.

Ecco allora che fu il primo a comprendere quanto importante fosse diffondere la conoscenza della

culture irlandese tra gli inglesi ed in generale tra gli europei. Avverte più di ogni altro la necessità

di indicare quali potrebbero essere i pericoli risultanti dal persistere di una politica colonialista

ormai adottata come un dato di fatto. Se una soluzione al problema irlandese si vorrà mai trovare,

la risposta sta nella diffusione della conoscenza, da entrambe le parti;

da parte degli inglesi, conoscere in modo più profondo e completo la cultura irlandese non potrà

che portare ad una maggiore comprensione, mettendo in grado “i dominatori di stendere la mano

ai loro infelici sudditi”;

da parte degli irlandesi, eliminare le vecchie superstizioni, tanto che per cercare di spiegare il

terribile flagello della carestia venivano avanzate le ipotesi più disparate quali il gelo, i venti

dell’est, a luna, il guano usato come concime, persino l’elettricità prodotta dai temporali estivi,

proietterebbe la luce di un moderno sviluppo sociale ed economico, permettendo un dialogo più

sereno con la controparte.

33 Croker T. C., Racconti di fate e tradizioni irlandesi, Edizione Mondatori, Milano, su licenza Neri Pozza Editore, Vicenza 1999, p. 35.

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Come il lettore inglese, in fondo, mostrava ancora una visione confusa e parziale dell’Irlanda e dei

suoi abitanti considerati non più che degli “straccioni facinorosi”, così, ma ancor più grave, priva

di qualunque comprensione della realtà sociale irlandese e delle necessità di tale popolo fu la vera

e propria politica criminale che adottò il governo britannico durante quella che ancora oggi, come

ho già avuto modo di sottolineare, pesa come un’ombra angosciosa sull’inconscio collettivo di ogni

irlandese, ”…a quanti come me, sono all’oscuro dei misteri della politica, appare ben strano che per

far fronte alla calamità, alcune buone strade pubbliche siano state sconvolte e rese impraticabili con

enormi spese e che si sia dato inizio a lavori per costruire nuove e costose strade, prevedibilmente

inutili, in una stagione dell’anno molto poco adatta a questo genere di lavori.”

Nell’ottobre del 1846 una domenica mattina, lungo una strada appena fuori Slibbereen, venne

rinvenuto il corpo di uno dei lavoratori impegnati nei lavori stradali; secondo la perizia legale,

l’uomo era morto ”per mancanza di un’alimentazione adeguata durante molti giorni precedenti il

decesso, e tale mancanza è da attribuirsi al fatto che non aveva ricevuto alcun compenso per il suo

lavoro negli otto giorni prima della morte.”

Nelle settimane successive sarebbero morte migliaia di persone nelle sue condizioni ed il parroco

della contea di Mayo così scrisse:

”…i pubblici amministratori…lontani come sono da queste strazianti scene di disperazione,non

possono avere idea e del resto non sembrano preoccuparsene molto. Io chiedo loro, nel nome

dell’umanità, quando si farà qualcosa e chi sono i responsabili per queste mostruose malvagità?”

Interessante, in questa situazione di grave crisi e disperazione è la versione fornita da due tastate

giornalistiche rappresentanti delle due parti; il 2 novembre 1846 il Cork Examiner espresse

chiaramente la sua opinione: ”Si parla tanto della potenza dell’Inghilterra, della sua marina, del

suo oro, delle sue risorse e, naturalmente, dei suoi illuminati statisti. Il fatto però è che l’Inghilterra

non è neppure in grado di impedire che i propri figli muoiano di fame. Forse il punto è che gli

irlandesi non possono aspirare al grande onore di appartenere alla vasta famiglia dell’Impero,

forse sono stranieri. Tuttavia, quando la regina al momento dell’incoronazione ha giurato di

proteggere e difendere i suoi sudditi, non mi sembra sia stata fatta un’eccezione per l’Irlanda.

Come può accadere che sudditi britannici muoiano di fame finchè vi è un solo penny nelle casse

del Tesoro o un solo gioiello nel tesoro della Corona?”

Naturalmente tale fatto suscitò delle proteste al quale il Times diede questa risposta: ”Questo il

ringraziamento che il governo riceve per il suo tentativo di porre un rimedio a queste grandi

sofferenze e di venire in contro alle richieste con una beneficenza inevitabile quanto

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finanziariamente rovinosa…E’ una nostra vecchia conoscenza una vecchia malattia che torna a

manifestarsi:il carattere nazionale irlandese, la sua spensieratezza, la sua indolenza.”34

Gli inglesi trattarono i poveri contadini irlandesi senza alcuna minima comprensione, non

provando alcuna forma di compassione, la più alta della atrocità, poiché sinonimo di indifferenza,

di non alcuna minima considerazione. L’unica cosa a cui pensava il governo inglese era agire

secondo una politica improntata esclusivamente su alcuni principi immutabili, principi verso i

quali si doveva prestare fede assoluta e sincera.

Tali valori dominanti non erano certo la carità e la generosità disinteressata verso i poveri e i

bisognosi, secondo quello che il cristianesimo proponeva.

I valori dominanti erano quelli di un’altra religione, quella dell’”economia politica”, secondo la

quale si sarebbe dovuto interferire il meno possibile con le forze del mercato, che agivano

attraverso le regole della domanda e dell’offerta, perché, se si fosse interferito, si sarebbe ostacolato

il naturale afflusso dell’offerta verso la domanda. Questo fu ciò che fece il governo inglese, e lo fece

attraverso l’allora ministro del Tesoro Charles Trevelyan, un funzionario che aveva l’incarico

ufficiale di dirigere le misure di soccorso e che in tale funzione aveva poteri quasi dittatoriali,

secondo il quale, implacabilmente, ”non è nostra intenzione interferire nelle normali importazioni

di mais o di altre granaglie in Irlanda.” Tutto, quindi, era lasciato al libero gioco delle forze del

mercato ma soprattutto al concetto che dell’Irlanda avevano i britannici, un concetto intriso di

pregiudizio e superficiale, se non inesistente, conoscenza della loro realtà; un’idea che portava

all’inevitabile conseguenza di considerare l’Irlanda come un fardello che avrebbe pesato per anni

sulla Gran Bretagna!!!

La primitiva società gaelico-irlandese non conobbe nessuna forma di organizzazione politica

centralizzata di derivazione romana, rimase, quindi, quello che era sempre stata, una congerie di

regni tribali più o meno grandi che si dedicavano all’agricoltura, alle razzie e combattersi l’in l’altro

per il bestiame e la terra, dando vita ad occasionali alleanze. Nonostante la frammentazione

politica e la guerra endemica, queste genti condividevano una lingua comune, un comune codice

di leggi, la Brehon Law, una comune tradizione di poesia orale e di musica, una storia comune che

sfumava nella leggenda. A Baginbun, sull’estremità sud-occidentale della contea di Wexford, nel

1170, nel mese di maggio, un piccolo esercito di normanni, provenienti dal Galles, sbarcò, quasi per

caso, ma non per caso cominciarono a costruire un ampio terrapieno in modo da bloccare l’istmo

della penisola che divenne quindi una testa di ponte. Con se, essi portarono anche la loro

superiorità bellica, fatta di cavalieri in armatura ed arceri, allora sconosciuta in Irlanda, dove si

34 I testi dei giornali sono riportati da Woodham-Smith, The Great Hunger, 1970.

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usavano solamente fionde con proiettili di pietra; grazie a tale superiorità militare, i Normanni

penetrarono in tutta l’isola, salvo l’Ulster centro-occidentale; si allearono con alcuni dei capi gaelici,

strapparono ad altri terre e bestiame, costruirono grandi castelli per proteggere il loro bottino.

Anche se formalmente erano sudditi del re d’Inghilterra, essi perseguivano i loro interessi,

unicamente costituiti da terra e ricchezza.; ma lo federo con astuzia, con intelligenza, inserendosi

nella tradizionale politica, anarchica e bellicosa, delle tribù gaeliche, così come i loro castelli

entrarono a far parte del paesaggio. Anche i nuovi invasori, alla fine, contrassero matrimoni misti,

dimenticarono il francese per l’irlandese, adottarono le leggi ed i costumi dell’isola divenendo così

“più irlandesi degli irlandesi”. Sulla situazione dell’Irlanda al momento dell’ascesa al trono di

Enrico VIII, circa tre secoli e mezzo dopo l’invasione normanna, si hanno informazioni precise e

dettagliate grazie ad un resoconto ufficiale del 1515 che così recita: ”Vi sono più di sessanta contee

chiamate regioni abitate dai nemici irlandesi del Re, dove regnano più di sessanta capi, alcuni dei

quali si fanno chiamare re, altri principi, altri duchi, altri ancora arciduchi, i quali vivono solo con

la spada e non obbediscono ad alcun potere temporale…e ognuno di questi capi decide da solo

della e della pace…Vi sono anche trenta capi di origine inglese che vivono allo stesso modo degli

irlandesi…e ognuno di loro è arbitro della guerra e della pace, senza richiedere alcun permesso al

Re…”35

Nel 1534, Enrico VIII decise di mettere fine a quella situazione, introducendo quella che, almeno

sulla carta, era un’importante novità, tutti i signori irlandesi, fossero di origine gaelica o inglese,

avrebbero dovuto consegnare le loro terre alla Corona, che le avrebbe restituite in forma di

beneficio; venne quindi sancito indiscutibilmente il dominio della Corona su di esse. La figlia di

Enrico VIII, Elisabetta I, rese effettiva questa pretesa con spietata energia: ”Desideriamo che

quando se ne offra la possibilità voi cerchiate di condurre quella barbara e rozza nazione alla civiltà

con le buone maniere e senza ricorrere all’uso della forza e allo spargimento di sangue; tuttavia,

quando le circostanze lo impongano, dovete piegare con la forza coloro che non possono essere

persuasi con la ragione.” La rinnovata intransigenza del governo inglese prese di mira anche gli usi

ed i costumi degli irlandesi, ”popolo più incivile, sporco e barbaro in ogni usanza e

comportamento che esista sulla faccia della terra”, secondo lo scritto di un osservatore inglese di

quel tempo. L’imposizione della legge inglese venne quindi presentata sopratutto come una sorte

di missione civilizzatrice, un’imposizione che gli ufficiali di Elisabetta misero in pratica con una

ferocia senza precedenti, tanto che James Croft, ex funzionario Tudor denunciò “capitani e soldati

che avevano ucciso e massacrato sia i combattenti che gli inermi, anche il contadino che non aveva

35 Kee R. Op. cit. p. 20.

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mai portato un’arma, senza badare nella loro crudeltà all’età, dal fanciullo nella culla al

vegliardo…” Del comportamento e delle modalità di attuazione di tale “lecita” missione,

estremamente interessante risulta essere la testimonianza che un contemporaneo lasciò di un regio

rappresentante, sir Humphrey Gilbert, il quale aveva il “costume che le teste di coloro che erano

stati uccisi quel giorno venissero tagliate e portate al suo campo e collocate lungo la strada che

portava alla sua tenda, affinché chiunque si recasse da lui per qualsiasi motivo dovesse passare

attraverso un sentiero di teste, che egli usava per incutere terrore. E in realtà il terrore della gente fu

grande quando videro le teste dei loro padri, fratelli, figli, parenti e amici davanti a loro, sul

terreno.”

La politica del terrore era dunque quella adottata dal governo britannico, una politica secondo la

quale “un paese barbaro deve essere prima spezzato con la guerra per poter essere poi ben

governato.”

Questa era l’opinione prevalente, e di fatto quei sistemi si rivelarono efficaci, raggiunsero il loro

scopo, alla fine del regno di Elisabetta, per la prima volta, l’Irlanda si trovava sotto l’effettivo

controllo del governo inglese che aveva vinto, aveva vinto “una guerra” - secondo quanto, nel 1570,

dichiarò il conte di Leicester, - “lenta, cioè con moderazione, può andare bene solo quando si tratta

di uomini civili, ma questi selvaggi e questi furfanti di campagna possono essere domati solo con la

forza e con la paura…”36

La Grande Carestia, in fondo, fu una buona occasione, e ben sfruttata, di liberarsi di quei

“selvaggi” per i quali il governo di Sua Maestà Britannica, la Regina Vittoria, non provava alcun

tipo né forma di compassione: “L’unico buon irlandese è un irlandese morto”.37

Morte, guerra, terrore, che relazione c’è tra tutte queste parole, cosa rappresentano?

Sono tutti sinonimi del più generale fenomeno terroristico o ne costituiscono l’essenza?

Il terrorismo come può, quindi, essere definito, quali sono i criteri che ci permettono di formularne

una definizione completa?

Vi è poi un’altra domanda alla quale vorrei tentare di rispondere nel corso della mia ricerca,

partendo sempre e comunque dalla storia, come ho appena dimostrato, partendo sempre e

comunque da fatti reali e concreti:

Si può definire il terrorismo? E’ possibile formulare una definizione assoluta che abbia una certa

validità anche dal punto di vista legale?

36 Per tutte le citazioni da me fatte riguardo alla Grande Carestia si veda Kee R. Storia dell’Irlanda, Bompiani, Milano 2000. pp. 60-84. 37 Citato da Diano F., “Saggio Critico”, in Crocker T. C., Op. cit. p. 247.

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III.II Il fenomeno terroristico attraverso lo studio della sua definizione

Una definizione è essenzialmente un’equazione, esprime ciò che una parola significa, come deve

essere intesa in una certa maniera, in un determinato modo.

Tuttavia, riguardo al concetto di terrorismo ci sono alcuni fattori che rendono più complicata tale

equazione.

Mi riferisco alla sua natura emotiva, al suo aspetto soggettivo ed alle sue implicazioni politiche;

proprio come altri termini politici, è la sua spinta ed il suo intrinseco connotato peggiorativo che lo

caratterizzano.

Piuttosto che essere considerato come una applicazione di una tecnica particolare di violenza, che,

in linea di principio può essere usata da chiunque in ogni sorta di situazione di conflitto, il termine

in sé ed il concetto che ne è rappresentato deve essere collegato a certi tipi di autori e solo per certi

tipi di conflitti.

Non può essere generalizzato, non può essere etichettato e definito con assoluta razionalità o,

meglio, presuntuosa obiettività. Deve, per forza di cose, essere preso in considerazione il suo

carattere di relatività, una relatività tipica, comunque, di ogni tipo di crimine.

Ciò è chiaramente dimostrato dal fatto che per qualificare il concetto di terrorismo sono usati, nella

maggior parte dei casi, se non addirittura ogni volta, degli aggettivi.

Tali aggettivi, quali ”spesso”, ”generalmente”, ”di solito”, ”principalmente”, ”essenzialmente”,

hanno, però, un significato ben preciso.

Essi, infatti, connotano il punto di vista, seguono il personale parere di chi li pronuncia nel

decidere quando un atto è o no “terroristico”.

Una definizione operativa del fenomeno appare quindi un’ardua se non addirittura impossibile

impresa.

Su questa linea, infatti, le difficoltà teoriche e pratiche sono numerosissime, almeno altrettanto

numerose quanto le definizioni disponibili, nessuna delle quali, tuttavia, sembra attagliarsi al

fenomeno così come esso si manifesta.

Dalla definizione più complessa adottata anche in passato, quale potrebbe essere quella di G.

Pontara,38 a quella più semplice e anche più cinica, secondo la quale”è terrorismo solo ciò che fanno

gli altri e mai ciò che facciamo noi o lo Stato”, nessuna soddisfa in pieno né i criteri descrittivi, né

quelli prescrittivi, che una perfetta definizione dovrebbe avere, dovrebbe perlomeno poter

soddisfare.

38 Pontara G., “Violenza e terrorismo: il problema della definizione e della giustificazione”, in Dimensioni del Terrorismo politico, a cura di Bonante L., Franco Angeli Editore, Milano 1979.

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Da un punto di vista descrittivo, infatti, è difficile immaginare una definizione che tenga conto di

tutti gli elementi caratterizzanti il fenomeno, che di volta in volta sono stati enfatizzati dai vari

autori: pensiamo all’aspetto spettacolare, per esempio, a quello organizzativo-strutturale, a quello

psicologico-motivazionale, o a quello storico-sociologico.

Una definizione siffatta sarebbe, in realtà, una voce enciclopedica forse completa, ma priva di quei

caratteri di adeguatezza normativa, teorica e descrittiva, di economia, specificità e previsione sui

quali si fonda l’utilità delle definizioni stesse.

Su un piano diverso, ma altrettanto sdrucciolevole per le difficoltà che presenta, ci si rende conto

che una definizione di terrorismo non può trascurare nè gli elementi etici né quelli semantici.

I primi, infatti, trascendono l’uso ed il valore politico del fenomeno ed investono invece il valore

morale della scelta del terrorismo quale atto politico, prescindendo dalla logica che lo ispira.

Gli elementi meta-semantici, dall’altro canto, trascendono il valore di significato dei termini,

estendendosi alle complesse modificazioni che il terrorismo sembra indurre nelle società in cui si

manifesta.

Una delle principali ragioni delle diverse difficoltà di definire il terrorismo, quindi, si nasconde

dietro il fatto di volerlo rappresentare servendosi di categorie normative che si riferiscono a

modelli della realtà finalizzati alla regolazione ed al controllo della vita socializzata, mentre questo

fenomeno affonda le sue radici direttamente nella realtà naturale della vita dell’uomo.

Come sostiene il Ferracuti, si potrebbe teoricamente sostenere “che il terrorismo sia nato ancor

prima della criminalità”. Mentre, infatti, per l’esistenza di un comportamento criminale è

necessaria una norma che in qualche modo definisca ciò che è legale e ciò che non lo è, perché si

manifesti il terrore non è certo necessaria l’esistenza di alcuna norma, anzi è proprio sulla capacità

di incutere terrore che si fonda il potere come una delle condizioni della sovranità da cui a sua

volta promana la legge.

Ecco allora che “mentre la legalità può essere considerata solo un ‘attributo della sovranità’’, il

terrore ne è una condizione. Anche la legittimità che è fonte non del potere, ma dell’autorità, e

riflette la vitalità del consenso di base, non è altro che l’accettazione consensuale di un prior che il

terrore stesso ha contribuito a costituire.”39

In un ultima analisi, la relatività e la natura ex-post-facto del terrorismo lo rendono indefinibile.

39 Ferracuti F., Aspetti socio- psichiatrici del terrorismo, in Ferracuti F., Trattato di criminologia medicina criminologia e psichiatria forense, vol. 9, Giuffrè, Milano 1988.

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Le definizioni del terrorismo, e gli studi, descrittivi o storici, del fenomeno sono numerosi e sono

stati fatti molti tentativi di presentare prescrizioni per una prevenzione, un controllo ed una

gestione del fenomeno.

Molto frequenti sono, invece, i tentativi di spiegare la nascita del terrorismo come fenomeno di

gruppo, o il processo attraverso il quale il singolo diventa terrorista.

Ebbene, nessuna singola teoria esplicativa è finora emersa, e le varie ipotesi che sono state proposte

attendono ancora analisi e conferma scientifica.

Ecco allora che l’approccio con il quale cerco di trattare il terrorismo prende in considerazione i

principali studi esistenti tenendo conto, soprattutto, delle esperienze negative che criminologi e

psichiatri hanno incontrato quando hanno tentato di raggiungere livelli scientificamente accettabili

di spiegazione teorica dei fenomeni della devianza.

La criminologia si è sviluppata utilizzando i metodi di ricerca delle altre scienza dell’uomo, specie

della psicologia, della psichiatria, della sociologia e del diritto, ma anche di storia, economia,

psicoanalisi, genetica, scienza politica, con un varietà di approcci che dimostra come non esista una

scienza dell’uomo che non possa fornire un contributo allo studio del crimine.

Di volta in volta, medici, psichiatri, sociologi e giuristi si sono applicati allo studio scientifico del

crimine utilizzando il quadro di riferimento appartenente alla loro scienza, attraverso griglie di

lettura influenzate da specifiche esigenze professionali. D’altra parte, nessuna disciplina ha mai

avuto il monopolio assoluto della ricerca criminologia e, nonostante il prevalere dell’una o

dell’altra, tutte sono rimaste sulla scena scientifica, attraverso la presenza di cultori appassionati e

di centri di ricerca specializzati.

Molti criminologi, quindi, riflettendo sui limiti di questi sviluppi della materia, hanno

recentemente riproposto l’antica formula della inter-disciplinarità, e cioè della contemporanea e

integrata utilizzazione delle diverse scienze dell’uomo.

Il metodo interdisciplinare ha connotato il pensiero criminologico fin dalle sue origini, fin da

quando, cioè, Lombroso, il cui approccio deterministico abbiamo visto essere di notevole

importanza, inserì alcuni elementi di tipo psicologico, sociologico e culturale nelle sue

teorizzazioni.

Successivamente, la contemporanea presenza delle numerose discipline della criminologia ha fatto

sì che tutti i criminologi pur appartenendo a diversi orientamenti (psichiatri, psicologi, giuristi,

sociologi, ecc.) abbiano sviluppato una particolare attenzione all’intera gamma delle scienze

dell’uomo; si è così sviluppata una particolare sensibilità ed attenzione ai diversi metodo scientifici,

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con sensibile aumento delle conoscenze reciproche e con relativa accettazione delle diverse

prospettive.

Questo atteggiamento ha favorito la formulazione di proposte finalizzate alla costituzione di una

organica ed autonoma “criminologia interdisciplinare”, fondata sulla sistematica utilizzazione

delle diverse discipline, capace di “studiare il comportamento antisociale allo scopo di conoscere le

sue cause (ricerca fondamentale) e di realizzare adeguati programmi di prevenzione e di

trattamento (ricerca applicata).”

In questa direzione tracciata da Canepa40 sono orientati anche Ferracuti e Wolfang,41 i quali

sostengono la necessità di una “fusione”tra le diverse discipline, fusione che dovrebbe riguardare

sia la formulazione delle ipotesi di ricerca, sia gli approcci teorici, sia la metodologia, sia la

operatività dell’equipe dei ricercatori.

Ecco allora che, nel corso del suo sviluppo, la criminologia si è fortemente caratterizzata per la

contrapposizione di concezioni radicalmente diverse circa le cause ed il significato dei reati e circa

il tipo di risposta sociale necessaria per prevenire e trattare la delinquenza.

Ad una visione magica e sovrannaturale, che considera il reato come espressione di forza o

tendenze incontrollabili, si è opposta una concezione razionale, che considera l’uomo come

soggetto capace di scelte responsabili. Ad una prospettiva che considera il delinquente come

espressione patologica di anomalie, problemi o conflitti, e la delinquenza come un “sintomo” da

curare, si contrappone una prospettiva che considera il delinquente come un soggetto del tutto

normale ed il reato come un evento regolato dagli stessi meccanismi psichici che sottostanno ad

ogni altro tipo di comportamento.

Ad un indirizzo che pone l’individuo al centro di ogni riflessione e che ricerca le cause del delitto

in fattori relativi alla predisposizione individuale, alla storia personale, ai conflitti intrapsichici, si

oppone un orientamento che attribuisce fondamentale importanza all’ambiente, all’organizzazione

sociale, alla struttura culturale, interpretando il reato come il risultato di spinte e determinanti che

sovrastano le dinamiche individuali.

A seconda, quindi, dell’affermarsi di questi diversi parametri di interpretazione, e cioè delle

modalità di affrontare, definire e concepire il problema dell’uomo di fronte alla norma penale, i

contenuti ed i metodi della scienza criminologia si sono evoluti in modo differenziato.

Nonostante ciò, per molti anni la moderna criminologia si è sviluppata attorno ad un paradigma

prevalentemente eziologico, caratterizzato dalla ricerca delle cause dell’atto delinquenziale

40 Canepa G., Personalità e delinquenza, Giuffrè, Milano 1974. 41 Ferracuti F, Wolfgang M., Il comportamento violento, Giuffrè, Milano 1966.

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(considerato some un evento ben definibile e ben differenziabile dai comportamenti non

delinquenziali), mentre solo recentemente questo modello è stato contrastato dall’affermarsi di

nuovi approcci teorici, che hanno introdotto una visione maggiormente complessa e problematica

della criminalità.

In un suo fondamentale scritto, Robert (1973)42 sostiene che il più rilevante mutamento di

paradigma verificatosi in criminologia in questi ultimi anni è rappresentato dallo sviluppo e dalla

diffusione delle teorie della reazione sociale. In opposizione alle teorie del passaggio all’atto, negli

anni settanta, infatti, ad una criminologia eziologia, appunto, finalizzata a comprendere le cause

dell’atto criminale, in relazione a specifici condizionamenti, biologici, psicologici o sociali, si è

aggiunta una criminologia della reazione sociale, orientata verso lo studio dell’azione criminogena

delle istituzioni di controllo sociale, delle prassi di discriminazione messe in atto dal sistema della

giustizia e dei conseguenti processi di progressivo coinvolgimento nel crimine.

Attraverso questo nuovo approccio, dunque, l’oggettività e la neutralità delle nozioni di crimine e

di delinquente sono state contestate ed è stata introdotta una visione più relativistica del problema.

Al termine “delinquenza”si è affiancato il termine “devianza”, allo scopo di ampliare il campo di

analisi dalla semplice violazione delle norme giuridiche alla violazione di tutte le norme che

regolano la vita collettiva, comprese le norme culturali; questi nuovi approcci teorici e questo

tentativo di ampliamento del campo hanno rappresentato un momento evolutivo particolarmente

importante, che ha largamente condizionato l’atteggiamento, le convinzioni, la prassi operativa dei

criminologi; si è aggiunto, quindi, un nuovo dibattito, oltre ai tradizionali, che hanno visto opporsi

i fautori delle diverse teorie criminologiche, si è aggiunto un nuovo contrasto, che mette in gioco

l’oggetto stesso della criminologia.

Le nuove teorie della reazione sociale, infatti, partono dalla premessa che le norme e la loro

applicazione non costituiscono una realtà oggettiva e neutrale, ma configurano un sistema di

controllo culturalmente e socialmente determinato. Queste teorizzazioni non si pongono più

l’obiettivo di comprendere perché gli individui violino le norme, ma tentano di comprendere i

meccanismi attraverso i quali la delinquenza viene definita, prodotta, utilizzata.

I nuovi teorici rifiutano, inoltre, una netta separazione tra delinquenti e non delinquenti.

La delinquenza è vista come un processo di progressivo coinvolgimento ed è considerata come un

comportamento ampliamente diffuso,non limitato a quella categoria di trasgressori che la società

42 Rpbert Ph., La sociologie entre une criminologie de passage à l’acte et une criminologie de la rèaction sociale, Annèe Sociologique 1973, citato da Bandini T., Gatti U., Marugo M., Verde A., Criminologia, Giuffrè, Milano 1991, p. 15.

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identifica e punisce, isolando all’interno della collettività, diffusamente permeata di conformismo e

di deviazione, un gruppo ristretto di individui che si vogliono diversi, malvagi pericolosi.

Alla luce di tali considerazioni sono stati profondamente criticati anche gli studi clinici.

Il criminologo clinico, infatti, nell’ambito delle sue ricerche e dei suoi interventi, analizza persone

che sono state selezionate ed etichettate come delinquenti e, molto spesso, implicitamente, utilizza i

risultati che ottiene per fornire spiegazioni ed interpretazioni sulla delinquenza in generale.

Procedendo in questo modo, però, il criminologo clinico compie l’errore di far coincidere,

arbitrariamente, la categoria delle persone definite come delinquenti. Le ricerche cliniche, quindi,

attirando l’interesse verso i delinquenti etichettati, tendono a far dimenticare che l’infrazione della

legge è un comportamento molto diffuso e non è appannaggio di quel ristretto gruppo di individui

coi quali abitualmente i criminologi entrano in contatto.

Quando parliamo di terrorismo, quindi , cosa intendiamo esattamente?

In che cosa il terrorismo si distingue dalla criminalità comune?

La violenza politicamente motivata è tutta da considerare terrorismo?

Terrorismo è sinonimo di guerriglia, o il termine è più appropriato per indicare coloro che cercano

di abbattere un Governo?

Possono anche i Governi essere terroristi?

Qual è la differenza tra guidare un camion pieno di esplosivo dentro un’ambasciata e il gettare

bombe su di una città?

Come si possono fare delle distinzioni utili?

Alla luce di queste semplici e poche domande non ci si può non accorgere come, praticamente,

ogni genere di discussione circa il terrorismo porti, prima o poi, al problema delle definizioni.

Il terrorismo non ha una definizione precisa ed universalmente accertata:43

“Terrorismo è un metodo di combattimento nella lotta tra gruppi e forze sociali piuttosto che

individui, e si sviluppa in ogni ordine sociale.” (Hardman, 1939)

“Terrorismo è un metodo di azione con il quale l’agente tende a produrre terrore nell’ordine per

imporre il suo dominio.” (Waciosky, 1939)

43 Tutte le definizioni che riporto sono tratte da Thackrah, Encyclopedia of terrorism and political violence, Routledge & Keegan Paul Ltd ed. 1987, sotto la voce “Definition: issues and problems”.

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“Terrorismo è un metodo di azione con il quale l’agente tende a produrre terrore per imporre il suo

dominio su uno stato ordinato al fine di trasformarlo.

Il terrore politico è il progettato uso di violenza o minaccia di violenza contro un individuo o un

gruppo sociale ordinato per sradicare la resistenza verso gli scopi del terrorista.” (Chisholm, 1948)

“Il terrore può colpire senza alcuna provocazione precedente, le sue vittime sono gli innocenti, così

come lo è l’attore dal suo punto di vista.” (Arendt, 1951)

“Terrorismo è la minaccia o l’uso di violenza per fini politici.” (Crozier, 1960)

“Sociologicamente, il terrore è una persona, una cosa, una pratica che causa intensa paura o

sofferenza, il cui intento è di intimare, soggiogare soprattutto come un’arma politica.

Politicamente, la sua funzione principale è quella di intimare e disorganizzare il governo attraverso

la paura, così da ottenere il cambiamento politico.” (Roucek, 1962)

“Il terrorismo può raggiungere fini politici attraverso una delle due strade -mobilizzando forze o

immobilizzando forze e riservare simpatia per la causa degli insorti, o immobilizzando forze e

riservare ciò che normalmente è disponibile per gli incombenti.

Il processo del terrore è l’atto di minaccia di violenza, la reazione emotiva ed i suoi effetti sociali;

invece il sistema del terrore può essere definito per includere certi stati di guerre così come certe

comunità politiche.” (Walter, 1964)

“Un’azione di violenza può essere etichettata terroristica quando i suoi effetti psicologici sono di

proporzioni enormi rispetto al puramente fisico.” (Aron, 1966)

“Terrorismo è un clima di disperazione.” (Leiden e Schmitt, 1968)

“C’è un elemento di arbitrarietà in entrambe le decisioni prese dagli artefici, abilità di trascurare

ogni vincolante norma di legge e nel calcolare l’esecuzione del terrore come possa essere percepito

dai cittadini.” (Dallin e Breslauer, 1970)

“Il terrorismo come elemento di un processo di cambiamento violento può essere definito come

l’uso della violenza fisica. E’ la tattica complementare alla guerriglia ed alla convenzionale guerra.

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Si differenzia dalla guerriglia per il suo maggiore intento di influenzare il nemico e ogni terza parte

piuttosto che annientarlo. La caratteristica essenziale che contraddistingue il terrorismo è

l’intenzione dell’atto più che la natura dell’atto stesso.” (Silverman e Jackson, 1970)

“Alla base di una tattica terroristica c’è la minaccia; e il terrorismo è una forma di guerriglia.

Alla sua base di una tattica di guerriglia c’è il colpire, correre, picchiare, colpire, correre, picchiare.

Guerriglia è concentrata in montagna o aree rurali; terrorismo in aree urbane.” (Mallin, 1971)

“Terrorismo è l’uso sistematico di intimidazione per fini politici.” (Moss, 1971)

“Terrorismo è parte di una strategia rivoluzionaria, si manifesta in atti di inaccettabile sociale e

politica violenza. L’attrazione e l’importanza verso il terrorismo, per le organizzazioni

rivoluzionarie, sono dovuti ad una combinazione di parsimonia, abilità, alta efficacia politica e

psicologica.” Crenshaw Hutchinson, 1972)

“Eventi che involgono azioni altamente organizzate e pianificate da parte di piccoli ma coesivi

gruppi sono la caratteristica principale del terrorismo.” (Morrison, 1972)

“La definizione di qualcuno che è un terrorista è solo un meccanico esercizio di etichettamento.”

(Horowitz, 1973)

“La politica attraverso la violenza e la propaganda attraverso l’atto sono le caratteristiche del

terrore.” (Neale, 1973)

“Il terrorismo è la più amorale delle forme di violenza organizzata.” (Wilkinson, 1973)

“Ciò che contraddistingue il terrorismo da vandalismo e crimini non politici è la violenza motivata

da fini politici.” (Crozier, 1974)

“La peculiarità dell’orrore del terrorismo è ciò che ricordano le persone.” (Fairbairn, 1974)

“Terrorismo è la più coercitiva arma intimidatoria dei movimenti rivoluzionari.” (Wilkinson, 1974)

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40

“Terrorismo internazionale è la violenza motivata politicamente e sociologicamente.” (Bite, 1975)

“Il terrore è violenza usata per creare paura, ma è anche animato a creare paura non fine a se

stessa ma che possa diffondersi a qualcun altro.” (Fromkin, 1975)

“La minaccia di violenza, atti individuali o una campagna di violenza per incutere principalmente

paura, per terrorizzare, può essere definito terrorismo.” (Jenkins, 1975)

“Terrorismo internazionale rappresenta un atto che è essenzialmente motivato politicamente e

trascende i confini nazionali.” (Fearey, 1976)

“Terrorismo transnazionale è compiuto da autonomi non-stato attori, anche se non rifiutano un

certo grado di appoggio da parte di stati simpatizzanti. Terrorismo internazionale è compiuto da

individui o gruppi controllati dallo stato sovrano.” (Milbank, 1976)

“L’uso della violenza terroristica è basata sull’assunzione che la vittima designata non è capace di

vedere e comprendere il punto di vista del terrorista.” (Qureshi, 1976)

“Terrorismo politico può essere definito come una strategia, un metodo attraverso il quale un

gruppo organizzato o parte di esso cerca di ottenere attenzione per i suoi scopi, forti concessioni

per i suoi obiettivi, attraverso l’uso sistematico di deliberata violenza.” (Watson, 1976)

“La violenza, affinché diventi terrorismo, deve essere politica.” (Weisband e Rougly, 1976)

“Terrorismo politico è una speciale forma di clandestina indichiarata e non convenzionale guerra

condotta senza alcun ritegno umano né regole.” (Wilkinson, 1976)

“La strategia terroristica mira non a distruggere le forze di un incombente regime militare, ma a

causare l’alienazione morale delle masse dal governo verso la sua insolazione diventando totale ed

irreversibile.” (Wolf, 1976)

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41

“Terrorismo è il ricorso di una minoranza o spesso di un singolo dissidente frustrato

dall’incapacità di portare cambiamento alla società nella direzione voluta attraverso quelli che la

società stessa considera rimedi legittimi.” (Clutterbuck, 1977)

“Il selettivo uso della paura soggiogamento e intimidazione a distruggere le normali operazioni

della società.” (Horowitz, 1977)

“Il terrore individuale è un sistema di moderna violenza rivoluzionaria verso eminenti personalità

del governo.” (Iviansky, 1977)

“Terrorismo è usato per creare paura e allarme e ottenere attenzione.” (Jenkins, 1977)

“Terrorismo può essere usato per creare un’atmosfera di paura e disperazione per indebolire la

fiducia che i cittadini hanno verso i loro governi e rispettivi rappresentanti.” (Leiser, 1977)

“Come un’arma militare, il terrorismo è un’arma di guerra psicologica.” (Mallin, 1977)

“Terrorismo comprende l’intenzionale uso di violenza o della minaccia di violenza del

perpetratore contro obiettivi strumentali per infondere a quelli principali la minaccia di una futura

violenza.” (Paust, 1977)

“Terrorismo è uno stato di intensa paura che minaccia la fondamentale delle passioni umane,

quella di vivere al sicuro.” (Silverstein, 1977)

“Due aspetti sono inclusi nel terrorismo, uno stato di paura e di ansietà verso un individuo o

gruppo e il dazio che induce lo stato di terrore.” (Singh, 1977)

“Terrorismo comprende entrambi, l’uso e la minaccia di violenza.” (Smith, 1977)

“Terrorismo politico può essere definito come una intimidazione coercitiva, ed è una delle più

vecchie tecniche di guerra psicologica.” (Wilkinson, 1977)

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42

“Le componenti sistematiche della definizione di terrorismo rivoluzionario sono un sistematico e

finalizzato metodo utilizzato da un’organizzazione rivoluzionaria; si manifesta in una serie di atti

individuali di straordinaria ed intollerabile violenza, un costante modello di simbolica e

rappresentativa scelta, ed è deliberatamente rivolto a creare un psicologico effetto su di uno

specifico gruppo di persone.” (Crenshaw Hutchinson, 1978)

“Terrorismo è costituito da atti pianificati di violenza impiegati per espliciti fini politici, diretti

contro uno stato o un potere organizzato, coinvolge un relativamente piccolo numero di

cospiratori.” (Hamilton, 1978)

“Un terrorista può essere qualsiasi uomo. Tutti gli atti terroristici sono crimini, e possono essere

anche violazione delle regole della guerra, se esiste uno stato di guerra.” (Jenkins, 1978)

“Terrore è l’uso della forza in un contesto nel quale differenziare le vittime dipende dall’obiettivo

dell’azione.” (Kaplan, 1978)

“Terrorismo può essere definito come sistematica ed organizzata violenza conto persone che non

oppongono resistenza per creare in loro paura al fine di mantenere o guadagnare l’autorità

governativa.” (Karanovic, 1978)

“L’uso o la minaccia dell’uso della paura, indotta da una violenza straordinaria per fini politici da

un individuo o gruppo, comunque rivolta conto o in opposizione all’autorita governativa.”

(Mickolus, 1978)

“Comportamento motivato politicamente di un gruppo rivoluzionario in un contesto democratico,

animato da atti di violenza contro persone e o loro proprietà per costringerle ed ottenere i loro

fini.” (Schwind, 1978)

“Terrorismo politico è la minaccia e o l’uso di straordinarie forme di violenza politica in vari gradi

con l’obiettivo di ottenere fini politici.” (Shultz, 1978)

“Il massimo della violenza è terrorismo.” (Zinam, 1978)

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43

“Qualsiasi azione eseguita come parte di un metodo di lotta politica diretta ad influenzare,

conquistare o difendere il potere dello stato, che implichi l’uso di violenza estrema conto persone

non combattenti.” (Pontara, 1979)

“Terrorismo politico è l’uso sistematico di violenza per fini politici diretto contro estranei durante

un conflitto politico.

Il suo aumentare può essere spiegato attraverso quattro fattori, armi, mobilitazione, comunicazione

(pubblicità), soldi.” (Tromp, 1979)

“Il governo degli Stati Uniti d’America ha usato ampie definizioni, quali la minaccia o l’uso di

violenza per fini politici quando tali azioni sono indirizzate ad influenzare il comportamento di un

gruppo preciso più grande delle vittime immediate ed avente ramificazioni che trascendono i

confini nazionali.

Terrorismo è uno speciale modo di violenza che potrebbe essere brevemente definita come

coercitiva intimidazione. Comprende la minaccia di omicidio, lesione o distruzione per terrorizzare

così che l’obiettivo sia concesso ai terroristi.” (Wilkinson, 1979)

“Terrorismo è l’uso o la minaccia di straordinaria violenza politica per produrre paura ansia o

allarme nell’opinione pubblica più ampia delle effettive vittime che sono solo simboliche.

Terrorismo è violenza per fini politici contrapposto al conflitto militare.” (Heyman, 1980)

“L’uso, o la minaccia dell’uso di produrre ansia, violenza straordinaria per fini politici da parte di

un individuo odi un gruppo.” (Micklous, 1980)

“Un atto di violenza politica, ma il terrorismo fugge da definizioni quando è caratterizzato anche

da valori intrisi di significato politico.” (Miller, 1980)

“Terrorismo può essere definito come una strategia di violenza architettata per infondere terrore

verso una particolare frangia di una data società. (Bassiouni, 1981)

“Terrorismo implica sia un contesto di resistente violenza contro lo stato sia in un contesto di

servizio per gli interessi dello stato stesso.” (Crenshaw Hutchinson, 1981)

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44

“In Occidente il terrorismo differisce dalla guerriglia perché in questa i combattenti paramilitari

lottano contro regolari forze militari. Tuttavia la maggior parte dei movimenti di guerriglia

utilizza il terrorismo come una delle altre fasi del suo sviluppo, e alcuni fanno affidamento si di

esso.” (Francio, 1981)

“Le azioni terroristiche sono dimostrative, spettacolari, teatrali, le vittime sono pedine nel gioco

terroristico.” (Hacker, 1981)

“Il terrorismo fa affidamento tanto su i suoi effetti quanto della sua imprevedibilità, ma soprattutto

sulla sua inaspettata specifica capacità di coinvolgere nella violenza ciò che lo circonda, ciò che

normalmente era lontano da essa.

Terrorismo si può definire come sistematico uso di violenza, omicidio e distruzione conto il

governo, la popolazione in generale, la proprietà pubblica e privata per costringere con la forza

individui, gruppi, comunità, entità economiche e governi a modificare o cambiare i loro attuali

comportamenti e per concedere ai terroristi i loro fini politici.” (Herman, 1981)

“Per terrorismo intendo una serie di atti intenzionali di diretta, psicologica violenza

indeterminabile nel grado ma comunque sistematica, con l’intento di effetti fisici prodotti in un

contesto di strategia politica.” (Hess, 1981)

“Atti terroristici sono violenti attacchi diretti contro non combattenti da entrambe le parti di una

lotta politica.” (Sederberg, 1981)

“Il processo di terrorismo consiste in un atto o nella minaccia di violenza, nella reazione emotiva a

tale atto o minaccia e negli effetti sociali risultanti da tale atto o minaccia.” (Stohl, 1981)

“Terrorismo è visto come il ricorso alla violenza per fini politici da parte di non autorizzati autori,

in contrasto con gli accettati codici di comportamento umano.” (Lodge, 1982)

“Terrorismo è un sistema organizzato di estrema e violenta intimidazione per creare instabilità

all’interno della democrazia. Terrorismo internazionale cerca di scagliare attacchi su gruppi

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(polizia, esercito, multinazionali o nazioni) per cambiare l’equilibrio politico-economico del

mondo.” (Thackrah,1982)

Nessuno è un terrorista se “lotta per una giusta causa”, ha detto Yaser Arafat alle Nazioni Unite.44

Se accettiamo la sua dichiarazione il problema della definizione si complica ulteriormente, poiché

nel criterio usato va inserita anche la validità delle cause.

Come risultato, ci potrà essere accordo circa il fatto che un’azione sia terroristica o meno solo

quando tutti nel mondo potranno concordare sulla giustezza della particolare causa che l’ha

ispirata.

Alcuni Governi tendono ad etichettare come terrorismo tutte le azioni violente commesse dai loro

oppositori politici, mentre gli estremisti antigovernativi spesso sostengono di essere vittime del

terrorismo di Stato. L’uso del termine, quindi, comporta un giudizio morale.

Se un gruppo riesce ad etichettare come terrorista il gruppo oppositore, ha indirettamente persuaso

altri ad adottare il proprio punto di vista morale e politico, o perlomeno a rigettare il punto di vista

di terroristi.

“Terrorismo” è ciò che fanno i “cattivi”.

Questa delimitazione di confini tra ciò che è legittimo e ciò che è illegittimo, tra quello che è il

giusto modo di combattere e quello che è il modo errato, pone molti ostacoli politici al compito di

formulare la definizione.

Recentemente il terrorismo è diventato una parola di moda, applicata indistintamente ad una gran

varietà di azioni, che non necessariamente hanno lo scopo di produrre terrore.

E’ importante distinguere tra azioni che hanno l’intenzione di terrorizzare e quelle che solo per

caso producono terrore. I rapinatori possono terrorizzare la popolazione di una vasta area urbana,

ma essi producono terrore solo come risultato dei loro reati: i portafogli e i loro sono il loro vero

obiettivo,non creare paura.

La difficoltà di definire il terrorismo ha portato quindi al cliché secondo il quale colui che per uno è

un terrorista, per un altro è un combattente per la libertà. La frase implica che non ci può essere

una definizione obiettiva del terrorismo, e che in un conflitto non esistono standard universali di

condotta. Tuttavia, le nazioni civilizzate hanno identificato, attraverso le leggi, dei modelli di

comportamento criminali.

44 Assemble Generale delle Nazioni Unite: Report of the Ad Hoc Committee on International Terrorism, General Assembly Official Records: 28th Session, Supplement n. 28 (A/9028), 1978, p. 22.

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L’omicidio, il sequestro, la minaccia della vita e la volontaria distruzione della proprietà sono

contemplati nei codici penali di ogni Paese. E’ vero che alcune delle proibizioni possono essere

violate in tempo di guerra: la legge contro l’omicidio, per esempio, potrà essere violata da coloro

che chiamiamo “combattenti legali”. I terroristi sostengono di non essere criminali, ma soldati di

guerra, che hanno, quindi, il privilegio di infrangere le leggi ordinarie. Tuttavia persino in guerra

esistono delle regole che proibiscono l’uso di certe armi e di certe tattiche; esse garantiscono ai

civili in combattimento, che non siano collegati con bersagli di “valore”, una immunità per lo meno

teorica da attacchi deliberati. Proibiscono di prendere degli ostaggi; proibiscono la violenza contro

prigionieri, definiscono quali siano i belligeranti e quale il territorio neutrale. Queste regole sono a

volte violate, e in questi casi, coloro che le hanno violate divengono criminali di guerra. In nessun

caso, comunque, le violazioni diminuiscono la validità delle regole.

Alcuni specialisti di diritto internazionale vedono, nelle leggi di guerra, una possibile soluzione al

dilemma della definizione. Essi suggeriscono che, piuttosto che cercar di negoziare nuovi trattati

sul terrorismo, che hanno ben poche possibilità di essere ratificati o appoggiati, le nazioni

dovrebbero semplicemente applicare le leggi di guerra, sulle quali tutti si sono trovati più o meno

d’accordo.

Secondo questi giuristi, quindi, i terroristi dovrebbero essere trattati come soldati che hanno

commesso delle atrocità. Quasi tutti i paesi hanno accettato di arrestare o estradare soldati che

abbiano commesso atrocità durante conflitti armati internazionali. Perché, a persone che non

hanno un esplicito status di soldati, dovrebbe essere concessa più libertà di commettere violenza di

quanta non se ne conceda ai soldati stessi?

Se si seguisse l’indirizzo delle leggi di guerra il terrorismo dovrebbe comprendere tutte quelle

azioni commesse in tempo di pace che, se commesse durante un conflitto, sarebbero considerate

crimini di guerra.

Il terrorismo può essere definito in modo obiettivo solo se si considera la qualità dell’azione, non se

si considera l’identità degli autori dell’atto o la natura della causa che li spinge.

Tutti gli atti terroristici sono dei reati, e molti sarebbero anche crimini di guerra, ”gravi infrazioni”

delle regole di guerra se accettassimo l’affermazione dei terroristi stessi, i quali sostengono di

essere combattenti in guerra.

Tutte le loro azioni comportano violenza o minaccia di violenza, a volte unita a esplicite richieste.

La violenza è spesso diretta verso bersagli civili.

Gli scopi sono politici.

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Le azioni sono spesso compiute col massimo della pubblicità, gli autori sono generalmente membri

di un gruppo organizzato.

Le loro organizzazioni sono necessariamente clandestine, ma, a differenza di altri criminali, i

terroristi spesso reclamano il credito per le azioni commesse.

Infine, caratteristica tipica del terrorismo, le azioni hanno lo scopo di produrre effetti psicologici

che vadano oltre i danni fisici immediati.

Un’affermazione di Henry David Thoreau, che risale al 1849, da Civil Disobedience, si può trarre e,

anzi, si deve prendere in considerazione e non dimenticare mai in qualsiasi tipo di analisi si faccia

o si tenti di fare per lo studio del terrorismo, non tanto studiato , quindi, come scienza, intesa ed

interpretata nel suo senso limitatamente etimologico e, se vogliamo, “rigido”, ma come fenomeno

complesso, che non può essere liquidato e spiegato semplicemente attraverso un livello di semplice

definizione o di studio etimologico della parola.

In altri termini, non può assolutamente essere racchiuso dentro patetiche “etichette”, illusorie

teorie sia causali che predittive, ma deve essere, forse solo più semplicemente, compreso, accettato

con la consapevolezza che “Tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, e cioè il diritto

di rifiutare fedeltà e di opporsi al governo quando la sua tirannia o la sua inefficienza sono grandi

ed intollerabili.”45

I terroristi, quindi, non sono “diversi”, essi fanno parte della nostra società, della nostra gioventù;

non sono un qualche cosa di estraneo, da guadare e giudicare semplicemente “labellandoli”

“nemici”, ”criminali”, ”malvagi”, ”terribili non esseri umani”.

Facendo in tal modo si utilizza un approccio esclusivamente a breve se non brevissimo raggio,

mentre, a “lunga scadenza”, proprio partendo dalla consapevolezza di distruggerlo, sconfiggerlo e

non farlo dilagare sempre più, bisogna comprenderlo, insomma, per fermare il terrorismo bisogna

comprendere chi lo pratica, si devono comprendere i terroristi.

45 Thoreau H. D., Civil Disobedience, 1849.

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48

“Il tempo è muto tra canneti immoti...

Lungi d’approdi errava una canoa…

Stremato, inerte il rematore… I cieli

Già decaduti a baratri di fiumi…

Proteso invano all’orlo dei ricordi,

Cadere forse fu mercè…

Non seppe

Ch’è la stessa illusione mondo e mente,

Che nel mistero delle proprie onde

Ogni terrena voce fa naufragio.”

Foscolo U.

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49

CAPITOLO IV

Analisi del concetto di comprensione: Analisi del concetto di comprensione: Analisi del concetto di comprensione: Analisi del concetto di comprensione:

dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale dal rapporto tra terrorismo in particolare e crimine in generale

alla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnaalla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnaalla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnaalla ricerca degli aspetti psicologici che accompagnano l’uomo no l’uomo no l’uomo no l’uomo

in relazione al suo comportamento terroristico in relazione al suo comportamento terroristico in relazione al suo comportamento terroristico in relazione al suo comportamento terroristico “Da un lato, l’uomo è affine a diverse specie animali, poiché combatte i propri simili. Ma dall’altro, egli, fra

le migliaia di specie in lotta, è l’unico che combatta per distruggere…La specie umana è l’unica che pratichi

l’omicidio di massa, pesce fuor d’acqua all’interno della propria società.”

Timbergen N.

IV.I Rapporto tra i crimini comuni ed il terrorismo

Sebbene una definizione di terrorismo non sia universalmente accettata ciò non significa che lo

studio e l’analisi definitoria del fenomeno non possa essere, in una qualche maniera di aiuto, non

possa essere comunque utilizzato.

Partendo proprio dalle definizioni, infatti, si possono trovare le caratteristiche che

contraddistinguono tale fenomeno, caratteristiche che permettono di distinguerlo, così, dalle altre

forme di violenza politica e dai crimini ordinari.46

Partendo proprio dal concetto di violenza assunto come comun denominatore di tutte le possibili e

varie definizioni di terrorismo, il nostro campo di attenzione non può non spostarsi da un ambito

meramente oggettivo a quello più soggettivo rappresentato efficacemente dal rapporto tra l’autore

dell’atto terroristico e la vittima.

Non è forse soggettivo il grado di terrore e di paura che ognuno di noi ha di fronte a certi atti di

atroce violenza?

46 Si veda “Why is Terrorism so difficoult to Define?”, pp. 28-43, in Hoffman B., Inside Terrorism, Indigo 1999.

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Come reagiamo, il nostro essere sconvolti o meno è legato a fattori che ben difficilmente possono

essere oggettivamente presi come modello per lo studio del fenomeno analizzato, quindi, su di una

base razionale.

Il terrore, dunque, essendo una stato mentale della vittima è un’esperienza soggettiva e la reazione

individuale ad atti terroristici dipende dalla psicologia e dalla particolare situazione in cui si trova

chi è terrorizzato.47

Il diverso grado di tolleranza e di suscettibilità a certi fatti, quindi, contraddice la tesi secondo la

quale il terrore sia una razionale, selettiva, discriminata arma politica di reale e determinabile

precisione.

Per i terroristi, infatti, è estremamente difficile predire la reazione psicologica di quella parte di

popolazione assunta come obiettivo, “target”.

Come i terroristi, i criminali usano la violenza come mezzo per ottenere specifici fini; anche se la

violenza in sé può essere assimilata ad altri reato quali il rapimento, lesioni, omicidio ecc, il fine, gli

scopi, le motivazioni non sono le stesse.

Il criminale uccide o costringe una persona a pagarlo con la forza per motivi strettamente

personali, di solito per fini materiali, per avere denaro; il fatto di terrorizzare la vittima, quindi, è

solo momentaneo e non cela alcun tipo di messaggio, politico o meno, oltre a quello di rendere

celeri le operazioni criminali stesse.

Si pensi, per esempio, al caso di una rapina in banca dove la pistola puntata contro il cassiere ne è

una dimostrazione emblematica. Non vi sono diversi e sottesi significati; non ci sono effetti

ulteriori oltre a quelli posti realmente in essere; non vi sono particolari collegamenti con il concetto

ampio e sociologicamente complesso dell’opinione pubblica, con il tentativo di creare terrore e

sconcerto per cambiare chissà quale sistema.

Il terrorista, invece, utilizza la violenza per colpire ed influenzare la maggior parte delle persone,

per rafforzare il suo potere all’interno della società e costringere chi ha il potere, quello sancito

dalla legge, istituzionalizzato, a cedere alle sue richieste.

L’atto compiuto dal terrorista, inoltre, non è il gesto di un assassino lunatico, non è il cosiddetto

crimine passionale, frutto di chissà quale “raptus omicida” di cui spesso si sente parlare nelle aule

giudiziarie e che comporta la sentenza di assoluzione in quanto l’autore del reato non era in grado

di intendere e di volere.

47 Per una analisi approfondita circa il rapporto tra “terrore” e “terrorismo” si veda “Concepts of Terror and Terrorism”, pp. 9-31, in Wilkinson P., Poltical terrorism, Macmillan 1974.

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Il comportamento del terrorista è il prodotto di una strategia, alla cui base vi è una logica, un

processo che è frutto di scelte accurate e di comparazioni fatte a diversi gradi e su piani differenti;

rappresenta una ragionata e calcolata risposta alle circostanze.

Essendo un mezzo, un modo, un metodo, l’atto terroristico è prima di tutto analizzato attraverso il

suo aspetto di utilità.

L’efficacia, quindi, è il primo parametro che viene preso in considerazione.

Spesso da parte dei terroristi, viene usata l’espressione secondo la quale essi non avevano altre

scelte e, quindi , hanno abbracciato la condotta terroristica per i loro scopi, per raggiungere i loro

obiettivi.

La storia, però non avvalla una simile tesi, in quanto gli atti terroristici, spesso e volentieri, sono il

frutto del fallimento di altre strade che, però, una volta intraprese, non hanno portato ai risultati

voluti.

La scelta del terrorismo, quindi, comprende una valutazione multifattoriale della realtà che

attraverso un’analisi di costi, pubblico supporto, tempo, rischi ed alternative porta alla conclusione

di atti e decisioni che potrebbero essere assimilate ad un contratto.

L’esempio che più di ogni altro esprime al meglio questo “contratto”è il rapimento, il prendere ad

ostaggi i civili.48

Di fronte ad un simile fatto, il governo è posto, secondo la logica del terrorista, in una posizione di

svantaggio, poiché il valore della vita umana, quella dell’ostaggio, ha un valore forte, assoluto che

porta a scendere a compromessi piuttosto che a porre resistenza.

Nel calcolo dei rischi, il prezzo che lo stato si troverebbe a pagare è troppo alto.

Ecco allora che il terrorismo è una strada percorsa per portare alcuni estremi interessi in ambito

politico.

Questo approccio “strategico”, per il quale vengono scelti i vantaggi che più di altri possono

derivare dalla situazione concreta, però, non deve essere fine a se stesso, non può e non deve,

insomma, essere considerato come la sola ed unica spiegazione del comportamento terroristico.

La strategia, il calcolo delle varie possibilità è solo uno dei fattori che sottendono a quel processo

che porta poi, alla decisione finale; nonostante ciò, tale approccio è doveroso di attenzione e deve

essere quindi studiato in quanto “antidoto” verso lo stereotipo secondo il quale i terroristi siano

“fanatici irrazionali”.49

48 Si veda Wilkinson P., Protection against terrorism, pp. 98-103. 49 Vedi Martha Crenshaw, The logic of terrorism: Terrorist behavior as a product of strategic choise, in Origins of Terrorism, psychologies, ideologies, theologies, state of mind, Ed. Walter Reich, 1990.

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Questo stereotipo, così come tutti gli altri, del resto, è una pericoloso modo di svalutare, di valutare

con superficialità: un “criminale” strumento inadatto per comprendere le capacità dei gruppi

estremisti, e nello stesso tempo non utile metodo si studio ed analisi dei comportamenti e delle

motivazioni appartenenti a quella persona umana quale è il terrorista.

IV.II Aspetti psicologici del terrorismo: può essere definito “psicopatico”

l’autore di atti terroristici?

studio ed analisi di casi legati al particolare contesto dell’Irlanda del Nord

Il terrorismo è caratterizzato dall’atrocità e dalla mancanza di normale rispetto verso la vita e la

proprietà altrui al fine di raggiungere certi obiettivi.

L’atto di Birminngham è esemplare: novembre 1974, 21 persone uccise 162 ferite per le bombe

posizionate dall’IRA in due differenti pub.50

Come ho già avuto modo di sottolineare, la violenza e l’atrocità stessa dell’atto non è condizione

sufficiente ma solo necessaria al fine della spiegazione del fenomeno.

Che differenza c’e’, quindi con la bomba di Hiroscima?

L’atrocità e’ la stessa ed è confermata dalla definizione di terrorismo transnazionale di Mickoulus:

”L’uso o la minaccia di usare, di indurre ansietà con violenza extranormale per fini politici da parte

di individui o gruppi contro l’autorità governativa, quando tali azioni tendono ad influenzare le

attitudini ed i comportamenti di un particolare gruppo di persone più ampio di quelle che

risultano poi essere le vittime e quando, per la nazionalità, la perdita di legami dei suoi

perpetratori con la loro città, nella meccanica della risoluzione e ramificazione, trascende i limiti

nazionali.”51

Quindi, reazioni ad atroci comportamenti sono risposta ad altrettanti fatti; il problema è che

terroristi non hanno difficoltà ad ammetterlo come invece c’e’ l’hanno i governi, che trovano

politicamente e diplomaticamente imbarazzante farlo.

Alcuni comportamenti, quindi, derivano e sono conseguenza delle azioni di altri e,

proporzionalmente, peggiorano al peggiorare di tali azioni. La chiave di volta per capire e

comprendere le varie forme di violenza è, quindi, l’analisi degli autori di simili azioni.

Trasportati da un piano generale ad uno particolare, il mio studio e la mia ricerca, ora, si

soffermeranno su quel particolare terreno e campo di battaglia costituito dal conflitto

50 Per una descrizione accurata e analitica della vicenda si veda il libro di Chris Mullin, Error of Judgement: the Birmingham Bombings, 1987. 51 Citato da Heskin K., Northern Ireland: A Psycological Analysis, Dublin: Gill e Macmillan, 1980, p. 75.

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nord-irlandese.

Un aspetto ed un tema rivelatrici del comune modo di pensare riguardo ai terroristi è che essi siano

parte di un gruppo, che, non avendo niente da perdere, sono attratti dai movimenti paramilitari in

quanto non capaci di trovare un valido inserimento all’interno della società, essendo il frutto di

una cattiva educazione soprattutto dal punto di vista scolastico.

Riguardo a tale aspetto, invece, va sottolineato come i capi dei gruppi terroristici di tutto il mondo,

sia negli anni passati, sia oggi stesso, hanno avuto una validissima educazione, essendo spesso

laureati o, comunque, dotati di una cultura notevole.

Il particolare contesto nord-irlandese è causa del fatto secondo il quale i membri dell’IRA

rappresentino un’eccezione, essendo un’organizzazione generalmente priva di intellettuali.

Gli appartenenti all’IRA, oltre che ai gruppi paramilitari lealisti sono frutto, più che di

un’educazione istituzionalizzata, della vita di tutti i giorni, di quella vita da strada che a volte, se

non spesso, insegna ed ha molte più cose da insegnare rispetto a quanto si possa apprendere

all’interno di una struttura chiusa quale può essere la scuola in sé.

Un altro comune modo di pensare nel Nord Irlanda, (e non solo) è rappresentato dal fatto di come

i terroristi siano, ”malvagi”, ”malati”, ”psicopatici”.

Il primo di questi aggettivi è troppo ingiurioso ed offensivo, e non ha uno specifico significato dal

punto di vista psicologico.

Il secondo epiteto è molto diffuso, ma è un qualche cosa che può essere collegato con il terzo,

”psicopatico”, che, invece, ha un suo più preciso e definito significato al quale si deve far

riferimento.52

La principale conseguenza circa questo modo di pensare i terroristi e di classificare le loro azioni è

che ciò non fa altro che legittimare, dare la possibilità di crearsi degli alibi e delle vie d’uscita senza

le quali, in normali circostanze, la loro tendenza anti-sociale risulterebbe essere contraria alla legge.

In tale prospettiva, però, i terroristi sono semplici criminali in un contesto inusuale.

Questo modo di pensare è essenzialmente quello utilizzato dal Governo Britannico nell’adottare la

sua politica di “criminalizzazione”.

52 I disturbi della personalità, però, non sono malattie psichiche, né configurano la condizione di “infermità” rilevante ai fini dell’imputabilità; non assumono, infatti, valore di malattia, ma consistono semplicemente in aspetti peculiari del carattere e della reattività, che non interferiscono sulla responsabilità penale. La maggior parte dei disturbo di personalità, quindi, non rientra fra le malattie mentali propriamente dette, inquadrabili nella nosografia psichiatrica. La psicopatia è un disturbo di personalità. Secondo il Ponti, “per designare le situazioni in cui il disturbo di personalità ha particolare rilevanza sul comportamento criminoso, o comunque disturbante, il termine, oggi desueto, di personalità psicopatica, intende riferirsi a quei soggetti che per la loro grave e persistente abnormità del carattere d della reattività ingenerano sofferenza per gli altri e problemi per la società”. (Cfr. Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 468.)

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Seguendo il pensiero di Walter Laquer, secondo il quale “il terrorismo non è una scuola filosofica, e

ciò che conta sono sempre e comunque i fatti,”53 è, proprio partendo da questi ultimi, analizzati

attentamente, facile arrivare alla considerazione ed alla tesi secondo la quale, dal punto di vista

psicologico, non c’è prova concreta circa alcun tipo di disturbo mentale, nessuna diagnosi di

psicopatia che possa essere collegata strettamente con il comportamento terroristico.

Non ci sono elementi che possono dire che ci siano psicopatici ed i fatti, appunto, dicono l’opposto.

Il concetto di psicopatico ed i suoi relativi sinonimi rappresentano un dannoso tentativo di

attribuire il ruolo di devianti a certi tipi di persone.

Nel “Mental Healt Act for England and Wales” del 1983 (Disposizioni circa la malattia mentale in

Inghilterra e Galles), la categoria del “disturbo psicopatico” è definita come “disordine o incapacità

della mente…che risulta e si manifesta in un aggressione anormale o una preoccupante

irresponsabile condotta e comportamento concernente una parte, un particolare aspetto della

persona coinvolta.”54

Questa è una definizione legale un concetto non appartenente alla categoria di quelli medici,

analizzati dal punto di vista clinico.

Tuttavia, notevoli sono proprio gli studi clinici effettuati nello studio del concetto in sé e tutti, in

una qualche maniera, accentuano ed enfatizzano il suo carattere strettamente collegato

all’aggressione.

McCord e McCord,55 nel 1964, per esempio descrivono lo psicopatico come “una persona asociale,

aggressiva, fortemente impulsiva, che si sente innocente, non responsabile, incapace di intrattenere

relazioni sociali e di provare sentimento di affetto verso gli altri esseri umani.”

Per Millon, altro scrittore nord-americano (1981), la “personalità aggressiva” è un’espressione

preferibile rispetto alla “personalità antisociale”, ed i suoi caratteri essenziali sono rappresentati

dall’ostilità, ribellione, vendetta ed indifferenza verso il pericolo.

Un accurato studio dei dettagli e dei comportamenti di psicopatici sono stati studiati da Cleckley,56

nel 1964, nell’ambito di una sua accurata ricerca clinica.

Secondo i risultati di tale ricerca, le caratteristiche principali, tipiche di tali soggetti, erano le

seguenti:

53 W. Laquer, Storia del terrorismo, Rizzoli, Milano, 1978. 54 Citata da Blackburn R., “Psychopathy and the Contribution of Personality to Violence”, in Millon T., Somonsen E., Birket-Smith M., Roger D. D., Psychopathy: Antisocial, Criminal and Vilolent Behavior, The Guilford Press, p. 50. 55 McCord W, McCord J., The Psychopath: An Essey on the Criminal Mind, Princeton N. J., Van Nostrand, 1964. 56 Cleckley H., The Mask of Sanity, St. Louis, Mo. : Mosby 1964.

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-poveri dal punto di vista affettivo

-egocentrici e poco capaci di amare

-assenza di nervosismo e nevrotiche manifestazioni

-superficiale fascino e buona intelligenza

-comportamento antisociale senza particolare rimorso

-poca voglia di apprendimento e di imparare dalle esperienze

-particolare mancanza di intuito

Craft,57 nel 1965, sottolinea nello psicopatico la mancanza di sentimento, affetti ed un certo grado di

amore verso gli altri, una generale tendenza ad agire impulsivamente.

Non va poi dimenticato lo studio di Foulds (1965)58 e Buss (1966)59 secondo i quali la chiave di

lettura di tutta la loro analisi è da ricercarsi nella mancanza di sentirsi rappresentato, di essere in

una qualche maniera considerato da parte, e, non meno importante, nell’egocentrismo.

Quello che mi preme sottolineare ed analizzare è il fatto di come possano tutte queste definizioni,

tutti questi studi clinici così obiettivi ed estremamente accurati, essere applicati ai terroristi che

agiscono nel Nord Irlanda.

Come si possono adattare tale definizioni di “psicopatico” ai terroristi in generale e a quelli nord-

irlandesi in particolare?

Certo la cosa migliore per rispondere a questa domanda sarebbe rapportare lo studio di questo

aspetto, di questa particolare dimensione della personalità dell’essere umano, con una diretta

esperienza personale con queste persone oggetto di indagine.

Ottenere interviste, avere la possibilità di parlare ed entrare in diretto contatto con i terroristi del

Nord Irlanda non è certo facile, tuttavia alcuni studiosi del fenomeno sono riusciti nel loro intento.

Maria McGuire, per esempio, nel 1973, ha scritto circa il suo anno di esperienza trascorso

all’interno dello Sinn Fein, il braccio politico dell’IRA; Boulton, anch’egli nel 1973, è riuscito ad

avere poche ma significative informazioni provenienti e riguardanti i terroristi paramilitari

protestanti; Mallin e Sweetman, come riporta il Sunday Times, 18 giugno 1978, hanno raccolto

impressioni dirette di leaders dell’ala Provisional dell’IRA durante una negoziazione di pace a

Feakle, nella contea di Clare nel dicembre 1974.

Nessuna di queste esperienze ha dimostrato il legame tra i capi dei gruppi terroristici nord-

irlandesi intervistati e l’immagine popolare, l’opinione che la gente ha di chi possa essere

psicopatico. 57 Craft M. J., The Studies into Psychopatic Personality, Bristol: John Wright 1965. 58 Foulds G. A., Personality and Personal Illness, London: Tavistok Publications 1965. 59 Buss A. H., Psychopatology, New York: Wiley 1966.

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Nessun risultato si è avuto in relazione al possibile legame con le dettagliate e precise descrizioni

cliniche che ho citato e riportato sopra.

Lo psicopatico, infatti, come dimostrato, è dedito solo a se stesso ed è solito bere molto. Riguardo a

tele ultimo aspetto, sempre la fonte Sunday Times, 18 giugno 1978, riporta il commento dei

giornalisti John Whale e Chris Ryder durante il dibattito di Feakle circa la personalità dei leaders

terroristici: “…tutti i ministri stavano bevendo vino ed alcolici, tranne uno, era dell’IRA, tutti

fumavano tranne O’ Connell…il loro comportamento era rivolto alla dedizione totale per la causa

ed alla rigidità ferrea…”60

Sean MacStiofain,61 forse il più popolare stereotipo di terrorista nord-irlandese, era uno che parlava

molto, era autoritario e fanatico; tutte caratteristiche che non si ritrovano, non sono state riscontrate

attraverso lo studio clinico della personalità di chi viene considerato psicopatico.

Egli aveva una grande padronanza dell’arte della propaganda, responsabile delle conferenze

stampa, aveva acquisito ”tecniche” dialettiche notevoli che gli consentivano di far arrivare i suoi

messaggi chiari e precisi alle orecchie dell’opinione pubblica.

Interessante risulta l’intervista che Peter Taylor ottenne con Sean McStiofain e della quale ne viene

riportato interamente il contenuto in un suo libro in cui vengono rivelati alcuni aspetti oscuri,

alcune informazioni appartenenti l’IRA come organizzazione terroristica complessivamente

analizzata e studiata dall’interno.

Io trascrivo solo una parte di quell’intervista, una parte che testimonia la personalità di Sean

McStiofain62:

-Quale era la condizione dell’IRA nel mese di agosto del 1969?

-Molto difficile. Molto difettosa. Nessun braccio, pochissimi. Nessun addestramento. Soltanto un

centinaio di persone che per anni non hanno avuto contatto con le armi. Direzione difettosa.

Politica difettosa.

-Perché l’ IRA si è divisa?

-Uno…almeno tre…quattro…

-Motivi? 60 Citato da Heskin K., Northern Ireland: A Psycological Analysis, Dublin: Gill e Macmillan; New York: Columbia University Press 1980, p. 80. 61 Si legga la sua autobiografia per uno studio più approfondito della sua personalità MacStiofan S., Revolutionary in Ireland, London: Gordon Cremonesi 1975. 62 Peter Taylor, The IRA and Sinn Fein: “Behind the Mask”, 1997.

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-Motivi. Uno era politico e l’altro militare, poi…

-Ideologico

-Ideologico ed inoltre i repubblicani desiderano abolire Stormont…

-Mi dica cosa è accaduto là,al congresso nazionale dello Sinn Fein, il 10 gennaio 1970, cosa avete

fatto?

-I walked to the microphone, and said, ”I pledge my allegiance to the provisional IRA, these were

people who tied them selves to their Irish Republican Army.

Then I said now…it’s time to go. Go. And we did.”

(Mi sono diretto verso il microfono ed ho detto, ”Mi impegno con lealtà e devozione all’ala

Provisional dell’IRA, queste erano le persone che si legarono all’Esercito Repubblicano Irlandese.

Poi dissi…è tempo di andare. Andiamo. E così fu.”)

Importante è poi il contributo dato nel 1978 da Burton, un sociologo inglese, che visse per otto mesi

in una comunità cattolica di Belfast nel 1972-73.

Di tutto il suo lavoro riporto un estratto, il quale dimostra il comportamento crudele delle guardie

inglesi nei riguardi di quella comunità:

“soldati del Paratroop Regiment entrarono in una discoteca, un ragazzo fu portato in ospedale per

le ferite riportate, io fui portato via e mi fu chiesto se per caso fossi uno dell’IRA .

avendogli risposto negativamente si scusarono dicendo ‘ci dispiace ma dovevamo farlo, lo

facciamo con tutti’.”63

Ecco allora che dedizione e sacrificio materiale sono caratteristiche normali per i membri dell’ IRA.

Il loro senso del sacrificio, il loro livello di sopportazione della sofferenza ed il loro costante e

assiduo “training”, allenamento e dedizione alla causa, sono immagini che mal si conciliano e non

corrispondono con quelle dipinte clinicamente rappresentanti gli psicopatici.

Aggressione e violenza sono molto diffuse nella società nord-irlandese.

Storr (1978)64, argutamente, sottolinea, quindi, il fatto che se gli psicopatici sono una minima parte,

rappresentano una piccola porzione dell’ essere umano, è non veritiero o, perlomeno

inappropriato, spiegare comportamenti crudeli, ed attribuire la violenza e la crudeltà come aspetti

della vita sociale perpetrati solamente da psicopatici. 63 Burton F., The Politics of Legitimacy, London: Routledge e Kegan Paul 1978. 64 Stoor A., “Sadism and Paranoia”, in Livingston M. H., International Terrorism in the Contemporary Word, London: Greenwood Press 1978.

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L’aggressione è parte integrante dell’essere umano “normale”.

Se l’IRA fosse un’ organizzazione di psicopatici, o se noi la considerassimo tale, cadremmo in una

contraddizione in termini, vista l’incapacità degli psicopatici stessi di mantenere relazioni sociali,

dare e ottenere fiducia.

Persone autoritarie sono attratte da queste organizzazioni terroristiche perché si possono

esprimere, esercitare e manifestare liberamente la loro autorità all’interno del gruppo, avendo, poi,

un ulteriore risultato del loro comportamento proiettato all’esterno, avendo un riscontro in termini

di pubblicità nella sfera sociale.

Giovani ragazzi che non hanno di niente di meglio da fare e credono molto nello spirito del gruppo

sono, in una qualche misura, eccitati dall’idea di entrare a far parte del gruppo.

Nel contesto irlandese due aspetti sono interessanti: l’autoritarismo è tipico di una mentalità

conservatrice, e l’Irlanda, considerata globalmente, sia il Nord che il Sud, è un paese generalmente

tradizionalista, conservatore su vari fronti, in particolare quello politico, religioso e sociale.

I valori della tradizione sono molto radicati, le persone sono educate in base a questi valori che

vengono ad essere assunti come principi cardine, come guida per la continuazione della propria

esistenza.

Il comportamento e l’attività dei terroristi, in sostanza, non può essere attribuito alla loro natura di

diversi, di psicopatici.

Un ultimo dato voglio poi riportare a sostegno di questa tesi, un dato che , ancora una volta, deriva

dai fatti concreti, dalla realtà, per poi essere trasportato sul piano soggettivo della personalità

umana in generale e di quella del delinquente-terrorista in particolare.

Dati statistici sottolineano come la Repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord siano aree e zone con

un relativamente basso livello di criminalità e delinquenza; sulla base di ciò si può tranquillamente

desumere che il comportamento attribuito ad una personalità psicopatica non è caratteristico dello

stile di vita in Nord Irlanda, terra che è stata dilaniata per anni dal terrorismo e dove il terrore ha

avuto un fertilissimo terreno su cui potersi sviluppare.

Il problema principale, a questo punto della mia analisi circa la personalità del terrorista, è provare

a capire, una volta escluse in maniera definitiva, come ampliamente dimostrato, gli “psicopatici”,

come, “normali” persone possano commettere ed essere indotte in tali tipi di comportamento, quali

particolari circostanze spingano gente “comune” ad essere terroristi ed essere, per questo, definita

diversa, deviante.

Molto interessante e, soprattutto utile, risulta, al fine di risolvere tale problema, l’esperimento

socio-psicologico nel campo dell’aggressione effettuato nel laboratorio di osservazione del

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“Bhehavioral Study of Obedience” (Studio comportamentale dell’obbedienza) da Milgram Stanley,

nel 1974 all’Università degli Stati Uniti d’America di Yale.65

L’esperimento, infatti, tenta di dimostrare come persone comuni possano divenire terribilmente

insensibili, crudeli, ed assumere, pertanto, atteggiamenti sfocianti persino in un profondo odio nei

confronti di persone che altro non sono che vittime innocenti.

Milgram, infatti, creò una particolare situazione nella quale le persone partecipavano a quello che

credevano fosse un esperimento, un’indagine investigativa circa gli effetti della punizione durante

la fase educativa di insegnamento.

Ogni soggetto era accoppiato con un altro e, sempre, nel decidere chi fosse l’insegnante e chi

l’allievo, la procedura portava il complice, colui che faceva parte dell’equipe di Milgarm, ad essere

l’allievo. Il ruolo principale dell’insegnante era quello di punire le risposte sbagliate date

dall’allievo nell’espletamento dei suoi compiti. La punizione consisteva nella debole scarica

elettrica che proveniva da un macchinario ogni volta che l‘allievo rispondeva in maniera non

corretta.

L’esperimento venne provato più volte e tutte in diverse condizioni, con l’intento di verificare i

gradi diversi secondo cui le persone diventano insensibili, verificare il limite e la soglia oltre la

quale, poi, uno si sente legittimato a rispondere in maniera violenta a certi impulsi.

I soggetti che vennero utilizzati per l’esperimento, alla fine, quindi, acquisirono un’autorità, si

sentirono portatori di un potere che non possedevano e che non avevano all’inizio; erano

legittimati a reagire in maniera crudele dopo ciò che avevano provato sulla loro pelle.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, si può incominciare a comprendere il comportamento

delle organizzazioni terroristiche, tra le quali, in particolar modo l’IRA.

Tali organizzazioni, sono gruppi dove la violenza e la forza vengono considerati strumenti per

ottenere certi obiettivi e, pertanto, devono esserne massimizzati gli effetti.

Ecco allora che la distinzione sottile e fine, dal punto di vista sociologico, tra violenza e forza,

essendo la prima illegale, la seconda legittima, diventa, dal punto di vista psicologico, di notevole

importanza, si allarga, arrivando ad essere considerata sotto una diversa prospettiva, sotto una

diversa angolazione: violenza è quella che tu usi su di me, la forza è quella che uso su di te.

Solo dandosi regole ferree e precise, verso le quali bisogna dimostrare fedeltà assoluta ed

obbedienza totale, solo costituendo autorità ed imponendo obblighi si arriva, o quanto meno si

può arrivare, a legittimare certi fatti, si possono compiere certi atti. 65 Per una dettagliata descrizione dell’intero esperimento si veda Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondatori Editore, 1975, pp. 74-78. Si veda, inoltre, Milgram S., Obedience to Authority, London: Tavistok 1974.

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Trasportando tale concezione, derivante dall’esperimento di Milgram, all’interno

dell’organizzazione terroristica dell’IRA, avente una precisa e rigida struttura formale, risulta

emblematica e significativa la descrizione che David Blundy, un giornalista del Sunday Times, ha

reso della situazione e del regime che governava nel gruppo paramilitare.

Nel suo articolo pubblicato il 3 luglio 1977, infatti, egli si sofferma sul fatto di come la disciplina

militare fosse la norma, la regola; ordini di ogni tipo erano dettati, l’obbedienza era costantemente

richiesta e la trasgressione severamente punita.66

Ecco allora che dall’analisi di questa relazione che intercorre tra i membri e l’organizzazione

autoritariamente intesa, diventa chiaro come l’attività terroristica in generale ed i comportamenti

tenuti dal terrorista in particolare, siano gli stessi comportamenti di persone normali in normali

circostanze.

Concetti come psicopatico e malvagio non sono certo di aiuto nella comprensione del fenomeno

terroristico, sono semplici e riduzionistiche etichette che non servono a nulla, in quanto non

forniscono alcuna spiegazione, alcuna accettabile giustificazione.

Persone coinvolte in attacchi terroristici tornano alla società normalmente e non ce ne dobbiamo

scandalizzare.

Azione uguale forza, forza uguale successo e successo uguale azione.

Avendo accettato il ruolo di freedom figther67, soldati politici, la difficoltà maggiore consiste nel

cercare di far uscire ciò che diventato un auto propulsore indiretto.

L’esempio che più di altri esprime e rende l’idea di questo sentirsi prigionieri politici, di questo

mai voler cedere di fronte al nemico, offrendogli così la possibilità di essere considerati dei

“criminali”, è rappresentato dall’esperienza di Bobby Sands, dalla sua vita la quale, lui stesso, ha

voluto, almeno in parte, racchiudere nel un libro intitolato “Un giorno della mia vita”68,

un’autobiografia nella quale le torture subite, le umiliazioni e le condizioni disumane da lui

sopportate durante il periodo trascorso in carcere ne sono assolutamente da protagoniste,

dominando la scena, una scena nella quale la sua parte è quella dell’allodola: 66 Citato in Heskin K., Nothern Ireland: A Psycological Analysis, Dublin: Gill e Macmillan; New York: Columbia University Press 1980, p. 92. 67 Il 15 settembre1976 Kieran Nugent, un ragazzo di 18 anni, fu il primo prigioniero republlicano a cui fu negato lo status politico. Rifiutandosi di indossare l’uniforme carceraria e dichiaratosi prigioniero politico fu subito posto nudo in cella d’isolamento, con solo una coperta. Questa fu l’origine della frase on the blanket, che significò la privazione dei più elementari diritti umani: nessun vestito, nessun materiale per leggere e scrivere, ninete radio, esercizi sportivi o ricreativi, nessuna comunicazione con il mondo esterno. I blanket men venivano tenuti chiusi nelle loro celle per 23 ore al giorno. I pestaggi da parte delle guardie erano continui. (Cfr. The Fight Against Criminalisation, in David Rees, Ireland. The Key to the British Revolution, cit., pp. 278-303). 68 Bobby Sands, Un giorno della mia vita – L’inferno del carcere e la tragedia dell’Irlanda in lotta, Universale economica Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 89-91.

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“Una volta mio nonno mi disse che imprigionare un’allodola è uno dei crimini più crudeli, perché

l’allodola è tra i simboli più alti di libertà e felicità. Sovente parlava dello spirito dell’allodola,

riferendosi alla storia di un uomo che aveva rinchiuso uno dei suoi tanto amati amici in una piccola

gabbia.

L’allodola, soffrendo per la perdita della sua libertà, non cantava più a squarciagola, né aveva più

nulla di cui essere felice. L’uomo che aveva compiuto tale atrocità, così come lo definiva mio

nonno, esigeva che l’allodola facesse ciò che lui desiderava: cioè cantare più forte che poteva,

obbedire alla sua volontà, cambiare la sua natura per soddisfare il suo piacere e vantaggio.

L’allodola si rifiutò. L’uomo allora si arrabbiò e diventò violento. Cominciò a far pressioni

sull’allodola affinché cantasse, ma inevitabilmente non ottenne alcun risultato.

Così ricorse a mezzi più drastici. Coprì la gabbia con un telo nero, privando l’uccello della luce del

sole. Le fece patire la fame e la lasciò marcire in una sporca gabbia, eppure lei si rifiutò ancora di

obbedirgli. Alla fine l’uomo la uccise.

Come giustamente diceva mio nonno, l’allodola possedeva uno spirito: lo spirito di libertà e di

resistenza. Desiderava ardentemente essere libera e morì prima di essere costretta ad adeguarsi alla

volontà del tiranno che aveva cercato di cambiarla con la tortura e la segregazione. Io sento di

avere qualche cosa in comune con quell’uccello, con la sua tortura , la sua prigionia e la morte a cui

alla fine andò incontro. Possedeva uno spirito che non si trova facilmente neppure tra di noi, i

cosiddetti esseri superiori, gli uomini.

Prendete un comune prigioniero. Il suo obiettivo principale è quello di rendere il suo periodo di

detenzione più facile e confortevole possibile. Un comune prigioniero non metterà mai a rischio un

solo giorno di condono, alcuni arriveranno persino ad umiliarsi, a strisciare e a tradire altri

detenuti, pur di salvaguardare se stessi o accelerare il proprio rilascio. Costoro obbediranno alla

volontà di chi la ha catturati. Diversamente dall’allodola, canteranno ogni qual volta verrà loro

chiesto di farlo e salteranno ogni volta che sarà loro ordinato di muoversi.

Sebbene abbia perduto la sua libertà, un prigioniero comune non è disposto a giungere alle estreme

conseguenze per riacquistarla, e neppure per difendere la propria dignità di uomo. Si adegua, in

modo tale da garantirsi un rilascio a breve scadenza. Se invece rimane in carcere per un periodo

abbastanza lungo, alla fine diviene un prodotto dell’istituzione, una sorta di macchina, non più in

grado di pensare con la propria mente, sotto il pieno potere e controllo di chi lo ha incarcerato.

Nella storia che raccontava mio nonno questa era la fine che avrebbe dovuto fare l’allodola.

Ma lei non aveva bisogno di cambiare, né intendeva farlo, e morì affermando proprio questo.

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Tutto ciò mi riporta direttamente alla mia situazione, sento di avere qualche cosa in comune con

quel povero uccello. La mia posizione è in totale contrasto con quella di un prigioniero comune che

abbia deciso di conformarsi alle regole: io sono un prigioniero politico, un combattente per la

libertà. Allo stesso modo dell’allodola anch’io ho combattuto per la mia libertà, non solo in carcere,

dove ora mi ritrovo a languire, ma anche fuori, dove il mio paese è tenuto prigioniero. Sono stato

catturato e incarcerato, ma, come l’allodola, anch’io ho visto cosa c’è al di là delle sbarre della mia

gabbia.

Ora mi ritrovo nel Blocco H, dove mi rifiuto di cambiare per adeguarmi a coloro che mi

opprimono, mi torturano, mi tengono prigioniero e vogliono disumanizzarmi.

Al pari dell’allodola non ho alcun bisogno di cambiare. E’ la mia ideologia politica e i miei principi

che i miei carcerieri vogliono mutare. Hanno distrutto il mio corpo e attentato alla mia dignità.

Se fossi un prigioniero comune mi presterebbero pochissima o addirittura nessuna attenzione, ben

sapendo che mi conformerei ai loro capricci istituzionali.

Ho perso oltre due anni di condono. Non me ne importa nulla. Sono stato privato dei miei vestiti e

rinchiuso in una cella fetida e vuota, dove mi hanno fatto patire la fame, picchiato e torturato.

Come l’allodola, anch’io ho paura che alla fine possano uccidermi. Ma, oso dirlo, allo stesso modo

della mia piccola amica possiedo lo spirito di libertà, che non può essere soppresso neppure con il

più orrendo dei maltrattamenti. Certamente posso essere ucciso, ma, fintantoché rimango vivo,

resto quel che sono, un prigioniero politico di guerra, e nessuno può cambiare questo.

Non abbiamo forse molte allodole in grado di dimostrarlo? La nostra storia ne è stata costellata in

maniera straziante: i MacSweeney, i Gaughan, gli Stagg.

Ce ne saranno altri nei Blocchi H?

Non posso concludere senza terminare la storia che raccontava mio nonno. Una volta gli chiesi che

cosa era accaduto all’uomo malvagio che aveva imprigionato, torturato ed ucciso l’allodola.

“Figliolo, ” - disse - ”un giorno cadde lui stesso in una delle sue trappole, e nessuno gli prestò aiuto

per liberarsi. La sua stessa gente lo deride e gli voltò le spalle. Egli divenne sempre più debole e

alla fine stramazzò al suolo, per morire sulla terra che aveva fatto marcire con così tanto sangue.

Arrivarono gli uccelli e si presero la loro vendetta cavandogli gli occhi, e le allodole cantarono

come non avevano mai cantato prima.” “Nonno, ” - gli chiesi - ”Il nome di quell’uomo non era

forse John Bull?”69

69 Il Governo Inglese (Da: “An Phoblacht-republican News”, 3 febbraio 1979, p. 2)

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IV.III La “normalità” dietro al terrore: la personalità del terrorista

Attraverso l’analisi delle dichiarazioni di capi terroristici preminenti, Hazelip A. C. (1980), ha

tentato di determinare gli elementi unitari tra i principi seguiti dai terroristi, e la loro aderenza ai

principi stessi.

Gli elementi più importanti sembrano essere l’accettazione del credo della violenza e la flessibilità

operativa, che risulta chiaramente in contrasto con la rigidità delle loro credenze politiche.

Un altro elemento in comune è la forte spinta a dedicarsi ad una causa, ad un campo particolare, ad

una ideologia. Ciò può essere un necessario rimpiazzo all’anomia o al vuoto esistenziale, che

possono condurre altri soggetti alla deriva o all’ingresso nella cultura della droga.

Pertanto, aderire al terrorismo può essere una reazione di adattamento, e ciò può spiegare

l’attrattiva che il terrorismo stesso esercita sui giovani di famiglie benestanti o di classe media, che

si trovano a dover affrontare conflitti di valore o il vuoto descritto da Davies (1973)70 tra le

aspettative crescenti e la soddisfazione dei bisogni o, infine, per usare il modello di Gurr (1970)71

già implicito in Marx,72 la discrepanza tra le “aspettative di valori” e le “capacità di realizzare tali

aspettative” nel loro ambiente.

L’aggressione e l’azione violenta aumentano la stima di sé generando, in un certo senso,

”sentimento di gloria” secondo una espressione utilizzata da Sorel nel 1940.73

Ecco allora che, in linea con un approccio più psichiatrico al problema, come possibili spiegazioni

sono state presi in considerazione impulsi parricidi, rigidità ed un desiderio di ricerca della morte;

nessuno, peraltro ha potere predittivo o applicabilità discriminante adeguata.

Il rapporto con la morte è un’interessante elemento dinamico della personalità del terrorista.

L’istinto biologico alla sopravvivenza per l’individuo e per la società è l’autorità che vieta

l’accettazione della morte; l’uomo sfugge alla morte usando ogni meccanismo disponibile, ma, in

maniera particolare, soprattutto attraverso uno speciale atteggiamento psicologico che è stato

definito come “l’ illusione dell’immortalità”, attraverso il quale l’uomo vive giorno per giorno

come se la morte non esistesse, o, forse, non lo riguardasse.

Questo meccanismo difensivo è una rimozione ed un diniego della realtà, una fuga, allo stesso

tempo, dalla realtà stessa.

70 Davies J. C., “Toward a Theory of Revolution”, American Sociological Review 1962. Si veda, inoltre, dello steso autore, “Aggression, Violence, Revolution and War”, cap. 9 in Handbook of Political Psychology, a cura di Knutsen J. N., Jossy B., San Francisco 1973. 71 Gurr T. R., Why Men Rebel, Princeton University Press, New York 1979. 72 Per un’analisi accurata circa il rapporto tra terrorismo ed ideologia marxista si veda White J., Interpreting Northern Ireland, Clarendon Press 1990. 73 Citato da Davies J. C., in “Aggression, Violence, Revolution and War”, p. 245.

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La morte di per sé non può essere accettata al livello delle esperienze esistenziali, e deve pertanto

essere razionalizzata, attribuita al caso e a processi naturali, trasformata in un simbolo di un evento

occasionale, o negata e vissuta semplicemente come una transazione dalla vita sulla terra alla vita

eterna.

L’unica condizione nella quale questo atteggiamento verso la morte è drasticamente mutato, e

l’istinto di sopravvivenza appare operante, è la guerra. In una situazione di guerra l’uomo appare

pronto ad uccidere e ad essere ucciso, le forme più aberranti di aggressione sono messe in atto

anche da culture altamente civilizzate, ed ogni “soldato” può commettere omicidi o essere ucciso.

La guerra permette il dominio della morte sulla vita e la legittimazione del terrore. Il terrorista

”normale” è pertanto equivalente ad un soldato, al di fuori del tempo e dello spazio, che vive nella

realtà una guerra che esiste solo nella sua fantasia. Ciò si riflette vividamente negli scritti dei

terroristi e nei loro atteggiamenti dopo la cattura, nel richiedere uno status di “prigionieri di

guerra”.

Ecco allora che per comprendere la differenza tra un terrorista, un cittadino normale ed un

criminale, può essere utile analizzare gli elementi che permettono di vivere, nella fantasia, in uno

stato di guerra, all’interno di una pacifica realtà democratica, mettendo a confronto la guerra reale

con la guerra “fantasmatica” del terrorista, utilizzando un’espressione del Ferracuti.74

La guerra reale è un fenomeno complesso, che coinvolge il sovvertimento di norme, valori e

abitudini della vita di due o più società, che tentano di risolvere attraverso l’uso della forza un

conflitto basato su interessi opposti.

Uno stato di guerra reale può verificarsi solo se esistono certe condizioni. La prima è che vi siano

due o più gruppi o società, chiaramente distinguibili, con nette e ben delimitate identità sociali.

La guerra è un fenomeno collettivo ed organizzato. Un prerequisito, necessario ed irrinunciabile

per un per un evento collettivo, è l’esistenza di una collettività. Per modificarsi attraverso uno

stato di guerra, la collettività deve possedere un certo grado di organizzazione e di sovranità.

L’organizzazione è indispensabile per possedere un grado minimo di struttura sociale visibile, e la

sovranità assicura l’indipendenza del potere dalla struttura.

Una seconda condizione, prima che una guerra reale possa avere luogo, è l’esistenza di una crisi,

che coinvolga due o più collettività, causata da un reciproco conflitto di interessi.

Perché ci sia la guerra, quindi, in altre parole, i gruppi e le nazioni interessate devono sentire il

bisogno di appropriarsi di qualche cosa, che può essere indifferentemente sia un oggetto fisico o un

74 Ferracuti F., Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo, in F. Ferracuti , Trattato di criminologia, medicina criminologia e psichiatria forense, vol. 9, Giuffrè, Milano, 1988.

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bene strumentale, la cui proprietà sia contestata e che sia considerato indivisibile.

La terza condizione è la transazione dallo stato di pace allo stato di guerra,con l’accettazione di

nuovi valori, nuove mete e nuovi schemi comportamentali, che devono essere funzionali al nuovo

stile di vita.

L’ultima condizione è la necessità dell’uso della forza e di tutti sofisticati aiuti tecnologici che

l’uomo ha creato per moltiplicare il suo limitato potere di infliggere danni fisici.

Il processo che precede l’entrata nello stato guerra coinvolge l’ identificazione, da parte delle

società partecipanti, del “nemico” come tale, e pertanto la sua alienazione in qualcosa di diverso ed

ostile. E’ anche implicito un processo di proiezione delle proprie ansie drammatiche circa la perdita

o la distruzione dell’oggetto contestato, e la decisione di distruggere il nemico prima che si

appropri dell’oggetto e lo distrugga.

Insieme, e parallelamente, al processo di alienazione del nemico, nei partecipanti vi è un

sentimento maniacale di aumentata potenza ed invulnerabilità.

Tutti questi meccanismi producono quella che l’espressione latina indica come animus belli, la

volontà di condurre la guerra, psicologicamente dominante almeno in uno dei due gruppi

contendenti. Il gruppo opposto, per sopravvivere, deve assumere un atteggiamento analogo.

Il terrorismo, tuttavia, è una guerra fantastica, reale solo nella mente del terrorista.

Tale guerra fantastica, naturalmente, è solo parziale, in quanto è reale solo per uno dei due

contendenti; questi adotta valori, norme e comportamenti di guerra contro un altro gruppo,

generalmente più grande, e tenta di risolvere con la forza un conflitto basato su torti legittimi o

illegittimi. Una guerra fantastica non è né accettata né riconosciuta dal gruppo opposto che, in

effetti, tende a negarla.

La guerra fantastica, è, quindi, un fenomeno in svolgimento, in continuo equilibrio instabile tra due

possibili processi stabilizzanti: o il passaggio alla guerra reale, o il terrorismo diffuso.

La guerra fantastica diviene reale solo se riconosciuta dal “nemico”, e diviene terrorismo quando,

essendo incapace di costringere il nemico ad accettare uno stato di guerra, il gruppo che ha

cominciato le ostilità deve limitarsi a molestarlo e a tentare di destabilizzarlo attraverso

l’utilizzazione e la diffusione della paura. Le condizioni operative della guerra fantastica sono

simili a quelle della guerra reale, ma sono in parte prodotte artificialmente per mimare al realtà.

Anche la guerra fantastica, per esempio, ha bisogno dell’esistenza di almeno due gruppi, distinti ed

organizzati. Nell’ambito della stessa società, poiché la sovranità può essere attribuita soltanto a

uno dei due gruppi, quello a cui è negata tenta di ottenerla, eseguendo simbolicamente doveri e

privilegi del gruppo dominante e rigettandone le leggi dominanti ed i valori prevalenti; pertanto, si

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arroga diritto di vita e di morte sui cittadini, intraprende attività criminali proclamandone la

legalità, istituisce tribunali e promulga sentenze, applicando nuove leggi.

E’ necessaria una crisi, se non ve né nessuna, è necessario crearla; le soluzioni alla crisi vanno

respinte, ed è anche indispensabile l’esistenza di un oggetto di amore, percepito come in pericolo.

Questo oggetto non è contestato dal gruppo opposto, ma è minacciato nella sua struttura e nelle

sue funzioni. Il processo di identificare ed alienare il nemico è identico a quello che si verifica nella

guerra reale, ma può assumere caratteristiche assai più gravi e patologiche, perché è meno soggetto

al controllo della realtà ed alla critica. Infine, la guerra fantastica, come quella reale, è eseguita

portando a termine progetti di distruzione, ma la conseguente reazione a catena, non essendo

completamente mantenuta da contro-azioni da parte dell’altro gruppo, deve essere automantenuta

attraverso un’escaletion del terrore che non permette ai partecipanti di astenersi dall’azione o di

abbassare il livello del conflitto.

Ecco allora che, come ho già sottolineato, esistono tre possibili scenari nella guerra fantastica: o si

trasforma in guerra reale, ed in questo caso termina con la sconfitta di uno dei due combattenti, o si

stabilizza nel terrore, ed in questo caso può terminare solo con una nuova crisi, che rimuove la

minaccia dell’oggetto e lo rende accessibile ad entrambi i contendenti, oppure il sistema si

trasforma, riducendo o abolendo i prerequisiti della guerra.

Solo a questo punto, analizzato lo scenario possibile, si può ipotizzare che il terrorista si differenzi

dal cittadino “normale” e dal criminale innanzi tutto perché si percepisce diverso ed alieno dalla

società dominante, perché appartiene ad un gruppo caratterizzato da una forte identità ideologica,

culturale e politica, ed anche perché sente che il suo oggetto di amore è minacciato dal resto della

società, che identifica come nemica e che tenta di distruggere. Per raggiungere questa meta, che è

di amore e non di odio, egli sceglie la violenza, che impiega per generare il terrore, dato che questa

è, nella sua percezione deformata, l’unica opzione che gli sia disponibile.

Nessuno può dire chi possa, in un qualsiasi momento futuro della vita, diventare un terrorista.

L’obiettivo della studio psicologico è quello di riconoscere le variabili che portano a commettere

atti di natura violenta.

Peter Gabriel John McMullen, conosciuto come “Pete the Para”, fece parte dell’esercito Britannico,

e, nel 1972, abbracciò la linea Provisional dell’IRA. Oggi è rinchiuso nella prigione Federale di

Otisville, nello Stato di New York. Lui è un fuggitivo sia per la legge britannica sia per il Concilio

dell’Esercito Repubblicano Irlandese.

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Le sue motivazioni ed il suo modo di pensare sono di aiuto per comprendere il fenomeno della

vittimologia in crimini di violenza ed il pregiudizio di chi ha trasformato il suo essere vittima nella

vittimizzazione degli altri.

La storia e la vita di McMullen costituiscono l ‘esempio tipico di quel processo attraverso il quale

uno passa dall’essere terrorizzato a terrorizzare.

La sua giovane esperienza di essere vittima di pregiudizio lo ha fatto diventare consapevole della

sua vulnerabilità come membro di un gruppo avente un’identità negativa (gli Irlandesi Cattolici).

Dalla religione cattolica, che era molto importante per lui, lui aveva continuamente riprova della

sua identità e della sua vulnerabilità.

L’essersi sposato con una donna che faceva parte, abbracciava la linea repubblicana, fu per lui un

modello di comportamento. In lui c’era sempre un conflitto caratterizzato dal desidero di

migliorare la sua condizione di sottomesso contrapposto al suo stato d’animo spaventato e

pessimista. Questi sentimenti sono prevalentemente presenti in giovani ed adulti del Nord Irlanda

che sono stati soggetti ed hanno dovuto subire, per diversi anni, violenza politica.

Facendo quindi parte di in gruppo identificato come vittima, la personalità di Peter sentì come una

minaccia l’intenzione dei suoi comandanti ufficiali di attaccare gli inarmati, le persone indifese, la

maggior parte dei quali Cattolici manifestanti dei diritti civili.

Lui, tuttavia sentiva il grido, l’urlo delle vittime per la tortura delle interrogazioni. Questa sua

identificazione con i bisognosi, gli indifesi, e vittime, lo portò a credere, nel 1972, che la sola

possibilità, sia per lui che per il suo gruppo, era quella di utilizzare la violenza per combattere la

violenza.

Test psicologici effettuati su milioni di bambini, dai sei ai sedici anni in Nord Irlanda, dimostrano

come il loro processo di evoluzione dal punto di vista psicologico sfocia nel considerarsi in un

ottica di vittime vulnerabili, minacciate dall’ostilità dei gruppo nemico.

Ulteriori test, effettuati successivamente con membri di gruppi paramilitari quali l’IRA e l’UDA,

confermano e dimostrano la continuità con lo sviluppo cognitivo ed affettivo dei bambini.

In altre parole, quindi, chi poi diventa terrorista è il bambino che ha avuto un tale percorso

formativo, un processo evolutivo caratterizzato dalla maturazione sempre più profonda di essere

succube e vittima di ingiustizie alla quali bisogna rispondere con la stessa forza, con le medesime

armi.

Avendo vissuto e visto in prima persona come l’identità del gruppo a cui appartenevano fosse

minacciata e vulnerabile, in loro si è venuto a sviluppare un auto-diritto ad agire, senza provare

rimorso, ansietà e disprezzo per le loro crudeli azioni.

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Ecco allora che non ci deve essere sorpresa e stupore, una volta studiati i casi di bambini tra i sei

ed i quattordici anni, nel Nord Irlanda, a partire dal 1971, nello scoprire che coloro i quali hanno a

che fare con le bombe, che studiano le varie strategie di guerra a Belfast sono giovani adolescenti,

sia maschi che femmine appartenenti a famiglie della classe lavoratrice.

Bambini che sono stati terrorizzati fin dai primi anni della loro crescita sono incapaci poi di essere

funzionali, di essere integrati correttamente all’interno di una società democratica.

Adolescenti che sono stati terrorizzati, quindi diventano essi stessi terroristi, e la politica del terrore

diventa per loro uno stile di vita e ciò si estende a tutti quelli che si considerano e si identificano

come vittime, facenti parte del gruppo-vittima.

L’esperienza dei bambini e dei giovani adolescenti diventa poi il comportamento degli adulti, in un

continuo susseguirsi di generazioni di violenza.

I test, inoltre, rivelano come tali persone abbiano, sia dal punto dell’intelligenza che della

personalità, caratteri di assoluta normalità.

Esaminando la storia di McMullen e le attività dell’ala Provisional dell’IRA, non si può trovare

nulla che con certezza possa avvalorare la tesi secondo la quale il suo essere membro del gruppo

paramilitare abbia favorito o catalizzato le sue azioni di violenza.

Nessuno, inoltre, ha favorito o facilitato la sua scelta ardua e rischiosa di abbandonare il terrorismo

ed il gruppo paramilitare con il quale era legato.

Questo è in netta contraddizione con ciò che lo psichiatra Jerold Post75 sostenne nel 1987:

“terroristi politici sono guidati a commettere atti di violenza a causa di forze psicologiche, e la loro

psicologia speciale è costruita per razionalizzare atti che loro sono psicologicamente costretti a

commettere…i singoli individui sono attirati sulla strada del terrorismo e disposti a commettere

atti di violenza, e la loro logica che si manifesta nella loro psicologia e retorica diventa

giustificazione al loro comportamento.”76

Il terrorismo, però, ha molte cause e comprende diverse dimensioni, non solo la psiche del singolo

individuo e la sua relazione con l’ideologia del gruppo cui appartiene, ma anche la storia e la

natura delle forze politico-giuridiche operanti nelle aree del conflitto.

L’analisi psicologica di Post circa i terroristi indica e sostiene la tesi secondo la quale questi

individui, che sono portati a compiere azioni violente, non sono sani dal punto di vista emotivo e

75 Vedi Jerrold M. Post, Terrorist Psycho-logic, in Origins of Terrorism, Psycologies, ideologies, theologies, state of mind, Ed. Walter Reich, 1990. 76 Citato da Alexander Y, O’Day A., Terrorism in Ireland, London: Croom Helm,; New York: St. Martin’s Press 1984, p.196.

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neanche bilanciati, equilibrati nonostante la logica che sta alla base delle loro azioni e che ne

costituisce la premessa.

Analizzando la relazione che intercorre tra il singolo ed il gruppo, Post la identifica come quel

meccanismo che deve in qualche modo essere eliminato allo scopo di ostacolare il terrorismo.

Chi abbraccia la linea terroristica, le sue tattiche ed i suoi fini, entrando a tutti gli effetti a far parte

del gruppo, è, poi, successivamente, incapace, da solo, di trovare e scegliere una via, una strada per

poterne uscire.

Peter McMullen ne è uscito ed ha lottato e superato grossi ostacoli e minacce per starne fuori.

Questo esempio, che contraddice la tesi di Post, dimostra come diversi fattori e aspetti dinamici

sono alla base di quello che deve essere considerato un processo, sia dal punto di vista sociale che

psicologico, che coinvolge membri di organizzazioni terroristiche.

E’ solo di recente che la sanità mentale dal punto di vista scientifico, cerca di descrivere i sintomi di

tale processo come comportamento piuttosto che una patologia.

Ciò è dovuto al fatto che la ricerca ha dimostrato come lo stesso individuo può essere diagnosticato

sotto diverse differenti categorie, che dipendono dalla particolare fase e condizione di quando è

stata fatta la diagnosi, si è, cioè esaminato il soggetto.

E’, quindi, il crimine una malattia mentale?

“Le malattie dovrebbero essere trattate da un dottore, perciò i dottori dovrebbero trattare e curare

la “criminosi”, la grande nuova malattia che ha preso il posto della indigestione, della nevrosi,

esaurimento e stress…Questi concetti, sanità, malattia, cura sembra siano stati colpiti da

inflazione”

(Karl Erik Tornquist della Clinica di psichiatria forense di Stoccolma)

Nel diciannovesimo secolo, generalizzazioni circa il crimine erano di moda. Oggi sono rifiutati

quegli approcci ma sono inclusi nella teoria che i criminali sono criminali perché la loro struttura

cellulare contiene un extra cromosoma.

Il crimine non è una malattia mentale e nemmeno è causato da una malattia mentale non è causato

da niente di tutto ciò, perché il crimine è solo una parola che comprende innumerevoli e differenti

tipi di condotta che possono essere collegati tra loro per il fatto di essere contrari a qualche legge.

I problemi reali non possono essere risolti dietro nuove parole o definizioni.

Non si può giocare con le parole creando una risposta che non risolve concretamente il problema

del trattamento dei criminali.

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Quale è la conseguenza di ciò circa il trattamento dei criminali?

“Ci sono due possibilità”, scrive in un suo articolo il Dottore Tornquist, “certo, uno può estendere

i criteri della anormalità e decidere così di diagnosticare tali tutti i tipi di divergenze rispetto al

comportamento considerato normale, oppure uno può trattare la maggior parte dei delinquenti

allo stesso modo delle altre persone della comunità, in modo da reinserirli nella società.

Si dovrebbero trattare non tanto come se fossero malati o irresponsabili ma piuttosto farsi

domande circa il loro conto.

Ora, la mia domanda è la seguente:

Dovremmo noi cercare di trattare chi sta in prigione e ha commesso reati con la consapevolezza

che malgrado gli errori da loro commessi e le sfortunate circostanze sono comunque esseri umani

capaci di fare delle scelte e di assumersi le proprie responsabilità? Oppure ci conviene considerarli

e attribuirgli la qualifica di robots irresponsabili prodotti a causa dell’eredità o da chissà quale

cromosoma e che non possono controllare la strada che intraprendono, non sono capaci delle loro

azioni?

Bene, io credo che questa seconda strada sia tanto pericolosa quanto sbagliata.”77

“La violenza è il destino della nostra specie, ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi,

l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante.”78

Esiste quindi un’implicazione reciproca tra violenza e civiltà; l’un genera l’altra e si alimenta

dall’altra secondo la spirale continua di costrizione e ribellione, di disciplina e di volontà di

sottrarsi a norme ed obblighi.

Il piacere latente di ciascuno di noi nell’assistere alla sofferenza di altri o nel praticarla è un

desiderio che ci accompagna continuamente nella nostra vita, ”poiché da sempre gli uomini

distruggono ed uccidono volentieri.”79

Nel suo libro “Il paradiso della crudeltà”, Sofsky elabora ed approfondisce il concetto secondo il

quale la violenza è connaturata all’uomo e l’ordine civile, quindi, lungi dall’eliminarla, l’essere

umano ne può modificare semplicemente la forma.

Nella sua nuova raccolta di saggi, qualunque sia il nostro punto di partenza, di osservazione, la

conclusione non può che essere sempre la stessa: la violenza non è legata ad alcun motivo

77 Citazione fatta da Clyne P., Gulty but Insane, ed. Nelson 1973. 78 Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, 1998. 79 Wolfgang Sofsky, Il paradiso della crudeltà, Einaudi, 2000.

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particolare; povertà, fanatismo, sfruttamento, follia, conflitti familiari, traumi, sono spiegazioni

significative ma comunque troppo generiche.

L’obiettivo non deve essere quello di presumere cause, ma di descrivere in modo analitico il

processo della violenza, i rituali che l’accompagnano e che la preparano, il potere della folla sul suo

scatenarsi, e anche, se non soprattutto il ruolo dell’immaginazione, facoltà che solo l’uomo

possiede e che gli permette di escogitare forme di violenza sempre nuove ed “inspiegabili”.

La metamorfosi improvvisa di un mansueto cittadino in pluriomicida, un gruppo di persone

perbene che incita al linciaggio un presunto colpevole, la crudeltà con cui un commando di

terroristi si accanisce sulle sue vittime…

…come spiegarle, come classificarle, come giustificarle, come fare ad accettarle?

“Come le persone rispondono a certi impulsi e a certe situazioni è determinato da come capiscono

e comprendono il significato di quelle situazioni.”80

Si è soliti, infatti, anche se inconsciamente, interpretare una determinata situazione.

Le circostanze che si presentano di volta in volta nella nostra vita acquistano un diverso significato

a seconda di come noi le percepiamo e, conseguentemente, dei ruoli e delle convenzioni che

accettiamo una volta fatti nostri quei significati particolari.

Ecco allora che il “nostro sentimento, le nostre sensazioni e concezioni - le nostre attitudini - non

necessariamente precedono il nostro comportamento…in breve, il comportamento che teniamo, il

nostro tipico comportamento, modifica ed altera le attitudini che abbiamo,…l’attitudine, non è una

cosa statica, fine a se stessa, è un processo, un’interazione. 81Essa è un’interazione che coinvolge

non solo la persona e l’oggetto, ma tutti i fattori che sono presenti in quella situazione.” (Berger e

Luckman)82

80 Harre R., “The analysis of episodes”, in Israel and Tajfel, The Context of Social Psychology, 1972. 81 Molto simile è la conclusione a cui arriva Ponti nel suo studio circa la differenza tra personalità, temperamento e carattere. Il concetto di temperamento “contiene connotazioni di ‘potenzialità’ che si traducono in ‘attualità’ di modi di pensare e do interagire, cioè in carattere, per effetto delle mutevoli esperienze e vicende che la vita pone a ciascuno.” Il carattere, invece, “rappresenta la risultante della interazione tra temperamento ed ambientre: non è una componente statica della personalità, quanto piuttosto una componente dinamica, che si modifica con il tempo e con quelle vicende di vita che ne plasmano gli aspetti…” Il concetto di personalità, infine, come comprensivo di entrambi questi concetti analizzati è definito in termini di “complesso delle caratteristiche di ciascun individuo quali si manifestano nelle modalità del suo vivere sociale, e può essere intesa come la risultante delle interrelazioni del soggetto con i gruppi e con l’ambiente…è la risultante di continui scambi e influenzamenti, talchè essa non può considerarsi come data una volta per tutte, immodificabile e obbligata: anche se sono pur sempre insite nel concetto di personalità una certa costanza e continuità nel tempo del modo di essere, residuano pur sempre possibilità di cambiamento, perché altrimenti i concetti di pentimento, risocializzazione, trattamento rieducativi sarebbero privi di significato. (Cfr. Ponti G., Op. cit. pp. 200-206). 82 Berger P. L., Luckman T., The Social Construction of Reality, Hardmondsworth: Allen Lane, The Penguin Press 1967.

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Le circostanze considerate dal punto di vista oggettivo, quindi, non sono sufficienti, da sole, a

costituire le basi per le nostre attitudini ed i nostri comportamenti futuri, molto più importante e

determinante è la percezione che noi abbiamo di esse.

Un problema che si pone dal punto di vista sociologico è quello di cercare di trovare un

collegamento, una qualche possibile relazione tra motivi, azioni e giustificazioni.

Ebbene la chiave di volta per tentare di comprendere questa interazione simbolica, come del resto

ho più volte ribadito nel corso della mia tesi, è sempre e comunque l’uomo stesso, e, in questo caso,

la sua capacità di esprimere le sue intenzioni in un processo di interazione con in suoi simili.

L’elemento che ci spinge e ci porta ad agire in una particolare maniera è il risultato di un intenso

dibattito che abbiamo con noi stessi circa il fatto di come questo nostro comportamento viene visto

e giudicato dagli altri.

L’abilità di creare una certa pubblicità ed un certo tipo di accettabile retorica per definire e

difendere le nostre azioni pianificate è parte stessa del motivo o dei motivi che ci spingono ad agire

in una maniera piuttosto che in un'altra.

Ecco quindi che, in genere, c’è una considerevole continuità tra motivi e giustificazioni poichè la

nostra abilità di giustificare un certo tipo di comportamento è uno dei fattori che ci spingono ad

intraprenderlo…83

Il 14 dicembre 1971, una bomba distrusse il bar McGurk, in North Qeen Street, a Belfast, uccidendo

quindici persone, tutte Cattoliche; tre erano donne; due erano bambini.

Nonostante i richiami di un ragazzo ai giornali fuori dal pub circa il fatto di aver visto una

macchina fermarsi, scendere un uomo e piazzare la bomba, e che una chiamata anonima rivelò che

l’”Empire Loyalist” (il potere loyalista) era il responsabile, l’esercito e la polizia decisero che l’IRA

aveva messo a segno un suo obiettivo.

Il Times diede la versione ufficiale:

“Polizia e servizi segreti dell’Esercito credono che la peggior offesa, il peggior oltraggio in Ulster,

l’uccisione di quindici persone, comprendenti due bambini e tre donne, in una esplosione di un bar

in Belfast, sia stato causato da un piano dell’IRA che poi si è verificato sbagliato…”

83 Per una analisi dettagliata circa il rapporto tra terrorismo e morale si veda Jan Narveson, Terrorism and Morality, Cap. 6 in Violence, Terrorism and Justice, Ed Frey Morris 1991.

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La teoria data dall’Esercito è che la bomba nel bar McGurk fosse ‘in transito’, fosse lasciata lì,

probabilmente senza che nessuno delle persone rimaste uccise o ferite ne sapesse qualche cosa, da

un ‘corriere’ perché poi venisse recuperata da un’altra persona che si rivelò incapace di rispettare i

patti e di portare a termine il piano a causa delle operazioni di sicurezza.

Non sorprende, data questa fonte, a conferma degli stereotipi circa l’IRA, che molti Protestanti

credano a questa versione dei fatti.

John McKeague, uno dei capi attivisti dei gruppi paramilitari loyalisti della Belfast occidentale,

ribadì, nel suo Loyalist News:

“Ora la verità circa il pub McGurgk. Che parole possiamo utilizzare…

giustizia poetica? Sì…una bomba in transito, significa per un altro palazzo, un secondo obiettivo, e

noi crediamo che questo sia il Co-op in York street.

Nelle passate settimane abbiamo subito scherni ed offese da parte di elementi Repubblicani, in

riferimento al fatto che l’affare fosse stato momentaneamente sospeso prima di Natale, e quando

questo accade a loro, non gradiscono i loro stessi rimedi…l’esplosione al pub McGurk non doveva

succedere…

L’IRA E’ CADUTA NELLA SUA STESSA TRAPPOLA.”

Il punto fondamentale di tale storia è l’elisione tra Cattolici e membri dell’IRA.

Elementi repubblicani che minacciano una campagna di esplosione di bombe, non amano una

relazione, un rapporto circa la loro stessa medicina.

In questo articolo, le persone che rimasero uccise non sono mai state etichettate come Cattoliche ma

solamente come ’people’, cittadini.

Le vittime si presume e si finge siano identiche ai Repubblicani e agli “slugs” (lumaconi),

responsabili di aver messo la bomba.

Un’altra pubblicazione loyalista, collegata con i gruppi paramilitari,

The Dundonald District UDA News, parla ugualmente di auto-goal.

Questa segue il rapporto con il quale Gerry Fitt, poi primo ministro del SDPL a Belfast, venne

condannato per la bomba, giudicata lavoro di Protestanti:

“Noi stiamo aspettando il giorno che tu (così interessato verso la tua popolazione) esca allo

scoperto condannando i criminali e gli animali che hanno portato sotto distruzione e morte una

gamma e larga scala di persone non viste dal Belfast Bliz.

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Senza dubbio ciò rappresenta un ritorno di fiamma ed ha un grosso significato, rappresenta molto

per la Popolazione Protestante.”

Ciò che riporta il Woodvale Defence Association è significativamente differente:

“Molte menzogne, molta propaganda circa l’IRA sono circolate circa l’esplosione del pub McGurk,

dove morirono quindici persone, alcune delle quali innocenti, e probabilmente non aventi alcun

tipo di rapporto con ‘IRA. Ma come molti fuori Belfast, e tutti quelli fuori la provincia non

conoscono,questo bar, in numerose occasioni, è utilizzato come luogo di ritrovo di terroristi.

E’, inoltre, situato in centro, circondato dalle forze dell’IRA, in particolare l’”Artillery Flats”, che

hanno prodotto terrore per molto tempo sotto la perlustrazione dell’Esercito.”

Questo reportage continua poi a portare elementi a favore della tesi secondo la quale sia

improbabile che la bomba sia un atto di Protestanti, confermando, inoltre, la teoria della polizia e

dell’esercito data dal Times:

“…è possibile che i Cattolici credano che l’IRA dia preavvisi, ammonimenti, solamente quando

loro siano in pericolo?

Questo è possibile, visto l’odio che possiedono verso la comunità Protestante, e visto che

comunque e sempre appoggiano organizzazioni o eserciti con il solo intento di distruggere tutto

ciò che sia Protestante.”

La versione di tale giornale, quindi, è esplicita nel ribadire che la maggior parte di quelli che

morirono nell’esplosione se lo meritavano.

Solo alcuni, pochi, erano “completamente innocenti”.

Esso, inoltre è molto chiaro nello specificare il collegamento tra i frequentatori del bar e l’IRA, e

questo giustifica la morte della maggior parte di quelle persone.

Tale articolo, infine, offre e sottolinea un altro aspetto che permette di distinguere tra morti

meritate e non.

Tutti i Cattolici odiano i Protestanti.

Questi temi, quindi, devono essere trattati in un esame attento di come i Protestanti tentano di

conciliare il loro reclamo di essere nel giusto, rispettosi della legge con un realtà quale quella fatta e

costituita dalla violenza loyalista.

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Nel 1978, un loyalista venne dichiarato colpevole, condannato per gli omicidi avvenuti il 14

dicembre 1971 al pub McGurk. 84

Ecco allora che questo specifico caso, questo esempio che ho voluto riportare, dimostra come

entrambe le parti di questo conflitto Nord Irlandese abbiano grosse difficoltà a dover giustificare

comunque i loro atti terroristici, ma gli unionisti, nel farlo, hanno molte più problemi rispetto a

quanti non ne abbiano i nazionalisti, i quali trovano sempre e comunque un aiuto derivante dal

passato.

L’azione dell’IRA è congruente con l’analisi repubblicana della storia dell’Imperialismo britannico

in Irlanda ed è spinto dal desiderio di creare ed arrivare ad un futuro costituito da un’Irlanda tutta

Repubblicana, l’animo che, allo stesso modo, aveva portato all’”Easter Rising”, la famigerata

Insurrezione di Pasqua del 26 aprile del 1916, dove, alcuni rivoluzionai, capitanati da James

Connoly e dal poeta Padraig Pearse, organizzarono a Dublino una rivolta che portò alla creazione

di un governo provvisorio e proclamarono la nascita della repubblica d’Irlanda,

In nome di Dio e delle

Passate generazioni Dalle quali essa riceve le sue antiche tradizioni nazionali,

l’Irlanda tramite noi

chiama i suoi figli a raccolta sotto la sua bandiera

per lottare in difesa della libertà.

Tale insurrezione portò poi, il 6 dicembre 1921, alla firma del Trattato Anglo-Irlandese, in cui si

stabiliva che ventisei delle trentadue Contee avrebbero costituito lo Stato Libero d’Irlanda, l’Irish

Free State (questo divenne Eire, Stato libero ed indipendente, non legato in alcun modo alla Gran

Bretagna, nel 1937, quando fu varata la Costituzione), dotato di uno statuto costituzionale simile a

quello del Dominion del Canada, legato alla Corona con un giuramento di fedeltà. Per quanto

riguardava le sei Contee situate nel nord-est dell’isola, la sovranità dell’Irish Free State fu sospesa

nell’attesa che la popolazione lì stanziata, per due terzi Protestante, decidesse se aderire al nuovo

Stato. La volontà popolare si espresse contro una tale eventualità e, nel 1925, la Commissione per i

Confini confermò la scelta.

84 La vicenda raccontata è tratta da Alexander, Yonah and Alan O’Day, Terrorism in Ireland, London: Croom Helm; New York: St. Martin Press 1984 in “A case study: McGurk’s bar”, pp.19-21.

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L’Irlanda era divisa. Ecco quindi che, per i Protestanti, la loro causa è la conservazione dell’unione

con la Gran Bretagna.

L’immagine che risulta di loro è di contrasto, di contrapposizione tra il loro essere nel giusto e

comportarsi secondo la legge e la lotta, la ribellione contro i nazionalisti.

Per cercare di spiegare e trovare giustificazione alle azioni dell’UDA e dell’UVF (gruppi

paramilitari loyalisti), la sola possibilità è l’indipendenza dell’Ulster, cioè l’antitesi dell’unionismo.

Risulta quindi facile comprendere certe strategie, come quella del pub McGurk, e considerarle uso

progettato, il solo e principale piano, dopo un atto che è stato commesso per certe non proprio

onorabili ragioni, come l’odio verso i Cattolici, per presentare e mettere nella miglior luce possibile,

sotto la veste migliore l’atto stesso.

I Protestanti in Nord Irlanda non sono pacifisti.

Messo in questi termini, quindi, il conflitto nord-irlandese è una guerra tra Cattolici e Protestanti e

come hanno osservato in molti, la religione ed il diverso grado di religione all’interno delle diverse

aree geografiche costituirebbe il fulcro, il centro della disputa.85

Questo argomento fu alla base dell’incontro che Mark Juergensmeyer, autore del libro “Terror in

the mind of God”, ha avuto con i leaders dello Sinn Fein a Belfast nel 1998.

Uno di questi Tom Hartley disse che ciò che lo legava, la cosa per la quale andava d’accordo con

Gerry Adams era l’opinione secondo la quale i Repubblicani che lo appoggiano stavano

combattendo una “anticolonial struggle”86 - battaglia anticoloniale - che non ha nulla a che vedere

con la religione.

Ciò che vogliono è “British out”, vogliono che termini la presenza in Irlanda dell’Inghilterra.

85 Per un maggior approfondimento, Martin Dillon, God and gun: the church and the Irish terrorism, Orion, Londra, 1997. 86 “L’imperialismo: Negli ultimi vent’anni di lotta, abbiamo imparato molto sulla natura dell’imperialismo britannico e dei suoi alleati in Irlanda. Eravamo partiti con la convinzione che il ritiro degli inglesi avrebbe di per sé risolto gran parte dei problemi del paese. La Gran Bretagna era la fonte di tutti i nostri mali e noi credevamo che la strada per imporre quel ritiro non potesse che passare attraverso la forza delle armi. Noi sosteniamo tuttora la centralità della spartizione del territorio irlandese e dell’imperialismo, quali problemi fondamentali che la nostra nazione deve affrontare e l’importanza della lotta armata come una tattica, fra le molte altre, da impiegare nella lotta per la riunificazione e l’indipendenza economica. La lotta prolungata e la forza dell’esperienza ci hanno consentito di mettere a nudo le diverse forme dell’intervento imperialista nel nostro paese. L’indipendenza del 1922 per lo “Stato Libero” si è dimostrata illusoria: la sua economia è stata governata dal capitale finanziario e multinazionale britannico e dai suoi interessi. Come conseguenza di ciò, i bisogni e gli interessi della grande maggioranza del popolo irlandese sono stati malamente curati dai partiti costituzionali dello Stato libero. Non fa meraviglia che la disoccupazione di massa, la povertà e l’emigrazione non siano mai state effettivamente affrontate da una parte e dall’altra della frontiera perché la ricchezza e i mezzi che la producono non sono mai stati proprietà nazionale ed usati nell’interesse nazionale. Comprendiamo ora che, per avere una reale indipendenza, dobbiamo disporre della sovranità economica, oltre che di quella politica.” (Da The Captive voice n. 1 - autunno 1989.)

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Il problema è che il conflitto è stato portato sotto una disputa religiosa dall’Inghilterra, circa un

secolo fa, quando essa appoggiò un ampio numero di Protestanti, provenienti dalla Scozia e

dall’Inghilterra, a rimanere ed accamparsi nelle contee del Nord Irlanda.

Il risultato, sottolineò Hartley, fu la creazione di un clima di tensione tra popolazioni aventi due

differenti etichette religiose e, cosa ancor più importante, aventi due differenti e contrastanti modi

di pensare.

Alcuni dei problemi tra le due comunità, riguardano, infatti, due modi diversi di intendere il

“processo pensiero” religioso e le caratteristiche della cultura romana-cattolica da una parte e

quella protestante dall’altra.

I Cattolici considerano la loro comunità da un punto di vista gerarchico, essendo una peculiarità e

caratteristica del loro modo di pensare il fatto di considerare tutti i cattolici in una stessa regione,

come può essere quella irlandese, parte di una stessa comunità.

I Protestanti, dal canto loro, non considerano minimamente una tale possibilità essendo concentrati

esclusivamente alla creazione di basi locali, basi di potere, non confidando in nessun altro gruppo

o autorità.

La leadership è caratterizzata non dall’ufficio, dall’istituzione, come potrebbe essere la figura

dell’arcivescovo per quanto riguarda la parte cattolica, ma sul carisma. È la persona più carismatica

che ha il potere, sebbene esso sia effimero.

Quando uno di questi leader muore o lascia la sua posizione perché sconfitto, inizia un vero e

proprio accanimento tra i Protestanti per determinare il successore.

La figura forse più emblematica, quella che meglio esprime questo tipo concezione e modo di

pensare è il reverendo Ian Paisley, il quale, più di ogni altro ha portato la religione ad essere la base

legittimante della violenza politica che ha caratterizzato il conflitto nord-irlandese.

Paisley, può essere senza alcun dubbio considerato un vero agitatore di animi all’interno della

comunità protestante.

Nato nel 1926 da una famiglia di origine scozzese, ruppe subito con la classe dominante

protestante alla quale apparteneva la sua famiglia, e fondò, così, una sua congregazione facente

riferimento alla Chiesa dei “Presbiteriani Liberi” a Belfast.

Di grande interesse è l’impressione che Hartley ebbe quando entrò nella Chiesa, questa è la sua

testimonianza:

“…fui impressionato non solo per la semplicità protestante nella costruzione dell’edificio, ma

soprattutto per la rigida immagine di nazionalismo. Da un lato del pulpito c’era una bandiera: alla

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destra del prete era simboleggiata la Gran Bretagna, alla sinistra l’Irlanda del Nord, l’Ulster, e al

centro era posizionata una corona.

Alla base del podio vi erano delle scritte in marmo, una citava ‘Per Dio e l’Ulster’, un’altra era in

commemorazione di quei protestanti che morirono per il mantenimento dell’Irlanda del Nord sotto

la corona britannica.

Nel corridoio al di fuori del santuario vi erano i busti dei più grandi martiri di tradizione

protestante, tra i quali spiccavano Martin Luther, John Calvin, John Wesley e Gorge Whitefield.

In un’altra ala della chiesa una serie di finestre rappresentavano significativi momenti di vita dello

stesso Ian Paisley, la cui immagine era ovunque sui vetri.”87

Questa descrizione della Chiesa di Paisley, però, rappresenta solamente un aspetto della sua

personalità, una parte del suo essere protestante.

L’altro lato, strettamente collegato al primo, è il suo essere capo e leader di una congregazione, il

“Word Congress of Fundamentalists”, il cui obiettivo è quello di mostrare il proprio distacco e

disaccordo con il “Word Council of Churches”, l’essere capo e leader dell’”European Institute of

Protestant Studies” ed aver creato, quindi una fitta rete che portò ad essere collegate una settantina

di chiese con venti mila seguaci in dodici paesi tra i quali l’Australia la Germania e gli Stati Uniti.

L’ultimo aspetto della sua persona è rappresentato dalla politica.

Nel 1998 fu contemporaneamente a capo di ben tre partiti politici.

Contrario al fatto che la maggior parte dei protestanti nel Nord Irlanda fosse moderato e troppo

poco attivo, fondò lui stesso un suo partito, il DUP, “Democratic Unionist Party.

Il problema è cercare di capire il grado di connessione tra la politica e la religione e, quando

Hartley intervistò Stuart Dignan, un membro del DUP, questi disse: “sono pienamente d’accordo

sul fatto che la religione è in una qualche maniera inserita nella vita politica…un simbolo di questo

legane è dato dalla frase “per Dio e per l’Ulster”… in una sua predica egli pose la domanda circa il

fatto di dove, al, giorno d’oggi, noi potremmo trovare Gesù Cristo rispondendo immediatamente:

‘non in Vaticano’…successivamente bollò i Cattolici come ‘portatori di un inganno satanico’…”88

Dignan, inoltre, ribadì che Paisley non dava direttamente supporto alle azioni terroristiche, ma era

comunque chiaro che tutte le sue dichiarazioni non potevano non dare un sostegno morale, in

quanto, perlomeno incoraggiavano la causa protestante.

Billy Wright, un protestante accusato di diversi atti terroristici, rivelò alla BBC che Paisley era uno

dei suoi eroi e che lo considerava come uno dei migliori difensori e sostenitori della fede, ed alla

87 Citato da Juergensmeyer M., Terror in the mind of God, University of California Press 2000, p. 38. 88Juergensmeyer M., Op. cit. p. 40.

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specifica e precisa domanda rivoltagli dal giornalista Martin Dillon:

“Il conflitto Nord Irlandese è una guerra di religione?”

Wright rispose:

“la religione è parte dell’equazione.”89

Ecco allora che, ancora una volta, ho dimostrato come non sia possibile arrivare ad una definizione,

come il terrorismo sia un concetto comprensivo di diversi e svariati fattori tutti in relazione l’uno

con l’altro, tutti collegati all’interno di questa equazione.

Come ho già avuto modo di sottolineare nel secondo capitolo della mia tesi, però, la definizione, in

generale , qualsiasi essa sia, non è altro che un’equazione e, come tale è costituita da due membri,

da due parti, proprio come in una guerra, una posta di fronte all’altra.

Il terrorismo, come analizzato, si inserisce all’interno di una particolare battaglia, quella politica.

In questo particolare mondo il problema cruciale non è tanto la filosofia della ribellione che deve

essere studiata, ma , piuttosto, l’individuazione di quei particolari ribelli, il comprendere, per

utilizzare un ‘espressione di Camus, “chi è il ribelle che dice di no? Quello che si oppone?”

Che tipo di autorità hanno queste persone per superare certi limiti o meno e per disobbedire a

degli ordini piuttosto che aiutare la società nel formare regole chiare e precise?

Ecco allora, che, restando sempre in tema di equazione, si passa ad una piano legale, in base al

prodotto di più o meno calcolato e premeditato stereotipo derivante dalla combinazione di modi e

metodi di resistenza da una parte e le variazioni di misure di controllo da parte dell’autorità

dall’altra. Ribelle è colui che si oppone a quelle misure di controllo dell’ autorità, ma entrambe le

parti usano stereotipi per convincere la maggior parte della popolazione circa il loro essere nel

giusto. In tale studio circa il terrorismo quale crimine politico, il problema di stabilire in maniera

precisa e definitoria, appunto, quale tipo di reato esso sia, Austin Turk afferma che l’impossibilità

di definire cosa esso sia realmente è dovuto al fatto che esso sarà sempre e comunque espresso in

termini di ciò che le autorità intendono essere la resistenza, intendono essere la minaccia.90

89Juergensmeyer M., Op. cit. p. 41. 90 Non esiste alcun consenso tra i criminologi circa il modo di definire la criminalità politica, il come studiarla e cosa si sappia con precisione su di essa. Quando è che un reato deve essere considerato “politico”? la domanda stessa implica la difficoltà di distinguere il reato politico da altri tipi di reati. Benché esistano definizioni giuridiche di reati quali il tradimento e il terrorismo, si scopre anche che relazioni e lotte politiche possono essere associate alla formulazione, al compimento ed alla violazione praticamente di qualsiasi legge. Non sorprende che, quindi, i sistemi giuridici tendano nettamente a riflettere e sostenere ineguaglianze prestabilite di potere e di privilegi. Il reato politico, viene quindi definito, secondo Turk, come qualsiasi cosa che venga considerata o prevista dall’autorità come resistenza minacciosa alla struttura prestabilita di risorse e di opportunità differenziali. Nessuna ipotesi può essere fatta nei riguardi della moralità e degli effetti delle azioni sia legali che illegali nell’analizzare gli sforzi tesi a difendersi od opporsi all’autorità politica. Interessanti sono, poi, le ipotesi

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Il problema principale, però, consiste nel fatto che tali interpretazioni legali possono

continuamente variare col tempo e, pertanto, la natura del crimine politico, definito in una certa

maniera in un certo momento storico, può essere definito diversamente in un altro contesto,

addirittura opposto a quello precedente.

Ecco allora che la legge, definendo il crimine politico in generale ed il terrorismo in particolare, si

distingue per la politica che vi è celata, per la sua arbitrarietà e indeterminatezza.

L’imprecisione nella determinazione degli elementi di questi crimini politici, permette, quindi,

all’autorità di sentirsi legittimata ad attuare certi tipi di comportamento in relazione a certe

particolari situazioni.

Tali definizioni, in definitiva, non sono altro, secondo Turk, che il mezzo e lo strumento per la

sicurezza ed il mantenimento dell’ordine, della struttura democratica.91

Il termine terrorismo, utilizzato per punire i rivoluzionari politici, dimostra e mette in luce

l’arbitrarietà di definizioni legali nell’ambito della criminalità politica, comprensiva di una serie di

fattori troppo ampia e relativa che caratterizzano l’equazione stessa.92

Nei prossimi due capitoli analizzerò in maniera approfondita entrambi i membri dell’equazione,

da una parte chi è definito terrorista, attraverso uno studio dall’interno, il punto di vista del

criminale stesso, nell’altro, l’autorità, le istituzioni, nel loro tentativo di rispondere al fenomeno

terroristico.

Prima, però a dimostrazione di quanto affermato sino a qui, voglio riportare un caso che, più di

ogni altro è stato ed ha rivestito notevole importanza nella storia dell’Irlanda, un caso che dimostra

come la definizione legale di terrorismo abbia una portata davvero sempre troppo poco assoluta e

sempre più arbitraria passibile di infinite e svariate interpretazioni.

Il caso è quello di McKee che, nel loro libro relativo a “Casi specifici del terrorismo irlandese”,

Alexander Yonah e Alan O’Day analizzano e riportano fedelmente dagli archivi di Stato.93

simili, ma con definizioni significativamente diverse, a conferma di quanto ho esposto nel testo, di Roebuck e Weber da una parte e Ingraham dall’altra. Secondo i primi, infatti, la definizione comprende le “azioni illegali o disapprovate commesse da agenti governativi o capitalisti, come pure le azioni commesse dal popolo contro il governo”. (Cfr. Roebuk J., Weeber S., Political Crime in the United States, Praeger Publishers, New York 1979, pp. 16-17.) La definizione di Ingraham, invece, limita il concetto di reato politico a “qualsiasi atto od omissione, o linea di condotta legalmente considerate dalle autorità come politiche”. (Cfr. Ingraham B., Political Crime in europe, University of California Press, Berkleey, California 1979, pp. 13-19.) 91 Per un’analisi circa cosa intenda Turk per “ordine” si veda Turk A. T., La criminalità politica – La politica criminale pp. 54-58. in Ferracuti F. (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. 9, Giuffrè, Milano 1988.. 92 Si veda Turk T. A., Criminality and legal order, Rand McNally and Company: Chicago 1972. 93 Cases and materials on terrorism: three nations’ response, Edited by Noone M. F., Alexander Y., pp. 275-278.

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Ne riporto la traduzione:

“McKEE v.CHIEF CONSTABLE FOR NORTHERN IRELAND”

Lord Roskill:

Miei cari, nella mattina dell’8 Settembre 1981, la Guardia Graham della RUC (Royal Ulster

Constabulary) si è recata con un altro ufficiale di polizia ed un soldato alla casa del convenuto in

Theodore Street in Belfast.

Le istruzioni date a Graham la sera prima dal suo superiore, il Sergente Jackson, erano di arrestare

il convenuto come “sospetto terrorista”.

La dichiarazione di Graham, che nel processo il giudice McDermott J, ha preferito rispetto a quella

fornita dal convenuto, era che Jackson gli ha confermato che il convenuto “era un sospetto

terrorista e da quello che lui mi disse circa quella persona io fui fermamente convinto che ciò era

corretto.”

Graham, inoltre, disse che quando lui arrestò il convenuto gli disse:

Io ti arresto in base alla sezione 11 dell’Emergency Powers Act 1978 e ti porto a Castlereagh.

Subito dopo lui disse – “Per cosa?”

Io gli risposi che era sospettato di terrorismo.

Il convenuto venne quindi arrestato, detenuto ed interrogato.

Circa alle 10:00 p. m dello stesso giorno venne rilasciato dopo essere stato in custodia per circa

diciotto ore.

Il convenuto ha citato in appello l’autorità di polizia responsabile per l’azione di Graham e gli altri

per danni, abuso, arresto, arresto e imprigionamento illegale.

In appello la difesa fece affidamento sulla sezione 11 del Northern Ireland Act 1978

(Provvedimento di Emergenza).

La Sezione 11 dello Statuto recita:

Ogni Guardia può arrestare senza autorizzazione ogni persona che questa consideri sospetta di

essere un terrorista.

La Sezione 31 definisce “terrorismo” e “terrorista”nei seguenti termini:

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“Terrorism” significa l’uso di violenza per fini politici e comprende ogni uso della violenza con

l’intento di mettere la popolazione o una parte di essa nella angoscia, paura;

“Terrorist”significa una persona che è o che è stata implicata nella perpetrazione o nel tentativo di

questa di qualsiasi atto terroristico, o nella direzione, organizzazione, addestramento di persone

per fini terroristici;…

MacDermott J. respinse l’azione del convenuto.

Due conclusioni sono cruciali di tutto il suo dotto giudizio.

Primo:

“Io sono convinto…che la Guardia quando si recò a Theodore Street era convinta nella sua

mente che il convenuto era sospetto di essere un terrorista e che lo stesso sospettato ne era

consapevole.”

Secondo

“…Io accetto che la Guardia Graham ha sospettato in maniera genuina che il convenuto era un

terrorista. Come si può notare dalla definizione “terrorist” e “terrorism” sono definiti in termini

ampi.

Secondo la mia opinione l’arresto fatto dalla guardia non era la conseguenza della conoscenza o di

alcun sospetto circa la natura del coinvolgimento in terrorismo che il suo superiore attribuiva alla

persona che è stata arrestata.”

Fu per questa ragione che il giudice ha ritenuto l’arresto del convenuto legale ed ha rigettato la sua

azione.

Il convenuto ricorse alla Corte d’appello, Jones L.J., O’Donnel L.J. e Kelly J.

La Corte, il 5 Dicembre 1983, in maggioranza, Jones L.J. il solo dissenziente, ammise l’appello,

giudicando l’arresto illegittimo decretando un risarcimento danni di £ 500 contro gli appellati. Il

ragionamento di Jones L.J. era fondamentalmente quello del giudice di primo grado.

La maggioranza, tuttavia, la pensava diversamente. Dopo aver dichiarato che la legge ”richiede un

sospetto di essere terrorista in termini circoscritti e precisi tanto che l’uso popolare della parola

abbia significato sia per una guardia di polizia che per un inesperto, un profano”, il giudice disse:

“Neppure rientra in questa definizione colui il quale, per esempio, è solamente un membro di una

proscritta o paramilitare organizzazione, neppure quello la cui attività e di semplice supporto per

tali organizzazioni.

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Così, se una guardia di polizia sospetta che una persona sia membro di una proscritta

organizzazione nulla più, lui non ha il potere di arrestarla secondo quanto stabilito dalla ” Sezione

11 dell Act 1978”, poiché tali membri non rientrano sotto la definizione di terrorista data dalla

legislazione stessa.

Poi, nel suo giudizio, formulò la seguente domanda: ”C’era l’ evidenza prima del processo che

consentisse di trovare un qualche cosa che potesse confermare il sospetto della Guardia Graham

circa l’appellante ed il suo essere terrorista secondo la definizione della sezione 31?”

Lui concluse che non c’era poiché dalla successiva domanda fatta al convenuto dopo il suo arresto

dal Detective Guardia Moody, risultò che il convenuto era un membro del Provisional IRA.

Riporto le parole del giudice:

“ Perciò il più grave coinvolgimento in atti terroristici del convenuto come sospettato dagli

interrogatori e dai loro risultati era solo quello di essere membro del Provisional IRA. Io trovo

sorprendente se il Sergente Jackson conoscesse o sospettasse di più. Ciò può anche essere possibile,

comunque lui non è chiamato a darne prova.

Se invece non è così, il massimo che lui poteva fare era comunicare alla Guardia Graham era che il

convenuto fosse sospettato di essere un membro del Provisional IRA. Se la Guardia ha accettato

questo e questa è il suo sospetto, ecco allora che tale sospetto, come concetto sembra più ristretto di

quello espresso e richiesto dalla “sezione 11 e 31 dell’ Act”.

Miei signori, con profondo rispetto per la maggioranza della Corte d’Appello, io non posso essere

d’accordo. Neppure con il fatto che le due definizioni della sezione 31 siano circoscritte.

Contrariamente, in comune con il giudizio di primo grado, io credo che esse siano ampie.

Non c’era indizio alcuno attraverso la testimonianza della Guardia Graham secondo la quale la

ragione della sua ferma opinione circa il fatto che il convenuto fosse un sospetto terrorista era o era

il credere che fosse un membro del Provisional IRA. Invece quella organizzazione non è in nessun

modo citata dall’inizio alla fine della testimonianza di Graham. In base ad una esatta ricostruzione

della sezione 11 della legge, il problema principale è il pensiero, lo stato psicologico dell’ufficiale

che ha compiuto l’arresto.

Tale stato di mente può essere derivato legittimamente dalle istruzioni date dal superiore

all’ufficiale.

Il problema di tutto sta nella mente della guardia Graham.

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Miei signori, l’onestà di Graham si è dimostrata dall’inizio alla fine e ciò mi sembra possa essere

confermato dal fatto che lui stesso, nella sua dichiarazione disse che Jackson lo avvertì di prestare

attenzione e che dopo che avesse bussato alla porta del convenuto, ”di stare dietro al muro perché

io (Jackson) sospetto che lui abbia una pistola.”

In conclusione, io sostengo che non che non ci sia prova che dimostri come il sospetto di essere un

semplice membro di un’organizzazione terroristica fu un fattore che in una qualche maniera abbia

influito nella mente della Guardia Graham al momento in cui ha effettuato l’arresto.

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“Rappresenta una parte del compito della legge dare riconoscimento a certi ideali che sono e rappresentano

l’esatto opposto di quanto stabilisce la condotta del governo.

La maggior parte delle difficoltà nel realizzare ciò derivano dalla necessità di pretendere di fare una

determinata cosa mentre, in realtà se ne mette in atto un’altra.”

Thurman A., 1962

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CAPITOLO V

RepoRepoRepoReportage di Roy Nugent, “Inside the IRA”:rtage di Roy Nugent, “Inside the IRA”:rtage di Roy Nugent, “Inside the IRA”:rtage di Roy Nugent, “Inside the IRA”:

Organizzazione, Struttura, Tattiche e Fini del più Organizzazione, Struttura, Tattiche e Fini del più Organizzazione, Struttura, Tattiche e Fini del più Organizzazione, Struttura, Tattiche e Fini del più

significativo gruppo terroristico irlandesesignificativo gruppo terroristico irlandesesignificativo gruppo terroristico irlandesesignificativo gruppo terroristico irlandese “Mai così tanti uomini

In Irlanda si sono riuniti insieme, in pace o in guerra. E’uno spettacolo non solo grandioso

ma sconvolgente, non suscita solo orgoglio ma anche paura.

Passo dopo passo ci avviciniamo al nostro obiettivo,

ma sono passi da gigante.”

O’ Connell D.

Sto qui, sulla soglia di un altro mondo palpitante. Possa Dio avere pietà della mia anima.

Sono pieno di tristezza perché so di aver spezzato il cuore della mia povera madre e perché la mia

famiglia è stata colpita da un’angoscia insopportabile. Ma ho considerato tutte le possibilità e ho

cercato con tutti i mezzi di evitare ciò che è divenuto inevitabile: io e i miei compagni vi siamo stati

costretti da quattro anni e mezzo di vera e propria barbarie.

Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra

perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non

voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione

irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e

donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata.

Questa è la ragione per cui sono carcerato, detenuto, torturato.

Nella mia mente tormentata c’è al primo posto il pensiero che l’Irlanda non conoscerà mai pace

fino a quando la presenza straniera e oppressiva della Gran Bretagna non sarà schiacciata,

permettendo a tutto il popolo irlandese di controllare, unito, i propri affari e di determinare il

proprio destino come un popolo sovrano, libero nella mente e nel corpo, definito e distinto

fisicamente, culturalmente ed economicamente.

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Credo di essere soltanto uno dei molti sventurati irlandesi usciti da una generazione insorta per un

insopprimibile desiderio di libertà. Sto morendo non soltanto per porre fine alle barbarie dei

Blocchi H o per ottenere il giusto riconoscimento di prigioniero politico, ma soprattutto perché

ogni nostra perdita, qui, è una perdita per la Repubblica e per tutti gli oppressi che sono

profondamente fiero di chiamare “generazione insorta”.

( Sands B.)

Reportage americano di Roy Nugent,

L’I.R.A. dall’interno, pubblicato nell’agosto del 1994 dal mensile

Spin Magazine di New York.

“INSIDE THE IRA”

Gli autocarri dell’Esercito britannico si schierano tutto intorno mentre le truppe invadono il

quartiere della ricerca di armi appartenenti all’Esercito Repubblicano Irlandese: I soldati puntano i

loro fucili contro tutto ciò che si muove. Cani ed esseri umani uccelli e fumo dei camini, tutti sono

bersagli a Belfast Ovest.

La gente che torna dalla prima messa si accorge dell’agitazione in corso nel quartiere, e fa dietro

front. Non è la prima volta che questo succede, e conoscono bene la procedura. Sono terrorizzati

dall’umiliazione dell’essere sottoposti a fermo senza motivo, dalle serrature rotte, sfondate,

specialmente se le loro case sono nella lista degli obiettivi. Così si allontanano per rimandare la

sofferenza. Io invece resto a guardare. Un gruppo di poliziotti e soldati mi sorveglia. Gli strumenti

di sorveglianza a bordo di tre elicotteri ci tengono tutti sotto controllo, e, come dei del cielo,

ascoltano tutto.

Quattro appartamenti vengono messi completamente sotto sopra prima che i cani da fiuto siano

premiati con bocconcini e carezze per avere individuato un lanciagranate dell’IRA e sei razzi sotto

le assi di un pavimento di legno. Mentre le truppe sfilano fiere, ostentando l’equipaggiamento

catturato perché tutti possano vedere, un poliziotto mi si avvicina e mi dice: ”E’ stata una buona

caccia e una buona giornata.”

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“E’ soltanto una giorno come tutti gli altri, stronzo, un giorno come tutti gli altri,” ringhia sottovoce

alla mia destra un abitante del quartiere. Ma quando un elicottero balza innanzi verso di lui

cercando un migliore angolo di osservazione, si tuffa dietro a un edificio.

Le telecamere degli elicotteri possono leggere gli ingredienti su un sacchetto di patatine a una

distanza di quasi ottocento metri; i loro microfoni possono isolare la voce di una sola persona tra

migliaia che fanno il tifo a un incontro di calcio.

Quest’uomo, senza dubbio, si è appena guadagnato qualche aggiunta al dossier elettronico che lo

riguarda. Mentre io non l’ho più visto dopo, domandandomi se fosse finito in galera o,

semplicemente, se ne stesse in casa, al riparo dalla pioggia continua, con ogni probabilità la polizia

sa tutto di tutti i suoi movimenti.

I servizi segreti britannici, l’MI5 (Military intelligence 5) e l’MI6 (Military intelligence 6) hanno

trasformato l’intera Irlanda del Nord in una gigantesca banca dati che essi possono scandagliare

per ottenere informazioni. La rete opera sotto diversi nomi di codice, come Vengeful

(“Vendicativo”) e Cruciale (“Prova del fuoco”), trasferendo nella realtà di tutti i giorni l’incubo di

Orwell. Telecamere e dispositivi d’ascolto si protendono dagli edifici, dai ripetitori della radio, dai

pali dei telefoni, dagli alberi, dai baracchini dei gabinetti pubblici; e si celano dietro gli specchi, i

pannelli dei soffitti, gli schermi, le ventole. Questi occhi ed orecchie elettronici sono collegati a

super computer che analizzano le minuzie della vita di ogni giorno per costruire modelli di

comportamento previsto. Qualunque variazione spinge le autorità a decidere se, e che cosa, occorra

fare. Allo stesso modo, la rete telefonica viene esaminata elettronicamente alla velocità di più di un

milione di telefonate al minuto, allo scopo di individuare conversazioni che si sospettano essere

utili all’IRA. Dall’istante stesso in cui viene pronunciata una parola o una frase chiave, la chiamata

viene registrata e un detective si occupa del caso. Ma i miei amici di Belfast continuano a

correggere le mia percezione di questo sistematico spionaggio. Essi assicurano che non si tratta di

un grosso problema; hanno imparato non solo ad adattarsi alla sua presenza, ma anche ai modi per

far sì che il sistema si ritorca contro se stesso. Una sola telefonata, infatti, può spedire centinaia di

soldati britannici a inseguire il richiamo di uno specchietto per le allodole, lasciando così scoperta

una zona dove l’IRA può attaccare.

Qualche giorno dopo, nel quartiere dove erano state trovate le armi, Jimmy mi invita a prendere un

tè da lui. Jimmy è un vedovo settantenne, e vive nella stessa casa di due camere in cui aveva

contribuito a far crescere otto figli. Sopra il sofà sdrucito una fotografia incorniciata attira la mia

attenzione, e Jimmy me la presenta con queste parole: ”Belfast nel 1931, al tempo della

Depressione.”

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In primo piano, col dorso rivolto alla macchina fotografica, alcune dozzine di poliziotti e di soldati

puntano i fucili contro una folla di giovani che estraggono le pietre del selciato e le lanciano. Verso

i lati della foto, all’ombra di squallide case operaie, alcune madri sorreggono gli infanti con un

braccio mentre protendono l’altro ad indicare, con un gesto di accusa,le uniformi. Subito sullo

sfondo i pinnacoli di Dio e dl commercio, campanili e ciminiere, perforano un cielo macchiato dalle

pietre che volano a mezz’aria.

Jimmy annuisce quando riconosco il luogo ripreso nella foto: Beechmount Avenue, tenace

quartiere cattolico non lontano da qui. Qualche giorno dopo perquisizione, l’IRA ha attaccato con

razzi due autoblindo della polizia che pattugliavano la zona. Uno dei proiettili ha fatto cilecca,

rimbalzando sulla porta di un’autoblindo senza fare danni; l’altro è stato letale, esplodendo dentro

al secondo veicolo strappando gambe e aprendo il tetto del blindato come fosse una scatola di

sardine.

Jimmy mi ordina di studiare con cura la fotografia.

Non avrò il tè fino a che non vi identificherò i particolari che il tempo e la guerra hanno cambiato.

Dopo 60 anni non molto è diverso, e mi ci vuole un po’ per notare che le ciminiere oggi non ci sono

più, fatte probabilmente crollare negli anni Settanta, quando la locale industria tessile andò a

catafascio. E nel luogo ove nella foto sorgeva un panificio, oggi c’è un terreno abbandonato

trasformato in discarica di rifiuti.

“Era tanto tempora, forestiero. ”Jimmy mi conduce dentro alla fotografia. I ragazzi oggi portano le

scarpe e i pantaloni lunghi. E tirano granate, non pietre…E guarda i fucili. Nessuno ha più gli

Enfield. Tutte e due le parti usano fucili automatici: Armalite, Kalashnikov, Uzi…”

Mi indica un suo cugino tra i ragazzi della foto; Jimmy quel giorno era ad un paio di isolati di

distanza, anche lui intento a tirare sassi alla polizia. Tutti i suoi amici di infanzia si erano arruolati

nell’IRA, dice Jimmy; si trattava di una tappa obbligata del divenire adulti a Beechmount, quartiere

povero. E se domani Jimmy trovasse la lampada di Aladino e il genio esaudisse il suo desiderio di

tornare giovane, si arruolerebbe di nuovo. I cattolici vengono ancora trattati come cittadini di

seconda classe, mi dice, e si scontrano con la stessa discriminazione istituzionalizzata che venne

loro imposta nel 1921. ”Prova a trovare un lavoro,” dice con tono di sfida.

Che un cattolico trovi lavoro è molto poco probabile. Il tasso di disoccupazione di Beechmount è

quasi del 70 per cento. Gli abitanti vivono del sussidio,costretti a tirare avanti con una media di 56

dollari alla settimana, cosa non facile in una città dove un pacchetto di sigarette costa 4 dollari ed il

cibo è più caro che a New York o a Londra. Nel 1993 da un indagine governativa sul milione e

mezzo di abitanti dell’Irlanda del Nord risultò che mentre il 24 per cento dei maschi cattolici era

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senza impiego la percentuale discendeva al 10 per cento per quanto riguarda la forza lavoro

protestante. Il differenziale tra i due settori della popolazione è rimasto stabile dal secolo scorso,

tanto nei periodo di espansione economica quanto in quelli di depressione. Sebbene oggi vi sia una

borghesia cattolica emergente, composta per la maggior parte da medici e avvocati che hanno

approfittato della fine forzata della discriminazione del sistema universitario negli anni Sessanta,

ancora adesso un ragazzino cattolico ha molte più probabilità di finire in galere che all’università.

Jimmy va in cucina per fare il tè, da cui si diffonde un aroma fresco e confortevole. La freschezza è

rara nell’Irlanda del Nord, che invece produce avvizzimento e fa del dolore una industria

domestica. E’come se il passato, come disse una volta l’esploratore Trader Horn, non avesse ancora

esalato l’ultimo respiro. La comunità protestante non si è liberata da una mentalità di assedio,

sviluppatasi nel secolo scorso, che la rende sospettosa di ogni novità e timorosa di cedere anche di

un solo centimetro. Tra i cattolici si prova il senso di frustrazione che viene da un’opera non finita,

la sensazione che in realtà non potrà cambiare nulla fino a che l’Irlanda non sarà unificata. Questo

rende la cultura immobile, con poco altro da celebrare se non il conflitto. Il progresso è stato tenuto

in ostaggio da generazioni di pistoleri, gli uni con le maschere e gli altri con gli elmetti,intrappolati

in una guerra che era finita, in teoria, nel 1921. In quell’anno venne firmato il Trattato Anglo –

Irlandese, che divise l’isola in due parti: nel Sud una repubblica di 26 contee; e nel Nord un

avamposto dell’Impero Britannico, con 6 contee e 14000 chilometri quadrati. Da come risulta essere

la situazione oggi, quel documento si limitò soltanto a trasformare un inferno in un fuoco costante.

Mi distraggo da questi pensieri quando Jimmy esce dalla cucina, mi passa accanto veloce, apre al

porta di casa, e grida”vaffanculo!”a un soldato foruncolosi, in piena tenuta da combattiment .

”Esci dal mio giardino!”

Dalla finestra vedo che il soldato-ragazzino torna con un salto dall’altra parte del muretto, alto fino

al ginocchio, che delimita un piccolo riquadro coperto di erbacce e vetri rotti. “Mi scusi, signore,”

dice con accento di Liverpool. Alla vista di una pattuglia dell’Esercito britannico e di due poliziotti

che discendono la strada, Jimmy impreca di nuovo, mostrando il suo disappunto. Richiude la porta

e di colpo desidera avere un cane addestrato a mordere i soldati inglesi. “Un mastino o un

rottweiler sarebbe quello che ci vuole.”

Jimmy osserva dalla finestra, e non smette più di parlare delle truppe della corona inglese, che per

secoli e secoli sono state una presenza fissa in Irlanda. Esse arrivarono dopo che l’unico papa

inglese di nascita, Adriano IV, aveva emanato nel 1155 un abolla papale che conferiva al re inglese

Henry II il titolo di signore dell’Irlanda. Al momento attuale ci sono quasi 20000 soldati stanziati

nell’Irlanda settentrionale, e un buon numero di essi infesta il quartiere di Beechmount giorno e

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notte. Jimmy li paragona a formiche alla continua ricerca di barattoli di miele pieni di armi

dell’IRA; riserva invece analogie escatologiche agli 8000 poliziotti della Royal Ulster Constabulary

(RUC). A differenza dei ‘bobbies’ britannici, il normale poliziotto della RUC è armato fino ai denti.

Nonostante questo armamento, senza la presenza di una scorta di soldati essi si avventurano di

rado fuori dalle loro autoblindo. Dato che sono tutti reclutati in Irlanda del Nord, i poliziotti sono

bersagli privilegiati sia per l’IRA, sia per i gruppi paramilitari lealisti, e tra questi soprattutto la

Ulster Defence Association (UDA). L’IRA li considera traditori della patria irlandese, mentre la

UDA li considera traditori del loro retaggio protestante, in quanto ostacolano i guerriglieri lealisti.

Jimmy si accorge del mio scarso interesse per la sua tirata, e passa a parlare della Dichiarazione di

Downing Street (Dicembre 1993), l’ultima iniziativa di pace di Londra. “Con quel pezzo di carta

non mi ci pulirei nemmeno il culo,” commenta. Più di 3100 persone sono morte in Irlanda del Nord

nel corso degli ultimi 25 anni di conflitto, un periodo crudele che è stato soprannominato “The

Troubles” (“I Disordini”), e Jimmy ritiene che ne moriranno un sacco d’altre prima che si arrivi ad

una soluzione attuabile. Come molti nazionalisti intransigenti, egli vede il futuro entro una chiave

di lettura rigida, a suo agio con la convinzione politica che il potere delle pallottole è più

importante di quello delle schede elettorali. E quando considera il passato, la storia della lotta che

ricostruisce è addomesticata, piena di gloriosi avvenimenti e di epiche campagne militari, ma senza

traccia degli sbagli, dei voltagabbana e degli assassini. E’ comunque disposto a seguire la linea

politica indicata dal Sinn Fein, il braccio politico dell’IRA.

“Una scissione nel movimento sarebbe la cosa peggiore di tutte,” dice.

Negli ultimi tempi, il Sinn Fein si è mobilitato in favore di una pace negoziata. Il partito ha detto

che le parole della dichiarazione di Downing Street non sono chiare, e vuole ricevere una risposta

alle 20 domande che il linguaggio ambiguo del documento lo ha spinto a porre. La replica di

Londra a metà Maggio del 1994 ha chiarito alcuni punti oscuri, ma mancano ancora i dettagli e

l’indicazione delle scadenze del negoziato proposto. E’però certo l’impegno del Sinn Fein a far sì

che la violenza non sia più lo strumento dell’agire politico in Irlanda del Nord. Il presidente del

partito, Gerry Adams, che a quanto si dice è stato un tempo volontario dell’IRA, è convinto che se

vi sarà un accordo giusto al tavolo di pace l’IRA deporrà le armi.

Sono venuto in Irlanda per scoprire che cosa la stessa IRA abbia da dire al proposito, e mi interessa

sapere come si prepara al futuro. Potranno i suoi volontari adeguarsi ad una situazione di pace,

conducendo la stessa vita prosaica che la maggior parte di noi conosce così bene da passare intere

ore a fantasticare fughe nell’avventura? Dopotutto, i volontari dell’IRA non solo hanno scritto nei

fatti il libro della guerra di guerriglia, ma lo hanno aggiornato di anno in anno. Essi incarnano

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l’immagine di un corpo armato terroristico disciplinato ed esperto, e perciò hanno un posto

nell’immaginario collettivo. Ma saranno sufficientemente forti, sia in quanto gruppo sia in quanto

individui, da ricostruire su basi nuove il loro proprio mito e da porre dietro di sé ciò per cui

avevano rischiato le loro vite, la guerriglia da loro pianificata, organizzata, e condotta per decenni?

Mi era stato suggerito che Jimmy poteva forse farmi avere un contatto con la dirigenza dell’IRA.

Infatti uno tra i suoi figli più giovani è rinchiuso nei Blocchi H della prigione di Long Kesh, e si

dice che sia un dirigente dell’IRA, e che usi suo padre per trasmettere messaggi tra la galera e

l’esterno. Mentre beviamo il tè rispondo alle domande di Jimmy su come sono cresciuto nella mia

famiglia irlandese d’America,con parenti che si rifiutavano di usare la marmellata di arance perché

era non solo inglese, ma dello stesso colore dell’Ordine d’Orange. Gli racconto il mio primo ricordo

della matematica, quando mio nonno O’Donnell mi teneva sulle ginocchia e mi faceva ripetere:

”26+6 è uguale a 1: una sola Irlanda.”

Il reportage che desidero fare, ammetto, è da un solo punto di vista: quello da dietro la maschera

del guerrigliero.

Alla fine Jimmy mi dice: ”Come posso esserti di aiuto?”.

Allora gli chiedo se mi può presentare ad amici di suo figlio. Egli posa la tazza di tè e giocherella

con un coltello, mentre mi guarda da capo a piedi, come se stesse considerando come tagliare una

porzione di montone. Subito dopo, col coltello ancora in mano, mi accompagna alla porta. Si è

ricordato all’improvviso di un appuntamento a cui non può mancare.

Così salgo sulla macchina a noleggio per l’ennesima volta, chiedendomi se entrerò mai in contatto

con l’IRA. Le persone che ho incontrato mi hanno offerto il loro tè, e il racconto di molti ricordi, ma

non i loro contatti con l’IRA.

L’Esercito Repubblicano Irlandese con me sta dimostrando di essere una entità inafferrabile,

proprio come dicono sia. Esso per lo più è attivo di notte, e sempre in piccoli gruppi. Nella nostra

epoca televisiva, che rappresenta come superstar i capi guerriglieri, l’IRA sembra un ritorno ad

un’altra epoca, quando la segretezza era la chiave del successo. L’IRA non fa la corte ai giornalisti,

e, cosa più notevole, non teme l’anonimato. Infatti esso gradisce essere rappresentato come una

forza invisibile, in grado di colpire in ogni luogo e in ogni momento. Per mostrare la sua esistenza

di esercito permanente sono sufficienti alcune rapide apparizioni pubbliche, come guardia d’onore

ai funerali. Come ci si aspetterebbe, l’IRA si nasconde dietro una cortina di silenzio, ma è

impossibile dire se tutti stiano zitti per fedeltà, per paura, per ignoranza, o per qualunque

combinazione delle tre. Il pomeriggio passato con Jimmy mi sembra un’ulteriore riprova che mi

sono mosso finora nel modo più sbagliato. Non è possibile entrare in contatto con l’IRA attraverso

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terzi. Stabilire contatti con l’IRA, come alla fine mi sono reso conto, è un processo che quello che

viene da fuori può in un qualche suo stadio catalizzare, ma mai controllare. La fiducia dei

Repubblicani deve essere guadagnata, e poi continua ad essere messa al vaglio costantemente.

Vengono creati artificialmente degli ostacoli, e lo svilupparsi dei contatti viene graduato. Alle

amicizie che possono nascere non viene mai permesso di maturare, per evitare dolori aggiuntivi, se

si scopre che quello che viene da fuori è un agente degli Inglesi. Il primo esame sembra essere

infine giunto al termine solo la volta che uno con cui ho cenato mi passa un invito da parte di

“qualcuno di importante. Vuole incontrarti…E’un incontro a sorpresa, quindi non dirlo a

nessuno.”

La mattina dopo, la cameriera del mio albergo scherza con me quando mi porta il caffè.

“Un signore,” aggiunge, ”è venuto prima a cercarla. Ha detto che l’incontro è stato spostato alle

dieci di stamattina.”

“Com’era quel signore?”

La cameriera non ricorda: il signore è arrivato proprio quando un gruppo di quattro clienti stava

dando le ordinazioni per il break fast. “Credevo fosse un suo amico. Non lo conosce?”

Belfast fu fondata nel nono secolo dai Vichinghi, venuti dapprima a saccheggiare, poi a

commerciare, con la società tribale indigena. Un insediamento sorse vicino alla foce del fiume

Lagan, e nel corso dei secoli le foreste circostanti vennero abbattute e i trattori per le mucche si

trasformarono nelle stradine tortuose di una città. Solo nel XVIII secolo si cominciò a pianificare e a

costruire vi e diritte. Come risultato, le mappe stradali di oggi assomigliano a labirinti medioevali,

con indicazioni illeggibili. Dal momento del mio arrivo cinque settimane fa, non è passato un

giorno senza che mi perdessi; così parto dall’hotel con un’ora di anticipo, per arrivare in tempo

all’appuntamento a sorpresa. Con venti minuti di ritardo, entro nel caffè dove era stato fissato

l’incontro. Il posto è strapieno. Sembra che tutti quelli che sono andati a messa nella vicina chiesa si

siano dati appuntamento qui,per prendere un tè dopo l’Eucarestia. Mi faccio strada con difficoltà

da un lato all’altro del locale senza riconoscere nessuna faccia familiare, e prendo posizione vicino

alla cassa. L’attesa comincia, e continuo a toccarmi l’orologio che ho in tasca senza guardare l’ora,

sicuro che controllare servirebbe solo ad aumentare il senso di disappunto che mi striscia dentro.

Perché sono in ritardo. Perché ho mandato tutto all’aria.

Mi viene servita la quarta tazza di tè, e mentre vado a pagare mi sento battere sulla spalla da un

uomo con un cappello spiegazzato.

“Lascia stare il tè,” dice. ”Andiamo”.

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Solleva tre dita in aria. Alla mia sinistra un uomo barbuto con spalle da scaricatore diporto

annuisce, e mette una moneta nel telefono a pagamento. La mia guida mi fa strada fuori. “La

macchina blu,” mi dice. Una donna è appoggiata al cofano. Ci vede avvicinare, tira su il bavero del

cappotto, dà un solo colpetto sul metallo, e se ne va in un’altra direzione, tutta curva, camminando

proprio contro la piena forza di una folata di vento di Febbraio. Se Belfast fosse dentro una cupola,

ripetono sempre gli abitanti, sarebbe il migliore posto al mondo per viverci.

“Dove andiamo?”

Il motore si mette in moto. “Amico, tu sarai l’ultimo a venirlo a sapere.”

La macchina si immerge nel traffico.

Dopo la sesta svolta a U, smetto di contare tutte le volte che invertiamo la direzione o che facciamo

giri dell’oca. Davanti alla vetrina di un negozio il guidatore rallenta, e fa un rapido segno con due

dita verso il vetro scuro. Continuiamo ad andare, mentre divide al sua attenzione tra ciò che c’è

davanti a noi e quello che si vede con lo specchietto retrovisore. Le veloci svolte a sinistra e le

improvvise svolte a destra continuano.

“E’ per le telecamere del Grande Fratello,” dice il guidatore riferendosi al sistema di sorveglianza,

spiegando così il nostro procedere a zigzag. Negli ultimi tempi gli Inglesi hanno cominciato a

nascondere telecamere nei fanali di vetture parcheggiate vicino agli incroci. Così prendono nota di

ogni targa e di tutti i passeggeri. Quelle informazioni digitalizzate vengono è poi confrontate con le

schede dei sospettati di far parte dell’IRA, e con i profili prestabiliti riguardo all’uso normale di

ogni macchina. Di nuovo, mi viene detto di non preoccuparmi; l’IRA è riuscita a rivolgere il trucco

contro i suoi autori. “Queste sono strade pulite,” dice il guidatore. “Inoltre, quelli spendono un

mucchio di denaro con questa roba, così in realtà questo ci aiuta in molti modi.”

“In che modo?” chiedo io.

Non mi risponde, e continua a guidare. Ci fermiamo dentro un quartiere progettato da un nemico

della natura. Non c’è neanche un albero, nemmeno un filo d’erba. Mi viene detto di aspettare

nell’ingresso di un edificio basso. La mia guida sale su per le scale a balzi e torna con un arnese che

rivela la presenza di microfoni nascosti. Dopo che sono stato dichiarato pulito rispetto alle cimici,

devo sollevare le braccia per una perquisizione personale. Viene esaminato ogni oggetto della mia

borsa fotografica, e vengo avvertito che se mi trovano un registratore esso verrà confiscato.

L’impronta della voce è individuale come le impronte digitali. “Mi dispiace per la perquisizione,”

dice, ”ma è per la tua sicurezza e la nostra…voglio dire, se qualcuno viene beccato per questo

incontro, caschiamo tutti.”

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Saliamo al secondo piano, e al mia scorta si ferma un attimo vicino a una finestra e fa un segnale

alzando il dito indice. “Benone,” dice, facendomi entrare in un appartamento con una sola stanza

da letto. “Sarà qui tra poco. Mettiti comodo.”

Le sue parole producono in me l’effetto opposto. La porta viene chiusa e sbarrata dall’esterno. Ho

una voglia pazza di una sigaretta, ma non c’è nessun portacenere in vista. La stanza è pulita, ci

devono aver passato l’aspirapolvere da poco. Un termosifone elettrico è acceso, dietro la facciata

che simula un fuoco a carbone. Un’immagine di Cristo che espone il suo sacro cuore è appesa di

fronte a un’altra, on la Vergine sopra una nuvoletta. Mi sposto su un'altra seggiola, lontano da

questi santi sguardi. Sulla mensola del finto camino stanno delle figurine di porcellana che

rappresentano danzatori che ballano valzer di un’altra epoca e una coppia di cani da caccia con

lingue di un rosa acceso. Da un candeliere spuntano una rosa di carta e un giglio di plastica.

Per fortuna sul videoregistratore lampeggia l’ora: ”12:00.”

Qualcuno sta salendo le scale. Da dietro la porta si sentono delle voci attutite. L’inequivocabile

scatto di un caricatore che viene inserito è subito seguito dal ‘ca-cionk’ della pallottola che entra

nella camera di sparo. Mi guardo intorno per una via di fuga, ma sono chiuso in gabbia.

Entrando improvvisamente nella stanza, un uomo mi dice”Buon giorno.” Indossa delle scarpe da

lavoro, jeans, un grosso pullover, e un cappello da baseball dei Los Angeles Kings. Ha la faccia

avvolta da una sciarpa grigia legata dietro alla nuca, che lascia scoperti gli occhi, le tempie, ciocche

di capelli, e parte dei lobi delle orecchie.

“Che cosa possiamo far per lei?”

“Ah, mi scusi, ma lei chi è?” gli chiedo.

“Mi scusi, credevo che lo sapesse,” mi dice. “Sono l’O.C.” O.C: vuol dire Ufficiale Comandante

(‘Officer in Command’), il capo di tutte le operazioni militari. Egli, con altri sei, presta servizio nel

Consiglio dell’IRA, e dirige la condotta politica complessiva dell’organizzazione. In tutta l’Irlanda

è conosciuto semplicemente come ‘L’Uomo’. (1)

E così comincia il nostro primo incontro. Nel corso delle sei successive settimane del più freddo e

piovoso inverno della storia recente dell’Irlanda del Nord, continueremo a tenerci in contatto, e la

durata delle nostre conversazioni varierà di molto, da pochi minuti a quattro ore e mezza. Saranno

degli intermediari a portare i messaggi tra di noi; a me non viene permesso di prendere contatto

direttamente. “Combineresti qualche grosso casino,” predice il comandante.

Io non dubito del suo giudizio.

Lo stesso guidatore dell’IRA mi accompagna tutte le volte, ma per gli incontri col comandante ora

facciamo viaggi molto meno complicati. Le manovre pazzesche che hanno fatto da preludio al

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primo incontro sono parte dello show, mi viene detto, e c’è un solo show per ognuno. Non me ne

lamento. Solo dopo l’incontro iniziale il comandante assume uno stile più libero, si stanca di dirmi

quello che crede ogni giornalista voglia sentire, e si apre molto più di quanto immaginassi.

Le regole di base vengono stabilite subito: niente registratori, niente fotografie senza

autorizzazione,tutti i nomi devono essere cambiati, i locali pubblici non possono essere indicati.

In aggiunta, il comandante delega se stesso come unico portavoce sulle questioni che riguardano la

strategia, la linea politica, la tattica dell’IRA; solo le sue parole dovranno essere considerate

dichiarazioni ufficiali.

Nello steso periodo, volontari dell’IRA fino ad allora riluttanti a bere una birra con me cominciano

a raccontare, e a vecchi amici irlandesi si scioglie la lingua. Le conversazioni con loro qualche volta

cominciano a pranzo e continuano fino ben oltre la mezzanotte.

In due occasioni vengo invitato ad accompagnare un’unità di servizio attivo dell’IRA in operazioni

tra la gente; in tutti gli altri casi le interviste, le fotografie, e i video che faccio sono occasioni

riservate, solo chi è invitato, vi è presente. I miei incontri col comandante avvengono in ambiente

urbano. Le discussioni con i volontari hanno luogo in zone diverse del Nord, tanto in certe belle

fattorie da cartolina quanto in stantie cantine di città.

Restare fuori di prigione è compito mio, e più mi addentro nell’IRA, più la cosa diventa

problematica.

Tutti gli appunti che riguardano l’IRA vengono nascosti sotto la doccia, e con della lacca per le

unghie do alle viti l’aria di non essere mai state toccate. I film e le cassette video vengono incollate

sotto il più scaffale nell’armadio delle pulizie, oltre la portata dei metal detectors. Le abitudini

quotidiane lasciano il posto all’imprevedibile. “Le abitudini di routine uccidono,” mi avvisa il

comandante. “Orari e percorsi fissi rendono uno il più facile dei bersagli.”

L’IRA si è davvero guadagnato la sua reputazione di esercito di guerriglia più sofisticato nel

mondo. Con meno di 600 volontari, è riuscito a costringere allo stallo una forza armata di 20000

membri, che hanno la disponibilità illimitata del migliore equipaggiamento. Nell’IRA non ci sono

estranei, i mercenari non vi sono ammessi. Che cosa, mi domando, l’IRA ricerca in ogni recluta? E

viceversa: le reclute che cosa si aspettano di trovare, entrando nell’IRA?

Tutti concordano sul fatto che l’IRA è estremamente selettiva. L’organizzazione è sempre in

guardia per individuare la presenza di spioni, o “touts” come vengono chiamati. A metà degli anni

Settanta i Britannici riuscirono quasi a distruggere l’IRA, con l’aiuto di delatori attirati dal

guadagno o ricattati dalla polizia. Centinaia di volontari finirono in galera, e quelli ancora fuori

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furono costretti a ristrutturare l’organizzazione. Venne adottata una struttura per cellule, e l’intera

procedura reclutamento fu trasformata prima di ammettere nuovi membri.

Quando parliamo del reclutamento, il comandante mi appare come un allenatore di calcio fin

troppo entusiasta. Gli escono le parole rapide come pallottole, e sembra che non stia conversando,

ma recitando piani di gioca. I volontari che ho incontrato sembrano nell’insieme far eco ai suoi

pensieri. Parlano con calma e spessa si fermano, cercando parole che poi tirano fuori dal profondo

do sé. Mentre ognuno di loro ha una vicenda diversa da raccontare riguardo al proprio

arruolamento, tutti usano gli stessi vocaboli. I temi generali e gli scopi personali sono decisamente

simili, le ragioni per cui di sono arruolati sono quasi identiche. Spero sempre di sentire una

opinione o una esperienza estrema, o almeno qualche genere di insoddisfazione, ma non succede

mai. Eppure, nel corso unanime dei 17 che intervisto, c’è una voce che risuona in particolare, e che

continua a darmi sorprese. Quella voce appartiene a Padraig.

“Credo che sia più facile entrare in paradiso che nel RA,” dice Padraig, che sembra considerare

superflua la “I” di “I.R.A.”

Mentre parliamo Pedraig mi sta guidando attraverso un campo da pascolo per le mucche, verso

un posto nel bosco che una volta era usato come nido di cecchini. Non siamo lontani dal confine, in

una zona rurale che gli ufficiali britannici considerano troppo pericolosa per trasportarvi le truppe

per via di terra. Infatti per spostare le truppe usano solo gli elicotteri. Da qualche parte in questa

zona opera il fucile più temibile dell’IRA, un cecchino (o una cecchina?) che ha nove tacche sul suo

fucile Barrett calibro .50.

“Uno deve avere delle priorità, e per me l’IRA è la numero uno…La mia famiglia e il gioco del

calcio gaelico si contendono, credo, la seconda posizione,” dice Padraig. Mi sembra che debba

avere sui 29 anni, e mi conferma che ci sono andato vicino. Ha cercato di entrare nell’IRA per la

prima volta quando ne aveva 19, ma dovette passare più di mezzo anno prima che sentisse niente

al proposito: ”Sì, un signore col passamontagna mi fece un mucchio di domande e poi se ne andò.

Mi disse che sarebbe tornato ma non era vero.”

“Ma perché volevi arruolarti nell’IRA?” gli chiedo.

“Ho sempre voluto farne parte. Da quando ero bambino fino ad oggi…Credo nell’Irlanda unita, e

credo di dover fare la mia parte.”

“Ma che cosa rendeva allettante entrare a far parte dell’IRA? Il rispetto da parte della comunità? Le

armi? O…”

“Affanculo l’allettamento. Puoi fermarti subito, perché non c’è proprio nulla di allettante riguardo

al RA. Oh Gesù, voi Americani avete sempre l’idea che l’IRA sia una cosa alla Barman e

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Robin…Ma qui il sangue è reale. Il dolore, te lo dico io, è reale. E’ spaventoso. Così, lascia stare gli

allettamenti, okay? Credi che mi piaccia dovermi guardare sempre alle spalle? Cazzo, no! Io mi

sono arruolato per via del dovere, della patria di quelle cose lì. Lo puoi capire?”

Non del tutto. Padrig mi aiuta col descrivermi la sua infanzia in una famiglia devotamente

repubblicana. I ritratti degli antichi eroi dell’IRA, Michael Collins, Patrik Pearse e James Connolly,

dominavano sulle pareti di casa. A cena la conversazione riguardava spesso le questioni del

nazionalismo irlandese. Se nel giornale c’era un articolo sull’IRA o sul movimento per i diritti

civili, ci si aspettava che tutti i membri della famiglia lo leggessero e lo discutessero. “E quando

Papà ci interrogava sulla storia e sulla lotta per la libertà dell’Irlanda, dovevamo saper

rispondere…Aveva un diretto sinistro veloce, Papà,” ricorda Padraig, grattandosi l’orecchio che

probabilmente suo padre colpiva. (2)

Padraig dice che non c’è stato un momento preciso in cui ha deciso, certo nessuna rivelazione

improvvisa che gli ha fatto cercare l’IRA. Nessuno tra i suoi parenti stretti è membro dell’IRA.

”Ci sono dei cugini di sangue, ma non sono in prigione ora, e credo che il coglione che ha sposato

mia sorella sia del RA.” Nessuno dei suoi amici d’infanzia è un volontario. ”Ci sono solo io, e quasi

consono riuscito ad entrarci.”

Padraig dice che dovette continuare a insistere con l’IRA, e che passarono dei mesi prima che si

rifacesse vivo l’uomo mascherato. Più di un anno dopo, venne mandato ad un campo di

addestramento, in qualche parte della contea di Donegal. Gli era sembrato di avere fatto le cose

bene. Si era dimostrato un buon tiratore e aveva imparato come migliorare ancora. Dopo due

giorni di addestramento, poteva smontare e rimontare un AK-47 anche ad occhi chiusi. Padraig

credeva di essere stato il migliore nel corso di contro-interrogatorio, e se ne era tornato a casa

contento, sicuro che di lì a pochi giorni lo avrebbero assegnato a un’unità in servizio attivo.

Invece gli venne fatta continuare la fase di istruzione.

“Mi ordinarono di mettermi a leggere…Un signore mi passò una lista di libri: storia, filosofia e cose

di quel genere. Immagino che avevo un sacco di cose ancora da imparare,” dice. La prima lezione

gli venne impartita subito dopo, quando Padraig mise la lista in tasca invece di memorizzarla e poi

inghiottirla. Agli esperti del laboratorio forense britannico basta solo un pezzetto di carta o di

cenere per ricollegare la calligrafia a chi ha scritto. ”Quel tizio mi cacciò in bocca il pezzo di carta e

si mise a ripetermi,” Pensa. Devi cominciare a pensare. Pensa!” Solo dopo un altro anno e mezzo

Padraig venne accettato come membro dell’organizzazione.

Raggiungiamo la cima boscosa della collina, dove era il nido del cecchino, e Padraig usa il bracco

per indicare qual’era la posizione del fucile e al traiettoria della pallottola. Io riesco a malapena a

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vedere l’albero contro cui andò a sbattere il soldato quando la pallottola lo colpì e lo fece volare

all’indietro. La distanza dev’essere di almeno ottocento metri. L’unità di cecchini deve avere

impiegato giorni o persino settimane per raccogliere informazioni e preparare l’imboscata, ma

l’operazione in sé è durata meno di un’ora, dice Padraig. ”Spara e fuggi via, questa è la linea di

condotta.”

Mentre torniamo alla strada, Padraig mi assicura che non vede l’ora che venga il giorno per poter

visitare la zona sdraiandosi semplicemente sul prato e osservando le nuvole. ”Come sarebbe bello

poter sognare ad occhi aperti invece di dover sempre fare piani di guerra…La vita è già dura

abbastanza senza tutta questa faccenda della guerra.”

“Se tu uscissi dall’IRA, ”è il mio commento,” potresti farlo già adesso. Potresti di nuovo goderti la

vita.”

“Qui tu ti sbagli. Un elicottero o un aereo da ricognizione radiocomandato mi individuerebbe, e

verrebbero subito delle truppe in elicottero per sottopormi a interrogatorio. Continuerebbero a

tormentarmi. A perquisirmi. A farmene di tutti i colori. Lo fanno con tutti. Io voglio la pace.”

Il comandante mi dice che questo inverno c’è stato un grande aumento di richieste di gente che

voleva entrare nell’IRA. Non è sicuro del perché, e non gli importa di saperlo. “Abbiamo sempre

avuto più aspiranti che posti disponibili per loro. Noi siamo molto m a molto selettivi. Non

possiamo permetterci di lasciare entrare nell’organizzazione anche un solo psicopatico. La

procedura di arruolamento nell’IRA è volutamente così prolungata, allo scopo di scremare idioti ei

delinquenti,” mi dice: “Noi valutiamo le qualità di ogni candidato…qualità come la motivazione, la

capacità di cavarsela con gli imprevisti e di capire immediatamente le situazioni, l’abilità nel

discutere e quella di pensare.”

“Che cosa mi diresti se io avessi ventidue anni e volessi entrare nell’IRA?,” gli domando.

“Ti direi di andare vaffanculo: Perché vieni a chiederlo a me? Io dell’IRA non so niente…Poi mi

scorderei del tutto la tua esistenza, a meno che, naturalmente, tu non ritornassi a chiedermelo.

Questa volta fingerei di essere inferocito con te. Se davvero tu volessi entrare nell’IRA, riproveresti

ancora una volta. E allora cambierei tono… e ti direi che arruolarti significa tre cose. Significa che

sei morto. Significa che sei latitante. Significa che sei in prigione…Poi ti direi di pensare a queste

cose per un mese.”

A tutti i Volontari dell’IRA si richiede che non dicano nulla dell’organizzazione, o dicano di non

saperne nulla. Un familiare può sospettare che proprio figlio o il proprio fratello maggiore sia in

servizio attivo nell’IRA, ma non ne avranno mai la conferma, a meno che quello (o quella) non

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venga catturato sul in azione e masso in prigione. Grazie alla struttura per cellule

dell’organizzazione, è raro che un Volontario conosca più di dieci altri membri.

“Se a quel punto ti senti di accettare la realtà di com’è la vita nell’Esercito Repubblicano,” dice il

comandante, ”allora le cose cominciano a muoversi…Qualcuno viene incaricato di seguire il tuo

caso. Ti capita di vederlo solo vagamente, ma quello scrive rapporti su di te e sui progressi che

fai…In seguito puoi essere mandato ad un campo di addestramento, dove alla fine verrai valutato

da una commissione di cinque uomini mascherati; ci impari le tecniche contro gli interrogatori, la

sicurezza, e la struttura dell’Esercito…Alla fine, ti mollano un incarico da qualche parte…Gli

incarichi dipendono dalle nostre necessità e da quello che sai fare. Diciamo che sei ad esempio un

chimico, o un in geniere. In quel caso ti possiamo mandare da qualche parte in Europa, inattivo.

Possono passare due anni, tre anni prima che tu riceva la chiamata che ti fa passare all’azione.”

L’IRA non è sempre stato così selettivo riguardo alle sue reclute. Quasi qualunque nazionalista era

benvenuto nell’organizzazione negli anni Cinquanta, un punto basso nella storia dell’IRA, anche se

non proprio il peggiore. Il periodo peggiore fu nel decennio successivo, quando una campagna

militare mal concepita scambiò i burocrati di basso livello in Irlanda del Nord per diavoli incarnati.

Operazioni fallimentari e assassini che sembravano senza scopo alienarono dall’organizzazione

molti membri, e la maggioranza dei simpatizzanti. Il 26 Febbraio del 1962, l’IRA emise una

dichiarazione che annunciava”…tutte le armi e il materiale sono stati ritirati.”

Il necrologio dell’Esercito Repubblicano sarebbe stato prematuro, infatti l’IRA, pur entrato in

sonno, continuò ad esistere. Esso fu rivitalizzato pochi anni più tardi da Repubblicani più giovani,

istruiti nelle università e influenzati dal comunismo e dal movimento americano per i diritti civili.

Essi abbandonarono le vecchie strategie per delle nuove, abbracciando la lotta di classe e la non

violenza. I ritratti di Michael Collins furono sostituiti da quelli di Martin Luther King. Di colpo, le

armi non interessavano più, erano divenute fuori moda; erano diventati di moda, invece, le

dimostrazioni e Marx.

Cathal Goulding, capo dell’IRA, riuscì quasi a smilitarizzare l’organizzazione, ed entro i tardi anni

Sessanta aveva ritirato la maggior parte dell’armamento che l’IRA ancora possedeva, vendendolo

al Free Wales Army (‘Esercito per un Libero Galles’).

“E fu proprio allora che la merda volò per aria,” ricorda il comandante. “Iniziarono i disordini di

piazza, e avevamo pochissime armi.”

Tim Pat Coogan, autore della dell’IRA più accreditata, dice che l’IRA in quel momento aveva a

disposizione solo sei armi da fuoco. “Immagina che roba! Sei miserabili armi da fuoco!” esclama il

comandante.

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Fu nel 1969 che cominciarono i Troubles. La scintilla che li fece esplodere furono gli scontri di

piazza a Derry ingenerati dal programma governativo di destinazione delle abitazioni, che negava

un tetto ai Cattolici. Il caos si allargò a Belfast, dove le zone di battaglia si svilupparono lungo le

linee di divisione religiosa tra i quartieri, e molte famiglie che vivevano nei quartieri ‘misti’vennero

cacciate dalle loro case a forza. Tra il 1969 e il 1973 più di 60000 persone vennero sfrattate dalle loro

abitazioni, ad opera di forze munite di torce o per decisione del governo. Molti fra i Cattolici presto

non furono più in gradoni vedere alcuna differenza tra un teppista e un poliziotto. Furono

dichiarati dei coprifuoco, ma vennero messi in atto solo contro i Cattolici. Più tardi, con

l’applicazione dell’internamento preventivo - una legge perversa che sospendeva le leggi ordinarie

- più di mille Cattolici vennero arrestati, ma non fu messo dentro nemmeno un Protestante.

Le autorità invocavano a gran voce le legge e l’ordine, e i Cattolici rispondevano gridando ancora

più forte: La legge di chi? L’ordine di chi? Dov’è la giustizia?

“Quelli furono giorni di confusione per l’IRA,” dice il comandante, minimizzando alquanto. L’IRA,

bloccato dalla sua dialettica politica interna, poteva dirigere contro le forze britanniche insulti, ma

ben poco d’altro. Le scritte sui muri attribuirono un nuovo significato alle iniziali dell’esercito

ribelle, e i muri lo gridavano in tutta la città: ”I Ran Away” (‘Sono scappato via’).

All’interno dell’organizzazione si sviluppò rapidamente una fazione radicale,e alla fine del 1969

c’erano ormai due IRA: il cosiddetto ‘Official’IRA (IRA ‘Ufficiale’), che mantenne un’ideologia

politica socialista, e il ‘Provisional’IRA (‘IRA ‘Provvisorio’), i cui membri vennero chiamati

‘Provos’, che voleva intraprendere la lotta armata contro gli Inglesi senza tutto quel blaterio

ideologico.

Nel 1971 gli ’Officilas’ e i ‘Provos’ si scontravano tra di loro più di quanto combattessero gli

Inglesi. I ‘Provos’ emersero vincitori dallo scontro, divenendo la fazione predominante, e

ricorrendo all’uccisione e all’azzoppamento degli avversari per rendere sicura la propria posizione

e per far crescere l’organizzazione. Il comandante non si scusa per nulla, ripensando a quel

periodo. “Prima della divisione, da parte della dirigenza ‘Official’ ci fu un comportamento di

criminale negligenza. Essi abbandonarono tutti i preparativi per la guerra contro l’Inghilterra e

infransero la costituzione dell’IRA, il suo codice di condotta, e gli ordini generali dell’esercito…Essi

non armarono e non addestrarono le truppe, come invece prescrivono gli ordini dell’esercito.

E, maledizione,” dice, dando un pugno sul tavolo,” quelli sono ancora in giro, a compiere

estorsioni ai danni della gente, e della lotta. Solo noi siamo l’Esercito Repubblicano Irlandese, e non

deve esservi alcun dubbio al proposito.”

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Sentir dire che gli ‘Officials’sono ancora esistenti ed attivi, sia pure molto meno forti di un tempo,

mi conduce a domandare di una faccenda spinosa: come i gruppi fuorilegge si finanziano.

In passato, l’IRA ha accusato gli ‘Officials’e il Workers’Party di essere i principali malfattori del

sottobosco criminale, e ha sempre negato con vigore qualunque proprio coinvolgimento nel

gangsterismo, una delle poche industrie in crescita nell’Irlanda del Nord. L’IRA si è sempre

presentato come il campione degli oppressi, una organizzazione alla Robin Hood. Questeripetute

dichiarazioni dei Repubblicani vengono oggi attaccate dai giornalisti che ricevono le informazioni

dalla squadra anti-racket di Belfast della RUC, chiamata C13. Articoli di giornale recentemente

pubblicati dipingono la dirigenza dell’IRA come una cosca di delinquenti avidi di denaro che

fingono di essere rivoluzionari al solo scopo di guadagnare di più. In questi articoli si dice che essi

hanno in mano il grande business delle estorsioni nel Nord, e che riscuotono altri milioni di sterline

grazie alla mescolanza - simile a quella gestite dalle mafie - di investimenti legali e di attività

illegali.

“E’ vero che l’IRA si intasca qualche pence su ogni sterlina in circolazione?” domando al

comandante, che alza la testa di scatto. E’la prima volta che viene messo di fronte alle accuse di

racket mosse contro l’IRA dalla stampa, pubblicate in gran numero in America e in Inghilterra.

Il comandante guarda il soffitto, poi si guarda le dita. I suoi occhi diventano fessure. Lentamente,

allunga la mano verso la pila di articoli che ho portato; poi ne scorre alcuni. Mentre leggo, io

continuo a ripetergli le accuse che vengono fatte all’IRA. Alla fine rimette a posto i fogli di carta, si

metto meglio la scarpa, e mi dice, ”Figli di puttana ci stanno davvero facendo un bel numero.”

“Beh, che cosa c’è di strano?” domando. “Dicono che voi siate imprenditori della guerra. La pace

sarebbe disastrosa per i vostri affari.”

Il comandante rilegge alcuni brani di interviste che gli vengono attribuite. Poi rimette da parte gli

articoli. “Questa merda salta fuori ciclicamente,” dice piano. ”Quando uscirono i film del genere

del Padrino, l’IRA venne dipinta come mafia qui, mafia là. Gli inglesi si stavano lavorando la

stampa. Quei film sono passati di moda, e così quelle accuse.”

“Ma ora le accuse sono di nuovo qui,” dico io. “E questa volta sono rafforzate da tabelle, grafici, e

persino frasi attribuite a te.”

“Bada bene, io nego tutte queste accuse. Quello che mi hai detto e quello che è scritto in questi

articoli non riguarda l’Esercito Repubblicano, o almeno il vero IRA. Adesso non parlo delle singole

accuse o di quello che scrive il singolo giornalista, ma tutto questo è sbagliato. E’ merda.

Il Wokers’Party, la IPLO (‘Irish People’sLiberation Organization’), e gli ‘Officials’ sono dei

gangsters non noi. Sono loro quelli che gestiscono i rackets. Nel 1992, dopo un’investigazione

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durata otto mesi, abbiamo fatto una dura retata contro di loro per far finire i crimini che

commettevano contro la comunità. Credo che abbiamo acciuffato 30 di loro: ad alcuni abbiamo

sparato, altri li abbiamo mandati in esilio, o li abbiamo azzoppati. Adesso, due anni dopo, sono di

nuovo qui. O questa gente fa finta di essere l’Esercito Repubblicano, o altra gente se lo inventa.”

“Questa non è una vera risposta alla domanda che ho fatto,” noto io.

“Lo so. Lo so. ”Ma che posso dire? Questo genere di cose ha sempre rappresentato un dilemma per

noi. Se dovessi dirti quali sono davvero i nostri modi di finanziarci nelle Sei contee, subito gli

Inglesi ci chiuderebbero quella o quelle fonti di denaro. Riguardo al nostro finanziamento, non c’è

nessuna prova che io ti possa dare senza comprometterci. Sei andato in giro abbastanza da sapere

quanto è povera la gente qui. Non puoi rubare nella credenza se nella credenza non c’è niente.”

Posso convenirne. Quasi tutti i negozi della Belfast Ovest cattolica sono imprese familiari che a

malapena si ripagano l’affitto. Ma i registratori di cassa continuano invece a trillare nei bar di zona,

nei circoli sociali, e nelle ricevitorie delle scommesse. Gli domando di questo genere di locali.

“Non li costringiamo a pagare. Non è quello il nostro modo di fare. Se facciamo cose contro la

popolazione,siamo perduti. Se ci alieniamo la gente, se la facciamo incazzare contro di noi, essa

non ci aiuterà. Non si rivolgeranno a noi perché li aiutiamo. Non avranno fiducia in noi. E senza la

popolazione dietro di noi, è finito tutto quanto. Siamo morti. Sono riuscito a convincerti?”

Scuoto la testa: no.

“Immagino che dovremo continuare a controbattere queste accuse,” mi dice. Poi ricomincia a

guardare i ritagli di giornale.

Mentre il comandante legge, per conto mio riconsidero le ricerche che ho fatto. Trovo che in effetti

il Worker’s Party e la IPLO risultano avere insieme il monopolio delle frodi bancarie, informatiche

ed edilizie. Risulta che gli Officials sono meno sofisticati, e che contano soprattutto sulla violenza

bruta per mantenere il controllo sull’industria della ‘protezione e della estorsione. Verificando gli

indizi, imparo ad essere sospettoso riguardo ai dati diffusi dal C13. La squadra anti-racket della

RUC può ritenere di essere di serie A, ma tira pallonate a casaccio e grida di avere fatto goal

quando in realtà sta truccando la partita. Fino al Marzo 1994 nessun membro dell’IRA era stato

mai condannato per estorsione. Gli untuosi pubblicisti britannici che si lavorano la stampa sono

attendibili solo per capire la propaganda inglese e per ben poco d’altro. Scopro che ci sono anche

truffe che coinvolgono l’IRA, ma la mia ricerca non è sufficientemente completa. Quello che trovo a

carico dell’IRA nell’insieme sembra confermare quello che dice il comandante, perché collega l’IRA

ad imbrogli ai danni dei ricchi, quali la contraffazione di profumi di Parigi e l’imposizione, a carico

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di imprese di successo, del pagamento di contributi per il fondo per l’assistenza ai prigionieri e alle

loro famiglie.

“Che cosa mi dici dei donativi stranieri?” domando al comandante, quando alza gli occhi. Si rifiuta

di parlare dei doni che arrivano dall’America - denaro, armi da fuoco, munizioni, ed esplosivi -

dicendo soltanto, ”Noi ringraziamo i nostri amici negli Stati Uniti.”

“Avete la stessa gratitudine verso la Libia?” gli chiedo. Gheddafi ha rifornito l’IRA di armi e

denaro; è un fatto che la maggior parte degli AK-47 dell’IRA è arrivato dalla Libia. Gheddafi ha i

suoi propri motivi per danneggiare gli Inglesi,che rimontano ai loro tentativi di neutralizzarlo

quando giunse al potere nel 1969.

“Dato che non siamo dei gangsters noi prendiamo denaro solo quando ci viene offerto,” dice il

comandante. ”Se qualcuno ci dà del denaro, ciò non significa che gli siamo in alcun modo legati o

che gli dobbiamo alcunché.” (3)

Una ovvia fonte di incasso, le droghe, sono invece tabù per l’IRA. Tutti gli eserciti ufficialmente

proibiscono la droga, ma l’IRA è forse l’unico in cui esse davvero non circolano. I volontari

dell’IRA cui lo domando mi ricordano molte volte che in Irlanda del Nord gli spacciatori rischiano

la vita ogni volta che vendono una busta. Alle reclute dell’IRA bastano l’alcool e la nicotina, e non

riescono a capacitarsi che qualcuno ritenga l’hascisc meno dannoso dell’alcool

“Gli spacciatori ricevono un avvertimento, qualche volta due,” mi racconta un Volontario,” ma se

continuano a spacciare non c’è pietà per loro.

”La pratica costante ha fatto diventare il Royal Victoria Hospital di Belfast l’istituto di avanguardia

nel mondo per quel che riguarda la chirurgia ricostruttiva del ginocchio.

“Ma perché l’IRA svolge funzioni di polizia contro i tossici e li tratta così duramente?”, chiedo al

comandante.

“Per quel che riguarda quella questione, non solo siamo duri, siamo addirittura spietati. Gli

spacciatori di droga devono stare molto attenti, o altrimenti tagliare al corda…In senso

strettamente militare, noi, che siamo l’esercito, non possiamo permettere a nessuno di controllare

l’approvvigionamento di qualcosa di cui la gente ha bisogno o dalla quale è dipendente. Abbiamo

informazioni precise sul fatto che i maggiori trafficanti operano con impunità nelle Sei Contee. La

RUC sa bene chi sono e dove si trovano. Può darsi che la polizia addirittura aiuti questi trafficanti,

ma la nostra investigazione non è ancora completa e non possiamo essere sicuri…Certo è

nell’interesse della RUC e dell’esercito britannico che le droghe siano in circolazione nella

comunità. Fa sì che al gente diventi tossicodipendente e poi può ricattarla come ti pare. Questo

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permette loro di procurarsi spie e delatori…Inoltre, la presenza della droga comporta dei costi

sociali. Gli spacciatori distruggono la popolazione e distruggono la coesione sociale del Nord.”

La sua risposta mi irrita, perché dimostra che l’IRA è disposto a calpestare i diritti civili, agendo

insieme da giudice, da giuria e da boia. Spesso dei balordi di poco conto ricevono lo stesso

trattamento destinato ai trafficanti di droga. Quindi gli chiedo, ”Che cosa dà all’IRA il diritto di

imporre il suo controllo e le sue regole militari sull’insieme della popolazione?”

“Questa non è New York, è Belfast…La polizia non mantiene l’ordine civile nei nostri quartieri. I

poliziotti non scendono nemmeno dai loro automezzi. La comunità deve provvedere da sé al

proprio servizio di polizia. Del resto non ha altra scelta…E in genere fa un buon lavoro.

Ma quando qualche cosa sfugge di mano e la comunità porta il caso alla nostra attenzione, allora e

solo allora, dobbiamo con riluttanza investigare, e poi agire di conseguenza…E’una distrazione dal

nostro vero compito. Noi di certo non vorremmo doverlo fare, e se al polizia facesse il suo lavoro,

noi non avremmo da occuparci di tossici e di ladri. I poliziotti della RUC sono furbi. Non bisogna

sottovalutarli. Se noi stiamo dando la caccia a dei piccoli criminali, significa che non stiamo invece

facendo saltare per aria delle caserme, che non stiamo tenendo imboscate, che non ci stiamo

concentrando a condurre la guerra. Così, la polizia ha dei buoni motivi per incoraggiare i cattivi

elementi. Quelli della RUC sanno che il disturbo che essi arrecano spingerà la popolazione a

richiedere a noi di risolvere il problema…l’Esercito Repubblicano è, per una comunità, l’estrema

sanzione contro quelli che depredano o perseguitano quella comunità. Siamo noi quelli che non

hanno scelta. I ladri possono scegliere: possono smettere di rubare alla comunità. La UDA è

massicciamente impegnata nel grande traffico della droga. Così gli Officials. La nostra

investigazione è quasi finita.”

Quanto all’intimidazione e al potere sulla comunità, però, in Irlanda la Chiesa Cattolica non ha

alcun rivale. Essa controlla migliaia di scuole, decine di migliaia di acri di terra e centinaia di

milioni di dollari. La Chiesa è indubbiamente l’istituzione più conservatrice di tutta l’Irlanda, nel

Nord e nel Sud,e ha sempre sostenuto lo status quo. Secondo Padre Joseph McVeigh, prete

politicamente impegnato e rispettato dirigente del movimento per i diritti civili, la Chiesa irlandese

aborrisce l’idea di mescolare Dio alla politica. “Siamo solo in cinque, tra i preti, a prendere

posizione con coerenza e continuità contro ogni forma di discriminazione,” dice, ” e tre sono stati

mandati all’estero, nelle missioni…E, sì, anche la mia valigia è sempre pronta.”

Forse l’esempio migliore dell’influenza della Chiesa viene fuori dalla storia che ho sentito dal

proprietario di un bar di un quartiere cattolico. Egli aveva comprato una macchina per la

distribuzione dei profilattici, che era arrivata in due scatoloni, uno per il distributore e uno per i

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profilattici. Aveva appena finito di installare la macchina, quando arrivò una grossa comitiva e

cominciò a ordinare da bere,per cui decise di mettere i preservativi nel distributore un'altra volta.

La mattina seguente, il proprietario del bar trovò l’equivalente di 37 sterline in monete nella cassa

del distributore, anche se la sera prima nessuno si era lamentato di non aver ricevuto ciò che aveva

pagato. Rispedì prontamente indietro, intatta, la scatola dei profilattici, e oggi, dopo avere

continuato per otto mesi a tenere in funzione, vuoto, il distributore di profilattici, ancora non ha

sentito alcuna protesta. In questo modo si è già potuto pagare il viaggio per vedere una partita dei

Mondiali di calcio; l’anno prossimo spera di poter andare in Tailandia, finanziandosi il viaggio con

lo stesso sistema.

All’interno delle folli dinamiche della società cattolica irlandese le donne devono subire il peggiore

peso della repressone. La Chiesa nega loro la libertà riguardo al loro corpo e rifiuta di conceder il

divorzio. Si dice che solo gli Irlandesi e quelli affetti dal morbo di Alzheimer non conservano

rancori. Così sono curioso di sapere come l’IRA riesca a neutralizzare il sessismo, profondamente

radicato, della maggioranza dei maschi irlandesi. So bene che il Libro Verde, (4) come è chiamato

ilo manuale dell’IRA, è stato sottoposto a una riscrittura non-sessista: ”egli” è ora “ella\egli. Date

le circostanze, non sono certo in grado di fare domande a quelle due, mentre schizziamo attraverso

la strada cercando riparo. Ma i volontari maschi mi assicurano sempre che molti membri dell’IRA

sono femmine.

“Com’è la situazione? Nell’IRA le donne e gli uomini sono uguali?”, chiedo al comandante.

“Sono contento che tu me lo abbia chiesto, ma da parte mia sarebbe arrogante il rispondere a

questa domanda. Solo le donne, voglio dire,possono parlare con autorità dell’argomento…ogni

volontario maschio sa che se si comporta da idiota mancando di rispetto verso una compagna,

o quanto a questo, verso le donne in generale, sarà severamente punito. A essere franco, credo che

dobbiamo fare di più in questa direzione, e temo che certi volontari non l’abbiano ancora capita.

Dobbiamo insegnarlo loro…Cerchiamo di farlo, ma dobbiamo sormontare ancora la presenza di

molto disprezzo per le donne. E non dico questo come scusa, piuttosto come ammissione. Ma oggi

nell’Esercito Repubblicano ci sono donne a tutti i livelli dal Consiglio supremo dell’Esercito fino

alle ultime reclute.”

Kevin, comandante della brigata del South Armagh, descrive se stesso come un fanatico del

dettaglio. Tra i suoi compiti di capo della locale brigata dell’IRA c’è di solito quello di scegliere gli

obiettivi delle operazioni militari e di pianificare l’attacco. Prima di autorizzare una missione,

sottopone quelli che la devono attuare a un interrogatorio stringente. “Ciascuno deve essere

sincronizzato con gli altri. Ognuno di loro deve sapere che cosa deve fare o farà ciascuno degli

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altri,” mi dice. “E voglio sapere da loro che cosa hanno progettato per affrontare ogni circostanza

imprevista…Anche se è Luglio, voglio che i ragazzi mi dicano che cosa intendano fare se arriva

una tempesta di neve.”

“Qualunque cosa sembri fuori posto è una buona ragione per ritirarsi di corsa. Se una cosa nei

piani non era prevista,allora non dovrebbe succedere…Credo fermamente in quello che ti dicono le

budella. Se divento nervoso o mi sto ancora chiedendo qualcosa, so che c’è qualcosa che non va.

E’la stessa cosa per tutti. Dai il segnale, e per quella volta ve ne tornate a casa.”

“Non compi una missione se sei nervoso?” gli domando.

“No, accidenti. E’ questo il motivo per cui pianifichiamo ogni dettaglio di un’operazione…Il

nervosismo annebbia il giudizio. Devi concentrarti o farai fallire tutto: non badi a dove metti i piedi

e scivoli e rompi il ramo di un albero, cosa che potrebbe rivelare al nemico la tua posizione. Queste

cose, amico mio, sono proprio quello che conduce ad essere ammazzati. Devi avere il controllo

della situazione proprio in ogni momento.”

La nostra conversazione avviene mentre Kevin sta guidando una unità in servizio attivo si sette

uomini per delle manovre vicino al confine. Tutti, ad eccezione di me, sono armati, e portano

uniformi mimetiche e maschere. Un volontario porta un lanciagranate, con quattro granate che gli

pendono sulla schiena. Il mitragliere porta intorno alle spalle i nastri di rame delle munizioni, che

gli arrivano fino alle caviglie. Gli altri uomini sono in tenuta da combattimento, con munizioni

supplementari per i loro AK-47 e per le pistole automatiche Browning.

“Resta vicino a noi,” mi suggerisce Kevin, mentre cambio la pellicola.

I volontari si dispongono a ventaglio, e improvvisamente si lanciano verso una siepe che delimita il

lato opposto di un pascolo. Io li seguo. E’ facile capire chi è un fumatore tra gli uomini dell’unità, e

decido di affiancare quello che ha il respiro più affannoso e rumoroso. “Ora basta parlare,” dice

Kevin. “Adesso siamo vicini alla torre”. Appare in lontananza una postazione di sorveglianza

inglese, una delle molte installate sulla cima delle colline lungo la frontiera.

Kevin impartisce gli ordini facendo segnali con le mani,mentre ci teniamo entro le lunghe ombre

create dal sole che tramonta. Un pezzo di terriccio mi colpisce alla spalla. E’ un messaggio da parte

di Kevin: significa che devo smettere di scattare l’otturatore della macchina fotografica. La zona,

come apprendo poi, è sorvegliata da apparecchiature di ascolto che sono programmate per

individuare i suoni umani, meccanici, e metallici. L’uomo col lanciagranate si mette in posizione e

punta la torre, e la nostra marcia giunge a termine mentre egli prende la mira attraverso il visore.

L’uomo scuote la testa e segnala che vuole avvicinarsi di più all’obiettivo. Ma Kevin non vuole

rischiare, e non gliene dà il permesso. Più avanti ci possono essere delle telecamere o dei sensori

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antiuomo; il luogo dove siamo è all’estremità del territorio che in precedenza nella stessa giornata

era stato oggetto di una ricognizione da parte dell’IRA.

Ritorniamo sui nostri passi, e Kevin dà ai suoi uomini un nuovo ordine,il pattugliamento di un

piccolo villaggio nei pressi del confine. Quelli che passano in macchina ci salutano suonando i

clacson, ma restano stupiti di vedere un Americano calvo tra quegli uomini mascherati. Alla fine il

rumore di elicotteri in avvicinamento spinge Kevin e i suoi uomini ad affrettarsi a recuperare i loro

abiti civili. L’equipaggiamento viene portato via con un camion; gli uomini se ne vanno,

assumendo un’aria casuale, e mi si lascia a provvedere per conto mio a come andarmene.

Condividere dei segreti, mi dice Kevin, comporta anche condividere il rischio. Mentre se ne va, mi

augura buona fortuna.

L’esercito britannico definisce la sua lotta con l’IRA una “guerra a bassa intensità. ”Ma la comunità

cattolica, dal canto suo, sa per esperienza che la lotta è invece uno scontro ad alto voltaggio. Nel

corso degli anni Settanta, quando molti volontari dell’IRA di oggi erano ragazzini, o ancora più

piccoli, gli Inglesi condussero più di 150000 perquisizioni domiciliari. A quel tempo non si usava

bussare alla porta: i soldati inglesi semplicemente la sfondavano, e costringevano gli abitanti a

sdraiarsi sul pavimento, minacciandoli con le armi. Nel corso degli ultimi 26 anni, l’Irlanda del

Nord è passata dall’avere il più basso tasso d’Europa di condannati, in rapporto alla popolazione,

al raggiungere invece uno dei tassi più alti del mondo. Non incontro neanche una famiglia

cattolica. che non abbia mai subito una perquisizione nel cuore della notte. Non incontro persona

che non abbia un fratello o un cugino che è stato, o che è, in prigione. Circa un terzo della gente che

incontro ha un parente cui le autorità hanno sparato, o che hanno picchiato.

Negli anni Ottanta la stampa mondiale ha focalizzato l’attenzione su una generazione emergente

cresciuta durante i “Troubles”, senza alcun ricordo di una situazione di vera pace. Questi

cosiddetti “figli dell’odio”hanno ormai assunto funzioni centrali nell’IRA, e c’è un’altra

generazione subito dopo di loro, che sta diventando adulta. Non riesco a immaginare che essi

possano mai dimenticare quello che hanno visto e che hanno provato. Ma avranno la capacità di

perdonare e di riprendere un’esistenza normale? La giovinezza è stata loro rubata, la libertà è stata

loro negata e Dio solo sa che cosa possa essere successo al loro inconscio.

Il comandante mi parla a lungo della propria infanzia. E’ stato un periodo spiacevole, mi dice, e i

suoi ricordi più vividi sono di paura e di sofferenza. Purtroppo, mi dice, egli non sa ancora che

cosa significhi divertirsi.

Mi avventuro in questo territorio anche con più di 20 volontari dell’IRA. Ciascuno di loro mi

racconta delle storie orribili: alcuni erano presenti quando il padre, un fratello, uno zio è stato

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ucciso; la maggior parte di loro è stata in galera, venendo spaventosamente maltrattata; uno aveva

sette anni quando si scatenò una sparatoria durante una dimostrazione di piazza. Sentì che

qualcosa di bagnato e disgustoso gli arrivava in faccia:erano le cervella del suo vicino di casa.

Nessuno di loro, comunque, è disposto a dirmi se ha ucciso egli stesso qualcuno.

Questi volontari dell’IRA mi sorprendono perché tutti, nessuno escluso, esprimono il desiderio di

seppellire l’ascia di guerra e di cercare di fare la pace con i Protestanti loro vicini. La sola vendetta

che vogliono è che gli Inglesi se ne vadano, e una Irlanda unita. All’inizio non credo loro, sicuro

che mi stiano semplicemente ripetendo la linea politica del movimento. Ma la mia opinione cambia

completamente quando per la prima volta passo una serata a sbevazzare in compagnia dei

volontari. Anche quando sono quasi completamente ubriachi, e di certo disinibiti dall’alcool,

continuano a riaffermare quello che mi avevano detto prima, quando erano sobri. Sì, mi ripetono,

vogliono cominciare ad avere una vita normale, o perlomeno fare in modo da assicurarne una ai

loro figli. Faranno qualunque cosa occorra,ingoieranno la medicina,per quanto amara, se ciò farà sì

che i loro bambini possano crescere in pace.

Passo un sacco di tempo con Charlie, esperto di munizioni dell’IRA. Anche se non è il comandante

della brigata, la gente ha la tendenza di rivolgersi a lui per avere la sua approvazione. Quando

sono con un gruppo di volontari, Charlie spesso parla per tutti loro .Lo ritengo una persona onesta.

Un pomeriggio vado a trovare Charlie, che sta trafficando con un fucile Armalite rubato agli

Inglesi. Il fucile continua a incepparsi, ma finalmente Charlie riesce ad aggiustare il meccanismo di

sparo.

“Che problema aveva?” gli domando.

“E’ un segreto,” mi dice, confidandomi che il problema ha qualcosa a che fare col progetto del

meccanismo: informazione, questa, che non ha intenzione di passare a chi fabbrica l’Armalite.

Quando gli faccio le congratulazioni per la bravura con cui ha riparato il fucile, Charlie si

schermisce. I veri genii, mi dice, sono quelli che sanno costruire armi usa-e-getta, fatte spendendo

meno di 10 dollari e studiate per essere usate una sola volta. Ho dei video che mostrano volontari

dell’IRA mentre costruiscono bombe a mano e lanciarazzi, usando materiali che si possono trovare

nella comune spazzatura. Da questi esperti meccanici imparo nuovi usi per i pezzi di tubatura

dell’acqua, per i ferri angolari e per le lattine usate,specialmente i barattoli dei crauti, che possono

diventare il rivestimento ideale per i proiettili-razzo esplosivi.

Charlie riprende di nuovo a parlare dell’Armalite, dichiara che fa schifo, e dice che è una vergogna

che gli Inglesi forniscano ai loro soldati semplici una porcheria simile. Sono soltanto ragazzini. “Li

hai mai visti?”

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Nessuno in Irlanda del Nord può evitare di notare i soldati britannici, che sfiorano in

continuazione chiunque passi per la strada. Quando non sono con l’IRA, spesso seguo le pattuglie

di truppe inglesi, prendendo appunti e fotografandole. Come Charlie, anch’io sono colpito da come

sembra giovane la maggioranza dei soldati inglesi. Molti di loro non sembrano avere alcuna

ragione evidente per possedere un rasoio. Non è loro permesso di parlare ai giornalisti, ma si sa

che la curiosità è una cosa potentissima. A tutti loro stare nell’Irlanda del Nord non piace, e non

riescono a capire bene come uno che come me non rischia la corte marziale possa fare un viaggio

fin qui di inverno. Gli Irlandesi dovrebbero poter risolvere da sé i propri problemi, mi dicono. Sono

stati addestrati per un altro genere di guerra: ”Non riesco proprio a capire,” mi dice un soldato.

“Nella Guerra del Golfo sapevo esattamente cosa fare, ma non qui. Il più delle volte dobbiamo fare

da balie alla RUC, e ciò è pazzesco.”Nello spietato mercato del lavoro dell’Inghilterra del dopo-

Thatcher essi hanno probabilmente pensato che l’esercito fosse una strada per una vita migliore. Il

turno di servizio passato qui in Irlanda li ha fatti di sicuro pentire di essere arruolati.

Charlie mi dice che prova per loro compassione o comprensione, non sa bene se l’una o l’altra.

“Sono delle povere merde infelici messe in una situazione spiacevole, e ciò ti fa provare qualcosa

per loro.”

“Ma tra questi sentimenti l’odio non compare mai?”, gli domando.

“No di certo! Che domanda idiota,”esclama.

“Ma durante un’operazione, che cosa vedi quando guardi la faccia di un soldato britannico?”

“La faccia non la vedi mai,” mi risponde.”In primo luogo, la faccia non è il punto del corpo che

scegli come bersaglio. In secondo luogo,la cosa avviene molto lontano da te. Non è a distanza

ravvicinata e personale. ”Ma è personale, invece, il controbatto. Ci sono delle vite umane in gioco.

Vengono fatti dei calcoli a ogni passo della strada che conduce a una operazione. Per giunta,

nessun volontario dell’IRA può depersonalizzare il suo ruolo dicendo che lo fa per denaro, perché

nell’IRA non c’è denaro di cui valga la pena di parlare. Un volontario che percepisce il sussidio di

disoccupazione non riceve niente dall’IRA; un volontario costretto alla latitanza riceva al massimo

35 dollari a settimana.

Charlie tormenta un bottone della camicia. “Non odio gli Inglesi,” spiega.

“E’ l’uniforme che mi permette di farlo. Nessuno di noi che prenda parte ad una operazione dopo

va a celebrare il successo, mai. Sarebbe da pazzi. Per favore, cerca di capirmi:non mi piace fare

quello che faccio…Nessuno di noi si sveglia la mattina ed è tutto contento per quello che ha fatto di

notte. Non è una cosa personale, io credo, perché invece ha completamente a che fare con le

uniformi e con la merda che rappresentano.”

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“E che merda è?”, gli chiedo.

“E’ l’oppressione pura e semplice.”

Charlie tratta le armi come strumenti, non come amici. Non si esalta di colpo non appena prende

un’arma, e non si sente a suo agio con un fucile carico. “Quando imbraccio un Kalashnikov,” mi

spiega,” imbraccio anche una grossa responsabilità. Fa paura, se ci pensi…Se c’è un civile vicino,

non puoi sparare. Guarda, dovrò continuare a vivere col ricordo di tutto quello che faccio.”

“Nessun rimorso, fino ad oggi?”, domando.

“Nessuno, grazie a Dio.”

Dato che i volontari dell’IRA di solito dormono in casa propria e fanno in modo di sembrare dei

comuni cittadini disoccupati, tanto agli occhi dei poliziotti quanto a quelli dei vicini, sono curioso

di sapere quale sia il momento che separa l’uomo di famiglia dal terrorista col passamontagna. In

tutte le altre zone di guerra che ho visitato c’erano campi chiaramente definiti, con soldati in

servizio 24 ore al giorno. Cerco allora di immaginarmi che cosa passi nella testa di Charlie dopo

che ha dato la buonanotte ai bambini, e subito prima di infilarsi il passamontagna.

Mi dice di non averci mai pensato prima. Charlie considera l’IRA come un lavoro a tempo pieno,

che spesso lo costringe a fare i tripli turni. Se c’è un momento che separa le due funzioni, mi dice, è

la sigaretta che fuma sempre in cucina, da solo, prima di uscire di casa. “Sai, è proprio allora che

sto seduto a pensare e che mi ripasso il piano dell’operazione.”

Charlie non ha bisogno di alcuna particolare preparazione psicologica per preparasi all’azione, e

non vede ragione di celarsi alcun aspetto della vita che conduce. “Teniamo riunioni anche quando

ci sono i bambini, e ciò non mi disturba, e non disturba i miei compagni. L’Esercito Repubblicano è

parte della mia vita, tanto quanto mia moglie e i bambini.”

Vado verso il banco di lavoro di Charlie per dare un’occhiata. Distratto, scivolo su un’asse

sconnessa, e cercando di non cadere tocco con la mano la canna di un’arma. Charlie mi conduce al

lavandino e mi ordina di lavarmi. Le apparecchiature di analisi degli Inglesi possono individuare

tracce minuscole di olio per fucili. “Vuol dire sette anni nei Blocchi H. E’ il motivo per cui noi

portiamo i guanti,” mi dice, pizzicando l’elastico del paio che indossa.

Charlie mette l’asciugamano che ho usato insieme alle armi. In seguito tutto verrà immaganizzato

in un luogo sicuro, fuori dal raggio di azione dei cani da fiuto degli Inglesi e dai sensori portati

dagli elicotteri, che possono localizzare delle armi nascoste fino a due metri sotto terra.

Gli strilli dei bambini che giocano filtra nelle stanze, e Charlie si ferma in quello che sta facendo per

ascoltare. Il motivo per cui combattere, mi dice poi, è soprattutto fare che i suoi non debbano

combattere a loro volta. “Gli inglesi hanno trattato mio padre come merda, e cercano di fare lo

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stesso con me. Non permetterò che facciano lo stesso con i miei bambini. Gesù, se penso a loro non

vedo l’ora che arrivi la pace, sai.”

“Se dal Consiglio supremo dell’Esercito venisse l’ordine di consegnare le armi, tu obbediresti?”, gli

chiedo.

“Immediatamente, e ne sarei felice…tutti noi lo faremmo.”

Ci sono dei brutti tipi in tutti gli eserciti, gli ribatto.”Che cosa succederebbe se un individuo o una

fazione non accettasse l’accordo di pace, considerandolo troppo favorevole all’Inghilterra?”

“Se la dirigenza del Movimento Repubblicano dice di smettere, allora si smette. Noi obbediremo

agli ordini, e ci assicureremo che vengano rispettati all’interno del Movimento,” risponde Charlie.

“Ma che cosa succederebbe se un amico, un membro della cellula continuasse a combattere?”

“In quel caso non sarebbe più un amico, non trovi? E si provvederebbe a lui. In questo siamo

unanimi…Tutti vogliono dire una cosa ma se poi tu la scrivi…”

“Vuoi che non la riporti nell’articolo?”

“No, è solo che è una cosa un po’ strana, può darsi…E’ che desidero molto che arrivi il giorno in

cui io potrò andare con la famiglia alla parata orangista del 12 Luglio,(5) a divertirci e ascoltare la

musica, sai, proprio come facciamo ad Armagh per la festa di San Patrizio. Ti sembra un’idea

assurda?” Gli assicuro che è una delle cose più ragionevoli che mi sia capitato di sentire da mesi, e

gli racconto che anche Gerry Adams mi ha espresso un desiderio del genere.

“Dici davvero?...Gerry è bravo. Spero che riuscirà ad ottenere la pace.”

Dal canto suo il comandante supremo dell’IRA sostiene con forza che tutti i volontari obbediranno

agli ordini,e insieme promette che chiunque esca dalla mandria verrà messo in un recinto e legato,

se necessario. “Noi manteniamo quello che promettiamo.”

“Come fai a esserne così sicuro?”

“Noi facciamo in modo che nessuno si arruoli nell’IRA spinto dalla rabbia,” mi dice.”E teniamo

d’occhio i nostri militanti. La guerra è brutale. Rende la gente brutale. E dobbiamo essere attenti

alle conseguenze di questo…Se la rabbia cresce dentro a uno dei nostri, lo allontaniamo

dall’organizzazione. La rabbia è un fattore di rischio che non può essere tollerato, almeno non

nell’Esercito Repubblicano. Invece lo vediamo costantemente nella UDA. Se in te cresce la rabbia,

se odii, le tue azioni diventano prevedibili. E’ così che vieni sconfitto…Le decisioni cliniche sono

importantissime. ”La natura dell’IRA, mi spiega, è la ragione principale per cui l’organizzazione ha

continuato fino ad oggi a prosperare, mentre altri gruppi, come le Brigate Rosse, sono ormai solo

una frase nei libri di storia.

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Il comandante smentisce le voci ricorrenti di una scissione dell’IRA, dicendomi che sono il

prodotto di una campagna di disinformazione orchestrata dagli Inglesi. Io invece seguo degli

indizi che mi suggeriscono che alcuni repubblicani importanti stanno formando un esercito

scissionista. Ma la mia traccia si perde nel Monaghan, contea della Repubblica al confine con

l’Irlanda del Nord, quando un contatto scompare dalla città. La sua casa è del tutto vuota, se si

eccettuano alcune tazze di caffè che stantio e dei giornali sul pavimento; restandomi poco tempo di

permanenza in Irlanda, non sono in grado di trovare una nuova fonte di informazioni.

E’ ben noto che sia Sinn Fein sia l’IRA hanno ultimamente fatto sapere che è in corso un dibattito

interno sulla Dichiarazione di Downing Street. Per molti osservatori questo sviluppo è decisivo, e

dimostra non solo che il Movimento Repubblicano è maturato dal punto di vista politico e

preferisce il tavolo delle trattative di pace alla canna del fucile, ma anche che i falchi si sono

trasformati in colombe. Domando al comandante quale sia la sua posizione in proposito.

“Colombe nell’IRA? Prova pensarci un attimo…E’ un’idea del tutto senza senso,” mi risponde.

”Noi siamo una forza armata, un sfottuto esercito. Ma siamo anche Irlandesi, e ci piace molto

chiacchierare. Giusto? Siamo capaci di chiacchierare fino a morirne. Ora in questo c’è un aspetto

buono, perché così ascoltiamo l’opinione di tutti. Nell’Esercito Repubblicano nessuno è in una

posizione di potere. Siamo invece in posizioni di responsabilità. Io posso venire rimosso dal mio

posto con una votazione, e mi succederebbe subito se andassi contro i desideri della maggioranza

dell’esercito…Noi incoraggiamo il dibattito. Ma non c’è dissenso organizzato. Si media tra i diversi

punti di vista fino a che non siamo tutti d’accordo su una prospettiva comune,” mi dice, iniziando

così la discussione su come sarà il futuro.

L’argomento più importante, forse, è come sarà la pace.” Quali condizioni dovranno esserci, ”gli

chiedo, ”perché l’IRA ceda le armi?”

“Quale elemento in particolare può far fare un balzo in avanti al processo di pace?” gli chiedo.

“Un cambio di atteggiamento aiuterebbe moltissimo…Gli Inglesi dovrebbero smettere di farci la

lezione, e cominciare invece a dialogare con noi. Che scendano dall’alto del loro cavallo, e si

sporchino le mani negoziando col Sinn Fein e il Governo di Dublino. Tu sai, naturalmente, che

l’anno scorso (1993) ci sono state delle trattative segrete, e che sono durate dei mesi. Eravamo

davvero pieni di speranza. Sembrava che ci fossero progressi…Quando sì è venuto a sapere

pubblicamente delle trattative, gli Inglesi hanno interrotto il dialogo con noi, e hanno ripreso a

farci la lezione. E’ ora che essi, e i Protestanti del Nord dell’Irlanda, si decidano a venire a patti con

le realtà politiche. Buon Dio,Hong Kong sta per tornare ai Cinesi. Che cosa rimane all’Inghilterra?

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Le Isole Falkland e noi Irlandesi? Che lascino che l’Irlanda si unifichi, e diventiamo tutti parte

dell’Europa.

“C’è’ qualche individuo, o qualche gruppo, che impedisce all’opera di procedere?”

“In realtà, nel caso dei Protestanti delle Sei Contee, si nota invece la mancanza di un certo tipo di

individuo, e a questa mancanza occorrerebbe porre rimedio. Nella comunità protestante non sta

affiorando un leader del genere, diciamo di de Klerk. Paiseley e Rbinson, e altri fanatici, sono

invece ancora ben presenti, e tra i Protestanti non sento nessuno che dica, ’Bene, ragazzi, dobbiamo

per forza riconoscere la realtà, e dobbiamo cominciare a immaginare un futuro diverso’…I politici

unionisti non hanno alcun incentivo che li spinga a cercare un accordo per il futuro. Sono stati

cresciuti nella credenza di essere migliori di noi. Noi siamo percepiti da loro come minaccia. Noi

siamo la spazzatura che li appesta quando vanno in città. Loro sono buoni,noi siamo schifezza. Si

tratta di pira mentalità coloniale, e gli Inglesi potranno cambiare molto le cose, nel momento in cui

diranno che hanno deciso di andarsene dall’Irlanda entro una certa data.”

“A quali limiti di tempo stai pensando per il ritiro degli Inglesi?” gli domando.

“Beh, diciamo che un periodo superiore ai dieci anni non sarebbe accettabile.”

Dieci anni è un tempo due volte più lungo di quanto avessi immaginato. Il comandante non vuole

entrare nei particolari, pur esprimendo il desiderio che l’unificazione dell’Irlanda avvenga entro

quel decennio. Mi ricorda che la riconciliazione nazionale non sarà mai un risultato istantaneo.

Ricorda il passato,quando la repubblica del Sud dell’Irlanda venne formata in modo tale da placare

i timori dei Protestanti. “Non si sparò un colpo. Nessuno venne cacciato da casa sua. Nello Stato

Libero di Dublino Cattolici e Protestanti andarono d’accordo benissimo dopo che gli Inglesi se

n’erano andati. E vanno ancora d’amore e d’accordo.”

“Alcuni gruppi paramilitari lealisti predicono uno scenario apocalittico se gli Inglesi se ne

dovessero andare, e hanno più gente e più armi dell’IRA,”gli dico, ricordandogli che la minaccia di

un bagno di sangue fa sì che la comunità internazionale continui a sostenere al politica britannica

in Irlanda del Nord.

“Gli Inglesi e la RUC dovranno finalmente fare ciò che occorre. La RUC ha continuato così a lungo

ad essere collusa coi paramilitari lealisti che oggi conosce di essi molto più di quanto faccia credere

il numero di loro che ha arrestato. Fino ad oggi queste bande lealiste sono state utili agli Inglesi e

alla RUC. Fanno per loro il lavoro sporco. Ma una volta che il processo di pace sia partito le cose

cambieranno,e non sarà più nell’interesse di Inglesi e RUC proteggere l’Ordine d’Orange.”

“Tu fai suonare tutto così facile che io…”

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“E no! Lascia che ti corregga al riguardo. Non sarà affatto facile. C’è una enorme quantità di cose

che si dovranno risolvere…Dovrà esserci un ambiente più attraente. Credo che questo sia davvero

importante. In questo gli Inglesi potranno aiutarci, ritirando le loro truppe e spendendo invece

quel denaro per incoraggiare gli investimenti industriali. La dipendenza dall’Inghilterra è

debilitante, e un nuovo sistema dovrà rimpiazzare l’antico. Niente di tutto questo è facile a farsi.”

“Tornando al cessate il fuoco,” torno alla carica io, ”quale è la condizione perché vuoi lo

proclamiate?”

“E va bene. La condizione è che ci sia un processo di pace inclusivo, fondato su principi

democratici, con un periodo di tempo stabilito entro cui deve avvenire il ritiro inglese che creerà

una dinamica che inevitabilmente conduce ad un accordo negoziato.”

“Accipicchia!,” esclamo, dopo questa raffica vertiginosa.

“Devo essere molto attento a quello che dico,” mi dice il comandante guardandomi fisso negli

occhi.

”Questo è importante…E, se tu non riporti correttamente quello che ti ho detto sei sfottuto!.”

Scorro a caso il mio taccuino, e gli ripeto le frasi, che passano tutte il suo esame. ”Ci siamo quasi,”

mi dice. Nel seguito della conversazione, gli ricordo che Dwight Eisenhower era un buon generale,

ma che era migliore come giocatore di golf che come politico. Conviene con me che è meglio che sia

Gerry Adams a occuparsi della diplomazia. Fortunatamente è di nuovo tranquillo.

“Ciò che vogliamo vedere è soltanto un’Irlanda unita, libera dalla violenza. Le cose, così come sono

in Irlanda del Nord, si fondano su di un modello di apartheid. Questa situazione deve essere

completamente cambiata. Che i Cattolici vengano trattati come merde è una cosa che deve

finire…Il fanatismo religioso è stupido. Vediamo invece di essere intelligenti. Qui siamo tutti

irlandesi. Quando un Protestante del Nord va in Inghilterra, lo definiscono ‘un Paddy’ (‘piccolo

Patrizio’, nomignolo paternalistico - o spregiativo - con cui gli Inglesi si riferiscono agli Irlandesi;

Patrick, da San Patrizio patrono dell’Irlanda, è nome molto diffuso nell’isola.). Per il nostro accento,

per come ci muoviamo, noi Irlandesi, cattolici o Protestanti, siamo tutti dei ‘Paddy’ per gli Inglesi.

La discriminazione su base religiosa mi ripugna…Liberiamoci dei soldati inglesi. Ciò faciliterà i

rapporti tra di noi. Rimandiamoli a casa loro. O da qualunque altra parte. L’importante è far si che

se ne vadano…Immaginiamoci in che modo dovrà avvenire l’unificazione. Mettiamolo per iscritto,

facciamo sì che il processo di pace cominci ad andare avanti in modo tale da non poter essere

sabotato da alcuno. Noi faremo la nostra parte. E questo è una garanzia.”

Quando finalmente il mio taccuino e la mia penna spariscono, scompaiono anche le frasi fatte, e il

comandante abbassa la guardia. I suoi modi divengono più dolci, e compare in lui un umorismo

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autocritico. Il comandante è un generale riluttante, vengo ad apprendere, un uomo che desidera

ardentemente poter cambiare il ruolo che gli eventi gli hanno imposto di assumere. Ci

appoggiamo, rilassati, ai sedili, curiosi l’uno dell’altro, e chiacchieriamo del più e del meno.

Parliamo perlopiù di viaggi, di dove andare e di come arrivarci. La sua mente è determinata a

viaggiare verso una Irlanda unita, ma il comandante è disponibile riguardo al percorso per

arrivarci. Al momento viaggia disposto a tutto, aprendosi la strada con l’accetta in un territorio

difficile. Sua guida è l’esperienza del passato, e la sua bussola indica che gli Inglesi prestano

orecchio solo agli argomenti della forza, non alla forza degli argomenti. Mi dice che però spera

ardentemente di trovare presto nuove, e diverse, indicazioni. Sono colpito dall’inclusione dei

bambini in quasi tutto ciò che immagina riguardo al punto d’arrivo del viaggio. La sua ricompensa

per gli anni passati nell’IRA sarà il momento in cui i ragazzini potranno conoscere i ‘Troubles’

soltanto leggendo i libri di storia.

Quando infine ci salutiamo, sono convinto che la pace in Irlanda sia vicina. Ho la sensazione che il

momento in cui la pace arriverà sarà determinato dal tono usato dalle parti in conflitto, e proprio

su questo cambiamento gli Inglesi e la comunità protestante dovranno influire, o forse decidersi a

compierlo. Se modificassero il loro atteggiamento, ciò gioverebbe a tutti. Di sicuro, nella comunità

protestante ci sono delle voci ragionevoli e coraggiose che potranno in futuro sostituirsi al vangelo

dell’odio predicato da Ian Paisley. Gli Stati Uniti - e altri paesi - potranno rendere l’Irlanda del

Nord più attraente per gli investimenti, estendendo ad essa gli stessi incentivi all’imprenditoria e al

commercio di cui oggi gode Israele. Ma sono gli abitanti del Nord dell’Irlanda cui aspetta fare la

parte più grande del lavoro di riconciliazione, e sono i loro bambini che pagano il prezzo di ogni

ritardo. Alcuni dicono che questa guerra continua da 25 anni, alti invece sostengono che continua

da secoli, secoli d’inferno.

La pace renderebbe la questione puramente accademica.

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117

NOTE:

(1)

Organizzazione interna dell’IRA

La recente esperienza della Repubblica Irlandese rivela che l’IRA, come organizzazione terroristica,

ha una base rivoluzionaria, radicata nella storia stessa del paese. Quello che, però, qui mi preme

sottolineare, è che, questa organizzazione non è semplicemente un movimento armato, un esercito

segreto con al seguito un certo numero di supporters, ma è un particolare mondo, un “Irish

Repubblican Word”, un mondo speciale, coperto, chiuso e conosciuto solo dai “Believers”, dai

fedeli, da chi è completamente dedito alla causa.

È, infatti, un modo speciale perché dedicato ad un sogno ed i suoi membri, i suoi abitanti, sono

tutti dei “credenti” aventi la fede e la convinzione che il sogno venga prima della realtà, prima di

ogni latra cosa.

Per trasformare questo sogno in una struttura capace di lasciare il segno nella storia, i ribelli hanno

abbracciato non tanto un esercito quale possa essere inteso in maniera convenzionale, non un

governo in esilio, non una parte di una qualche cospirazione sovversiva, ma un movimento, il

movimento di un mondo chiuso e coperto, strutturato come una democrazia dove il potere e le

decisioni convergono e d’affluiscono tutte nel centro, al cuore dell’organizzazione che è l’Army

Convention dell’IRA.94

L’IRA, “The Irish Repubblican Army “, è il più grande, significativo e meglio organizzato dei gruppi

paramilitari che sono attivi nel Nord Irlanda.

Quella che prendo in considerazione e che analizzo in dettaglio è, l’IRA Provvisorio, l’ala

Provisional dell’IRA, i Provos, la parte più violenta e perpetratrice delle azioni militari contro le

forze britanniche il cui nome irlandese è hEireann del Na di Oglaigh.

Il funzionamento giornaliero dell’IRA è condotto da un Consiglio dell’Esercito, l’Autority Council,

composto da sette persone, tra le quali spiccano, essendo poi sempre presenti ai fini della

costituzione del Consiglio, il Capo del Personale, l’Aiutante Generale ed il General Quartermaster.

Negli ultimi anni i membri del Consiglio provenivano, quasi esclusivamente, dall’Irlanda del Nord

e dalle contee limitrofe.

94 Per un maggior approfondimento sul tema si veda Bowyer Bell J., IRA – tactics & targets, Poolbeg, Dublin 1997.

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Attualmente il Consiglio è composto da membri che vengono da Belfast, Derry, Donegal,

Monaghan e dalla zona di frontiera di Louth-Armagh.

L’autorità suprema dell’IRA è la General Army Convention (GAC) che viene contattata solamente

in rare e gravi situazioni.

Secondo quanto afferma la costituzione dell’IRA, il GAC deve essere contattato almeno una volta

ogni due anni, a meno che, in base ad una decisone della maggioranza, motivi militari particolari

ne impongano la riunione.

Coloro che vengono delegati al GAC sono membri dell’IRA selezionati dalle varie unità all’interno

dell’organizzazione; dodici di questi membri costituiscono l’esecutivo del GAC che si riunisce una

volta ogni sei mesi; uno dei ruolo e compiti fondamentali dell’esecutivo è quello di selezionare i

componenti del Consiglio dell’Esercito e di informarlo riguardo alle operazioni e tutto ciò che

riguarda l’organizzazione.

Autorità suprema dell’IRA, nel caso in cui il GAC non sia di sessione è il Consiglio dell’Esercito, le

cui decisioni, sia per quanto riguarda la fase di progettazione che di esecuzione, vengono effettuate

e prese dal GHQ, il General Quartermaster che funge da anello di collegamento tra il Consiglio

stesso e gli Ordini del Nord e del Sud.

L’Ordine nordico copre, oltre l’Irlanda del Nord, le contee di Donegal, Leitrim, Cavan, Monaghan

per un totale di 11 contee; l’ordine nordico ha almeno cinque brigate distribuite tra Belfast, Derry,

Donegal, Armagh e Tyrone-Monaghan.

L’Ordine del Sud, invece, che copre 21 contee, ha un numero molto più piccolo di personale sparso

per tutta la Repubblica; ha una brigata a Dublino, ed un certo numero di più piccole unità nelle

altre provincie.

Ogni Ordine ha il relativo proprio comandante ufficiale (Ufficial Commander), il direttore delle

operazioni ed il supervisore generale.

Il braccio operativo dell’Ordine consiste in alcune cellule conosciute come unità di servizio attive

(ASUs), ciascuna con un numero di membri che, generalmente, varia tra i cinque e gli otto.

Occasionalmente scendono in campo le squadre speciali con a capo il personale dell’esercito per i

funzionamenti speciali.

Ogni Ordine ha, poi, una sezione delle donne conosciuta come il Na di Cumann mBan.

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(2)

La socializzazione politica dei bambini in Nord Irlanda

Ci sono circa 500.000 persone sotto i 17 anni in Nord Irlanda.

In una terra, in un paese che ha la più lunga esperienza circa conflitti civili e disordini sociali in

tutto il mondo occidentale degli ultimi anni, la politicizzazione dei bambini assume un ruolo ed un

significato non certo secondario.

Ci sono, in particolare, due aspetti del conflitto che dimostrano e mettono in luce il fatto di come i

bambini assumano un’importante funzione e ruolo politico.

La faziosa divisione tra le due comunità, quella Cattolica e quella Protestante, divide e politicizza

anche le istituzioni sociali dei bambini, quali la scuola, le giovani organizzazioni e la famiglia.

In secondo luogo, il Nord Irlanda è caratterizzato da una forte identificazione nazionalistica con

grande ed intenso attaccamento al passato, tutto ciò in forme che portano i bambini ad una

continua e costante assimilazione e partecipazione.

Ecco allora che all’interno di questa situazione caratterizzata dai “troubles” non si può non

considerare il ruolo della popolazione, considerata il più delle volte come vittima, figura passiva di

una situazione alla quale non può far fronte di fronte all’atrocità degli atti compiuti da questi così

estranei e sconosciuti gruppi terroristici rappresentanti, però entrambe le comunità civili.

Solo se si cambia prospettiva ed angolo di visuale si può arrivare a sostenere la tesi di un

“internalising of the enemy into civilian life”, considerando ed analizzando il ruolo che, di

conseguenza, assumono le famiglie, le case, i bambini come parte integrante di quel terreno di

battaglia scenario dei già citati “troubles”.

Molti educazionalisti sostengono che la scuola gioca un fattore molto importante, attraverso,

soprattutto, l’istituzionalizzazione della segregazione e della cultura dell’”altro” che in tale clima si

produce.

Ricerche diverse sono state fatte sulle differenze materiali tra le scuole nel Nord Irlanda, ed i

risultati sono stati tutti monodirezionali, nel senso che la percezione che i bambini hanno delle

differenze tra le due comunità è concretizzata volontariamente o meno,dall’insegnamento che

ricevono a scuola, un insegnamento che si esprime sia attraverso le parole e le lezioni degli

insegnanti sia attraverso simboli e rituali. Anche la verde uniforme dei bambini della scuola

primaria cattolica indica e rivela agli insegnanti di quella protestante un messaggio politico.

Libri, immagini, figure di una scuola protestante hanno la loro fonte nella Bibbia o nella storia

dell’Inghilterra e di Londra.

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La letteratura tipica delle scuole cattoliche riflette, invece, un interesse rivolto alla storia

dell’Irlanda e di Roma.

Un esempio tipico che mette in luce e rivela le differenze nei due tipi di sistemi di insegnamento è

caratterizzato dallo studio di come siano considerati in maniera diversa gli sport, il linguaggio e la

musica.

Il linguaggio irlandese e la sua letteratura sono considerati simbolo di nazionalismo, e, per questo,

esclusi e non analizzati all’interno delle scuole protestanti. Lo studioso Dominic Murray,

analizzando tale situazione parla metaforicamente di “Three R”, le “tre erre” alle quali i bambini

sono soggetti: religione, rituali e rivalità (“religion, ritual and rivalry).95

I ragazzi cattolici continuano a giocare sport gaelici di squadra, ma cricket, hockey e rugby sono

generalmente vietati poiché simbolizzante l’Inghilterra.

Un altro aspetto da prendere in considerazione è che il fatto stesso della separazione è il problema

principale, quello che conta. Il sistema scolastico stesso, fondato e basato sulla segregazione, porta i

bambini a prendere coscienza del conflitto, enfatizzando e dando sostegno alle differenze di

gruppo ed alle ostilità,incoraggiando l’ignoranza e, cosa ancor più importante, a falsi sospetti.

La scuola, infatti, è un ambiente chiuso, dove il concetto di identità può essere rinforzato dalla

pressione che naturalmente viene a crearsi in seguito allo scambio di idee che si ramifica e si

sviluppa tra i bambini all’interno delle mura dell’istituto.96

Sebbene, quindi, il bambino non sappia e non abbia ancora ben in mente e chiaro il concetto

dell’”altro” e del diverso, ogni giorno, però egli ne è attratto visivamente, egli ne può prendere

visione ed averlo comunque davanti a sé.

L’incontro quotidiano con la divisione e la diversità da parte dei bambini non può essere rimosso

se non apparentemente, pronto a riemergere, a riaffiorare non appena quel bambino, divenuto

adulto, si trova a far parte di un contesto sociale dove le differenze sono rimaste, caratterizzate, in

più da attività militari ricche di violenza e di sangue.

Ecco allora che la scuola e l’educazione sono solo una fonte, un aspetto particolare del più generale

concetto dell’educazione.

95 Murray D., Identity: a covert pedagogy in Northern Irish schools, Irish Educational Studies, vol. 5, no. 2, 1985, pp.182-197. Si veda inoltre Murray D., Rituals and simbols as contributors to the culture of Northern Ireland primary schools, Irish Educational Studies, vol. 3, no. 2, 1983. 96 Si veda inoltre Connolly P., e Maginn P., Children, Sectarianism and Community Relations in Northern Ireland, Centre for the Study of Conflict, University of Ulster, 1999.

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I bambini sono socializzati e portati alla violenza politica attraverso la testimonianza del loro

vicino, del loro prossimo, e, inoltre, attraverso la loro partecipazione in organizzazioni paramilitari,

quelle che operano nella loro comunità.

Uno psicologo di Belfast, Morris Fraser, che scrisse negli anni ’70 sostenne caparbiamente che “non

ci sono civili in Ulster, perché i bambini ed i loro genitori sono essi stessi combattenti.”97

Militarizzazione: giovani combattenti e insurrezionisti

La militarizzazione dei bambini in Nord Irlanda può essere vista come un processo che parte con

l’accettazione del concetto di violenza come intriso di significato politico, e termina con la sua

conseguente messa in pratica attraverso la mobilitazione di massa.

L’Esercito Repubblicano Irlandese ha svolto un ruolo fondamentale nella creazione dell’immagine

del soldato inglese come una figura da odiare, malvagia, come fine unico e obiettivo principale

delle loro azioni.

Nelle loro attività quotidiane, nei loro giochi, i bambini mettono in luce tutta la loro attitudine, e,

prima del 1971, alcuni di loro, durante delle messe in scena di sommosse politiche, le loro canzoni

popolari ed i loro giochi, esprimono chiaramente la loro violenta animosità.

Una testimonianza è data da questo canto quotidiano, frutto del lavoro di ricercatori che

ascoltavano attentamente i discorsi che i bambini si scambiavano tra di loro:

What shall we do with the Para bastards?

Early in the morning

Kill shoot burn the soldiers(repeat)

Kill shoot burn the bastards

Early in the morning

If you hate the British soldiers clap your hands

(Cosa dovremmo fare con i Para bastardi?

Presto alla mattina

Uccidere colpire bruciare i soldati - ripetere-

Uccidere colpire bruciare i bastardi

Presto alla mattina

Se tu odi i soldati britannici batti le mani)

97 Fraser M.., Children in conflict, (Harmondsworth: Penguin, 1973).

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Le giovani bande in Nord Irlanda non sono molte né costituite da tanti elementi, ma, cosa che

risulta essere di notevole importanza, sono appoggiate ed approvate dagli adulti.

Esse vengono quotidianamente coinvolte e inserite gradualmente dalle organizzazioni paramilitari

all’interno del conflitto, in modo da sfruttare al massimo ed indirizzare correttamente, secondo la

rispettiva ideologia, la loro forza impulsiva, la loro carica.

Il processo di coinvolgimento inizia generalmente da quell’aspetto simbolico del conflitto costituito

dalle parate, le marce.

Quelle nazionaliste, generalmente, presentano un aspetto meno militare, caratterizzate da un più

basso grado di violenza, una minor presenza di forze in divisa e, soprattutto, sono portate avanti,

condotte in prima linea, da donne e bambini.

Successivamente, con il passare del tempo, i bambini acquistano un ruolo sempre più pregnante,

attraverso la loro trasformazione in corpi militarizzati, il loro coinvolgimento nella violenza

politica attraverso le attività paramilitari, guerriglie e terrorismo.98

Ancora una volta l’esempio tipico di tale processo è rappresentato dall’IRA che, nel 1969, quando

dovette superare la crisi che la stava portando alla fine, dividendosi poi in Official e Provisional, si

riorganizzò partendo proprio dalle giovani forze che crearono così le basi per il futuro, per una più

lunga e longeva possibile attività terroristica.

I giovani gruppi, composti da centinaia di ragazzini, all’interno dell’IRA, vengono addestrati circa

le tecniche di guerriglia, addestrati all’uso di armi, pesanti e leggere, da fuoco e non…

Le ali giovani dell’IRA sono solite chiamarsi Young Boys of Ireland ed i membri facentine parte

indossano berretti neri per le occasioni ufficiali, come nel caso di funerali, altrimenti, durante tutti

gli altri giorni, quello verde, tipicamente nazionalista.

Il fatto che i bambini non siano punibili con l’arresto, fa sì che la loro partecipazione ed il loro

utilizzo in rivolte e dimostrazioni sia particolarmente prezioso; essi vengono utilizzati come

deterrente o scudo, e vengono messi, posizionati davanti, in prima linea durante le azioni di

guerra, cercando così di scoraggiare il nemico ed indurlo a deporre le armi, facendogli cambiare

idea o, perlomeno costringendolo a cambiare strategia.

Morris Fraser, scrive, inoltre, che la maggior parte di tutti questi bambini sono abili e capaci di

accettare il loro ruolo affidatogli nelle zone a rischio delle strade scenario di scontri continui e

ripetuti:

98 Per questo particolare processo che vede coinvolti i bambini in Irlanda del Nord si veda Cairns, Ed and Tara Cairns, Children and Conflict: a Psycological Perspective, in Seamus Dunn ed., Facetes of the Conflict in Northern Ireland (Houndmills: Macmillan Press, 1995).

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“bambini, con un limitato ed imprecisato concetto di morte, incapaci di prevedere i rischi delle loro

azioni a causa della loro immaturità, hanno accettato questo ruolo senza alcuna

esitazione…corrono e si muovono in tutte le direzioni con una velocità impressionante scagliando

sacchetti di petrolio con una disinvoltura che pochi adulti sarebbero in grado di imitare…”

I compiti che gli vengono affidati, comunque, sono generalmente quelli di inviare messaggi,

raccogliere munizioni, incendiare auto, creare blocchi del traffico, fabbricare e piantare

strategicamente le bombe.

In particolare, le ali giovani dell’IRA sono portate a marcare il territorio ed esprimono e

manifestano il loro sentimento nazionalistico dipingendo murales99 con simboli politici e scene

tratte dalla storia.

Bambini dell’età di otto anni sono in grado, con precisione assoluta, di spiegare e descrivere nella

maniera migliore tutte le modalità da seguire per la fabbricazione di bombe al petrolio,

dimostrando una capacità di acquisizione delle tecniche di guerra notevole.

Quello che, però, mi preme sottolineare, è il fatto che, dal punto di vista degli effetti, gli atti

compiuti da bambini di età compresa tra i cinque ed i quindici anni hanno ed esprimono una

maggior forza, un maggior peso rispetto a quelli degli adulti.

Come sottolinea Fraser, “colpire con pietre una jeep, il guidatore, l’ambulanza che trasporta corpi

morti, sono gesti intrisi di un potere nettamente superiore, di gran lunga maggiore rispetto a quello

di un adulto che giuda un velivolo militare.”100

Durante i movimenti per i diritti civili in Belfast e Derry nel 1969, i mezzi di comunicazione inglesi

riportarono le immagini di questi giovani combattenti descrivendoli come “vittime innocenti di un

conflitto di adulti”.

L’utilizzo di termini come “rioting” e “civil rights disturbance”da parte dei reportage inglesi

implicano e danno l’idea di un combattimento non calcolato, quasi spontaneo, una lotta non

organizzata contro l’esercito. La partecipazione dei bambini, inoltre, a qualsiasi livello del

combattimento di strada è ugualmente interpretato, in maniera non corretta, come accidentale

piuttosto che organizzato e deliberato.

Il punto fondamentale che viene ribadito nei vari reportage è che i bambini hanno perso la loro

innocenza e purezza, passando precocemente dai tipici giochi infantili alla cruda realtà degli

interessi in gioco tra le strade del conflitto.

99 Per un maggior approfondimento del significato politico di questo aspetto del conflitto nord-irlandese si veda Woods O., Seeing is Believing? Murales in Derry, ed Hippsley P., Carlin D., McGandy C., 1995. 100 Fraser M., Children in Conflict, (Harmondsworth: Penguin, 1973).

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The Daily Mirror nell’agosto del ’72 scrisse: “è profondamente tragico che i bambini in Ulster non

possono più essere chiamati gli innocenti”.101

Lo psicologo Ed Cairns102 ha osservato come i bambini comprendano a pieno il significato della

loro violenza, e, ricerche scientifiche, attestano come, fin dall’età di cinque anni, sia chiara in loro la

differenza tra crimine violento e violenza politica.

Accettano e condonano la violenza politica, riconoscendone la funzione di difesa che essa svolge

per la loro comunità, condannando, però, a livello morale, quei crimini in cui la violenza è

utilizzata per altri propositi.

I loro atti, quindi devono essere visti ed interpretati come non sinonimo di delinquenza o

confusione, ma come razionale e acquisito stile di vita.

Quello che, poi, sorprende forse più di ogni altra cosa, è che i bambini conoscono ed hanno perfetta

coscienza della loro capacità di partecipare al conflitto.

Bambini ingaggiati ed addestrati per ogni atto di distruzione hanno ed esprimono il desiderio di

porlo in essere perché le loro qualità e capacità sono differenti da quelle degli adulti.

Un direttivo, rivolto a membri dell’IRA esprime chiaramente che : ”bambini più o meno giovani

sono strumento materiale adatto, ideale per piantare bombe…essi attirano meno l’attenzione e

creano minori sospetti rispetto gli adulti, sono

sensibili alla remunerazione, e non fanno domande. Se catturati dall’Esercito Britannico o dagli

ufficiali di sicurezza loro sono perfettamente in grado di non riferire nulla e di rilasciare alcun tipo

do dichiarazioni…più bombe al petrolio e più munizioni sono più prontamente ed

immediatamente utilizzabili. ”Continuando a leggere il direttivo, nella parte in cui sottolinea come

’le perlustrazioni dell’Esercito Inglese possono essere attirate e portate in imboscata più facilmente

quando bambini, giovani e donne sono utilizzate come esca…’, è chiaro come l’utilizzo di questa

particolare fascia della popolazione sia ben accettato e sfruttato portando il nemico verso

l’inganno.”103

Bambini uccisi durante i combattimenti, inoltre, sono descritti dalle organizzazioni paramilitari

come eroi più che vittime, e il loro sacrificarsi per la causa da un certo tripodi colore alla notizia

101 Citato da Brocklehurst H., The nationalism and militarisation of Children in Northern Ireland, Capitolo tratto da “PhD Thesis in International Politics intitolata”: Children as Political Bodies: Concepts, Cases and Theories, university of Wales, 1999. 102 Cairns Ed., Children and political violence (Oxford: Blackwell, 1996). 103 Citato da Brocklehurst H., The nationalisation and militarisation of Children in Northern Ireland, Capitolo tratto da PhD Thesis intitolata: Children as Political Bodies: Concepts, Cases and Theories, University of Wales, 1999.

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della loro morte; per esempio, la morte di un tredicenne membro di una delle ali giovani dell’IRA,

colpito dall’Esercito Britannico, venne così descritto sul muro:

“E’ in questa ora che la nazione irlandese deve, per la prontezza di questo bambino a sacrificarsi

per la giusta causa, ritenersi degna del venerabile destino al quale è stato chiamato…Cara Irlanda,

porta al tuo seno questo soldato che è morto per te; lascia che sopra il tuo petto venga santificato e

resti tra i martiri.” 104

(3)

Armi

Narrator: I membri dell’IRA avevano progettato di sparare ad un soldato britannico, ma non

c’erano sufficienti armi, n particolare pistole per compiere l’operazione. La nuova IRA era

determinata ad ottenere ed avere tra le mani le più recenti e mortali armi da guerra.

Peter Taylor: “Quano si costituì la Provisional IRA, l’organizzazione cosa fece per le armi?”

Billy McKee, Former IRA Army Council (Ex del Consiglio dell’Esercito dell’IRA): “Cosa venne fatto

per le armi?

Andammo fuori e prendemmo coscienza della situazione, le chiedemmo, le rubammo e le

comprammo.”

Peter Taylor: “Dove esattamente l’IRA le trovò da comprare?”

Billy McKee: “Da chiunque ed ovunque, in ogni luogo.”

Brendan Hughes, Ex comandante dell’IRA a Belfast: “Ricordo che ero seduto, aspettavo in una casa, e

questo ragazzo che faceva parte della marina militare mercantile tornò indietro con il suo libro

sull’Armalite.

Questo libro, effettivamente, elogiava quest’arma sostenendo che se una persona veniva colpita al

braccio con questo particolare mezzo, tutte le ossa del suo corpo si sarebbero distrutte. Questa era

l’arma - così sostenevano tutti quanti - questa è l’arma che ci porterà a cambiare e stravolgere la

guerra.”

Narrator: Per rifornirsi di Armalite - una versione della M-16 - la Provisional dovette guardare e

considerare la situazione al di là dell’oceano Atlantico.

Gli irlandesi che erano emigrati in America, da sempre, hanno sostenuto ed appoggiato l’IRA con

soldi, finanziamenti ed armi.

104 The Cost of the Troubles Study, The Final Report. The Cost of the Troubles Study, (Derry Londonderry: The United Nations University – The University of Ulster, April 1999).

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Uno dei più importanti attivisti sostenitori era Gorge Harrison.

Gorge Harrison: “Qualcuna viene comprata al mercato nero e la fonte principale di sostentamento

è l’esercito degli Stati Uniti d’America.”

Peter taylor: “Stai forse dicendo che la maggior parte delle armi siano state rubate da…”

Gorge Harrison: “Probabilmente è così, sai, tu puoi immaginarlo, sai, prova a pensare…”

Narrator: La maggior parte di Armalite che è stata sequestrata in Nord Irlanda reca l’inscrizione:

”Proprietà del Governo Americano.”

Peter Taylor: “Quale è il quantitativo di armi che tu pensi sia stato mandato in Irlanda?”

Gorge Harrison: “Bene, io non posso affermarlo con esattezza, ma posso dirti che il numero è

compreso tra le 2500 e le 3000, sai, più o meno.”

Peter Taylor: “E le munizioni?”

Gorge Harrison: “Pensi che le munizioni ammontino probabilmente sopra al milione di cartucce.”

Brendan Huges: “Ricordo questa macchina fermarsi e, una volta aperto il bagagliaio, l’Armalite

era lì - voglio dire 15 di quelle armi , capisci -

Ricordo che le persone che erano in quel luogo rimasero stupite e meravigliate che le armi da fuoco

erano lì. Ricordo ciò che provarono realmente, il loro sentimento attraverso queste parole, ”Questo

è. Questo è. Ci stiamo muovendo da un periodo di inattività con questo tipo di cose.”

Narrator: Dall’inizio del 1972, la parte Provisional dell’IRA era supportata solamente da una

minoranza di Cattolici nel Nord Irlanda, tuttavia ciò non traspariva, non sembrava durante la lotta

per “Derry Libera”, quando l’Esercito Britannico Locale si scagliò contro la popolazione e costruì

barricate a Bogside.

Dalla sua postazione, ”base di sicurezza”, l’IRA poteva fare incursioni per tutta Derry, uccidendo

soldati e poliziotti.

Gli anziani ufficiali britannici erano colpiti dal fatto che l’IRA operasse così apertamente.

Derry divenne lo scenario per uno dei più terribili conflitti tra i Cattolici e le forze Britanniche.

Era il 30 gennaio 1972. Il giorno iniziò con una marcia pacifica per i diritti civili. Finì come la

“Domenica di Sangue”, ”The Bloody Sunday”.

Mitchel McLaughlin, National Chairman,Sinn Fein: “Io ero uno degli stewards della marcia ed ero

in Chamberlain Street. Ci fu uno scontro violento,rimasi intrappolate, impigliato tra le barricate

inglesi.” 105

105 Questo reportage è tratto da Taylor P., The IRA and Sinn Fein: “Bheind the Mask”, 1997.

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Le due fonti principali di armamento per l’IRA sono gli Stati Uniti e la Libia.

La rete di funzionamento principale in America era controllata da Gorge Harrison, un veterano

repubblicano irlandese che curò le varie campagne dell’IRA sin dagli anni ’50, ma la cui attività si

manifestò principalmente intorno agli anni ’70 fornendo di una quantità notevole di armi l’Esercito

Repubblicano Irlandese.

Diversi tentativi, portati avanti da persone e gruppi diversi, vennero sostenuti negli U.S.A, ma

molti non andarono a buon fine, soprattutto perché gli enti federali degli Stati Uniti, in modo

particolare l’FBI, si sono sempre più specializzati al fine di scoprire e smantellare la rete di

acquisizione di armi, tanto che l’FBI, appunto, ha formato un’unità speciale per concentrarsi sui

paramilitari irlandesi.

Il materiale attualmente negli arsenali dell’IRA si crede sia stato spedito dalla Libia intorno agli

anni ’80, grazie all’aiuto di un capitano, Adrian Hopkihs, assunto dall’IRA stessa.

Tuttavia, il colonnello della Libia Gheddafi, fin dall’inizio degli anni ’90 ha deciso di non dare più

supporto alla causa irlandese, ed è forse anche per questa serie di motivi, e presa coscienza della

difficoltà sopravvenute col tempo di ottenere l’importazione di nuovi stock di armi, che la

dichiarazione di “ceasefire”, cessate il fuoco”da parte dell’IRA risulta meno sorprendente di

quanto in realtà potrebbe sembrare.

Dove vengono situate e tenute le armi importate?

Uno dei compiti più difficili da parte dell’IRA è quello di organizzare in maniera efficiente il suo

arsenale e di dislocarlo così nella maniera migliore possibile. Piccoli stock sono lasciati in Irlanda

del Nord per l’uso immediato che ne devono far le unità di servizio attive. La maggior parte, e le

riserve più grandi di armamenti viene depositata nelle parte meridionale dell’isola. I

Quartermaster dell’IRA, i capi cioè dell’organizzazione, hanno scelto questa strategia poiché la

terra della Repubblica è, geograficamente, circa tre volte più grande di quella dell’Irlanda del

Nord, ma il dispiegamento delle forze di polizia, e di eserciti è notevolmente inferiore. Più facile,

quindi, risulta per l’organizzazione, trovare un posto nel Sud, tanto che si crede che alcuni dei

depositi più importanti siano nella zona del Munster e che siano stati preparati originariamente, ed

appositamente, per ricevere il carico importato a bordo della Marita Ann, un carico approdato in

Irlanda nel 1984, a conferma del fatto che i depositi creati all’inizio dall’organizzazione

paramilitare repubblicana servivano ed erano finalizzati a ricevere le armi provenienti dalla Libia

intorno agli anni ’80.

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Due sono le figure importanti che controllano tutti se non la maggior parte dei carichi di armi in

Irlanda, uno è direttamente il QMG, il General Quartermaster dell’IRA con base vicino a Dundalk,

l’altro è un funzionario alle dirette dipendenze del primo, responsabile della zona del Munster.

I capi dell’IRA hanno imparato nel corso degli anni come neutralizzare l’apparecchiatura speciale

utilizzata dalle forze di sicurezza anche se, come dato statistico, va detto che tra il 1985 ed il 1993, il

Garda, la polizia irlandese ha sequestrato più di 800 armi da fuoco, comprese quelle considerate

‘pesanti’, così come 300000 munizioni. Fin dagli anni ’70 l’IRA cerca di specializzarsi in missili

terra-aria per cercare di colpire e neutralizzare gli elicotteri britannici che sorvolano diverse area

dell’Irlanda, in particolar modo la repubblicana regione meridionale di Armagh. Si pensa che il

tipo di missili utilizzato sia il modello Sam-7, importato dalla Libia negli anni ’80, tuttavia l’IRA ha

focalizzato la sua attenzione più su esplosivi per degli attacchi bomba a Londra e nel Nord Irlanda.

Sebbene ora vi sia una situazione di pace e relativa quiete, l’ultimo atto terroristico compiuto

dall’IRA fu a Omagh, nel 1998, dove vennero uccise da una bomba venticinque persone tra cui

donne e bambini, se l’IRA dovesse riprendere gli attacchi nel Nord Irlanda ha talmente tanti fucili

d’assalto pistole e munizioni per mantenere all’infinito una campagna di violenza. In termini di

fucili d’assalto, per esempio, l’IRA è in soprannumero tanto che non è più costretta ad importarli

per molto tempo, a meno che le forze di sicurezza siano così fortunate da compiere sequestri

importanti. Ciò che fa specie, poi, sono le tonnellate di Semtex, un particolare esplosivo, che si

stima siano in possesso dell’IRA, sufficiente per una continua ed infinita lotta di bombardamento

sul suolo inglese nonché in quello dell’Irlanda del Nord. Una dimostrazione di ciò si è avuta nel

mese di aprile del 1996, quando l’IRA ha utilizzato circa 30 libbre (13,6 chilogrammi) di esplosivo

Semtex in una singola bomba al fine di far saltare in aria il ponte di Hammersmith. Essendo una

delle, se non l’unica organizzazione terroristica che, per una serie di motivi, non è morta, ma

ancora attiva prestando una forte e longeva resistenza alle forze britanniche, l’IRA ha cercato di

completare ed integrare il materiale importato costruendo anche armi proprie, con tutti i tipi di

vantaggi che una situazione del genere non può far altro che comportare, utilizzando, infatti, sevizi

limitati di assistenti tecnici in grado di portare la loro esperienza alla causa nazionalista; quello che

l’IRA, inoltre, sta cercando di utilizzare e di migliorare sempre più è il tipico specialista di

computer d’istruzione universitaria per la produzione ed il controllo sincronizzato, attraverso i

meccanismi di remote-control, delle bombe e dei mortai. In questo periodo di ceasefire, infatti, si

pensa che l’IRA utilizzi il suo tempo per affinare tecniche sempre più avanzate di combattimento

attraverso l’uso di apparecchi radiofonici ’disgregativi’, tanto che nel 1993, a Kilcock, nella contea

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di Kildare, la Polizia ha scoperto un gruppo di lavoro che stava producendo una vasta gamma di

detonatori elettronici avanzati.

Durante tutti gli anni di “Troubles”, i membri dell’IRA sono diventati esperti nella fabbricazione di

esplosivi ’casalinghi’ quali la bomba del chiodo, un dispositivo anti-persona, e al ‘bomba del

drogue’, granata anti-veicolo di circa 230g di esplosivo imballato in un ‘fagiolo’ di latta cotta fissata

ad una maniglia mobile, tutti conosciuti ed utilizzati con nomi propri quali, per esempio, ’Anfo’,

miscela di gasolio e fertilizzante, e ‘Annie’.106

Per quanto riguarda i mortai, l’IRA, nel corso degli anni ha schierato con relativo successo una

serie di “throw-away” – casalinghi - armi grezze che possono avere un effetto devastante a gamma

corta, per il fatto che i tubi del mortaio sono montati normalmente sulla parte posteriore di un

camion dirottato e sono collegati con un dispositivo sincronizzato al momento della partenza.

Oggi si pensa che sia in fabbricazione il ‘mortaio di contrassegno 17’, una delle armi più distruttive

in circolazione (durante gli anni ’80 l’IRA utilizzò quello a ‘contrassegno 10’avente una copertura

di sei pollici ed una quantità di esplosivo di circa 24 libbre-10,9 chilogrammi), già sperimentato e

provato nella zona di Carlingford Lough, nella contea di Lough.

Voglio concludere questa analisi riguardante l’arsenale dell’IRA con un intervista riportata dal

“The Captive Voice” (rivista dei prigionieri politici repubblicani irlandesi) nell’agosto del 1989, tra

l’AP\RN (“An Phoblacht-Republican News”, settimanale che sostiene la lotta del Movimento

Repubblicano nord-irlandese, diffuso nella Repubblica Irlandese e nell’Irlanda del Nord) ed il

portavoce dell’IRA (“Oglaigh na hEireann” in irlandese) che rappresenta il General Quartemaster

dell’Ordine del Nord.

Nella rivista, infatti, c’è una parte riguardante la “tecnologia nemica”:

“AP\RN: E’ in grado l’IRA di tenere il passo con i sistemi militari di controllo, la tecnologia e gli

armamenti delle forze britanniche?

IRA: Il governo britannico continuerà a riversare in questa guerra ampie ed illimitate risorse e la

migliore specializzazione tecnologica, nello sforzo di combattere e frustare le attività di Oglaigh na

hEireann

Il volume della sua macchina militare è colossale e si estende ben al di là delle migliaia di truppe

dotate di armi pesanti, carri armati e macchine corazzate che si possono chiaramente vedere sulle 106 Un’analisi dettagliata di come sia organizzata l’IRA nella fase di costruzione e posizionamento delle bombe è data in Styles G., Bombs Have No Pity, London, William Luscombe 1975, Cap. 12, “Defeating the terrorist”.

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strade delle zone nazionalistiche. La guerra di controrivoluzione preventiva che sta conducendo,

vede il suo coinvolgimento nella pianificazione dei quartieri e delle reti stradali e la sua massiccia

presenza nel circuito delle telecomunicazioni. Esiste, dunque, un vasto apparato di posti fortificati,

di caserme, di postazioni di controllo e di spionaggio, irti di antenne di comunicazione,

apparecchiature di ascolto e altre attrezzature ad alta tecnologia.

Dietro questa presenza visibile vi è lo spaventoso livello di controllo, coperto e scoperto.

Recentemente, su questo fronte, vi è stato un drammatico aumento dell’uso di telecamere di

controllo nascoste, sia nelle aree urbane che in quelle rurali (molte delle quali sono state da noi

scoperte).

Vi è anche tutto un proliferare di microfoni spia installati nelle case, nelle macchine, perfino in certi

locali pubblici all’interno delle roccaforti nazionaliste.

Aggiungete a ciò i vari dispositivi di intercettazione e le microspie installate nelle armi catturate ed

avrete un’idea del nemico che affrontiamo ogni giorno. E la cosa non finisce nemmeno qui perché

abbiamo assistito alla completa ristrutturazione della società nelle 6 Contee per andare incontro

alle esigenze militari. Il sistema giuridico, i mass media, i corpi governativi e para-governativi sono

stati tutti ritagliati secondo le classiche linee della controrivoluzione preventiva, come ha detto il

generale Frank Kitson nella prima fase dell’attuale campagna. Noi dell’IRA siamo pienamente

consapevoli del nemico che abbiamo di fronte. I volontari devono sempre muoversi con la

massima vigilanza.

Noi facciamo affidamento sulla nostra ingeniosità e sulle nostre basi d’appoggio, che ci informano

dei movimenti del nemico. Fondamentalmente è una battaglia d’intelligenza, in cui ogni

operazione deve essere meticolosamente studiata, tenendo conto di tutti gli ostacoli.

Come vent’anni di lotta hanno dimostrato, i nostri volontari sono stati in grado di superare ogni

misura di sicurezza impiegata dal nostro nemico, militarmente superiore, sia quando attaccavano

le pattuglie nelle vie di Derry, o i posti spia nel Sud-Armagh o addirittura obiettivi prestigiosi

come il Palazzo di Giustizia di Belfast.

Ma siamo andati ancora più in là: nonostante il massiccio controllo e la collaborazione delle 26

Contee e dei governi europei con quello britannico, siamo stati capaci in numerose occasioni di

attaccare installazioni militari e di in infliggere alle forze armate britanniche danni e perdite umane

politicamente imbarazzanti. La nostra capacità di continuare a sviluppare queste azioni per tutto il

tempo necessario è stata riconosciuta dal comando militare inglese, che è ben consapevole

dell’ingeniosità e delle inesauribili risorse del nemico che essi fronteggiano nell’IRA.”

(da An Phoblacht-Republican News, martedì 17 agosto 1989)

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(4)

The Green Book

IRA GENERAL ARMY ORDERS

(Emendato dall’Army Council, Ottobre 1973)107

General order No.1 (Come si devono comportare e quale atteggiamento devono tenere i Volontari

nei riguardi di corti,parlamenti ed istituzioni del governo per l’occupazione dell’Irlanda e dei suoi

36 Stati.

Queste istituzioni sono state costituite dal Governo Imperiale Britannico per mantenere il controllo

in Irlanda. In effetti sono state imposte al popolo irlandese dal Governo Inglese.)

1. Un membro non deve:

a) giurare o promettere alleanza o riconoscimento alla divisione del governo dei 6 o 26 Stati

b) giurare o promettere riconoscimento alla loro legittimità come corpi sovrani in grado di

governare il popolo irlandese

c) giurare o promettere a se stesso di rifiutare l’uso di armi o altri metodi di battaglia per

sconfiggere il dominio Inglese in Irlanda.

Pena minima per violazioni: ESPULSIONE

2. Un membro deve:

a) rifiutare di obbedire ad ogni tipo di ordine proveniente dalle autorità di questi Stati orinandogli

di lasciare l’Irlanda o risiedere dentro o fuori una specifica area dell’Irlanda.

b) rifiutare di dare alcun tipo di promessa circa le sue intenzioni future,i suoi comportamenti.

Membri rilasciati dalla prigione in libertà vigilata sono ad essa vincolati

Pena minima per violazioni: ESPULSIONE

3. Un membro deve attaccare con atti opportunamente autorizzati dai competenti ufficiali

dell’OGLAIGH NA hEIREANN:

a) Quando l’attacco iniziale è del seguente tenore: ”Non voglio dire niente in questo stadio.”

107 Questo estratto del “Libro Verde” è citato da O’Brien B., The Long War, The O’Brien Press, Dublin 1993.

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b) A tutte le successive pronuncie della corte ‘rifiutare di rispondere’.

c) Riservarsi il diritto di riesaminare i testimoni e non prestare giuramento

Pena massima per violazioni che non sono comprese nel Par. 1: ESPULSIONE CON IGNOMINIA

4. Secondo gli ordini del Par. 3, un Membro può utilizzare autorità legale e testimoni per difendersi

in tribunale quando gli è permesso dal General Headquarters o da Autorità delegata.

5. Interrogazioni - se arrestato o interrogato un Membro deve:

a) Rifiutarsi di dare alcuna descrizione dei suoi movimenti, attività o compagni, quando qualcuno

di questi ha una qualche relazione con l’organizzazione o il personale dell’Oglaigh na hEireann.

b) Rifiutarsi di fare o firmare alcun rapporto.

c) Ogni Membro messo in prigione perde ogni grado.

Pena minima per infrazione di ognuno di questi ordini: ESPULSIONE CON IGNOMINIA

(Special note - Questo ordine generale non copre un’accusa di tradimento che potrebbe derivare dalle

successive interrogazioni come sottolineato dal Par. 5 sopra)

General Order No.2 (Come comportarsi con membri di partiti politici)

a) Nessun membro dell’Oglaigh na hEiereann può essere membro di un partito politico che

riconosce la partizione di istituzioni di governo come sovrane autorità per il popolo irlandese.

b) Questo ordine non vieta ai Membri di essere parte dell’Industrial Trade Unions come distinto

dai partiti politici laburisti:organizzazioni co-operative per lo sviluppo economico o dello Sinn

Fein.

c) Socio di qualsiasi partito comunista o capitalista è non ammesso. Qualsiasi Membro sorpreso a

promuovere insegnamenti, dottrine comuniste o capitaliste è automaticamente espulso.

General Order No.3

a) Nessun Membro dell’Oglaigh na hEireann deve rilasciare alcun tipo di dichiarazione scritta o

verbale ai giornali e mezzi di comunicazione senza il permesso del General Headquarters.

b) Membri non sono legittimati a difendere qualsiasi cosa contraria con la politica dell’Esercito.

Pena minima per violazioni: ESPULSIONE CON IGNOMINIA

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General Order No.4 (Sciopero della fame)

a) Ai Membri è proibito iniziare sciopero della fame senza l’espressa sanzione del General

Headquarters

Pena massima per violazione: ESPULSIONE

General Order No.5 (Comportamento con i plotoni di esecuzione e azioni non ufficiali.)

a) Plotoni di esecuzione ai funerali sono ammessi solo nel caso di Membri che muoiono in una

azione di servizio o a causa diretta di un’azione nemica. Ci deve essere il permesso del General

Headquarters.

General Order No.6 (Comportamento con Commissioni sotto il controllo dell’Esercito.)

a) Commissioni sotto il controllo dell’Esercito devono avere i loro termini di riferimento chiari e

precisi per loro. Esse devono aderire strettamente a tali termini.

In caso di violazioni da parte di gruppi o singoli individui i responsabili verranno rimossi

dall’Esercito.

L’Autorità dell’Esercito ha il diritto, in ogni tempo, di espellere ogni membro di tali Commissioni

dalle stesse..

General Order No.7

a) Membri devono fare giuramento dell’Army Declaration”…di obbedire a tutti gli ordini ed ai

regolamenti emanati dall’Autorità dell’Esercito e da ogni ufficiale di grado superiore.”

La Dichiarazione deve essere applicata alla lettera e nello spirito.

b) Quando non viene rispettato un ordine proveniente da un ufficiale accreditato e competente, il

Membro in questione deve essere sospeso immediatamente e deve essere aperta un’inchiesta sul

caso.

c) Ogni Membro che compie e porta a termine un’operazione non ufficiale è automaticamente

espulso dall’Esercito ed è passibile di ripudio immediato.

Pena minima per violazione:ESPULSIONE

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General ordedr No.8 (Comportamento con ciò che può essere costruito come azione violenta con i

26 Stati.)

a) Ai Membri è severamente proibito di intraprendere ogni tipo di azione contro le forze dei 26

Stati sotto ogni circostanza, qualunque esse siano. L’importanza di tale ordine in quelle circostanze

speciali, soprattutto nelle zone di confine non deve essere sopravvalutato.

b) Le minime armi indispensabili devono essere usate in allenamento nelle zone dei 26 Stati. Nel

caso di una irruzione, deve essere fatto ogni tipo di sforzo per portare le armi in salvo. In caso di

fallimento devo essere rese inutilizzabili ed abbandonate.

c) Massime misure di precauzione e sicurezza devono essere prese durante l’addestramento. Gli

scouts devono essere sempre messi in guardia.

Membri arrestati durante l’allenamento o in possesso di armi devono mostrare che le armi

sarebbero servite e d utilizzate solo contro l’occupazione delle forze Britanniche. Tale

dichiarazione deve poi essere ripetuta e ribadita nel corso del processo seguente.

d) Sempre, i Membri devono avere chiaro che la politica dell’Esercito è quella di liberare l’Irlanda

dall’occupazione Britannica.

General Order No.9

a) Tutte le applicazioni per riammettere chi è stato espulso o rassegnato dall’Esercito sono rimessi

all’Army Council o ad autorità delegata, i soli che hanno il potere di decidere il reinserimento.

b) Quando un Membro è temporaneamente espulso dall’Esercito può chiedere che il suo caso sia

trattato dalla corte marziale. Tale applicazione deve essere chiesta in sette giorni dalla data del

ricevimento della notificazione dell’espulsione.

c) Una volta che la corte ha confermato l’espulsione, poi, come in tutti gli altri casi, ogni futuro

appello o decisone per un possibile reinserimento devono essere promosse dall’Army Council

attraverso l’Unità di Comando.

General Order No.10 (Comportamento con membri dell’Esercito.)

a) Membri dell’Esercito possono essere solamente attivi in una delle Unità dell’Esercito o

direttamente annessi con il General Headquarters.

Chiunque cessi di essere membro attivo dell’Unità o di lavorare direttamente con il General

Headquarters, cessa automaticamente di essere membro dell’Esercito. Non c’è riserva nell’esercito.

Ogni membro deve essere attivo.

b) I doveri di ogni membro sono sotto la discrezione del Comandante dell’Unità.

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Se per qualsiasi giustificato e buon motivo un membro non è più in grado di svolgere i suoi

normali

compiti di routine assegnatigli dall’Unità, il Comandante Ufficiale può assegnargli dei compiti

speciali, quali quello di investigazione, pulire le armi, preparare il terreno per addestramenti e

parate, ecc…

più a lungo possibile egli compie in maniera soddisfacente tali doveri accompagnandoli a regolari

rapporti che può e deve essere considerato a tutti gli effetti membro attivo dell’Esercito.

c) Permesso di assentarsi può essere concesso ad un membro in caso di malattia o per altre valide

ragioni.

d) Un membro che per qualsiasi motivo cessi di mantenere contatti con la sua Unità o con il

General Headquarters per un periodo di tre mesi deve automaticamente cessare di essere un

membro dell’Esercito.

L’onere di mantenere contatti grava sul membro stesso.

e) La disposizione di tale Ordine non viene applicata ai membri che sono in prigione.

General Order No.11 (Comportamento verso il sequestro di armi e relativo deposito che sono sotto

il Controllo dell’Esercito.)

a) Ogni membro che detiene o è parte di un sequestro di armi,munizioni o esplosivi che sono sotto

il controllo dell’Esercito deve ritenersi colpevole di tradimento. Un’apposita corte marziale deve

trattare tutti i casi.

Pena per violazione di questo ordine: MORTE

Nota: Come in tutti i casi di pena di morte,la sentenza deve essere ratificata dall’Army Council.

General order No.12 (Comportamento con ogni possedimento al di fuori dell’Army Control.)

a) Un membro che è a conoscenza di possedimenti, beni e proprietà dell’Esercito che non sono

sotto il controllo dell’Army Control deve riportare immediatamente tali informazioni al suo

Comandante Ufficiale.

Pena minima per non eseguire l’ordine: ESPULSIONE.

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General Order No.13 (Comportamenti che costituiscono attentati alla morale o che minano la

fiducia nella Leadership dell’Esercito e che rappresentano minaccia di attacchi a membri.)

a) Ogni membro che tenta di minare la fiducia ed il comportamento morale di ogni altro membro

sia della Leadership dell’esercito che nell’Army Control deve ritenersi colpevole di tradimento.

b) Ogni membro che prenda parte in campagne di diffamazione e denigrazione contro altri

membri, indebolendone così l’autorità e la disciplina mettendo in cattiva luce discreditando

l’Esercito, deve ugualmente essere ritenuto colpevole di tradimento.

Pena minima: ESPULSIONE CON IGNOMINIA.

Extract from the green book: IRA Training Manual

IMPEGNO

L’impegno in un’organizzazione è credere nell’organizzazione stessa. L’impegno all’Esercito è la

completa fiducia all’Esercito, ai suoi scopi ed obiettivi, nel suo stile di far guerra, nei suoi metodi di

battaglia e nelle sue radici politiche. Impegno è dedizione alla causa nei momenti buoni e brutti.

Impegno significa resistere con costanza ai principi quando gli altri condannano tali principi e

denigrano l’Esercito.

Ciò significa fare un patto,ed avendo scelto tale strada restare attaccato e rimanere fedele al patto,

indifferente di tutti gli ostacoli. L’impegno al Movimento Repubblicano è il credere fermamente

che la battaglia, sia quella militare che quella politica è moralmente giustificata, che la guerra è

moralmente giusta e che l’Esercito deriva direttamente dal Dail Eireann parlamento del 1918 e che

costituisce legale e legittimo governo della Repubblica d’Irlanda, che ha il diritto di fare leggi avere

la giurisdizione sul pezzo di terra d’Irlanda sul suo territorio marittimo, sul suo spazio, risorse

minerarie, produzione e distribuzione e scambio di tutte le persone incuranti di credo e fedeltà.

Questo credere, questo fatto etico dovrebbe e deve dare forza morale a tutti i Membri, e a tutti i

singoli componenti di ogni reparto e distretto del Movimento Repubblicano.

L’esercito Repubblicano Irlandese è il legale governo della Repubblica d’Irlanda, e tutti gli altri

parlamenti ed assemblee che sostengono il diritto di parlare e di promulgare leggi nell’interesse

della popolazione irlandese sono illegali, governi fantoccio di poteri stranieri e strumenti utilizzati

per occupare con la forza.

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137

Membri devono credere senza alcun dubbio che come membri dell’Esercito Repubblicano

Irlandese, tutti gli ordini derivano dall’Autorità dell’Esercito ed ogni azione diretta da quest’ultima

è legale e sono legittime azioni del Governo della Repubblica d’Irlanda.

Questo è uno dei più importanti sostegni principali del Movimento Repubblicano, la fermezza nel

credere che tutte le azioni ed operazioni dirette dall’Esercito sono, in effetti, le lecite e legittime

azioni del Governo di tutta la popolazione d’Irlanda.

CREDERE NELLA VITTORIA E FEDELTA’ AL MOVIMENTO

L’attuale campagna di resistenza si sta combattendo da un po’ di anni, e in dispetto di tutta

l’attività militare e politica, sia del Nord che del Sud, l’ Esercito ha la capacità ed abilità di

compiere una campagna militare nelle aree occupate.

Fin dall’inizio della attuale fase di guerra per la libertà, la propaganda nemica ha continuamente

parlato della fine dell’esercito Repubblicano Irlandese.

Hanno usato l’Internamento come cura per quelli che loro chiamano i “troubles” (problemi),

tormentato la popolazione nazionalista, sentenze di imprigionamento a lungo termine e le più

primitive tipologie di condizioni penali, torture, estorsione ed omicidi nel tentativo di spezzare e

distruggere lo spirito di “freedom fighters” (combattenti per la pace).

Tutti questi metodi hanno fallito miseramente poiché tutti i membri del Movimento credono nella

vittoria.

Da circa 800 anni la classe predominante inglese ha tentato di abbattere la resistenza del popolo

irlandese.

Campagna dopo campagna, decade, dopo decade, secolo dopo secolo, le armi della resistenza

hanno combattuto e nonostante schiavitù, carestie, leggi penali ed omicidi, il desiderio del popolo

irlandese di liberarsi dalle catene dell’occupazione straniera continua in una inesorabile guerra

contro l’occupazione nemica.

Questa tenace sicurezza nella loro abilità di sconfiggere forze che sono a loro superiori

numericamente meglio armate ed equipaggiate rispetto alle varie armi irlandesi è un’immortale

monumento al loro coraggio e al loro credere in una eventuale vittoria.

Ancora oggi l’Esercito Repubblicano Irlandese porta avanti,combatte la stessa guerra che è stata

combattuta già da precedenti generazioni di Irlandesi.

Da questo noi, come organizzazione dobbiamo prendere coraggio e forza, orgoglio e prestare

fedeltà all’Esercito.

L’elemento fondamentale in ogni esercito è la fedeltà all’Esercito ed alla sua Leadership.

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Le forze avversarie hanno continuamente tentato attraverso la loro propaganda di frammentare

l’Esercito con le vecchie tattiche della divisione e del dubbio.

Hanno tentato di porre in antagonismo membri dell’Esercito contro la sua Leadership, hanno

tentato di umiliare la fama di membri del Movimento attraverso assassini di personalità di spicco.

Lo scopo di tali azioni è di rompere il legame che tiene unito il Movimento, poiché l’avversario

conosce ed è consapevole che non può sconfiggere l’Esercito Repubblicano Irlandese militarmente.

La propaganda ha tre forme:

1. Propaganda per omissione.

2. Propaganda per aggiunta.

3. Menzogna.

Queste forme di propaganda sono state utilizzate molte volte negli anni passati. Il loro scopo

principale era quello di creare infedeltà verso l’Esercito, sfiducia e campagna diffamatoria.

Tutti i membri devono fare attenzione a queste strategie nemiche e devono capire fino in fondo e

chiaramente che la fedeltà al Movimento è l’aspetto più importante dell’essere Membro.

Fedeltà nell’unione e consapevolezza nella vittoria sono gli elementi essenziali per una eventuale

vittoria.

SUPERIORITA’ MORALE

L’Esercito Repubblicano Irlandese, in qualità di legale rappresentante della popolazione irlandese è

moralmente giustificato a continuare una campagna di resistenza contro l’occupazione di forze

straniere.

Tutti i membri devono guardare all’Esercito Britannico come ad un’oppressione,una forza

occupatrice e considerare la RUC, la Gardai (Polizia), l’UDR e il Free State Army come armi illegali,

forze illegittime, moralmente sbagliate, politicamente inaccettabili ed eticamente non scusabili.

Contro la propaganda avversaria dobbiamo sostenere un duro compito ed un lavoro difficile per

rafforzare un sistema traballante e corrotte illegali assemblee.

Le Chiese, inoltre, hanno tentato e tentano di trovare giustificazioni teologiche per queste corrotte

ed illegali assemblee.

Esse hanno cambiato, travisato la loro linea teologica, cambiato pensiero e trascurato la loro etica

nel vano tentativo di giustificare un’ingiustificabile illegale situazione, assetto.

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COSA SIGNIFICA ESSERE UN “VOLUNTEER” (membro)

Tutte le reclute che entrano a far parte dell’Esercito dichiarano che devono obbedire agli ordini loro

impartitigli dai loro superiori e dall’Autorità dell’Esercito.

Ciò significa quello che si può supporre voglia significare letteralmente, che tu devi obbedire a tutti

gli ordini che ti piaccia o no…

Ordini e comandi qualche volta possono risultare ripugnanti ai Membri, ma questo è quello che

comporta essere Membro e questo è quello che significa - la capacità di prendere ordini e di

portarli a termine, compierli al meglio delle tue possibilità.

Essere un Membro comporta azioni militari e politiche.

Dal punto di vista militare, dopo un addestramento iniziale, i Membri si presume conducano una

guerra militare di liberazione contro forze superiori numericamente. Ciò comporta l’uso di armi e

di esplosivi.

Prima di tutto l’uso di armi. Quando Membri si avvicinano all’uso della armi devono sapere che le

pistole sono pericolose, ed il loro scopo è quello di prendere vite umane, in altre parole di

ucciderle, e i Membri sono allenati ad uccidere. Non è semplice cosa prendere una pistola ed

andare ad uccidere altre persone senza forti convinzioni come giustificazione. L’Esercito, la sua

motivazione, la sua forza si basano su forti convinzioni ed è queste che ogni potenziale membro

deve possedere qualora decida di entrare a far parte dell’Esercito.

Tali convinzioni sono quelle che consentono di uccidere qualcuno senza alcun tipo di esitazione o

rimorso, e lo stesso può essere detto per le campagne di bomba. Se tu vai a colpire un soldato o un

poliziotto devi essere consapevole che loro possono spararti ugualmente.

Non c’e’ certo romanticismo nella guerra, di qualunque tipo essa sia, ed è pericoloso pensarlo, così

come crearsi la figura e l’immagine di uno stile di vita di guerriglia.

La vita all’interno dell’Esercito è estremamente dura, aspra e crudele allo stesso tempo. Quindi,

prima che qualcuno decida di entrare a far parte dell’Esercito deve pensare ed avere ben chiare

queste cose.

Deve poi essere riconosciuto che se Membro dell’Esercito viene catturato, ed è possibile, questo

non deve pensare che succeda sempre e solo ad altri e inoltre deve sapere che il nemico non esita

ad utilizzare metodi estremi quali la forza fisica e la tortura psicologica per ottenere informazioni

circa il tuo conto e la tua organizzazione. L’Esercito si aspetta e confida che ogni suo membro non

riveli informazioni di alcun genere, questo è quello che si aspetta da te e questo non è un compito

facile. L’Esercito, come organizzazione, chiede e si aspetta da te la massima fiducia, alleanza senza

alcun tipo di riserva. Essa entra in ogni aspetto della tua vita privata.

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Invade la tua vita famigliare, i tuoi parenti, i tuoi amici, in altre parole richiede totale alleanza.

Ogni Membro potenziale deve essere consapevole che la minaccia della cattura o di una sentenza

di condanna a lungo termine, sono un pericolo reale, un’ombra, uno spettro che grava su ognuno

di loro.

Un altro importante aspetto circa i Membri è che devono avere la capacità di obbedire ai comandi

dei loro superiori.

Nell’ Esercito tutti gli ordini devono essere rispettati, e rispetto verso gli ufficiali in particolare e

l’Esercito in generale significa rispettare gli ordini assegnati.

ASPETTO POLITICO

L’azione militare è un’estensione di un’azione politica, perciò, la campagna militare intrapresa

dall’Esercito Repubblicano Irlandese è, in effetti, una campagna politica.

Persone senza idea politica non hanno posto nell’Esercito, poiché l’azione dell’Esercito è diretta

verso un obiettivo politico che è il vero e reale significato della attuale campagna militare.

L’esercito come forza politica ha l’intento di creare una Repubblica socialista nel suo paese, perciò

tutti i potenziali membri devono essere, in prospettiva, socialisti.

Prima che ogni potenziale membro decida di entrare a far parte dell’Esercito Repubblicano

Irlandese, deve aver capito chiaramente e compreso a pieno ciò che esso comporta, i risultati a cui

porta la sua decisione.

Non dovrebbe entrare a farne parte perché spinto da chissà quale sentimento di emozione,

sensazione e avventura. Deve, invece, esaminare profondamente i motivi della sua scelta,

conoscere i pericoli che essa comporta e sapere che non troverà nulla di romantico a che fare con il

Movimento. Dovrebbe, invece, esaminare i suoi motivi politici e confrontare ciò che lui ha in mente

con l’intento dell’Esercito di creare una Repubblica socialista.

LETTURA 3(b)

OBIETTIVO A LUNGO TERMINE: Creazione di una Repubblica Democratica Socialista.

OBIETTIVO A BREVE TERMINE: “Brits out”

SUPPORTI ATTIVI-PASSIVI: Tutti gli appoggi che noi perdiamo sono potenziali aiuti per il

nemico.

Sfruttare una situazione o creare una situazione e sfruttarla.

TATTICHE DETTATE DALLA SITUZIONE ESISTENTE AL MOMENTO: Difensiva prima che

Offensiva

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NEMICO-CATEGORIE-RIMEDI

STRATEGIA DI GUERRA

INTRODUZIONE

I punti elencati sopra sono un’introduzione,termini generali di riferimento con i quali noi

dobbiamo intraprendere la battaglia Politico-Militare contro il nostro nemico. Sono tutti fattori

correlati che devono determinare la maggior parte delle nostre azioni sia come movimento che

come membri individuali, appartenenti ad unità o ramificazioni del movimento.

I vari punti sono stati divisi solo ed esclusivamente per consentirne sempre la lettura ed il ripasso

ma, nella pratica, devono essere considerati un tutt’uno.

In questa serie di punti, non dobbiamo vedere e considerare l’obiettivo a lungo termine il quale

sarà trattato nei dettagli nelle successive letture.

TATTICHE: Una tattica è semplicemente un modo di fare qualche cosa, un mezzo utilizzato per

muoversi e spostarsi da A a B.

Entrambe le tattiche vengono utilizzate, sia quella militare che quella politica.

Due sono le regole generali che dettano ed indicano la scelta della tattica migliore.

1. Stare sulla difensiva prima di passare all’offensiva:

Questo non significa continuare ad intraprendere la campagna difensiva applicata per esempio già

dal 1916 dai Volunteers.

Significa semplicemente che prima di passare all’azione offensiva, militarmente e politicamente,

bisogna prendere le migliori precauzioni possibili difensive per ottenere il successo; non possiamo

invocare un’Irlanda unita senza essere in grado di giustificare il nostro diritto di Stato di opporci

alla divisione; non possiamo impiegare violenza come mezzo rivoluzionario senza essere capaci di

dimostrare che non siamo riusciti a ricorrere ed utilizzare altri mezzi, provare altre strade diverse

per ottenere il nostro obiettivo.

In termini molto più semplici: non possiamo intraprendere un’operazione senza prima aver preso

tutte le dovute precauzioni difensive riguardanti i servizi segreti, la sicurezza, le armi, le

munizioni, i membri stessi coinvolti nell’operazione che devono sapere come poter manipolare gli

interrogatori ai quali vengono sottoposti nel caso di una loro cattura, ecc, e, naturalmente, che

l’operazione in sé deve essere sostenuta in modo che procuri un aumento piuttosto che una

diminuzione dei nostri supporti.

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2. Le tattiche sono dettate dalla situazione e dalle condizioni esistenti.

Anche qui la logica è molto semplice: senza aiuti, membri, armi, finanziamenti, non possiamo

sostenere un’operazione, né tanto meno una campagna armata.

Nel settembre del 1969 le condizioni pratiche consigliavano di non attaccare i Britannici.

Poi la situazione è cambiata.

Il ruolo che hanno le nostre azioni mosse da questa tattica sono più chiare ancora se si nota che noi

dobbiamo spiegare i mezzi che abbiamo a disposizione, qualsiasi mezzo, il perché piazziamo una

bomba, perché puniamo i criminali, perché uccidiamo gli informatori ecc..

(5)

Parate

Le parate hanno un importante significato nella società Nord Irlandese sin dal diciottesimo secolo,

sono mezzo di commemorazione e di celebrazione di eventi storici importanti, in particolare per la

comunità protestante.

Per molti esse assumono un ruolo sociale, politico e religioso.

Attualmente il numero di parate è in forte aumento crescendo costantemente negli ultimi anni,

arrivando, nel 1995, ad un totale di 3500 nel territorio del Nord Irlanda (un aumento di circa il 43%

rispetto al 1986)

Considerando il numero totale, 2581 furono manifestazioni Protestanti, 302 Nazionaliste.

Notevoli sono poi i costi che la polizia e le forze di sicurezza hanno dovuto sostenere durante

queste manifestazioni, tutto per un vano tentativo di mantenere la pace, visto che l’opposizione dei

residenti cattolici verso le marce organizzate dalla frangia protestante è diventa sempre più

sostenuta e l’esempio di “Dumcree” rappresenta un punto importante per la comprensione dei vari

gradi di arresti di civili che si sono avuti negli ultimi anni. Durante gli anni 1995-96-97, il conflitto

Nord Irlandese si evolse in una direzione ben precisa, caratterizzata dai risultati delle marce

Protestanti, in particolare la processione che partì dalla chiesa Episcopale di Drumcree, in periferia

di Portadown, attraversando la cattolica Garvaghy Road, tutti gli anni, la domenica prima il 12

luglio, causando tre profonde crisi che hanno rivelato un aspetto del conflitto, un aspetto profondo

della sua natura.

Dieci mesi dopo che l’IRA dichiarò il cessate il fuoco, la prima crisi del 1995, mostrò che il conflitto

in Irlanda del Nord è vivo e si manifesta anche senza l’uso di violenza armata.

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Il problema di fondo era che la RUC ordinò ai Protestanti di non compiere la loro parata dopo la

messa alla chiesa di Drumcree, in seguito alla volontà dei Cattolici residenti in Garvaghy Road di

mettere in atto una dimostrazione di protesta.

Da parte loro, chiaramente, i Protestanti non erano certo propensi a cedere, ma, dopo due giorni di

tensioni, un accordo venne trovato nelle prime ore dell’ 11 luglio, secondo il quale la parata dei

Protestanti si sarebbe comunque sostenuta, anche se senza banda e non il giorno stabilito, il 12

luglio; dall’altra parte, invece, i cattolici potevano rimanere a protestare sulla loro strada

manifestando disapprovazione con bandiere e stendardi.

Per molti, tale risoluzione sembrò essere di ottimo auspicio per il futuro.

La realtà andò diversamente, poiché, nel 1996 la situazione fu veramente drammatica attraverso un

susseguirsi di operazioni sovversive da parte di entrambe le comunità; l’ 8 luglio il corpo di un

trentunenne taxista Michael McGoldrig venne trovato morto nella sua macchina e, sebbene l’ UFF e

l’ UVF dichiaravano la loro innocenza, furono ritenuti colpevoli dell’omicidio; la notte del 13, dopo

che il Chief Constable Sir Hugh Annesley decise definitivamente l’esecuzione della marcia per la

via cattolica Garvaghy Road, un’esplosione distrusse completamente l’ Hotel Killyhevlin, vicino a

Enniskillen, senza uccidere nessuno. Responsabile fu l’IRA, nonostante il suo categorico e continuo

rifiuto di essere considerata coinvolta.

Di minor intensità, a causa di un differente clima e contesto nel quale si svolse, fu la crisi del 1997,

che si concluse con l’uccisione, da parte dell’IRA, di due poliziotti il 16 luglio a Lurgan, e con una

serie di attacchi che dimostravano il desiderio di rimanere sul tavolo delle trattative da parte delle

organizzazioni paramilitari loyaliste.

Queste tre crisi, motivate da questioni puramente simboliche rappresentano la posizione di

entrambe le comunità l’una in relazione con l’altra.

Il conflitto che ne deriva è quindi frutto di un sistema che ha le sue ardici nella struttura stessa

della società.

L’uso ed il contro-uso costante di immagini e simboli dimostra come, simmetricamente, le due

comunità utilizzino lo stesso tipo di vocabolario, la stessa cultura di violenza espressa attraverso

metafore.

Per i Cattolici, infatti, la marcia protestante attraverso la loro area, rappresenta e simbolizza il loro

status di una oppressa minoranza e che il potere dei Protestanti deve essere sconfitto.

Quale è, però, la realtà dietro ad una tale interprestazione?

Il fatto è che, effettivamente e soprattutto economicamente i Protestanti non hanno un così grande

e forte potere da esercitare sulla comunità cattolica; le parole espresse da Eamonn McCann, uno

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degli organizzatori della campagna per i diritti civili, sono di notevole delucidazione: “organizzate

in nome del Protestantesimo al fine di mettere e di lasciare i Cattolici al loro posto.

Ma una delle ragioni che i leaders orangisti considerano essere la più importante è che il potere

protestante è ora ampliamente illusorio e non più legato all’originale concetto di classe-lavoratrice

protestante dominante. Il Nord non è più ‘Uno Stato Protestante per una popolazione Protestante’,

ed un ordinario cittadino protestante dovrebbe ora essere soddisfatto di questo, così come lo sono

molti dei miei amici…”108

Le due comunità, entrambe prodotto della segregazione sociale a livello strutturale del Nord

Irlanda, sono opposte l’una all’altra attraverso rituali in una relazione non equa con il governo

inglese.

La battaglia combattuta dai protestanti riguarda il mantenimento di un ordine che gli assicura il

dominio e la supremazia dei suoi simboli, mentre, per i Cattolici la battaglia è combattuta per

capovolgere un tale ordine, ed il capovolgimento è considerato e visto come simbolo in sé.

Ecco allora che i simboli, quali possono essere le manifestazioni e le parate, esprimono e formano la

base dell’identità delle due parti in conflitto.

C’è un collegamento naturale tra potere ed identità.

Nel conflitto nord irlandese, invece, le due identità esistono e si manifestano attraverso il potere

che le pone costantemente l’una di fronte all’altra.

Il circolo vizioso che domina la società in Irlanda del Nord è che la situazione di conflitto stessa

crea due identità che possono esprimere pienamente se stesse solo attraverso il continuo perdurare

del conflitto.

L’identità di ciascuna comunità è proiettata su di un campo simbolico, simboli che costituiscono

essi stessi il campo di battaglia.

Questo è il significato attribuito alle marce protestanti da chiunque viva in Nord Irlanda; la

situazione conflittuale, la battaglia, è interpretata e diretta alla creazione di simboli ed immagini

che diventano l’essenza, l’identità dei due gruppi.

Questi simboli esemplificano la posizione dominante dei Protestanti, essi sono simboli di un potere

simbolico.

Ecco allora che l’essenza del conflitto non è quella di imporre un’identità sull’altra. Ciò vorrebbe

dire eliminare la condizione stessa per l’esistenza delle due identità.

La segregazione, dunque, è al centro della dinamica del conflitto.

108 “Conflicting Symbols, Symbols of Conflict and Symbolical Conflict – The Drumcree crises” by Savaric M., University of Toulouse-le-Mirail, in http://www.cain.ulst.ac.uk

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La relazione di potere, quindi, definisce le due comunità in lotta la cui vera e reale esistenza

dipende esclusivamente dalla persistenza del conflitto.

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“Quell’esempio del nostro pensiero che non poggia su un terreno piano e sicuro, ma piuttosto salta di

crepaccio in crepaccio.

Esso chiude gli occhi, cessa per un momento di esistere eppure viene portato dall’altra parte. In realtà noi

dovremmo essere disperati da un pezzo: il nostro sapere, infatti, è attraversato da tutte le parti da questi

abissi, non consta d’altro che di frammenti galleggianti su di un

oceano senza fondo.

E invece noi disperiamo, e ci sentiamo sicuri come se sotto avessimo terreno solido.

Se non avessimo questo sentimento certissimo, sarebbe tale la disperazione per la povertà della nostra

ragione che ci uccideremmo.

Questo sentimento ci accompagna sempre, ci tiene insieme, prende in braccio ogni minuto la nostra ragione

e la protegge come fosse una creatura.

E così, una volta che siamo divenuti coscienti di ciò non possiamo più negare l’esistenza di un anima.

E non possiamo non sentirla ogni volta che sezioniamo la nostra vita spirituale e riconosciamo le

insufficienze della ragione.

La sentiamo, capisci, perché se non ci fosse in noi questo sentimento ci afflosceremmo come sacchi vuoti.”

Musil R.

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CAPITOLO VI

Analisi dei vari tentativiAnalisi dei vari tentativiAnalisi dei vari tentativiAnalisi dei vari tentativi di risposta dello Stato al fenomeno di risposta dello Stato al fenomeno di risposta dello Stato al fenomeno di risposta dello Stato al fenomeno

terroristico con particolare riferimento alle misure speciali terroristico con particolare riferimento alle misure speciali terroristico con particolare riferimento alle misure speciali terroristico con particolare riferimento alle misure speciali

applicate nel contesto Nordirlandeseapplicate nel contesto Nordirlandeseapplicate nel contesto Nordirlandeseapplicate nel contesto Nordirlandese “Tutta la società umana dipende dalla manipolazione che l’essere umano compie sui suoi simili. Tutto

dipende da chi li compie e per quali propositi.”

Barrington M. Jr., 1973

“Bobby Sands era un criminale.

Ha scelto di togliersi la vita.

Una scelta cui l’organizzazione a cui appartiene

non ha concesso a molte delle sue vittime.”

(Thatcher M.)

“Non mi stroncheranno perché

il desiderio di libertà

e la libertà del popolo irlandese sono nel mio cuore.”

(Sands B.)109

109 Bobby Sands, Un giorno della mia vita – L’inferno del carcere e la tragedia dell’Irlanda in lotta, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2002.

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La neve non cadeva più e soffiava solo un vento leggero. Il manto di neve, prima soffice ed

immacolato, portava ora i segni delle impronte dei secondini. Le nuvole bianche e gonfie di neve

avevano abbandonato il cielo, ora di nuovo nero come l’inchiostro. Qualche stella brillava qua e là.

“A quest’ora la maggior parte della gente sta dormendo, ”pensai. Mi chiedevo cosa avrebbero

provato se, svegliandosi, avessero dovuto affrontare quel che aspettava noi il giorno seguente. Non

c’era da meravigliarsi se nelle ultime due settimane avevo avuto parecchi incubi, tutti legati a quei

giorni infernali. “Dio mio, quando finirà? E’ proprio terribile se neppure il sonno mi permette di

evadere, ” pensai.

Il silenzio era sceso sugli altri Blocchi. I ragazzi attardatisi alle finestre se ne erano ora allontanati,

chi per cercare di dormire, chi per una veglia forzata, dovuta allo stato dei loro materassi.

Tutto taceva. Fuori le luci multicolori continuavano a far scintillare la neve. Il silenzio era

inquietante. Nell’oscurità sentii il verso di un chiurlo che volava via. Lontano, il faro di un

elicottero vagante danzava nell’oceano nero del cielo.

Pensavo ai miei familiari. Sarebbero stati preoccupati a morte, fino alla prossima visita.

Era stata una giornata dura, ma non era forse così ogni giorno? Solo Dio sapeva cosa ci aspettava

domani. A chi sarebbe capitata la sventura di fornire la propria carne martoriata alle celle di

punizione? Chi sarebbe stato il bersaglio degli idranti? Chi picchiato a sangue e chi massacrato di

botte di botte durante un cambio di braccio? Domani non avremmo avuto altro che ulteriori

torture, sofferenze, dolore, noia e paura.

L’oscurità, il freddo intenso, lo stomaco vuoto, le fetide tombe popolate da incubi, con le loro

quattro mura che ci gridavano addosso…Ecco cosa attendeva domani centinaia di prigionieri di

guerra repubblicani. Ma se il futuro non ci avrebbe riservato nient’altro che torture, era altrettanto

vero che avremmo continuato a resistere e non avremmo mai ceduto. “E’ dura. Molto, molto dura,”

pensai, mentre mi sdraiavo sul materasso bagnato e mi avvolgevo addosso le coperte.

“Ma un giorno la vittoria sarà nostra e mai più nessun uomo o donna d’Irlanda dovrà marcire in

un buco d’inferno inglese.”

Faceva molto freddo. Mi girai su un lato e sistemai il mio prezioso pacchettino di tabacco sotto il

materasso. Sentii che l’umidità stava attaccando ai miei piedi. “Un giorno di meno alla vittoria”,

pensai.

Avevo molta fame. Sembravo uno scheletro rispetto a quello che ero stato un tempo, ma questo

non aveva importanza. L’unica cosa che importava era continuare a resistere. Mi girai di nuovo.

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Il freddo mi stava penetrando tutto. “Non c’è nulla nel loro intero arsenale militare che riesca ad

annientare la resistenza di un prigioniero politico repubblicano che non vuole cedere, ” pensai, ed

era proprio vero. “Non possono e non potranno mai uccidere il nostro spirito.”

Mi rigirai ancora, tremando per il freddo. La neve entrò dalla finestra e si posò sulle mie coperte.

“Tiocfaidh àr là, ”mi dissi. “Tiocfaidh àr là.”110

VI.I La misura della pena di morte come rimedio “speciale” per i crimini di

violenza politica.

E’ efficace contro i terroristi?

L’11 dicembre 1975, la Camera dei Comuni, per la seconda volta in dodici mesi, respinse con

fermezza una mozione indetta per il ripristino della pena di morte per gli omicidi derivanti da atti

terroristici.

Così come per la prima campagna che portò al ”Murder Act” del 1965 (Abolizione della pena di

morte), gli argomenti riguardano sempre gli stessi aspetti circa la morale ed una valutazione di

opportunità.

Chi è a favore della pena di morte sostiene che essa sia il solo ed unico rimedio per sconfiggere la

gravità del crimine.

Quelli che si oppongono a tale misura, d’altro canto, condannano l’aspetto retributivo di tale pena

e sostengono che quest’ultimo nasca da un desiderio di vendetta piuttosto che da un freddo e

calcolato giudizio circa il modo migliore per cercare di sconfiggere la minaccia terroristica.

Il concetto di retribuzione in sé, comunque, non è sufficiente, se, come dovrebbe essere, lo scopo

dello Stato è quello di sopprimere il movimento terroristico complessivamente inteso, e non

semplicemente di punire i terroristi per i loro atti.

Gli abolizionisti sostengono che il timore e la paura delle conseguenze giuridiche hanno un piccolo

effetto per i terroristi che pianificano in anticipo le loro mosse, e, quindi molto tempo è lasciato ai

terroristi per analizzare a pieno le conseguenze delle loro azioni ed è difficile credere che una

persona sana voglia trascurare e considerare alla leggera le conseguenze di un fatto atroce quale la

morte.

La sanità non è poi un aspetto tipico e caratteristico dell’analisi circa il terrorista ed i suoi atti; così

come ha chiarito la prova medica presentata alla Royal Commission sulla Pena Capitale, 1949-53,

110 In gaelico “libertà”

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“lo squilibrio mentale di persone aventi tendenze suicide ed esibizionistiche deriva dal loro

pensare alla loro possibile morte come momento finale, il culmine, cioè, della loro attività omicida.

Diversamente, i terroristi, che credono fermamente nei loro ideali, dediti completamente alla loro

causa, accettano e considerano la morte come un sacrificio da compiere in favore della causa. La

morte è vista molto spesso come un’espiazione dei crimini che hanno commesso, ed il loro

apparente martirio è considerato più come modello, un’ispirazione piuttosto che deterrente, non

solo per quelli che continueranno ad appoggiare il movimento, ma anche per tutti i crimini

precedentemente non commessi.”111

Se, poi, fosse sicuro e certo che la pena di morte agisse come deterrente, ci potrebbero essere grosse

difficoltà nel definire i capi d’accusa legittimi contro gli omicidi compiuti dai terroristi.

Il problema maggiore e la difficoltà che incontrerebbero le autorità sarebbe quello di capire e di

provare che un omicidio è stato compiuto per fini politici e non per motivi personali, ragioni

private.

Se il crimine, quindi, per il quale i terroristi si trovano a dover rispondere in giudizio è l’omicidio,

appare più logico e ragionevole allargare e considerare legittima la pena di morte per tutti gli

omicidi

Dal punto di vista storico, nel diciottesimo secolo, la pena di morte fu utilizzata per molte offese,

ed il fatto che punizioni severe fossero così diffuse era legato ad una particolare situazione politica

istituzionalizzata con il Treason Act del 1918, dove, il governo, nel tentativo di porre fine a conflitti

e disordini interni, usava, per disperazione, in assenza di regolare e funzionante sistema di forze

dell’ordine, misure repressive severe al fine unico di prevenire il crimine. Fu l’introduzione di

forze di polizia, utilizzate in maniera più efficace, che, nel secolo successivo, portò ad una netta

diminuzione del crimine e, dal 1861, all’abolizione della pena di morte per tutti i crimini, eccetto

solamente l’omicidio, tradimento, pirateria violenta e la distruzione di arsenali pubblici.

Ciò che si può quindi ricavare, come lezione, da questa evoluzione storica della pena di morte è

che il modo migliore per prevenire il crimine non è tanto la durezza e la severità della punizione e

della pena, quanto, piuttosto, la certezza negli arresti.

D’accordo con quelli che sostengono il non ripristino della pena di morte per gli omicidi

terroristici, l’alternativa migliore è creare un sistema di polizia e di intelligence, di investigazione il

quale possa portare ed arrivare ad una certezza nell’arresto.

111 Citato da O’Day A., Dimension of Irish Terrorism, Cap. 22, “Capital Punishment and Terrorist murder: the continuing debate” by Mayor K. O., Fox M. A., R. A. E. C, p. 190.

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Ecco allora che se la minaccia terroristica è grave, come nel Nord Irlanda, la popolazione stessa,

proprio poi come si è verificato nella realtà, potrebbe essere coinvolta in tale sistema,

organizzandosi in ordini gerarchici a livello familiare di strada, cellule di città, agendo quindi, ed

avendo in pieno il comando di tali nuclei utilizzati come documento identificativo.

La drasticità dell’atto, poi, dovrebbe essere giustificata solamente dalla necessità e non utilizzata

come espediente.

La certezza dell’arresto deve essere, naturalmente, avvalorata dalla certezza delle proprie

convinzioni e questo, certamente, non è stato fatto istituendo processi senza la giuria.

(istituzionalizzazione avvenuta nell’Irlanda del Nord con la Emergency Provision Act del 1973.)112

Una possibile soluzione potrebbe poi essere quella do non dare pubblicità agli atti terroristici,

portando e conducendo i processi in camera di consiglio; certo, il rovescio della medaglia sarebbe

quello di rendere sempre più chiusa e considerare settorialmente la società in cui viviamo, e

inoltre, ci dovrebbe essere da parte del governo un utilizzo attento e ragionevole derivante da una

considerazione bilanciata tra vantaggi e svantaggi.

Una volta arrestati, comunque, il problema rimane sempre quello di dover trovare la pena adatta

per loro.

Se l’impiccagione non è utilizzata, l’alternativa possibile è l’imprigionamento

Certo la reclusione offre loro la possibilità, una volta scontata la pena, di poter tornare cittadini

reinseriti pienamente nella società, anche se, dall’altra parte, sempre presente è il rischio di un

fallimento della rieducazione, che li riporterebbe a compiere lo loro solita vita, all’interno di quel

sistema illegale al quale erano legati.

L’imprigionamento, inoltre, comporta per lo Stato dei problemi di varia natura, sollevando dibattiti

circa la sua natura pratica e morale.

I terroristi devono essere messi, una volta incarcerati, insieme agli altri criminali, ”the ordinary

criminals”, o, invece, dovrebbero essere costruite prigioni speciali dove internarli?

Abbiamo noi la certezza che i terroristi possano redimersi?

L’internamento è moralmente più accettabile dell’impiccagione?

Può questa misura essere utile alle forze di polizia per ottenere una risoluzione, compromesso con i

capi dei gruppi terroristici?

Ecco allora che il nocciolo della questione, circa il fatto di come e se la pena capitale debba essere

utilizzata per sconfiggere il terrorismo in generale, e l’IRA in particolare, deve essere risolto

negativamente, poiché è importante che la polizia e gli ufficiali dell’Esercito Britannico con

112 Per una più ampia comprensione dell’argomento si veda il paragrafo successivo.

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esperienza nella lotta contro il terrorismo, siano convinti che tale misura comporti solamente

un’inversione di marcia rispetto al progresso che è stato fatto.113

Tuttavia, come hanno ripetutamente affermato diversi esperti di lotta al terrorismo, le esecuzioni

possono, anziché porre un freno, provocarne un’ inasprimento.

Il professor Ezzat A.Fattah, docente di Criminologia all’Università Simon Fraser in Canada, ha

osservato:

“ Coloro che realmente pensano che la reintroduzione della pena di morte porrà fine, oppure

produrrà una diminuzione del numero degli atti terroristici, sono ingenui o illusi. Le punizioni

consuete, compresa la pena di morte, non provocano alcun timore nei terroristi o negli autori di

crimini politici, i quali sono motivati ideologicamente e votati al sacrificio per amore della loro

causa…inoltre, le attività terroristiche sono pericolose e il terrorista affronta quotidianamente rischi

letali e tende a non essere intimorito dalla prospettiva della morte immediata. Com’è possibile

allora che egli possa essere scoraggiato dal rischio di essere condannato alla pena capitale?”

Le esecuzioni portate a termine per crimini di natura politica hanno l’effetto di pubblicizzare gli

atti terroristici, suscitando l’interesse dell’opinione pubblica e offrendo ai gruppi terroristici

l’opportunità di rendere note le proprie posizioni politiche; il rischio, inoltre, è poi quello di creare

dei “martiri”la cui memoria deve essere onorata.114

Le esecuzioni, ancora, vengono usate come giustificazioni di ulteriori atti di violenza compiuti per

ritorsione: i gruppi armati possono sostenere la legittimità delle proprie azioni dicendo di volersi

servire anch’essi della stessa pena di morte che i governi sostengono di aver diritto di applicare nei

loro confronti.

113 Per un approfondimento sul tema si veda Dickson B., “Criminal Justice and Emergency Law”, in Facetes of the conflict in Northern Ireland, edited by Seamus Dean 1995. 114 “Migliaia di persone, anche di orientamento moderato, sfilarono accanto alla bara di quest’uomo, il cui patriottismo estremista d’altri tempi sembrava ora qualcosa che meritava rispetto. La minoranza degli Irish Volunteers formò un picchetto d’onore armato, anche se pochissimi degli aderenti al movimento sapevano che il loro capi intendevano dare il via a una rivolta. Quel giorno erano presenti anche i Volunteers di Redmond in lunghe colonne ma disarmati. Convinti com’erano che la Home Rule rappresentasse la realizzazione delle aspirazioni nazionali irlandesi e che il loro scopo fosse difenderla, in patria e all’estero, contro ogni tentativo di emendamento, sembrava loro perfettamente normale rendere omaggio a un patriota che in altri tempi aveva scelto altri metodi…per la maggior parte dei presenti era solo una commemorazione storica, un modo per ricordare il triste passato dell’Irlanda ora che sembrava attenderla un futuro migliore. I repubblicani irlandesi che avevano organizzato la cerimonia, le avevano dato una chiara impronta militare. Sulla tomba venne sparata una salva. Mentre la bara veniva calata nella fossa, uno dei repubblicani più profondamente coinvolti nei progetti segreti di rivolta, Patrick Pearse, vestito dell’uniforme degli Irish Volunteers, estrasse dalla tasca un foglio e lesse il suo discorso. Affermò che il futuro dell’Irlanda doveva trarre ispirazione dal suo passato…’Stupidi! Stupidi! Stupidi! Ci hanno lasciato i corpi dei nostri fratelli keniani caduti e l’Irlanda che custodisce queste tombe non potrà avere pace finchè non sarà libera. ” (Cfr. Kee R., Storia dell’Irlanda, Bompiani, Milano 2000, pp. 133-134).

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“Nella storia non è mai successo che la minaccia della sentenza capitale abbia fermato il terrorismo

o la violenza politica. Se esistono uomini o donne che non sono per nulla intimoriti dalla minaccia

della pena capitale, sono proprio i terroristi, che spesso rischiano la propria vita in azione.”

Interessante, infine, ritengo essere le parole pronunciate, a proposito dell’esecuzione di due

membri dell’IRA, da parte di Albert Pierrepoint, l’ultimo “boia”inglese:

“Il mattino dell’esecuzione cantavano tutti e due: ’Evviva i ribelli, evviva…’, cantavano senza

paura andando verso il patibolo. La gente di fuori non si rende conto di queste cose. Io dico che

non è un deterrente perché, quando si sono viste queste cose, ci si dice:

‘Se non hanno paura di morire, come può essere un deterrente?’. A dire il vero, penso che su tante

condanne a morte che ho eseguito non ho fermato neppure un assassino.”

Ciò che quindi andrebbe fatto è un’opera di sostegno e di aiuto per rendere più effettive le

operazioni della RUC e dell’Esercito.

Il fatto che la questione della pena di morte sia stata sollevata ben due volte nell’arco di soli dodici

mesi è il risultato dell’espansione dell’attività dell’IRA in Inghilterra, ed è folle pensare, poter

credere di ridurre se non eliminare tali attività mentre il conflitto, la guerra in Ulster (“le sei

contee” del Nord Irlanda) continua ed è viva.

Il reale e, nello stesso tempo, vitale teatro è il Nord Irlanda stesso, quel terreno che dal punto di

vista geografico rappresenta ed ha rappresentato moltissimo nella storia dell’Irlanda in generale e

del terrorismo in particolare.

A proposito di tale aspetto, infatti, è bene sottolineare che nessuna società esiste senza diversità di

cultura, sia dal punto di vista economico sia da quello ideologico.

La diversità, inoltre, è significato e conseguenza di grandezza e complessità.

Non deve quindi sorprendere che, in una coloniale e post-coloniale situazione, l’identità etnica, in

tutte le sue possibili manifestazioni, diventa mezzo e veicolo di resistenza.

Le diversità culturali sono espressione di conflitti economici e politici. Nel suo scritto, lo storico

Roy Foster esprime la convinzione circa il fatto che la cultura ed il conflitto di cui è protagonista la

terra d’Irlanda, è un qualche cosa di prodotto dai gruppi ‘devianti’ e costituisce uno stato

’innaturale’.

Nel tentativo di dare prova circa la relazione tra le diverse culture in Irlanda, Foster riporta

l’aneddoto di due cittadini nord irlandesi in viaggio in Canada per una conferenza circa “The Irish

land”, senza alcun tipo di riferimento al loro background.

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Parlando dell’Irlanda i due non hanno parlato di “Land”, terra, un termine neutrale oltre che

strumentale allo stesso tempo, ma hanno utilizzato “tìr”, nel senso di “Tìr Eoghain-cioè il territorio

dell’Eoghain clan.

Le usanze degli irlandesi sono collegate con la storia e sono una conseguenza della storia.

Il termine utilizzato-tìr-non è neutrale e non può essere separato da chi vi appartiene, da chi vi

abita.

Il termine land, invece, non è legato alla popolazione che vi abita ed è sinonimo di proprietà, di

possedimento.

La diversità dal punto di vista linguistico della parola irlandese tìr riflette una differente realtà

socio-economica caratterizzata dalla divisione della proprietà in base a comunità diverse e tribali;

rappresenta, cioè, un sistema fondiario disintegrato sotto l’impatto del colonialismo e della

espropriazione della popolazione nativa.

Ecco allora che la complessità linguistica e sociale della parola tìr - comprendente quindi i termini

territorio, country, terra e identità - non è andata persa, anzi: l’aspetto cruciale di identificazione in

Irlanda è rappresentato non dalla domanda “Cosa fai?”, ma da”Da dove vieni?”.

Riporto, infine, le parole di Edward Said le quali esprimono e ribadiscono l’importanza

fondamentale della geografia nella letteratura e nell’immaginazione dell’anti-imperialismo:

“Ora se c’è qualche cosa che più di altre distingue l’immaginazione di anti-imperialismo è il

primato dal punto di vista geografico.

Imperialismo è, dopo tutto, un atto di violenza geografica, attraverso il quale, virtualmente, ogni

spazio nel mondo è esplorato, tracciato ed infine portato sotto il proprio controllo.

Per i nativi, la storia del suo o della sua servitù è inaugurata dalla perdita, a scapito di stranieri, del

loro posto e la loro concreta identità geografica è un qualche cosa che deve ora essere ricercato ed

in qualche modo ripristinato.”115

Ecco quindi che in un simile scenario, è il successo o il fallimento stesso delle azioni del governo,

attuate e portate in concerto sul territorio, che determina la sicurezza o meno della popolazione e

delle rispettive città.

115 Citato da Alexander Y., O’Day A., “Ideologies of the Irish Conflict”, in The Irish Terrorism Experience, New York, St. Martin Press 1984, p. 150.

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VI.II Sviluppo legislativo in tema di lotta al terrorismo politico-religioso

peculiare della realtà Nord Irlandese

L’ondata di rinnovamento sociale e culturale che si diffuse in tutti gli Stati occidentali alla fine

degli anni ’60 investì anche i giovani nord-irlandesi.

Furono fondati diversi movimenti per i diritti civili, tra cui la Northern Ireland Civil Rights

Association (NICRA), il People’s Democracy e l’Housing Action Committee.116

Tutti questi movimenti, che si richiamavano a quello creato negli Stati Uniti da Martin Luter King,

non avevano alcuna connotazione politica: essi si limitavano a denunciare le ingiustizie e le

discriminazioni subite dai cittadini e che chiedevano una modificazione della politica in materia di

assegnazione degli alloggi, l’attribuzione del diritto di voto a tutti gli adulti maggiorenni e

l’abolizione dello Special Power Act e lo scioglimento delle B-Special, una sorta di polizia part-

time.

Nel 1922, infatti, allo scopo di riportare l’ordine dopo che la divisione dell’Irlanda, avvenuta in

seguito al Trattato Anglo-Irlandese del 6 dicembre 1921117, aveva causato gravi tumulti e disordini

in tutto l’Ulster e la fuga di molti cattolici verso lo Stato libero, divenuto teatro della guerra civile,

venne introdotto il Civil Authority (Special Powers) Act, che rimase in vigore fino al 1974, una

legislazione che, usando le parole di un costituzionalista di quel tempo, rappresentava “una

disperata misura presa per combattere contro una disperata situazione.”

In particolare, il Civil Authority Act consentiva alle forze di sicurezza di:

- arrestare senza mandato

- imprigionare senza accusa o senza un regolare processo e rifiutare il ricorso di fronte alla Corte

di Giustizia

- perquisire le abitazioni senza mandato

- dichiarare il coprifuoco e vietare riunioni, cortei, processioni

116 La Nicra fu fondata il 29 gennaio 1967 sulla scia delle lotte per i diritti civili che i neri d’America stavano conducendo in quegli anni. Nel 1968 venne costituito People’s Democracy (Pd), un gruppo militare di studenti che ebbe tra i suoi leader Bernadette Delvin. Sia la Nicra che il Pd furono organizzazioni apartitiche, formate da persone di diverso credo religioso e di diversa estrazione sociale. 117 Con il Trattato del 1921, approvato dal parlamento irlandese il 7 gennaio 1922 con uno scarto di soli 7 voti (64 contro 57), sei contee (Antrim, Down, Fermanagh, Tyrone, Derry e Armagh), situate nel nord-est dell’Irlanda, entrarono a far parte del Regno Unito. Le rimanenti ventisei ricevettero la status di dominion; vennero creati due parlamenti, uno a Belfast e uno a Dublino, entrambi sotto il controllo di Londra. Agli inizi la divisione del paese non fu voluta neppure dagli stessi unionisti ( il 22% di tutta la popolazione dell’Irlanda che appoggiò l’unione con la Gran Bretagna, in maggioranza residente ad un massimo di 50 Km da Belfast. Lo stesso leader unionista Edward Carson dichiarò: “L’Ulster non vuole un parlamento nord-irlandese”. (Citato da Mac Bride S., Perché pubblicare queste pagine, in Sands B., Un giorno della mia vita, Feltrinelli 2002, p. 7.)

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- consentire la fustigazione come punizione

- arrestare le persone che si voleva esaminare come testimoni e costringerle a rispondere alle

domande poste, pena l’ammenda, anche qualora ciò avrebbe comportato la loro incriminazione

- compiere qualsiasi atto, anche qualora esso violava il diritto di proprietà privata

- impedire le visite dei legali e dei familiari di una persone in stato di fermo

- proibire l’apertura di un’inchiesta in seguito alla morte di un prigioniero

- vietare la diffusione di particolari giornali, films o dischi

- vietare la costruzione di monumenti o targhe in ricordo

- entrare liberamente nei locali di qualsiasi banca per controllare conti correnti ed, eventualmente,

ordinare trasferimenti di fondi, titoli o documenti alla Civil Authority

- arrestare chiunque compiva qualsiasi atto, anche non previsto a livello legislativo, mirante a

danneggiare il mantenimento della pace e del buon ordine in Irlanda del Nord

I movimenti per i diritti umani organizzarono numerose manifestazioni e marce pacifiche in tutte

le sei Contee ed in molte occasioni i partecipanti furono violentemente attaccati da gruppi di

lealisti protestanti, nell’indifferenza o con la complicità della Royal Ulster Constabulary, la RUC.

Un clima di tensione si diffuse in tutto l’Ulster; i cattolici erano le principali vittime delle violenze

della RUC e degli unionisti più estremisti, mentre i gruppi paramilitari protestanti scatenarono una

campagna di attentati allo scopo di intimidire gli attivisti dei movimenti per i diritti civili.

In una tale situazione di completa ed assoluta incertezza, la comunità cattolica iniziò a chiedere

sempre più insistentemente l’aiuto dell’IRA, che, in quelle circostanze, sembrava essere la sola

forza in grado di proteggere i cittadini cattolici dalle violenze della polizia e dalle gravi

discriminazioni che dal 1932, con l’istituzione del Parlamento di Stormont, colpirono la

popolazione cattolica.

Ciò che venne fatto, infatti, fu quello di salvaguardare tutte le prerogative ed i privilegi della classe

dirigente protestante, privilegi che sarebbero venuti meno qualora le sei Contee fossero entrate a

far parte dell’Irish Free State. La classe operaia protestante godeva di ben poche vantaggi rispetto

ai cattolici, ma la politica settaria di Stormont acuì le divisioni tra le due comunità, attraverso due

tipi speciali di interventi: un particolare sistema elettorale ed un particolare metodo di

assegnazione degli alloggi.

Per quanto riguarda il primo, il Gerrymandering, così era chiamato il sistema elettorale, prevedeva

la divisione della popolazione in collegi elettorali non individuati su base proporzionale; la

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popolazione cattolica era concentrata in pochi collegi di grandi dimensioni, mentre i protestanti

erano suddivisi in collegi più piccoli.

Quello che ne derivava era che, nelle elezioni municipali, il numero dei rappresentanti protestanti

eletti era maggiore rispetto a quello cattolico; il diritto di voto era limitato ai soli residenti

proprietari o agli inquilini che pagavano un canone di locazione o versavano imposte immobiliari;

era anche previsto il voto plurimo ai cittadini che godevano di 10 sterline di rendita annua ed alle

società commerciali, per le quali il numero di voti era determinato in base all’importanza

economica ed al giro d’affari.118

Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto della politica discriminatoria di Stormont, molti

cittadini, soprattutto coloro che avevano più di 21 anni e che vivevano con le loro famiglie, in

stanze ammobiliate o in pensioni familiari, erano esclusi dal diritto di voto. Si trattava in gran parte

di cattolici, fortemente discriminati anche nell’assegnazione delle abitazioni.

Ogni anno, infatti, i consigli comunali attribuivano ai sindaci, in gran parte protestanti, i poteri in

materia abitativa ed ovviamente le assegnazioni erano compiute a favore dei protestanti, poiché la

concessione di un alloggio significava anche la conseguente concessione del diritto di voto; la

situazione non era certo migliore negli uffici pubblici, dove la maggioranza dei lavoratori era di

religione protestante.

Ecco allora che questa situazione finì per avvantaggiare l’IRA, dato che la maggior parte dei

cattolici si convinse che l’unico mezzo per porre fine alla discriminazione fosse il

repubblicanesimo, e, soprattutto, che il ricorso alla violenza fosse pienamente giustificato.

Nei successivi venti anni, i cosiddetti “Troubles”, i disordini, si diffusero in tutto il Nord Irlanda,

vedendo contrapposti l’IRA da una parte, e l’UVF e la RUC dall’altra. (uno degli eventi simbolo dei

“Troubles” fu la “battaglia di Bogside”, così chiamata perché svoltasi nel quartiere cattolico di

118 Questo sistema elettorale truccato prevedeva, inoltre, la franchigia elettorale, che equivaleva a un suffragio censitario (per votare alle elezioni bisognava essere proprietari di case) e il voto plurimo (diversi voti venivano conferiti alle società commerciali,e quindi, di fatto, ai proprietari protestanti): “Per poter votare alle elezioni municipali e locali che hanno luogo ogni tre anni bisogna essere proprietari del proprio alloggio, o pagare un affitto o imposte immobiliari. Da qui l’importanza della questione dell’attribuzione degli alloggi. Le persone che hanno più di 21 anni e vivono con i loro genitori o in stanze ammobiliate o pensioni di famiglia non hanno diritto di voto, cosa che naturalmente sfavorisce i cattolici: questi ultimi possiedono, infatti, meno beni immobiliari dei protestanti, le loro famiglie sono più numerose e il tasso di disoccupazione è più elevato di quello dei protestanti a ciò bisogna aggiungere il company vote, o ‘voto delle società’. Le società commerciali dispongono di un certo numero di voti, secondo la loro importanza economica e il loro giro d’affari (1193 voti a Derry, 11500 per l’insieme delle Sei Contee). Naturalmente pochi cattolici sono imprenditori! Secondo le statistiche ufficiali 923724 persone sono iscritte alle liste elettorali per le elezioni al parlamento di Westminster. Ora solo 694483 persone risultano nei registri elettorali per le elezioni municipali. Così 229241 cittadini dell’Irlanda del Nord sono privati del diritto di voto. Sugli 8800 adulti di Derry privati del diritto di voto, 7000 sono cattolici”. (Cfr. Casteran C., Guerre civile en Irlande, Paris, Mercure de France, 1970, pp. 118-119).

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Derry (Bogside), caratterizzata dall’attacco violento da parte della RUC al quale dopo due mesi di

aspra lotta la popolazione riuscì a reagire respingendo poi, definitivamente la polizia).119

Il Governo Britannico, quindi, decise l’invio dei militari con il compito di riportare l’ordine ed il

controllo; vennero smantellate le B-Special e sostituite dall’Ulster Defence Regiment, un gruppo di

riservisti part-time sotto diretto controllo britannico.

Nel 1970 l’esecutivo nord-irlandese introdusse l’internamento, secondo il quale chiunque era

sospettato di far parte di un gruppo paramilitare era incarcerato senza processo: la sospensione

delle libertà fondamentali suscitò notevoli perplessità, non soltanto tra i repubblicani, accrescendo

il sostegno dei cattolici all’IRA; nell’arco di soli sei mesi 2357 persone furono incarcerate senza

alcuna accusa né processo, e la maggior parte di questa fu poi rilasciata successivamente in quanto

ritenuta estranea all’attività dell’IRA.120

Il culmine degli scontri si ebbe la domenica del 30 gennaio 1972, divenuta la storica “Bloody

Sunday”, la “Domenica di Sangue”121, quando, nel corso di una manifestazione pacifica, a Derry,

13 civili disarmati furono uccisi dai soldati inglesi.

Nel pieno di simili violenze ed in un tale clima di “disordini”, appunto, la risposta del Governo

Inglese quale fu?

Quale provvedimento venne preso per cercare di fermare ed arrestare una tale situazione che era

ormai sfuggita di mano?

Vennero emanate diverse “legislazioni di emergenza” per cercare di far fronte ad una situazione di

emergenza nei confronti della quale non ci fu alcun minimo tentativo o sforzo di comprensione, ma

soltanto politica di violenta repressione.

Nel 1973, quindi, venne emanato l’EPA, l’Emergency Provision Act, il quale sostituì l’SPA del

1922.

119 Il 24 agosto 1968 si svolse la prima marcia organizzata dalla Nicra: 2500 persone sfilarono da Coalisland a Dungannon per chiedere la fine della discriminazione contro i cattolici. Il 5 ottobre 1968 un’altra pacifica dimostrazione della Nicra a Derry fu accolta dalla violenza della RUC. Il 4 gennaio 1969 200 lealisti, armati di spranghe di ferro, bastoni e pietre, all’altezza del ponte di Burntollet attaccarono una pacifica marcia di People’s Democracy che si stava svolgendo da Belfast a Derry. Tre giorni dopo estremisti protestanti e la stessa RUC lanciarono un attacco al quartiere nazionalista di Bogside a Derry. La spirale di violenza raggiunse il culmine con il brutale attacco del 12-14 agosto 1969 a Bogside, appunto; il bilancio di quello scontro fu di 500 case incendiate, 1500 persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e 9 morti. 120 Per un’analisi dettagliata circa i fatti e le statistiche riguardanti questi anni del conflitto nord-irlandese si veda Calamati S., Funnemark B. C., Harvey R., Irlanda del Nord, una colonia in Europa, Roma, Edizioni Associate, II ed. aggiornata 1997. 121 Per una visione dell’evento da un punto di vista interno caratterizzato da interviste con i capi dell’IRA e dichiarazioni di testimoni diretti partecipanti alla giornata si veda Taylor P., The IRA and Sinn Fien: “Bheind the Mask”, 1997 da http://www. frontline\search com.

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Tra le disposizioni contenute nell’Emergency Provision Act, la più importante riguardava

l’istituzione di tribunali speciali, le cosiddette Diplock Courts, prive di giuria, e costituite da un

unico giudice competente per i reati di terrorismo.

L’EPA, inoltre, prevedeva:

- l’ampliamento dei poteri di arresto e di perquisizione attribuiti alla polizia ed ai militari

- il prolungamento del fermo di polizia sino a 72 ore senza l’obbligo di fornire alcuna

giustificazione da parte dell’autorità giudiziaria

- la presunzione di colpevolezza nel caso di possesso illegale di armi e l’accettazione di

testimonianze senza possibilità di interrogatori o confronti

L’EPA venne abrogato nel 1976, reintrodotto poi dal ’78 all’87 e nuovamente in vigore dal 1991.

Tale legislazione era applicata solo nell’Ulster.

Sia nel Nord Irlanda che in Gran Bretagna, invece, era applicato il PTA, ”Prevention of Terrorism

Act”, introdotto nel 1974, in seguito alla violenta dimostrazione di forza dell’IRA in Inghilterra, a

Birmingham, dove vennero uccise diciannove persone, processate sei, delle quali, poi, nessuna

risultò colpevole e rilasciate solo nel 1991, dopo aver subito torture da parte della polizia ed essere

stati arrestati senza prova, ”evidence”obiettiva, al di la di ogni ragionevole dubbio.

Il caso di questi sei ragazzi è l’esempio cruciale, tipico dell’applicazione di tale legislazione che

prevedeva:

- la messa al bando di alcuni gruppi paramilitari

- la possibilità di limitare, con provvedimento del Ministro degli Interni inglese o del Segretario di

Stato per il Nord Irlanda , la libertà di spostamento nel territorio del Regno Unito (il

cosiddetto”esilio interno”)

- la possibilità di prolungare il fermo di polizia oltre quarantotto ore e, con il consenso del Ministro

degli Interni, sino a sette giorni senza la formulazione di alcuna precisa accusa

- negava la possibilità, entro quarantotto ore, di avvalersi di un avvocato e di esercitare il diritto di

non rispondere

Il risultato di tale legislazione di emergenza fu però disastroso122, quello che ne derivò fu una vera e

propria escalation di violenza; il moltiplicarsi degli attentati dei gruppi paramilitari e l’incremento

delle vittime civili indussero il governo di Londra a revocare lo status di prigioniero politico ai

detenuti per i reati di terrorismo; il provvedimento colpiva in gran parte i detenuti repubblicani,

122 Solo nel 1975 le persone sottoposte a tortura da parte degli agenti della RUC furono 320; nel 1976 il numero salì a 708, più del doppio. (Cfr. Northern Ireland Digest of Statistic, settembre 1977). Si veda, inoltre, The Times, 26 luglio 1977.

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che proclamarono, quindi, un ‘blanket protest’ ed una ‘no-wash protest’123; i prigionieri, cioè, si

rifiutarono di indossare la divisa carceraria, come i condannati per i reati comuni, di lavarsi e di

pulire le celle. Amnesty International, nel frattempo, aveva denunciato in un proprio rapporto i

continui maltrattamenti subiti dai detenuti e da coloro che erano fermati dalle forze di sicurezza,

poiché sospettati semplicemente di appartenere all’IRA.124

Fu dunque istituita una commissione d’inchiesta per stabilire quali fossero i mezzi usati dalla

polizia durante gli interrogatori125; ebbene, i risultati di tale inchiesta confermarono quanto

denunciato da Amnesty International ed il governo inglese si vide costretto ad abrogare

‘l’internment without trial’, l’internamento senza processo.126

Nelle carceri nord-irlandesi, intanto, le proteste continuavano ed alcuni repubblicani, detenuti

negli H-Block della prigione di Long Kesh, iniziarono uno sciopero della fame per ottenere il

riconoscimento dello status di prigioniero politico.

Tale sciopero, a causa dell’ambiguo comportamento delle autorità di Londra, venne dapprima

soppresso, in seguito ad un iniziale tentativo di accettare la richieste dei carcerati, poi ripreso;

dieci scioperanti si lasciarono morire di fame e la comunità cattolica considerò tale gesto come un

estremo sacrificio per la causa irlandese.127

123 Alla fine del marzo 1978, dopo diciotto mesi di protesta on the blanket, i prigionieri repubblicani si rifiutarono di andare alle docce a lavarsi (no-wash protest), per evitare di esporsi alle violenze dei secondini, che li aggredivano brutalmente non appena uscivano dalla cella. Le guardie a loro volta reagirono, rifiutandosi di rimuovere i buglioli e svuotandoli sul pavimento delle celle. I detenuti furono così costretti a convivere con urina, escrementi e rifiuti. Nel luglio 1978 fu permesso all’arcivescovo Tomàs O’Fiaich di visitare i Blocchi H. Il primate cattolico così descrisse lo stato di degradazione nel quale vivevano oltre cento blanket men: “Lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tale condizioni. L’immagine che si più si avvicina a ciò che ho visto è quella di centinaia di homeless che vivono nelle fogne di Calcutta”. (Cfr. Health on the Blanket, Republican News, Saturday 25 February 1978, p. 5) 124 Nel 1977 l’inchiesta di Amnesty International confermò con molti dettagli le brutalità commesse. (Cfr. i documenti di Amnesty International, 1979-1994). Nel novembre 1991, il Regno Unito, per la prima volta nella sua storia è divenuto oggetto di inchiesta, proprio sulla base dei rapporti stilati da Amnesty International e dal Committee on the Administration of Justice, un prestigioso organismo di Belfast per la difesa dei diritti umani, da parte della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura. 125 Commissione Europea per i Diritti Umani di Strasburgo. La Commissione, nel suo rapporto del 2 settembre 1976, definì l’uso combinato delle cinque tecniche di interrogatorio utilizzate dalla RUC durante l’internamento un “trattamento disumano e di tortura”, in aperta violazione dei della Convenzione europea per i diritti umani. 126 Alle ore 4.30 di mattina del 9 agosto 1971 (giorno di inizio dell’internamento) 342 nazionalisti furono prelevati dalle loro case e arrestati senza mandato; 12 di questi furono trasportati in segreto nel centro di interrogatorio di Palace Barracks, a Belfast. Sottoposti per giorni a brutali trattamenti divennero conosciuti come i guinea-pigs (cavie). La maggior parte delle persone arrestate ai tempi dell’internamento risentì per tutta la vita dei maltrattamenti subiti. 127 Lo sciopero della fame iniziato nell’ottobre del 1980 terminò il 18 dicembre. Un analogo sciopero era stato condotto otto anni prima (maggio-giugno 1972) da un gruppo di detenuti del carcere di Crumlin Road, a Belfast, e si era concluso con la concessione dello status di prigioniero politico, abolito poi dalle autorità inglesi nel 1976. Il 27 ottobre 1980, dunque, furono 7 i detenuti che iniziarono la protesta. Dopo tre giorni, questi si affiancarono Mairèad Farrell, Mary Doyle e Maireàd Nugent, prigioniere del carcere di Armagh.

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Manifestazioni di solidarietà ai prigionieri repubblicani provennero da molti Stati europei e nella

Repubblica d’Irlanda vi furono diverse dimostrazioni, tra cui un corteo di protesta che si concluse

davanti all’Ambasciata inglese.

Ecco allora che il Governo Britannico giustificò la legislazione di emergenza come misura e

tentativo di ripristinare e ridare fiducia alla gente, ottenere, quindi pubblico consenso,

dimostrando così la capacità delle corti nord-irlandesi nella lotta contro il terrorismo politico

dimostrando efficienza ed equità.

In evoluzione storica della legislazione di emergenza, quindi, si può cogliere la politica adottata dal

Governo Britannico, la strategia che ha accompagnato ogni singolo intervento.

VI.III Democrazia e ruolo della legge:

Il principio dell’imparzialità; il principio della chiarezza ed equità; il principio

della dignità umana.

Rapporto tra i tre principi e la legislazione di emergenza nella lotta al

terrorismo128

Le disposizioni dell’Emergency Provisions Act del 1922, circa il procedimento dell’internamento,

ed in particolar modo i poteri del Segretario di Stato, che può intervenire in ogni grado del

processo, dimostrano l’essenza della natura non-giudiziale dell’internamento.

L’ordine di “internare” non è una decisione giudiziale, ”is not a judicial decision.”

Esso, piuttosto, è un ordine esecutivo per fini pratici, immune da riesami e supervisioni attinenti

alla sfera giuridica.

Il potere di internare senza processo, come ha osservato il Capo della Commissione per

l’internamento, ”The Gardiner Committee”, è una “decisione del governo che priva gli individui

Tra il 15 ed il 16 dicembre 1980 altri 30 blanket men iniziarono lo sciopero, e, dopo due giorni, il Governo Inglese sembrò disposto a venire incontro alle richieste dei detenuti. Il 18 dicembre lo sciopero venne soppresso. (Cfr. Hunger Strike, in David Rees, Ireland. The Key to the British Revolution., London, larkin Publications 1984, pp. 335-371). L’11 gennaio 1981 le trattative fra i detenuti nazionalisti e la dirigenza del carcere si interruppero definitivamente,a causa del voltafaccia del governo inglese, che ritrattò le concessioni concordate con i prigionieri. Il 27 gennaio 1981, 96 prigionieri inasprirono la loro protesta, distruggendo le celle nelle quali erano rinchiusi; la reazione delle autorità carcerarie fu brutale: 80 detenuti furono assaliti, picchiati, privati di coperte, acqua, cibo e della possibilità di usare bagni. 128 Si veda “General Principles”, in Gearty C. A., Kimbell J. A., Terrorism and the Rule of Law, Civil Liberitier Research Unit 1995.

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della loro libertà senza processo e senza le normali tutele e garanzie che la legge prevede in favore

dell’accusato.

Esso è un processo esecutivo e non giudiziale.

Non è conosciuto to the common law…”129

Nel marzo del 1972, visto il fallimento dell’operazione condotta dal Governo conservatore, il

Parlamento di Londra decise dia assumere direttamente il controllo della situazione per cercare di

risolvere il problema terroristico nel Nord Irlanda emanando una “più accettabile” legislazione di

emergenza.

Nel 1973, il Governo incaricò Lord Chief Justice Diplok di istituire una commissione per

considerare “quali arrangiamenti, quali disposizioni dovevano essere prese per l’amministrazione

della giustizia in Nord Irlanda al fine di combattere più efficacemente contro le organizzazioni

terroristiche…”

La Commissione Diplok, composta, oltre che da Lord Diplok, dal prof.A.R.N. Cross, Gorge

Woodcock e Sir Kenneth Younger, riconobbe che “…ogni deroga alle misure ordinarie…che

interferisce toppo radicalmente con gli accettati valori e regole del sistema legale (accepted common

law values) potrebbe minare la fiducia ed il rispetto della popolazione verso le corti ordinarie.”130

Il fatto poi, continua la Commissione, ”di mantenere una procedura separata per l’amministrazione

della detenzione dei terroristi non deve avere effetto circa l’atteggiamento della gente verso le corti

ordinarie.”

Nell’istituire la Commissione, nello svolgere il suo lavoro, quindi, Lord Diplok procedette sulla

base della considerazione che il sistema giuridico del Nord Irlanda non era in grado di

fronteggiare in maniera efficace il terrorismo politico nelle province. Come si legge nella

raccomandazione 36 della Commissione, ”la ragione alla base del processo con la giuria è che un

cittadino dovrebbe essere giudicato e processato da dodici altri cittadini scelti a caso, in maniera

fortuita.

Questo non è applicabile nel caso di crimini terroristici in Nord Irlanda. La minaccia di

intimidazione di testimoni si estende poi anche alla giuria…un giurato spaventato e minacciato è

129 Citato da Finn John E., “Public Support for Emergency (Anty-Terrorist) Legislation in Northern Ireland: A Preliminary Analysis”, Depatment of Government Wesleyan University, Cap. 18 in O’Day A., Dimension of Irish Terrorism, International Library of Terrorism 1993. p. 363. 130 Questa e le successive citazioni relative alla Commissione che ho riportato si trovano in Diplock C. Lord, Report of the Commission to consider legal procedures to deal with terrorist activities in Northern Ireland, Presented to Parliament by the Secretary of State For Northern Ireland by Command of Her Majesty, December 1972, London, Her Majesty’s Stationery Office, section. 35-40.

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un cattivo giudice, perché lui deve pensare alla sua salvezza e a non mettere in rischio la vita della

sua famiglia…”

Continuando, la raccomandazione si sofferma poi sulla possibilità di una qualche deviazione ed

inclinazione di tipo settoriale dei giurati, sostenendo che”…il fatto di lasciare intatto il potere di

stare nella giuria a dei Cattolici porterebbe ad una serie di ‘perverse acquittals’ - sbagliati

proscioglimenti - in un numero elevato di casi comprendenti imputati loyalisti.”

Ecco allora le ragioni, i motivi di tali Corti speciali, quello che risulta dalla relazione della

Commissione per analizzare misure legali nella lotta contro il terrorismo.

Molte delle raccomandazioni della Commissione, però, nel 1973, divennero legge, entrando a far

parte dell’Emergency Provision Act del 1973, appunto, che sostituì il Special Power Act del 1922.

Come già sottolineato, tale legislazione di emergenza era caratterizzata dalla linea strategica di

cambiare, trasportare da quella che era la discrezionalità giudiziale all’esecutivo il controllo per i

processi di crimini politici. Come già sottolineato, quindi, l’internamento fu l’incarnazione più

drammatica di tale strategia di trasferimento; tuttavia esso rappresentava, allo stesso modo, il più

radicale allontanamento da quei”accepted common law values” che, invece, la Commissione Diplock

pensava e riteneva così essenziali e fondamentali per il mantenimento della fiducia pubblica nelle

istituzioni legali. Ecco allora che il Governo riuscì a giustificare la sospensione dei processi ordinari

e il conseguente utilizzo di quelli speciali facendoli figurare come una misura diretta non solo alla

protezione di testimoni e giurati, ma anche degli accusati, la maggior parte dei quali erano

Cattolici, ma il problema fondamentale era quello di evitare che siedessero come giurati coloro i

quali avevano una qualche ragione per non essere obiettivi, ossia nei casi in cui si poteva

argomentare una qualche ragione che mostrasse una sua possibile implicazione in ragioni di

divisione settoriale implicante le due comunità. Ecco allora che la paura di intimidazione da parte

della giuria non era il motivo reale che portò alla creazione delle Diplock Courts, il timore che i

giurati potessero in una qualche maniera essere influenzati non era la ragione principale; molto più

probabilmente era la paura di perversi proscioglimenti in casi nei quali giurie protestanti potessero

ingiustamente prosciogliere loyalisti. Dopo che i processi ordinari con la giuria vennero sospesi, la

percentuale di imputati protestanti che venne dichiarata colpevole crebbe considerevolmente,

”probabilmente perché non potevano più contare su di una giuria fedele, amica, ’friendly’.”131

La Sezione 6 e 7 dell’EPA ha così creato le corti speciali, composta da un giudice monocratico, che

doveva giudicare quei reati elencati nell’allegato dell’EPA e chiamati, per questo, scheduled offences.

131 Finn John E., Op. cit. p. 365.

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Il termine “scheduled offence”, infatti, deriva dal fatto che i reati ritenuti appropriati per processi

con il solo giudice sono elencati nella Lista 1 dell’Act del 1991.

La lista è, poi, accompagnata da una serie di Note che descrivono e qualificano le circostanze per le

quali questi reati sono lasciati alla Diplock Courts.

La lista è stata emendata molte e più volte da quando è stato introdotto il sistema Diplock.

Al momento essa comprende i reati comuni di omicidio, falso imprigionamento, sommossa,

rapimento, omicidio colposo e preterintenzionale.

La lista comprende, inoltre, diversi reati prescritti dalla legge come le lesioni procurate con o senza

l’intento di cagionare gravi danni fisici, furto, furto aggravato, rapina, incendio doloso.

Vi sono poi molti reati comprendenti fuoco, esplosivi, bombe al petrolio, ed i reati commessi da

membri appartenenti alle organizzazioni bandite, proscritte.

Da questa analisi sebbene non esaustiva, ma indicativa del grande numero di reati inclusi nella

lista, una osservazione viene subito da farsi, e cioè che tutti questi reati possono tranquillamente

essere commessi in relazione alla situazione di emergenza.

Invece, alcuni reati della lista sono ritenuti scheduled offences solo quando è la maniera, il modo

con cui vengono posti in essere che suggerisce immediatamente tale tipo di connessione.

Ecco quindi, che, conformemente alla Nota 3 della Lista, il furto ed il furto con scasso, aggravato,

sono considerati scheduled offences solo quando si è dimostrato che “un esplosivo, arma da fuoco,

contraffazioni di armi da fuoco” sono utilizzati per portare a compimento il reato.132

Una tale connessione, però, può non esistere in tutti i casi.

Inserito in un tale sistema legislativo, la connessione risulta essere un meccanismo destinato a

rimandare al processo con la giuria casi che non rientrano nella finalità del sistema Diplock.

La figura chiave in questo processo è l’Attorney-General.

In seguito alla Nota 1 della Lista, è lui che ha la discrezionalità nel certificare che ogni scheduled

offence che rientra in quella Nota non deve essere trattata come tale e deve quindi essere

rimandata al processo con giuria. Tal potere discrezionale non è però esteso a tutti i tipi di reati

inseriti nella lista; per esempio, i reati di furto e furto con scasso aggravato, se si ritiene siano

commessi secondo le circostanze che ho analizzato prima, non sono passibili di essere

‘descheduled’ cioè rimandati al processo ordinario.

Ecco allora che non c’è, formalmente, un criterio ordinato che governi l’esercizio di questa

discrezionalità, ma questo ci ha rivelato che la questione principale è quella di comprendere

132 Si veda “Under Section 4 - 5” of the Criminal Law Act (Northern Ireland) 1967.

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quando un caso particolare “è in connessione con la situazione di emergenza”. Se così è, la

discrezione non avrà modo di essere esercitata.133

Durante il dibattito circa il “Northern Ireland Bill 1987, l’Attorney-General diede quella che, forse,

è il dato più rilevante circa l’approccio adottato nello ‘descheduling’o ‘certyfing out’.

Ribattendo a delle clausole che potrebbero essere adottate come specifici piani di riferimento per

l’esercizio della discrezionalità egli notò che:

“Questo esercizio deve essere e rimanere una valutazione soggettiva, sebbene la decisione non

debba essere pregiudizievole. Per esempio, quando un imputato compare in una Corte Ordinaria,

ciò è dovuto al fatto che io ho deciso in maniera precisa che il reato non ha alcuna connessione con

il terrorismo. Questo può essere riassunto in una sentenza - tuttavia, io non avrei il diritto di

pronunciare queste parole - dicendo semplicemente che il reato è causualmente, non

coincidentalmente, connesso col terrorismo.”134

Continuando nel suo discorso, inoltre, egli aggiunse che il tentativo di giungere ad una decisione

nell’arco di sole 24 ore, come nel caso della decisione circa la libertà provvisoria dipende da dal

fatto se il caso segua il corso della situazione di emergenza o meno.

La decisione, poi, è supportata da una nota fornita e redatta dal “Director of Public Prosecutions

for Northern Ireland”.

Le corti improbabilmente riesamineranno la decisione in assenza di cattiva fede.

Le statistiche che si hanno a disposizione rivelano che l’Attorney-General frequentemente applica

la certificazione di ‘descheduled’ offences.

Tale certificazione è fatta, per esempio, nel caso di un individuo accusato per una singolo reato o

per più reati commessi simultaneamente, oppure, ai casi di più persone accusate per lo stesso tipo

di reato.

In tutto questo discorso non può però non essere preso in considerazione un’importante

previsione, supplementare alla Lista, presente nella Sezione 2 dell’Act, la quale stabilisce che se

uno “ è accusato per un reato che non rientra nella lista e per un altro che invece rientra, entrambi

devono essere trattati come se lo fossero”.135

Ecco allora che, in questi casi, ben poco può essere utile ed aver significato la certificazione fatta

dall’Attorney-General.

133 Jackson J., Doran S., Judge without Jury: Diplock Trials in the Adversary System, Oxford: Claredon, 1995, p.20. 134 Vedi H. C. Debs., Vol. 114, cols 338, 8 Aprile 1987. 135 H. C. Debs., Standing Comm. B, 1972-3, Vol. 2, col. 218, 22 Maggio 1973 (Solicitor-General)

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Ciò che quindi rileva ed emerge da questo tipo di sistema speciale è che casi aventi e non aventi

elementi terroristici giudicati dalle Diplock Courts sono esaminati parallelamente.

Inoltre, possono esservi casi non in connessione con il terrorismo, furti e rapine armate che non

differiscono in maniera marcata da altri, ma che sono, tuttavia, soggetti a differenti forme di

processo e di giudizio.

Sicuramente in Nord Irlanda, nell’esperienza della Diplock Cour, i giudici hanno dato prova di

equilibrio e di indipendenza di giudizio anche se appare una nuova finzione l’avvertimento che

essi rivolgono a se stessi (warning themselves) circa il pericolo di condannare qualcuno sulla base

della “nuda” chiamata di correo così come è previsto nei processi ordinari con giuria dalla

common law.

Ciò, infatti, non è stato sufficiente a salvare le decisioni emesse in primo grado quando la critica

degli imputati si è espressa contro le sentenze di condanna in sede di gravame.

Il processo in appello, infatti, si svolge in maniera differente rispetto a quello di primo grado,

poiché circa il suo funzionamento non sono state introdotte modifiche dalla legislazione di

emergenza. Il giudizio celebrato in appello, dove, tre giudici anziani, collegialmente, ascoltano la

tesi dia accusa e difesa, leggono la sentenza di primo grado e prendono visione dei verbali da cui

risultano le prove acquisite di fronte al giudice di primo grado, ha finito per ribaltare numerose

decisioni, finendo, indubbiamente, per garantire all’imputato una via d’uscita dal carcere nel caso

che la sua detenzione sia stata determinata dalla raccolta di prove non veritiere. Il problema

principale, però, è la netta differenza circa la determinazione delle prove e la loro valutazione. Nel

giudizio di primo grado il giudice monocratico, infatti, raccoglie personalmente le dichiarazioni dei

testi e, quindi, di coloro che decidono di collaborare con la giustizia. La Diplock Cour, quindi, basa

il suo giudizio su quella prova orale e si ha una partecipazione diretta ed emotiva del giudice nella

valutazione del materiale probatorio. Ecco allora che nel giudizio finale viene ad incidere in

maniera preponderante proprio quella componente emotiva che le Autorità centrali pensavano di

aver pressochè eliminato con la soppressione della giuria, ma che, come dimostrato

precedentemente, non era la reale e vera ragione dell’istituzione delle corti speciali.

Nel giudizio d’appello, invece, il collegio decide solo sulla base dei verbali, non procedendo

all’istruzione dibattimentale e rimanendo in questo modo confinato nella visuale ristretta e asettica

che scaturisce dagli atti.

Vi è un secondo aspetto di questo sistema che deve essere analizzato e preso in considerazione.

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Il termine stesso, speciale, diverso, che definisce queste Corti è però ingannevole se si considera il

fatto che esso stia ad indicare corti speciali, appunto, in speciali ‘coutrhouse’ dove speciali giudici

giudicano di speciali tipi di casi.

Tutti i processi Diplock erano svolti, invece, presso la Belfast Crown Court, nella stessa

‘courthouse’in Crumlin Road dove continuano ad essere svolti i processi ordinari delle Corti

Ordinarie, e sono presieduti dalla High Court e dai giudici della stessa contea che conducono i

normali processi nel Nord Irlanda.

Cosa avevano di speciale?

Era solamente l’attuazione della politica della criminalizzazione, il fatto di far apparire ‘diversi’, e

trattati perciò diversamente, agli occhi dell’opinione pubblica, i ‘criminali’appartenenti alle

organizzazioni paramilitari.

Esemplificativa, a tal fine, è la Sezione 10 dell’act del 1991, secondo la quale:

“La Corte, giudicando una scheduled offence deve, secondo questa sezione, avere ed esercitare

tutti i poteri, le autorità, e la giurisdizione che la Corte stessa avrebbe se ci fosse stata la giuria,

deve…”136

Questa espressa previsione è lo sfondo legale, la base legittimante del paradosso sotteso a tutto il

sistema Diplock in particolare, ed alla legislazione di emergenza in generale.

Un aspetto fondamentale del processo criminale ordinario, la giuria, emblema del sistema

giuridico di common law, quale quello irlandese, è stato rimosso, eliminato nel sistema Diplock,

ma il processo in sé rimane inalterato, e continua a funzionare come prima; insomma, formalmente

diverso ma sostanzialmente identico.137

Ecco allora che, dopo aver analizzato un aspetto problematico del nuovo sistema di giustizia, quale

quello del rapporto tra i due gradi di giudizio, un primo grado rinnovato ed un appeal non toccato

dal clima di emergenza che perversava in tutto il Nord Irlanda, è bene soffermarsi sull’altro

problema legislativo, quello dei supergrasses, soggetti che, in cambio di soldi, ‘immunity’-

immunità - protezione o altro, decidono di collaborare con la giustizia fornendo le prove a

sostegno della tesi dell’accusa; soggetti che, fino a poco prima, hanno militato all’interno del

terrorismo a fianco proprio di coloro che egli stesso contribuirà ad incriminare.

Il motivo che ha portato all’introduzione di un sistema di giustizia basato sull’istituto debole della

confessione è stato spiegato nel Rapporto relativo al caso Bennet, “The Report of the Bennet

136 Northern Ireland (Emergency Provisions) Act 1991, section 10. 137 Per un approfondimento sul tema si veda Jackson J., Doran S., Judge without Jury: Diplock Trias in the Adversary System, Oxford, Clarendon, 1995.

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Inquiry”138, secondo il quale, nel Nord Irlanda sarebbe stato impossibile per le forze dell’ordine

condurre indagini accurate attraverso i consueti metodi investigativi, avere la collaborazione dei

testi o degli stessi informatori di polizia.

Ecco allora che per sconfiggere il terrorismo si è arrivati alla conclusione che solo chi aveva preso

parte a certi avvenimenti poteva fornire le indicazioni necessarie, sebbene fosse chiaro che il teste

era certamente spinto da ragioni proprie alla confessione e non dall’amore per la giustizia, o, tanto

meno, dal senso civico.

Il fatto che però lascia sconcertati era come queste accomplice evidences, chiamate in correità non

erano quasi mai sorrette da riscontri obiettivi, erano, cioè, uncorroborated, non garantendo così la

pienezza dell’accertamento compiuto in sentenza.

Il giudice, quindi, che si trova da solo a giudicare, deve, inoltre valutare la prova priva di riscontro

diverso dalla deposizione da cui è derivata, avendo riguardo esclusivamente alla attendibilità della

persona che ha davanti, basandosi sulla propria esperienza e sulla coerenza riscontrata nella

deposizione.

E’ proprio questa ampia discrezionalità data al giudice che contribuisce a creare seri dubbi sulla

validità del sistema; è possibile, infatti, essere sicuri di essere colpevoli al di là di ogni ragionevole

dubbio quando la prova fornita dalla testimonianza del supergrass è completamente priva di

riscontro obiettivo?

VI.IV Il Supergrass System in Nord Irlanda: evoluzione storica e psicologica

“Io ero tra la vita da una parte ed una sentenza di morte dall’altra…il futuro era nero. La polizia mi

offrì una terza alternativa…la mia vita dipendeva da come riuscivo ad impressionare la polizia e al

mio primo giorno di custodia io chiesi l’immunità…c’era uno strano incentivo a cooperare…alla

fine della giornata il mio contributo fornito alla giustizia era misurato in base al numero di uomini

che io citavo e menzionavo…”139

Queste parole sono state pronunciate da Josep Bennett, durante il suo periodo di custodia, davanti

alla Corte Diplock.

Le ho riportate perchè le considero emblematiche circa la validità del Sistema Supergrass e dei suoi

risultati che ha prodotto nella lotta al terrorismo.

138 Report of the Committee of inquiry into Police interrogation procedures in Northern Ireland (Bennet Report). 139 Citato da Green S. C., Internment with a Judge’s Stamp, Fortnight, April 1984 cap. The Supergrass System in Northern Ireland, p.521.

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Complessivamente analizzato il sistema giuridico del pentitismo irlandese può essere diviso in due

differenti fasi che ne mettono in evidenza il suo sviluppo e conseguente declino.

La maggior parte dei supergrasses compaiono tra il novembre del 1981 ed il novembre del 1983:

in tale periodo 25 pentiti causarono l’arresto di circa 600 persone; 15 ritrattarono le loro

dichiarazioni e, nei 10 processi che ebbero luogo 120 dei 217 chiamati in correità furono condannati

in prima istanza.

Sebbene vi fossero stati già 4 paramilitari supergrasses nel Nord Irlanda nei dieci anni precedenti

l’arresto di Christopher Black, la sua apparizione è considerata come l’inizio effettivo del

Supergrass System, a causa del fatto che essa fu seguita in tempo estremamente rapido da una serie

impressionante di casi simili e, inoltre, a causa del fatto che il processo Black, rispetto ai precedenti,

assunse dimensioni molto vaste essendo stato il procedimento con il maggior numero di imputati

mai elaborato in Gran Bretagna.140

Il 21 novembre 1981 Christopher Black venne arrestato nel quartiere Ardoyne di Belfast, a nord

della città, per aver partecipato in un fase dell’azione di blocco di una strada da parte dell’IRA.

Dopo due giorni di silenzio passati in custodia, cominciò a fare la prima di una lunga serie di

dichiarazioni che riguardavano lui e altri rientranti nella lista dei reati di cui si sospettava artefice

l’IRA.

Il 24 novembre gli venne concessa l’immunità e, successivamente, in un processo che iniziò a

dicembre del 1982 e finì l’agosto dell’anno dopo, testimoniò contro 38 accusati, 35 dei quali

vennero dichiarati colpevoli (23 accusati di essere membri dell’IRA).

Ben 120 furono le udienze che si tennero nell’arco di tempo di quell’anno; 550 i testimoni la cui

deposizione è stata sentita o letta in udienza; dei 35 condannati, 5 ebbero la pena di morte, gli altri

la pena della reclusione.

La prima fase del Supergrass System comprese, oltre il caso Black, altri due processi, quello di

Joseph Bennett e di Kevin McGrady.

In questi tre processi, l’88% degli imputati vennero condannati; il 66% di tali condanne si

fondarono sull’uncorroborated accomplice evidence dei supergrasses.

Nel caso Bennet, 16 persone vennero sottoposte a procedimento penale per 7 reati attribuiti

all’Ulster Volunteer Force (UVF), tra cui un omicidio.

Tutte e 16 vennero condannate.

140 Vedi Workers Research Unit, Belfast Bulletin, No. 11: Supergrasses, Belfast: Workers Research Unit, 1984.

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L’altro ed ultimo dei tre processi rientranti nella prima fase è quello di McGrady che, in seguito alla

sua conversione religiosa, decise di collaborare spontaneamente con la polizia, senza chiedere

alcun tipo di beneficio in cambio delle sue informazioni, desiderando in tal modo espiare le colpe

commesse e scagionare alcune persone ingiustamente condannate per reati che egli stesso aveva

commesso.

Il processo si concluse con 30 assoluzioni in ordine alle 45 imputazioni.

Ecco allora che dei 10 imputati, 3 furono assolti, 4 condannati avendo reso dichiarazioni che

costituivano riscontro obiettivo della testimonianza data da McGrady in ordine a 10 imputazioni, e

3 condannati in base alla sola evidence di Mc Grady stesso relativamente a 5 imputazioni.

Dopo il processo McGrady altri sette processi vennero condotti in base al sistema dei supergrasses.

Essi furono, in ordine cronologico, quelli di Jackie Grimley, John Morgan, Robert Quigley,

Raymond Gilmour, James Crockard, William ‘Budgie’ Allen e Harry Kirkpatrick.

Di tutti questi è, però, il primo caso, quello di Grimley, che segna un’inversione di tendenza

rispetto all’orientamento fino ad allora espresso dalla giurisprudenza volto ad accogliere

acriticamente l’evidence dei pentiti. Concludendosi in maniera differente rispetto ai passati

processi, esso diede inizio a quella seconda fase del sistema che lo portò al suo definitivo declino.

Delinquente abituale, con precedenti psichiatrici, Grimley aveva ottenuto l’immunità per aver reso

dichiarazioni a seguito delle quali erano state arrestate numerose persone.

Dopo cinque giorni di esame e riesame delle dichiarazioni e delle prove fornite da tutti i testimoni,

il processo si arrestò bruscamente. L’accusa, infatti, aveva così tanto screditato Grimley,

ridicolizzato e rivelatosi poi mitomane, che si pensò di non aver motivo per procedere nei confronti

di chiunque fosse stato accusato in seguito alle sue sole dichiarazioni.

Dei 18 imputati, quindi, 7 vennero assolti (5 rimasero in carcere per altri tipi di procedimento)

Una generale inversione di tendenza, di sfiducia, verso questo tipo di sistema è poi confermato da

altri dati, in particolare quelli provenienti dal confronto tra i due gradi del processo.

Nei 10 processi celebrati in Nord Irlanda secondo il sistema dei pentiti, rispetto al totale dei

chiamati in correità la percentuale dei condannati in primo grado è del 49% (di cui circa il 54%

esclusivamente sulla base di chiamate di correo che non hanno trovato riscontro obiettivo); in

appello, però, le condanne oggetto di impugnazione sono state annullate nel 90% dei casi.141

141 Bonnier D., Combating terrorism: supergrass trial in Northern Ireland, in “Modern Law Rewiew, 1987. Si veda inoltre, per uno specifico studio circa i vari casi di supergrasses nordirlandesi e le critiche che portarono al declino tale sistema giudiziario, attraverso un’accurato apporto statistico Cungi D., Vigoni D., Bongiorni P., “Maxiprocesso e supergrasses (pentiti) nella lotta al terrorismo Nordirlandese”, in Documenti Giustizia, Dicembre 1988.

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Il generale clima di sfiducia verso quello che si pensava essere un mezzo utile per il rinnovamento

di un sistema processuale non più all’altezza di combattere un a grave situazione quale quella della

minaccia terroristica, provenne dalla stessa autorità giudiziaria delusa dai risultati ottenuti in

rapporto, soprattutto, agli sforzi richiesti per mantenerlo in vigore, sia in termini di impegno che di

risorse finanziarie.

Le ragioni di questa visione negativa risiedono in alcune critiche che sono state rivolte al sistema,

critiche che, però, non devono essere fini a se stesse, ma utilizzate per cercare di comprendere sia i

benefici che tale regime probatorio ha portato alla lotta la terrorismo, sia quale possibile alternativa

sia proponibile.

Il pentitismo, infatti, si è dimostrato, in generale, come unico strumento che consenta allo Stato di

insinuarsi nella fitta rete della grande criminalità organizzata, in particolare quando si tratta di

terrorismo.

Ecco allora che, difficilmente, i militanti in tali organizzazioni, considerato poi il particolare clima

della situazione nord-irlandese, accetterebbero una spontanea collaborazione con la giustizia per

un ravvedimento improvviso.

La forza ideologica alla base della lotta intrapresa è, dunque, assai forte, ma non vale a frenare

l’incentivo che viene dalle opportunità concesse al testimone per ricostruirsi la propria vita.

Il supergrass, inoltre, contribuisce a creare una sorta di sfiducia e di indebolimento delle

organizzazioni terroristiche che scoprono, quindi, come al loro interno vi siano una serie di

soggetti disposti a tradire la propria causa.

Se l’obiettivo era stabilire pace e tranquillità, questo non è avvenuto.142

Il conflitto in Nord Irlanda, al contrario, ha visto un incremento nella violenza da parte di entrambe

le forze in gioco, l’IRA e le forze di sicurezza.

Non è certo facile capire di quanto sia stato responsabile il Supergrass System di questo incremento

di violenza, ma di certo non ha contribuito a fermarla.

Secondo dati statistici, il 72% di cattolici disapprova e considera non giusta la politica dei

supergrasses; solo il 21% dei Protestanti rientra in tale categoria.

Il 57% dei Cattolici, inoltre, considera iniquo e non ha fiducia nel sistema giuridico nord-irlandese;

solo il 9% dei Protestanti la pensa alla stessa maniera.143

142 Si veda in particolare Jackson J., The use of “supergrasses” as a method of prosecution in Northern Ireland, in Standing advisory commission on Human Rights, Annual Report 1983-84. 143 Boyle, Hadden, Hillyard, Law and State: The Case of Northern Ireland, London: Martin Robertson 1975, pp.145-147.

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Certo la statistica non esprime fino in fondo il nesso causale tra la strategia del sistema dei pentiti

ed il supporto da esso creato all’attività delle organizzazioni paramilitari, ma sembra ragionevole

pensare e supporre che un certo tipo di collegamento esista.

La situazione è simile a quella dell’internamento; il fatto che le persone finite in carcere e vittime di

torture vennero poi scoperte e ritenute innocenti ha portato ad un incremento notevole e costante

di violenza da parte dell’IRA ne ha contribuito ad alimentare il conflitto armato.144

Il Supergrass System ha, forse, “piantato i semi di un simile raccolto”.

Il lungo perdurare dell’IRA, in particolar modo delle azioni della sua ala Provisional, dipendono,

quindi, da molto più delle risposte condotte dalle forze di sicurezza.145

L’”acqua che necessita ai pesci (organizzazioni terroristiche) per sopravvivere è la parte di

Cattolici, quella parte di popolazione che non considera la ‘giusta guerra’ oggi, nel Nord

Irlanda.”146

Questa “giusta guerra”, infatti, consiste di quella variazione e differenza tangibile e non dalla

nozione di giustizia da una parte e di lavoro, casa, attrattive e possibilità dall’altra.

Il ruolo e, nello stesso tempo, la capacità della PIRA è quella di capitalizzare e far proprie queste

percezioni e sensazioni di ingiustizia collegandole in maniera più ampia e portandole sul piano di

una battaglia.

Ciò è stato ottimamente espresso da Burton, il quale sostiene che “l’IRA si è mossa ed attivata in

una cera direzione specifica, partendo dalla favorevole situazione della battaglia sociale della

popolazione cattolica, dalla lotta per i diritti civili, per arrivare alla liberazione nazionale…”147

Ecco allora che più è presente e vivo un simile sentimento di sconforto all’interno della

popolazione, più è facile per la PIRA trovare “safe house”,un rifugio.

Più persiste la depravazione economica e sociale più la battaglia per la legittimazione è difficile ed

ardua da vincere per lo Stato.

Il tentativo di “criminalizzare” la PIRA non ha avuto e non avrà mai successo, perché, in questa

battaglia e guerra di legittimazione, non è abbastanza nè sufficiente rivolgere urla ed insulti al

nemico.

144 Si veda, inoltre, per un analisi criminologia circa gli effetti che un imprigionamento “ingiusto” ha prodotto nella società irlandese, Jamieson R., Grounds A., No Sense of an Ending: The effects of long-imprisonment amongst Republican prisoners and their families, Report of a study commissioned by Ex-Prisoners Assistance Committee (Expac) Presented to participants 1 Marzo 2002, Published by SEESYU Press 2002. 145 Uno studio accurato circa la longevità dell’IRA è stato effettuato da Cresnshaw M., in “The persistence of IRA terrorism”, Cap. 13, in Irish Terrorism edited by Alexander Y, O’Day A. 146 Moxon-Browne E., “Terrorism in northern Ireland: the Case of the Provisional IRA”, Cap. 9 in Wilkinson P., Terrorism: British Perspectives, 1993. 147 Burton F., ThePolitics of Legitimacy, London: Routledge e Kegan Paul 1978.

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La legittimazione deve essere dimostrata attraverso esempi, fatti .

Il supporto, l’appoggio che riceve la PIRA, è tanto più ampio e durevole di quanto risulta facile

ammettere da parte degli osservatori.

In un editoriale, “The Guardian”, venne utilizzato come campione una popolazione di 7000 persone,

che partecipò ad una dimostrazione in favore dell’IRA del 12 agosto 1979, per calcolare le reale

misura dell’appoggio dato alla PIRA:

“se il 3% supporta l’IRA ed un altro 5% da tacito consenso, ci sono 250000 persone che chiudono un

occhio…aggiunta a questa, la massa di persone in una società che fugge e scappa dall’essere

coinvolta in cose che non gli interessano e che non gradisce, mare è abbastanza grande perché

possano nuotarvi molti guerriglieri…”148

Certo il supporto dato potrebbe essere decimato se il senso di ingiustizia che pervade i ghetti

venisse in una qualche maniera estirpato. Certo si potrebbe pensare che le armi, le pistole,

sarebbero messe in disparte anche solo per una notte, o forse per sempre, ma se neanche questo

tentativo venisse fatto il famoso mare dove pesci trovano casa sarebbe sempre più profondamente

radicato.

Ecco allora che l’IRA, non è semplicemente un movimento terroristico nel senso comune ed

accettato del termine.

La sua longevità, la sua storia ed i suoi fini suggeriscono ed insegnano quanto essa sia immersa e

radicata nella società all’interno della quale opera.

Essa compie atti terroristici da anni ed anni, combatte una campagna militare contro ciò che

percepisce e crede sia l’esercito nemico ed alieno.

Così come le Brigate rosse ed altri gruppi terroristici, gli intenti e gli scopi della PIRA sono fattibili,

consistenti all’interno dell’organizzazione stessa grazie all’appoggio che in una certa misura gli

deriva dalla popolazione.

Concludendo, la PIRA rappresenta il “cutting edge”, la punta di diamante, “di un movimento che

trova le proprie basi nella frustrazione connessa con l’ esperienza di discriminazione subita da una

sezione della comunità cattolica nel Nord Irlanda.”149

148 Moxon-Browne E., Op. cit. p. 161. 149 Moxon-Browne E., Op. cit. p. 161.

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VI.V Rapporto tra diritto e morale: rilevanza giuridica ed efficacia del

pentimento all’interno del sistema giuridico italiano

Paul Wilkinson, nel suo studio circa le possibili vie d’uscita dal terrorismo, sostiene che, per le

società che subiscono gli effetti di una prolungata e grave violenza terroristica esistono diversi

modelli per tentare di risolvere il problema che possono essere raggruppati in sei differenti casi:

- i terroristi risolvono il problema nei loro termini, raggiungendo i loro scopi ed abbandonando la

violenza, la quale non è, quindi, più ritenuta necessaria. (ciò è avvenuto molto raramente ed in tal

caso i terroristi avevano un vasto appoggio popolare)

- i terroristi percepiscono il fallimento inevitabile della loro campagna, e, senza aver ottenuto i loro

scopi, abbandonano la lotta violenta.

- la campagna terroristica può essere sradicata entro i confini dello Stato stesso attraverso una

campagna ed un’azione militare determinata ed efficiente la quale, però, se da una parte sia

riuscita ad eliminare la minaccia della sicurezza all’interno dei confini dello Stato, dall’altra crea

l’effetto di spingere all’esilio i terroristi sopravvissuti.

- vi può essere poi una soluzione politica nei termini dello Stato, che fa soddisfacenti e sufficienti

concessioni alle richieste sincere e profondamente sentite di un particolare gruppo, togliendo

quindi, argomenti, stimoli e vantaggi ai terroristi.

- molti Stati democratici tentano di trattare il terrorismo interno come fosse essenzialmente un

problema di applicazione della legge e di controllo giuridico, considerando, quindi, le azioni

terroristiche reati gravi, combattendole fermamente con il codice penale.

Il problema di un simile modello è che spesso i terroristi riescono a sfuggire alla giustizia, e,

rifugiandosi all’estero, dalle loro continue basi, nuovamente create, continuano a diffondere la

violenza e tentare di riallacciare i legami con i compagni in patria.

Il problema, poi, come ho già avuto modo di sottolineare e di dimostrare, non termina una volta

che i terroristi siano arrestati ed imprigionati, i quali, infatti, avendo una notevole esperienza di

attività clandestina fuori dal carcere, riescono a rimettere in piedi la loro organizzazione all’interno

del sistema penitenziario; con l’aiuto poi, di avvocati compiacenti e di amici, essi possono persino

sperare di ristabilire i contatti fuori della prigione, dirigendo le operazioni, o perlomeno

influenzandole, dal carcere.

Ecco allora che la soluzione dell’applicazione della legge da sola è inevitabilmente incompleta, e,

quindi, utilizzando un’espressione poetica di Wilkinson, “senza misure addizionali c’è una forte

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probabilità che nuovi movimenti terroristici nascano dalle ceneri del vecchio terrorismo”.150

- l’ultima soluzione è quella pedagogica, dove, tutti insieme, in una intensa combinazione di sforzi

educativi, i partiti politici democratici, i mezzi di comunicazione di massa, i sindacati, le chiese, i

collegi, le scuole ed altre importanti istituzioni riescano a convincere i terroristi che, per la

realizzazione dei loro ideali politici, la loro azione ed il loro atteggiamento è indesiderabile e,

soprattutto controproducente.

Questi modelli di soluzioni democratiche del terrorismo non si escludono a vicenda, certo è che

basi fondate per ritenere che sia possibile e realizzabile uno sradicamento totale della violenza

terroristica dalla società democratica è arduo se non difficilmente sostenibile.

Se da una parte vi è la democrazia, con a capo il valore sommo della libertà, dall’altra non si può

non considerare il fatto che, proprio per questo, alcuni possono scegliere di abusare di questa

libertà per una serie svariata di motivi, con lo scopo di porre in crisi e distruggere la democrazia

stessa.

Ecco allora che la maggior parte degli sforzi che le democrazie devono cercare di sostenere nella

lotta al terrorismo dovranno essere indirizzati alla ricerca di efficienti vie d’uscita dal terrorismo

per il singolo individuo.

In questa lotta di nervi, morale e psicologica, vanno ricercati i modi per consentire ai membri

individuali delle organizzazioni, di rompere completamente con i loro compagni e con i loro capi, i

quali, da parte loro, lottano per mantenere i membri del gruppo sotto una morsa di ferro.

E’, quindi, ancora una volta, al singolo individuo, all’uomo in sé, alla sua natura ed alla sua

essenza che bisogna rivolgersi per cercare di comprendere dei fenomeni, nel nostro caso particolare

il fenomeno terroristico, troppo spesso lasciati sviluppare ed evolvere troppo a lungo per poi essere

sconfitti o anche solo arginati.

Nel cercare le vie d’uscita individuali dal terrorismo, quindi, la prima cosa da sottolineare è

l’enorme pressione che spinge il singolo terrorista a restare legato al suo gruppo. A causa

dell’indottrinamento costante e del lavaggio del cervello a cui sono stati sottoposti per un

lunghissimo periodo di tempo, ad essi sarà stato inculcato il sospetto per ogni mossa delle autorità

e l’abitudine a diffidare di ogni dichiarazione ufficiale, ad essere costantemente in guardia per non

cadere in nuove trappole o stratagemmi organizzati dal “nemico”.

150 Wilkinson P. “Pathways Out of Terrorism for Democratic Societies”, Contemporary Research on Terrorism, p. 464.

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Una volta che questo processo di indottrinamento e di legame mentale con l’ideologia del gruppo

avrà raggiunto un certo livello, sarà estremamente difficile indurre i terroristi persino a discutere le

loro asserzioni e le loro convinzioni ideologiche fondamentali, e, tanto meno ad abbandonarle.

L’individuo terrorista, inoltre, ha una paura profonda nei confronti del suo gruppo.

Il terrore è sempre stato il metodo usato per controllare in modo spietato la disciplina all’interno

della cospirazione dell’organizzazione terroristica.

Gambizzare, sparare alle mani o ai piedi, torturare, sono tutte punizioni usate correntemente dai

capi per violazioni anche minime del regolamento del gruppo.

Infrazioni più gravi o una disobbedienza ripetuta vengono generalmente punite con la morte e, se

il terrorista ha tentato di passare dalla parte dell’autorità, i compagni compiranno una vendetta sui

membri più stretti della sua famiglia.

Ecco allora che, di fronte a tali minacce da parte del loro gruppo non deve meravigliare se solo

pochi militanti riescano a trovare il coraggio di rompere con il passato.

Infine, anche se riescono a rompere con il passato, a sciogliere tali legami, alcuni individui terroristi

saranno ostacolati dal lasciare il gruppo a causa delle apparentemente insuperabili difficoltà di

riabilitarsi nella società normale; vivrebbero nel costante timore di essere abbandonati dalle

autorità. Per trovare un lavoro, comprare un’auto od ottenere una casa, avranno bisogno di falsi

documenti, e vivranno nella costante paura di essere scoperti dai loro datori di lavoro e dalla

polizia.

Se vorranno sposarsi, o registrare una nascita o una morte, ottenere un passaporto, aprire un conto

in banca od ottenere una pensione sociale, le difficoltà si moltiplicheranno. Se un terrorista sa che la

pena normale per i suoi reati è severa, può calcolare il pericolo del lasciare la copertura

dell’ambiente protettivo del gruppo, e il rischio aggiuntivo dell’arresto supera gli svantaggi della

permanenza nel terrorismo.

Paesi come l’Italia e la Gran Bretagna hanno avuto modo di verificare ed hanno avuto già una

notevole esperienza dei modi in cui le pressioni conflittuali tormentino l’animo e dividano la lealtà

di coloro che esitano sull’orlo del cambiar vita o meno.

Le legge sui pentiti in Italia ed il Sistema Supergrass, come già ampliamente analizzato,

nell’Irlanda del Nord, si sono dimostrati inestimabili nel fornire ai servizi segreti informazioni sulle

operazioni, sui membri e sui piani dei gruppi terroristici.

E’ noto che per la polizia sia estremamente difficile riuscire ad infiltrare la struttura cellulare delle

attuali organizzazioni terroristiche, ed il tipo di “informazioni dal di dentro” da parte dei delatori

è, spesso, il solo mezzo per poter condurre in giudizio i terroristi e condannarli.

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Ciò, però, dall’altra parte, ha portato i capi terroristi ad intensificare i tentativi di punire o fermare

coloro che li tradiscono, poiché essi sanno bene che, una volta innescato, tale processo, può

rapidamente demoralizzare e distruggere l’intero gruppo.

Ciò sottolinea l’assoluta necessità di fornire ai Supergrass nuove identità ed assicurare loro nuove

vite, per proteggerli dall’assassinio da parte dei loro compagni.

Ecco allora che, anche in questo caso, si può comprendere come il fenomeno terroristico sia un

fenomeno che deve essere considerato sempre meno da un punto di vista strettamente oggettivo e

inserito in rigidi schemi che ne precludono uno studio ampio e particolareggiato.

Il non considerare l’aspetto relativo, soggettivo del fenomeno, il non prendere in esame i motivi e

le situazioni che moralmente influenzano e si celano dietro ogni sorta di comportamento umano è

un grosso errore che non deve essere commesso, poiché la legge in particolare, ed il sistema

giuridico in generale non possono essere applicati indiscriminatamente, senza tenere conto delle

caratteristiche particolari che ci celano dietro ad ogni situazione che deve essere affrontata ed

analizzata in maniera separata da altre, cercando di coglierne gli aspetti peculiari.

Ecco allora che il “pentitismo”si è dimostrato l’esempio più pregnante di come un tale approccio

deve essere messo in pratica, deve essere “legalizzato”, in un sistema giuridico come il nostro che

resta poco adatto ai compiti specializzati della lotta contro i singoli membri delle organizzazioni

terroristiche e dalla loro riabilitazione a lungo termine nella società normale.

Nel determinare le pene, il diritto penale prende in considerazione solo limitatamente i motivi del

reato, siano essi positivi o negativi. Pertanto, il criminale che desiste volontariamente dal

commettere un reato, o attivamente interviene per limitarne le conseguenze, ottiene una riduzione

della pena.

Il motivo che lo induce a desistere è irrilevante.

Nelle leggi anti-terrorismo vengono presi in considerazione due possibili comportamenti: uno è la

dissociazione dal terrorismo, con la rinuncia alla violenza e l’abbandono delle armi e del gruppo;

l’altro implica un’attiva collaborazione con le autorità, con denuncia dei compagni, testimonianze,

ecc.

Nessuno dei due comportamenti comporta necessariamente un pentimento nel significato morale o

psicologico del termine.

Ecco allora che il pentitismo è emblematico nella risoluzione di un problema antico, controverso e

vivacemente dibattuto ancora ai nostri giorni ed in ogni parte del mondo: il rapporto tra diritto e

morale.

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Due sono le correnti di pensiero che si sono fatte strada cercando di classificare tale complicato ed

interdisciplinare rapporto.

Da una parte vi sono coloro i quali sostengono una stretta dipendenza del diritto penale dalla

morale (la cosiddetta teoria unitaria), dall’altra, concezione opposta ma ugualmente estrema, vi

sono quelli che propendono per la completa separazione delle due sfere (teoria autonomista).

Il diritto penale, tuttavia, non allontanandosi dai fondamentali valori morali condivisi dai cittadini,

tiene conto delle motivazioni che sorreggono la condotta criminosa quando esse s’ispirano a valori

morali acquisiti al comune sentire, così come esso ugualmente prende in considerazione, ma per

tranne effetti sfavorevoli i disvalori che caratterizzano, sotto il profilo motivazionale, l’azione

dell’agente.

Pertanto, l’atteggiamento interiore del reo riveste, nell’ambito penalistico, un ruolo tutt’altro che

secondario, almeno per quanto attiene alla commisurazione della pena.

Fra i motivi interni al soggetto meritevoli di essere presi in considerazione dal diritto penale è da

annoverare il pentimento, che, per la sua intensa carica morale, socialmente viene apprezzato come

un valore positivo.

Analizzato sul piano psicologico, il pentimento si presenta come un fenomeno psichico animato da

un intenso dinamismo che si sviluppa fra due poli:chi si pente da un lato riconsidera la propria

azione riprovevole o peccaminosa o delittuosa, per condannarla (polo negativo); dall’altro lato,

matura la determinazione di non ripetere l’azione recriminata (polo positivo); egli, dunque, per un

verso ripiega sul passato e, per l’altro, si proietta nel futuro; tra i due poli si stabilisce un’acuta

tensione affettiva permeata di tristezza, destinata a risolversi soltanto con l’attuazione del

proposito di cambiamento.

Aspirazione al cambiamento, però, non significa ripudio della propria personalità.

Pentirsi, anzi, significa identificarsi con ciò che si è fatto e con l’uomo che si era. Chi si pente

rivendica in pieno la responsabilità del suo operato, sia pure per sottoporlo ad un doloroso riesame

critico.

“Quanto a me posso desiderare in generale di essere diverso. Possono lamentare il mio modo

d’essere in generale e supplicare Dio per il mio totale mutamento e per il perdono della mia

naturale debolezza. Ma questo non devo chiamarlo pentimento, mi sembra, non più che il

dispiacere di non essere né angelo né Catone. Le mie azioni sono regolate e conformi a ciò che io

sono ed alla mia condizione. Io non posso far di meglio ed il pentimento non tocca propriamente le

cose che non sono in nostro potere, come non le tocca il rimpianto. Io immagino infinite nature più

nobili e più regolate della mia; non miglioro con ciò le mie facoltà, come né il mio braccio né il mio

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spirito diventano più vigorosi per il fatto di concepirne un altro che lo sia. Se immaginare e

desiderare un modo più nobile del nostro producesse il pentimento del nostro, dovremmo pentirci

delle nostre azioni più innocenti, in quanto giudichiamo che nella natura più eccellente esse

sarebbero state compiute con maggiore perfezione e dignità, e vorremmo fare lo stesso.”151

Con queste parole, in un saggio dedicato all’argomento, il Montagne ha chiarito ed illustrato

efficacemente questo aspetto del pentimento.

L’identificazione con il proprio passato e con la propria persona costituisce, quindi, la chiave di

volta del pentimento.

Senza una tale identificazione non potrebbe essere concepito il processo di cambiamento, in

quanto, ogni cambiamento presuppone un referente che deve essere mutato.

Anche per Kierkegaard, che considera il pentimento il dato culminante della vita etica, il pentirsi si

identifica con la scelta di sé stesso: ”Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sé stesso, non

dentro di sé; si pente metafisicamente, non eticamente. Pentirsi esteticamente è repellente perché è

una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile e fuori posto, poiché non è l’individuo che

ha creato il mondo e non occorre che egli prenda tanto a cuore la vanità del mondo stesso. La vera

scelta…è quando io penitente scelgo me stesso, mi concentro in tutta la mia concretezza finita, e

rimango nella continuità più assoluta con essa”.152

Ecco allora che il disegno di cambiamento ha come punto di arrivo una condotta di segno uguale e

contraria a quella tenuta precedentemente, ma può anche avere un più vasto respiro, cioè

riguardare un genere di vita nuova ed una rigenerazione complessiva dell’individuo; ma questa

prospettiva più generale per il futuro deve essere tale da ricomprendere il tipo di azione che sta

alla base del pentimento.

Ciò che, quindi, distingue il pentimento dal rimorso, è l’aspirazione al cambiamento che si proietta

nel futuro.

Il rimorso, infatti, contemporaneamente cocente dolore e bisogno di castigo, si appiattisce tutto sul

passato e non si apre al futuro, in quanto non implica un desiderio di emenda.

Ecco che, come tale, può tranquillamente essere presente anche in coloro che, pur avendo

consapevolezza di aver agito male, sarebbero pronti a ricominciare.

Così il soldato che ha torturato altri uomini per ottenere delle informazioni militari, colui che ha

lanciato la bomba atomica su Hiroschima possono provare dei rimorsi, ma, giustificati nella loro

azione dalle necessità della guerra, sarebbero pronti a ricominciare se posti nella stessa situazione.

151 Montagne M., da Saggi, Mondatori, Milano 1970. 152 Kierkegaard S., Aut-aut, M. A. Denti, Milano 1946.

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Quindi, il rimorso non ha un valore morale in se stesso, anche se può condurre al pentimento, che

ha questo valore.

Come scrive Janet, ”il pentimento è una tristezza dell’animo; il rimorso è una tortura ed

un’angoscia. Il pentimento è già quasi una virtù; il rimorso è un castigo”.153

Il pentimento, quindi, non può essere che spontaneo, in quanto esso è sempre il frutto di un interno

rivolgimento; naturalmente, il riconoscimento dell’errore compiuto e la decisione di non ricadere

nello stesso possono trarre occasione da eventi estranei nel frattempo intervenuti e da nuove

esperienze vissute dal penitente; ma non per questo la spontaneità del pentimento viene meno.

Tra il momento in cui è commessa l’azione oggetto di detestazione ed il momento in cui il soggetto

che si pente si propone di cambiare ci può essere immediatezza temporale, oppure può

intercorrere un lasso di tempo più o meno lungo. Può anche accadere che il pentimento intervenga

nel corso stesso della commissione dell’atto colpevole: in questo caso è del tutto naturale che il

soggetto desista dall’azione, e, se ne è in grado, provveda ad eliminare le conseguenze dannose già

prodotte.

Il pentimento, quindi, rientra nella categoria dei sentimenti, cioè di quegli stati affettivi complessi

derivanti dalla combinazione di elementi emotivi ed immaginari, orientati più alla stabilità ed

inclini alla persistenza nonostante l’assenza di stimoli.

I fattori che concorrono a suscitare un sentimento, determinandone poi il contenuto stesso, possono

essere di ordine intellettuale, morale, religioso o affettivo.

Il pentimento è un sentimento di natura morale o religiosa; i filosofi, nonostante la disparità dei

loro orientamenti di pensiero concordano su questa caratterizzazione; lo stesso Spinosa, il quale

sostiene che il pentimento, non nascendo dalla ragione, non è una virtù, e, conseguentemente, colui

che si pente è due volte misero o impotente, finisce con l’attribuire allo stesso una valenza etica, in

considerazione del fatto che chi si pente può, più facilmente degli altri, essere indotto a vivere

secondo ragione.154

Nella dottrina cristiana il pentimento sfocia inevitabilmente nel sentimento religioso.

Esso trova la sua fonte nel peccato, che è la trasgressione intenzionale di una norma imposta o

stabilita da Dio e, quindi, da non confondere con i concetti di colpa, delitto o errore, che, invece,

esprimono la violazione di una norma morale o giuridica. Il pentimento, inoltre, si collega al fine

ultimo che caratterizza la vita di ogni credente, la salvezza della propria anima. Per il

cristianesimo, quindi, esso è consapevolezza del peccato e itinerario di salvezza. Ciò che va

153 Janet P., Traitè de philosophie, Baillière, Parigi 1860. 154 Spinosa B., Ethica, Laterza, Bari 1933.

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comunque sottolineato e ribadito è che il rapportarsi del pentimento ad un fine escatologico non

snatura sostanzialmente la trama psicologica che esso presenta nella concezione laica. Il problema,

ora, è quello di stabilire a quali condizioni ed entro quali limiti ad un siffatto concetto venga

attribuita rilevanza giuridica. Gli istituti che devono essere presi in considerazione ed analizzati

principalmente sono la desistenza volontaria ed il recesso attivo, regolati dall’art 56 c.p., assieme al

tentativo. Il terzo comma del citato articolo dispone che se il colpevole desiste volontariamente

dall’azione soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé

un reato diverso (desistenza volontaria), mentre il quarto ed ultimo comma prescrive che se il

soggetto volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato,

diminuita da un terzo alla metà (recesso attivo).

Il recesso attivo viene designato anche come pentimento operoso, ma la locuzione può essere

fuorviante.

Le due ipotesi sono diverse dal punto di vista formale ma identiche sostanzialmente, in quanto si

rapportano ai due stadi che si presentano nel tentativo; la prima presuppone che l’azione esecutiva

criminosa non sia stata ancora portata a termine, la seconda, invece, presume che l’azione esecutiva

sia esaurita, ma l’evento non si sia ancora verificato.

Tanto la desistenza quanto il recesso per acquistare rilevanza giuridica, devono essere volontari; il

che sta a significare che l’interruzione dell’azione e l’impedimento dell’evento non possono farsi

risalire a cause esterne, ma devono scaturire da una libera decisione dell’agente, il quale si

determini autonomamente in base a motivi interiori, non direttamente ricollegabili a fattori

circostanti. I motivi, infatti, possono essere dei più vari: può trattarsi di un pentimento vero e

proprio o di un moto improvviso di paura o anche di un calcolo utilitario; non occorre neanche che

l’abbandono del progetto criminoso originario sia definitivo, il soggetto può momentaneamente

rinunciarvi, con il proponimento di riprenderlo in un futuro più o meno prossimo.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel definire in tali termini il requisito della volontarietà.

Eccezione è il Bettiol, il quale, convinto che sia la desistenza volontaria che il recesso attivo

presuppongano necessariamente il pentimento, intende e considera quest’ultimo concetto nel

preciso significato di ravvedimento morale del reo.155

Ecco allora che i motivi che inducono il colpevole a desistere dall’azione intrapresa o ad attivarsi

per impedire il verificarsi dell’evento sono giuridicamente irrilevanti. Al legislatore non interessa

conoscere quale è la spinta interna che rende operante la scelta del soggetto agente; ne consegue

155 Si veda in particolare Bettiol G., Diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova 1978.

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che il pentimento, non evidenziandosi giuridicamente, non può mai assurgere, al pari degli altri

motivi, a requisito essenziale della desistenza volontaria e del recesso attivo.

Il giudice, quindi, una volta accertato che la determinazione del colpevole sia stata volontaria, non

è tenuto ad indagare circa l’esistenza dei presupposti del pentimento, anche ammesso che questo

effettivamente abbia concorso a quella determinazione.

Con il recesso attivo non va poi confusa l’ipotesi, contemplata dall’art 61 n. 6, c.p., di chi, prima del

giudizio si adopera spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze

dannose o pericolose del reato, il quale è già stato consumato e l’opera attiva del colpevole è diretta

ad eliminare gli effetti dannosi o pericolosi che il reato ha prodotto.

Questa è la tipica situazione denominata ravvedimento post delictum, la quale opera, dal punto di

vista giuridico, come circostanza attenuante, ai fini della quale la legge, anche in questo caso, non

ritiene necessario un effettivo pentimento, inteso nella sua dimensione morale, ma vuole solamente

che l’intervento attivo del colpevole sia dettato da motivi interiori, sottratto quindi da ogni genere

di condizionamento esterno.

Anche rispetto all’attenuante prevista dall’art. 61 n. 6, quindi, il pentimento, benché possa anche

essere presente in certi casi nell’animo dell’agente, non acquista alcuna rilevanza giuridica.

Tale conclusione deve essere tratta anche in ordine a quelle ipotesi di ravvedimento post delictum

che il codice riferisce a singoli e specifici delitti (cospirazione politica - art. 308 c.p.; banda armata -

309 c.p.; falsificazione e spendita di monete - 463 c.p., ecc.)

L’unico istituto di diritto penale che valorizzi il pentimento nella sua portata morale e secondo le

sue caratteristiche psicologiche è costituito dalla liberazione condizionale, disciplinata dagli articoli

art. 176 e 177 c.p., nel testo modificato dalla legge 25 novembre 1962 n. 1634 e, per l’aspetto

processuale, dalla legge 12 febbraio 1975 n. 6.

Presupposti per la concessione del beneficio sono:

- che il condannato abbia scontato un determinato periodo di pena

- che il condannato abbia tenuto, durante il tempo di esecuzione della pena, un comportamento

tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento

- che siano state adempiute le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato

dimostri di trovarsi nell’impossibilità di farlo

Il testo originario dell’art. 176 richiedeva che il condannato avesse dato prove costanti di buona

condotta. La legge di modifica del 1962, invece ha apportato un cambiamento che non rileva solo

dal punto di vista formale, ma riguarda e va ad incidere sostanzialmente sull’istituto in sé, come

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risulta chiaramente dalle parole utilizzate nella relazione del Ministro di Grazia e Giustizia che

accompagna il progetto della legge:

“La ragione del beneficio non è solo il fatto che il condannato abbia dato prova di buona condotta,

giacchè, se così fosse, la liberazione condizionale finirebbe con l’essere considerata, in pratica, un

semplice premio diretto a secondare il buon andamento della vita penitenziaria. A tale scopo

sarebbe naturalmente sproporzionato il beneficio, il quale mira invece ad agevolare il

ravvedimento del condannato…”

Il ravvedimento, quindi, deve essere sicuro, ed il giudice, chiamato a decidere sulla domanda di

concessione del beneficio, deve valutare e considerare attentamente l’animo del condannato,

ripercorrendo l’itinerario morale che lo ha portato al pentimento, utilizzando più segnali ed indizi

possibili, al di là della limitata condotta penitenziaria, al fine di accertare il riconoscimento delle

proprie colpe e dei propri errori da parte del condannato, il quale abbia poi maturato in sé il

proponimento di ricadervi in futuro. Ecco quindi che, una volta analizzati tali istituti, non si può

non considerare il fatto che la loro applicazione non abbia mai dato grossi problemi se non che, a

partire dal 1979, in seguito all’introduzione della legislazione introdotta in Italia per disciplinare il

fenomeno della dissociazione delle organizzazioni terroristiche, confusione e disordine concettuale

sono sorti per l’impiego indiscriminato delle parole “pentimento” e “pentito” all’interno di tale

legislazione di favore che, dal canto suo, recepisce figure premiali tradizionali del codice penale,

quali le cause di non punibilità, circostanze attenuanti, libertà provvisoria, sospensione

condizionale della pena, ecc.

Il D. L. n. 625 del 1979, per esempio, prevede un’attenuazione della pena per il concorrente di

delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che si dissocia

dagli altri e si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori,

ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria (art. 4), ed istituisce poi una

causa di non punibilità con riguardo ai delitti tentati per il colpevole di reato commesso per le

finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, che volontariamente impedisce

l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per l’esatta ricostruzione del fatto e per

l’individuazione di altri concorrenti (art. 5).

All’interno di tutte le condotte tipizzate dal decreto, poi convertito nella legge 6 febbraio 1980 n. 15,

tre sono i possibili gradi di apporti collaborativi:

- una collaborazione di grado ridotto, il cui contributo informativo si concreti nella confessione dei

reati commessi personalmente dal dissociato

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- una collaborazione di grado rilevante, che presupponga una serie d’informazioni concernenti altri

reati, altri autori, altri gruppi

- una collaborazione di grado eccezionale, quando le informazioni abbraccino una grande massa

di reati, autori ed organizzazioni.

Un cenno va poi fatto alle modifiche che l’art. 8 dell’altra legge di favore la n. 304 del 1982 ha

apportato all’istituto della liberazione condizionale così come è regolato dal codice penale.

Tale articolo, infatti, pur tenendo fermo il presupposto essenziale del beneficio recepito nel codice

penale - il sicuro ravvedimento - opera una distinzione tra chi ha riportato la condanna prima

dell’entrata in vigore della legge e chi, invece, la riporta successivamente. In entrambi i casi la

legge, comunque, richiede sempre, la presenza di due componenti strettamente Intrecciate tra di

loro, un atto dissociativo ed un atto collaborativo, sebbene variamente atteggiati.

Tale normativa era destinata sia ad incanalare il fenomeno della dissociazione dalla lotta armata in

direzione del recupero del singolo sia ad essere utilizzata quale arma per la dissoluzione delle

strutture delle organizzazioni terroristiche rendendone più complicata l’opera di proselitismo.

Il suo ambizioso fine ha però finito per far perdere di vista un aspetto fondamentale del problema,

quello legato ai meccanismi psicologici che stanno alla base della scelta operata da coloro che

abbandonano la lotta armata. Per comprendere le ragioni che hanno spinto tanti militanti a

disertare le file del terrorismo, bisogna prendere in considerazione ed analizzare il movente che ha

determinato la loro adesione alla lotta armata. Il fenomeno del terrorismo ha un substrato

causativo molto articolato e, quindi, soltanto una teoria multifattoriale è in grado di fornire una

spiegazione adeguata che abbracci il fenomeno nella sua complessità. Il comportamento

terroristico, infatti, si rapporta a fattori sociali, economici, politici, culturali, ideologici, giuridici,

nonché psicologici individuali.

Tra tutte queste cause, l’aspetto psicologico è quello sul quale desidero puntare maggiormente

l’attenzione poiché il terrorismo, quale fenomeno sociale, ha delle particolarità che, appunto,

portano a considerare la personalità del soggetto in maniera più approfondita rispetto ad altri

fenomeni sociali per i quali la variabile psicologica passa in secondo piano.

Dal punto di vista psicologico, quindi, bisogna partire dalla constatazione che i terroristi non

presentano tare mentali.

E’sul terreno della normalità psichica che vanno ricercate le motivazioni che inducono i ragazzi ed

i giovani ad imboccare la via del terrore e delle morte.

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“Il terrorista normale è come un soldato fuori luogo e fuori tempo che, tuttavia, vive nella realtà

una guerra che esiste solo nella sua fantasia. Ciò si riflette negli scritti di alcuni terroristi e nel

costante atteggiamento che, se catturati, assumono, proclamandosi prigionieri di guerra”.156

Ecco allora che alla luce di queste parole espresse dal Bruno e dal Ferracuti, che puntualizzano

l’attenzione sul fatto di come il fanatismo ideologico e politico di tali soggetti li spinga a schierarsi

in una posizione di guerra contro lo Stato, si deve analizzare e cercare di comprendere il loro stato

di soldati.

Poiché mancano completamente le condizioni obiettive per iniziare e portare avanti una qualunque

guerra, la loro è soltanto una guerra fantasticata sebbene utilizzino strumenti della guerra vera e,

dal punto di vista psicologico siano pervenuti alla sospensione dell’istinto di sopravvivenza ed alla

razionalizzazione dell’uccisione dei propri simili.

L’uomo in guerra è portato ad uccidere ed è pronto ad essere ucciso, legittimato dalla necessità di

raggiungere a tutti i costi gli scopi che la guerra gli propone.

L’azione del terrorista, quindi, si ispira ai principi della guerra, ed è in questo campo, da questa

angolazione che va considerata la sua dissociazione dalla lotta armata.157

Essa, quindi, così analizzata ed in tale modo interpretata non può che essere vista come e vissuta

dal terrorista come una sconfitta, una resa al nemico, e la domanda secondo la quale possa esservi

pentimento in quella sua azione, inteso nella sua portata morale, non può che avere una risposta

prettamente negativa.

Colui che defeziona dai gruppi armati compie una scelta razionale che si basa sulla constatazione

del fallimento del progetto ideologico, politico, militare ed organizzativo nel quale si era

impegnato e sulla consapevolezza che esso non potrà più essere portato a compimento.

L’abbandono del terrorismo costituisce, quindi l’oggetto di una decisione basata su di un giudizio

politico, che comporta l’ammissione di un errore, non di una colpa.

Il ripudio dei crimini commessi è la conseguenza diretta del riconoscimento della sconfitta subita,

non l’effetto di un ravvedimento morale.

Di una sconfitta politica o militare se ne può prendere atto razionalmente, ma non eticamente ed è

perciò difficile poter pensare che nella coscienza del dissociato si sia concretizzato il pentimento

eticamente inteso.

156 Bruno F., Ferracuti F., Le manifestazioni dell’aggressività nella società italiana, L’indice penale, 1982, 3. 157 Per un maggior approfondimento sul tema si veda Ferracuti F., Bruno F., Psychiatric Aspects of Terrorism in Italy cap. 17 riportato da Barak-Glants I. L., Huff C. R., The Mad, the Bad, and the Different, Lexington Books, Lexington, Mass., 1981.

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Tale concretizzazione, infatti deve avvenire su due livelli, uno di identificazione con il

comportamento delittuoso tenuto precedentemente, l’altro di aspirazione al cambiamento inteso

come rinnovamento morale.

Nessuno dei due rientra nel comportamento del terrorista che si dissocia dalla lotta armata, poiché

il suo comportamento, da un lato è imposto da un disegno politico-militare di fondo poi rivelatosi

sbagliato, dall’altro l’unico cambiamento per lui possibile è l’abbandono del suo progetto per

sostituirlo con un altro diverso.

Il soldato in guerra, sconfitto, che si arrende, non usa pentirsi per aver provocato la morte ad altri

suoi simili, ma può provare soltanto rimorso per le atrocità nelle quali è rimasto coinvolto.

Ecco allora dimostrato come il legislatore abbia trasferito in maniera superficiale ed in modo

traslatizio un concetto come quello del pentimento in senso morale, disciplinato dall’art. 176 c.p., in

relazione alla liberazione condizione, unico istituto giuridico che dia rilevanza al concetto stesso di

pentimento all’interno dell’ordinamento penale, nell’art. 8 della legge 304 del 1982, che, però,

difficilmente, può trovare applicazione, a causa dei caratteri peculiari del terrorismo e di tutte le

implicazioni connesse al fenomeno della dissociazione.

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“Comprendere significa affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia.”

Arendt H.

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CAPITOLO VII

L’assassinio dell’Avvocato Patrick Finucane:L’assassinio dell’Avvocato Patrick Finucane:L’assassinio dell’Avvocato Patrick Finucane:L’assassinio dell’Avvocato Patrick Finucane:

Analisi di un caso ancora irriAnalisi di un caso ancora irriAnalisi di un caso ancora irriAnalisi di un caso ancora irrisolto a testimonianza della solto a testimonianza della solto a testimonianza della solto a testimonianza della

situazione della realtà irlandesesituazione della realtà irlandesesituazione della realtà irlandesesituazione della realtà irlandese “I malvagi mostrano maggior zelo nello spargere e diffondere la menzogna di quanto non ne prodighino i

buoni nell’appurare la verità.”

Robespierre C.

VII.I Racconto del delitto

Alle ore 19.25 di domenica 12 febbraio 1989 un uomo dal volto coperto si fece strada, sfondando la

porta, nell’abitazione dell’avvocato irlandese Patrick Finucane in Fortwilliam Drive, a Belfast.

La famiglia, composta da Patrick, sua moglie Geraldine, i tre figli Catherine, Michael e John,

quest’ultimo di soli 9 anni, erano seduti a tavola in cucina e stavano consumando la cena.

Sentendo il rumore di vetri infranti proveniente dal corridoio, Pat e Geraldine si lanciarono

immediatamente verso la porta a vetri che separava la cucina dal resto dell’abitazione e l’aprirono

di colpo.

Si trovarono davanti un uomo vestito di colori mimetici che avanzava pistola in pugno lungo il

corridoio.

Pat chiuse la porta a vetri sbarrandola con il proprio corpo nel momento stesso in cui il sicario

apriva il fuoco contro di lui. Attraverso i vetri i proiettili lo colpirono al torace e allo stomaco,

facendolo cadere supino sul pavimento della cucina. L’assassinio aprì la porta e finì la sua vittima

sparandogli 12 colpi di pistola a distanza ravvicinata alla testa ed al collo, mentre Geraldine a la

figlia Chaterine gridavano e il piccolo John guardava la scena in preda allo smarrimento.

L’auto usata per l’attentato fu trovata abbandonata nei pressi della lealista Shankill Road.

L’assassinio fu rivendicato dall’UDA, che era allora una organizzazione lealista legale, con il

consueto nome di battaglia Ulster Freedom Fighters (UFF). L’UDA sostenne che Finucane era stato

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ucciso perché era un membro dell’IRA”. L’accusa degli assassini lealisti fu respinta dai parenti e

dagli amici di Finucane e dalla stessa RUC, nelle dichiarazioni pubbliche seguite all’omicidio.

Pat Finucane aveva 39 anni quando fu assassinato.

La sua famiglia di origine, composta da padre, madre e da 8 bambini, non aveva una tradizione

repubblicana come molte famiglie di Belfast, ma era stata pesantemente toccata dai Troubles fin

dall’inizio.158

Nell’agosto del 1969 la violenza esplose a Derry e a Belfast e nel capoluogo delle sei contee

dell’Irlanda del Nord gli abitanti cattolici o nazionalisti residenti nella zona di confine furono

vittime di violenti programmi organizzati da estremisti unionisti tacitamente tollerati, se non

apertamente spalleggiati, dalla polizia e soprattutto dai famigerati “B-Special”.

Circa 1500 famiglie cattoliche in tutto il Nord furono cacciate dalle loro case nel corso di

quell’estate e una sorte analoga toccò a circa 300 famiglie protestanti cacciate dalle zone miste

abitate in prevalenza da cattolici, per rappresaglia e per fare spazio ai profughi cattolici in arrivo.

La sera del 14 agosto parte della famiglia Finucane si trovò, come tante altre famiglie cattoliche

residenti in strade “miste”, assediata nella propria abitazione, ad attendere terrorizzata che la folla

inferocita riversatasi nella strada di sotto sfondasse la loro porta di ingresso.

Ricorda il fratello di Patrick, Martin, che all’epoca aveva 10 anni:

“Gli uomini in strada cercarono di sfondare la porta di ingresso ma la barricata eretta da mio padre

resistette. Vista l’impossibilità di entrare da lì, iniziarono a rompere i vetri delle finestre, ma anche

quella via era stata bloccata con assi di legno. Mio padre correva su e giù per le scale per vedere

meglio cosa succedeva in strada dalle finestre del piano superiore. A quel punto mi resi conto che

fuori della casa c’erano dei”B’Special” che stavano semplicemente fermi sull’altro lato della strada

a guardare.”159

Per i Finucane il sogno di un avvenire di benessere era finito, scomparso insieme alla casa che finì

per ospitare per un certo periodo una sede dell’UDA, come Martin scoprì più tardi scorrendo una

pubblicazione di quell’organizzazione lealista. Essi tornarono al sicuro nella Belfast nazionalista,

nei quartieri che si raccolgono attorno a Falls Road, inizialmente ospitati da loro parenti, quindi

una casa con due stanze da letto conquistata con l’occupazione. John, che insieme a Patrick era

quello più grande dei figli, aveva però preso il lavoro alla fabbrica, dopo essere stato minacciato di

morte da colleghi lealisti, e lo stesso destino toccò a Patrick senior, il capofamiglia.

158 Per un più approfondito studio circa la vita di Pat Finucane e suoi aneddoti legati alla situazione politica del tempo si veda Toolis K., Rebel Hearts. Journey Within the IRA’s Soul, London, Picador, 1995. 159 Toolis K., Op. 98.

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Presto anche gli altri giovani si scontrarono con la pesante discriminazione riservata ai cattolici,

nella quale era facile incorrere, durante un colloquio di lavoro dichiarando semplicemente la strada

di provenienza o il nome della scuola frequentata.160

VII.II Racconto di una vita all’interno del conflitto

Pat Finucane e Geraldine si incontrarono nel 1968 mentre entrambi frequentavano il Trinity

College di Dublino. La scelta di questa prestigiosa università, ultima roccaforte della tradizione

protestante in Irlanda, era normale nel caso di Geraldine, proveniente da un’agiata famiglia

protestante del Nord.

Più inconsueta nel caso di Pat, cattolico, cresciuto in un quartiere popolare di Belfast. I due giovani

si sposarono nel 1970, e, dopo aver considerato la possibilità di emigrare negli Usa o a Londra, si

stabilirono a Belfast. Pat, che aveva studiato filosofia ed inglese all’università, si gettò nello studio

della giurisprudenza con impegno ed entusiasmo, tanto che nel 1979 aprì uno studio legale con

Peter Madden e, data la tradizione repubblicana associata alla sua famiglia, attirò ben presto casi di

persone accusate di crimini di natura politica.

Nonostante ciò, lo studio aveva anche clienti lealisti e non faceva alcun tipo di discriminazione.

Presto lo studio Madden and Finucane iniziò a riscuotere un certo successo nei casi di maltrattamenti

subiti da persone detenute dalle forze di sicurezza, ottenendo risarcimento per le vittime e

causando forte imbarazzo alle autorità.

Pat Finucane si battè con impegno contro l’assurdità dei tribunali senza giuria, istituiti in seguito

alle raccomandazioni del giudice Diplock nel 1973, che facilitavano le condanne nei confronti dei

160 La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi e dei lavori mirava a fare in modo che i nazionalisti non superassero mai il 35% del totale della popolazione e che, laddove erano in maggioranza, essi non potessero trovar lavoro e fossero costretti ad emigrare. Già nel 1933 Sir Basil Brooke, ministro dell’Agricoltura e futuro primo ministro a Stormont si espresse nei seguenti termini: “Vi è un gran numero di protestanti ed orangisti che danno impiego ai cattolici…Mi rendo conto della grande difficoltà avuta da alcuni a trovare un bravo operaio protestante, ma vorrei sottolineare il fatto che i cattolici stanno cercando di infiltrarsi ovunque. Faccio quindi appello a tutti i lealisti affinché, dovunque sia possibile, impieghino buoni ragazzi e ragazze protestanti.” Statistiche dell’aprile del 1969, riferentisi alla contea di Fermanagh, mostrano che, sebbene i cattolici fossero in maggioranza, 338 impiegati comunali erano protestanti e solo 32 cattolici. La popolazione non veniva privata della casa o del lavoro a causa della propria religione, ma solo per il fatto che molti cattolici erano nazionalisti. Tra il 1945 e il 1970, sempre nella contea di Fermanagh, vennero costruite 1529 case, di cui 1021 andarono a protestanti e solo 508 a cattolici. Gorge Elliott, membro unionista del consiglio comunale di Enniskillen, disse: “Noi non andremo a costruire case nel quartiere sud, per fare un bastione con cui un giorno picchiare noi stessi. Provvederemo affinché le persone giuste vengano alloggiate in queste case, e non andremo certo a scusarci per questo…” Ancora oggi il tasso di disoccupazione tra la popolazione dei ghetti nazionalisti dell’Irlanda del Nord è molto alto: in alcune zone di West Belfast supera l’80%. Secondo stime dello stesso governo inglese la disoccupazione tra i nazionalisti è più di due volte superiore a quella che si registra tra la popolazione unionista.

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detenuti sospettati di appartenere all’IRA o ad altre formazioni paramilitari. Nei primi anni ’80 egli

dimostrò il proprio impegno e la propria abilità professionale nel corso dei processi imperniati

sulle testimonianze dei cosiddetti Supergrasses.

A partire dalla fine del 1981 le autorità avevano iniziato a esercitare pressioni su alcuni sospetti

fermati ed interrogati, affinché facessero i nomi di altre persone implicate nell’attività armata

clandestina, offrendo in cambio l’immunità, una nuova identità in un paese di loro scelta, un

vitalizio e a volte persino corsi di dizione per nascondere l’accento inconfondibile del nord Irlanda.

Questi collaboratori vennero soprannominati Supergrasses, nome mutuato da una simile vicenda

verificatasi nel mondo del crimine inglese alcuni anni prima. Negli anni a seguire le autorità

usarono questo mezzo in modo disinvolto, condannando persone sospettate di reati di terrorismo

solamente sulla base della dichiarazioni dei Supergrasses senza l’ausilio di alcuna prova.

Nell’inverno 1983-’84 il sistema incominciò a perdere valore presso i giudici locali dopo che il Lord

Chief Justice (il presidente della Divisione del “Queen’s Bench” dell’alta Corte di Giustizia)

dell’Irlanda del Nord definì le prove presentate al processo di un sospettato “contradditorie,

bizzarre e per alcuni aspetti del tutto incredibili.”

Nel 1981 Pat Finucane aveva acquistato una certa notorietà personale per aver accettato di

rappresentare il morente Bobby Sands durante il suo sciopero della fame, comparendo spesso sugli

schermi televisivi, intervistato a proposito del suo cliente. Con i processi Supergrass la sua

notorietà crebbe, insieme all’ostilità dell’establishment nei suoi confronti. Nel suo resoconto del

cosiddetto ‘Caso Stalker’, il Vice Capo della polizia di Manchester John Stalker, inviato nel 1984

nelle ‘sei contee’ per indagare sulla condotta della RUC rispetto ad alcuni omicidi poco chiari,

ricorda un episodio accaduto nel tribunale di Belfast dopo una breve conversazione avuta con

Finucane a margine dell’udienza di un giovane coinvolto in uno dei casi al centro della sua

inchiesta. Alla fine della conversazione un sergente della RUC si avvicinò a Stalker e, dopo avergli

chiesto se sapeva con chi aveva parlato, gli disse:

“Quell’avvocato è uno dell’IRA; chiunque difende quelli dell’IRA è peggio di uno dell’IRA.

Anche suo fratello è nell’IRA e devo dirle che ritengo che un poliziotto del suo rango non

dovrebbe farsi vedere a parlare con gente come quella. I miei colleghi mi hanno chiesto di dirle

che lei ci ha causato un grande imbarazzo. Riferirò ai miei superiori quello che lei ha fatto e il

contenuto di questa conversazione.”161

161 Stalker J., Stalker. Ireland, ‘Shoot’ to kill and the ‘Affair’, London, Penguin Books, 1988, p. 49. Stalker osserva, inoltre, che l’episodio gli suggerì la facilità con cui, nell’Irlanda del Nord era evidentemente possible che una persona, osservata per esempio in una situazione simile, potesse essere classificata in un dossier della squadra speciale della RUC come ‘avente probabili simpatie repubblicane’.

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Stalker commenta l’avvenimento sottolineando la propria costernazione davanti all’espressione di

un tale odio da parte di un agente di polizia verso un avvocato, e la mancanza di qualsiasi

professionalità nel rapporto tra la RUC e i rappresentanti legali, osservata più volte nel corso della

propria inchiesta. In un dettagliato rapporto pubblicato all’inizio del 1994, Amnesty International

cita fonti interne agli ambienti lealisti, secondo le quali poco prima dell’assassinio di Finucane,

membri dell’UDA interrogati nella stazione di polizia di Castlereagh, a Belfast, furono ammoniti

da agenti della RUC a proposito dell’avvocato Finucane. Secondo le fonti, gli agenti dissero che

Finucane e alcuni altri avvocati “contribuivano a tenere i terroristi dell’IRA fuori dal carcere.”162

Furono numerose le denunce di pesanti minacce rivolte a Pat Finucane da agenti della RUC

attraverso gli stessi clienti dell’avvocato. Un anno prima dell’assassinio, Amnesty International

(AI) ascoltò la testimonianza di un uomo fermato ed interrogato nella stazione di polizia di

Catlereagh, secondo il quale gli agenti della RUC avevano rivolto minacce all’indirizzo di Finucane

nel corso dell’interrogatorio. Secondo il rapporto di AI, gli agenti dissero che, sebbene le mani di

Patrick Finucane non avevano toccato un’arma da fuoco,”erano sporche come quelle dei terroristi”

e meritavano lo stesso trattamento.

Le minacce, lanciate da agenti della RUC attraverso i clienti di Finucane o manifestatesi sotto forma

di telefonate anonime a casa dell’avvocato, continuarono per tutto l’anno e si intensificarono in

modo preoccupante nelle settimane precedenti l’omicidio. Brian Gillen, uno dei clienti di Finucane

che in seguito ricevette un risarcimento in denaro in seguito ai maltrattamenti subiti durante gli

interrogatori della RUC, dichiarò che, durante uno di questi, un ufficiale di polizia disse che

sarebbe stato “meglio che quello (Finucane) fosse morto anziché difendere gente come te”. Gillen

sostenne che gli agenti minacciarono di passare informazioni relative a lui stesso e al suo avvocato

ai gruppi paramilitari lealisti.

Il 5 gennaio 1989 un cliente di Pat Finucane dichiarò che un ufficiale della RUC “mi disse che il mio

avvocato lavorava per l’IRA e avrebbe fatto la fine che meritava…mi chiese di dare un messaggio a

Finucane da parte sua…mi disse di riferirgli che era un teppista in giacca e cravatta…e che anche

lui, come ogni altro bastardo ribelle, avrebbe fatto la fine che meritava”.163

Le menacce non avevano mai fermato Finucane, che ignorò sempre le esortazioni dei suoi fratelli

affinché lasciasse il quartiere benestante ma vulnerabile in cui viveva con la sua famiglia e si

trasferisse nella relativa sicurezza della Belfast nazionalista. Un episodio accaduto poco più di tre

162 Holland J., MacDonald H., INLA Deadly Divisions, London, Torc, 1994 pp. 158-161. 163 Report of the International Human Rights Working Party of the Law Society of England and Wales. (A 1995 report into the murder of Pat Finucane).

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settimane prima dell’attentato, tuttavia, lo scosse profondamente e preoccupò seriamente lui e tutta

la sua famiglia.

Il 17 gennaio, durante una discussione in sede di commissione alla Camera dei Comuni di Londra,

l’allora sottosegretario del Ministero degli Interni britannico Douglas Hogg affermò, sotto

immunità parlamentare, ”Devo prendere atto, con grande rammarico, che in Irlanda del Nord vi è

un certo numero di avvocati eccessivamente comprensivi nei confronti della causa dell’IRA.”

Il deputato del SDPL, Seamus Mallon, avvertì lo stesso Hogg che la sua affermazione avrebbe

messo in pericolo la vita di molti avvocati al Nord. Tre settimane più tardi il più famoso e stimato

di questi, Patrick Finucane, era morto, ucciso da quattordici proiettili.

La dinamica stessa dell’assassinio e la sua esecuzione hanno fatto dubitare a molti osservatori che

gli autori del delitto fossero semplicemente membri di una organizzazione paramilitare lealista,

che raramente hanno dimostrato perizia e freddezza nell’esecuzione dei loro attentati. Il 15 ottobre

1980, per esempio, un commando si introdusse nell’abitazione di Ronnie Bunting e della moglie

Suzanne, repubblicani protestanti, nel cuore della Belfast nazionalista.

Bunting era il capo di stato maggiore dell’Irish National Liberation Army (INLA), e in quel

momento un altro attivista dell’INLA, Noel Lyttle, si trovava in loro compagnia; i due uomini

furono assassinati dal commando. Il 16 gennaio 1981 l’attivista nazionalista ed ex deputata al

parlamento britannico Bernadette Devlin fu vittima insieme al marito Michael McAliskey di un

simile attentato, avvenuto davanti ai loro bambini. Gli attentatori entrarono nell’abitazione dei

McAliskey e colpirono la Devlin con 8 colpi di arma da fuoco e il marito con 4, senza tuttavia

riuscire ad ucciderli.

Bernadette Devlin ricorda come i sicari dell’attentato “lanciavano grida di guerra come cow-boys”.

In palese contrasto con l’attentato subito dai McAliskey soltanto tre mesi dopo, l’operazione in cui

furono uccisi Bunting e Lyttle aveva tutte le caratteristiche di un lavoro compiuto da professionisti,

come poi sottolineò Suzanne Bunting, ferita da tre pallottole nel corso dell’attentato che, da molti

osservatori, fu attribuito ai membri dell’esercito britannico addestrati per operazioni ad alto

rischio, come il SAS.

Importante è la testimonianza data da Geraldine Finucane, la quale descrisse l’assassinio del

marito come “molto freddo, tranquillo, metodico. Ebbi la forte impressione che quella non era la

prima volta che lo faceva”. Il Sovrintendente della RUC, Simpson, dichiarò che “l’assassinio era

inconsueto sia per la sua ferocia, sia per il fatto che tutti i 14 proiettili sparati andarono a segno”.

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194

Nel 1994, Amnesty International pubblicò un rapporto intitolato “Omicidi politici nell’Irlanda del

Nord”164, nel quale un capitolo è dedicato al caso Finucane e all’inchiesta Stevens, aperta pochi

mesi dopo l’omicidio dell’avvocato, in seguito ad un altro delitto che vide coinvolta la stessa

organizzazione lealista.

Nell’agosto del 1989, infatti, l’UDA uccise un giovane cattolico, Loughlin Maginn, e rivendicò

l’assassinio sostenendo che questi fosse un membro dell’IRA. Di fronte alle proteste dei parenti

dell’ucciso, che negarono recisamente l’accusa dei lealisti, questi resero pubblici documenti

riservati delle forze di sicurezza britanniche relative a Maginn, suscitando una forte reazione

pubblica, soprattutto da parte di coloro che sostenevano da tempo la tesi della collusione tra le

forze di sicurezza britanniche ed i gruppi armati, o, come spesso vengono chiamati, gli squadroni

della morte lealisti.

Il capo della RUC Hugh Annesley decise di aprire un’inchiesta la quale venne affidata ad un alto

funzionario di polizia inglese, John Stevens. Entro lo stesso anno due soldati del reggimento

dell’esercito britannico UDR vennero accusati dell’omicidio di Loughlin Maggio e tre anni dopo

condannati all’ergastolo. Uno dei due accusati confessò di aver tenuto la vittima sotto sorveglianza

durante il servizio, prima dell’omicidio, e di aver passato all’UDA dossier informativi dell’esercito

relativi a 14 persone sospettate di attività clandestina. Questi dossier contengono in genere

fotografie, nome, cognome e numeri di targa dei veicoli usati dalla persona indagata.

Nel maggio 1990 un sunto del rapporto Stevens venne pubblicato e circa 59 persone, 32 delle quali

appartenenti ad organizzazioni paramilitari lealiste, furono accusate di reati di varia natura, per lo

più legati all’uso illegale di documenti riservati. Tra gli imputati era Brian Nelson, membro di

spicco dell’UDA, nella quale deteneva dal 1987 il grado di “ufficiale” e un importante ruolo come

addetto alla raccolta delle informazioni. Nelson fu arrestato nel 1990 e processato nel gennaio 1992.

poco prima del processo la pubblica accusa lasciò cadere 15 capi di imputazione contro Nelson, fra

cui due per omicidio, aggiungendo che la decisione era stata presa “nell’interesse della giustizia”.

Nel corso del processo emerse che Nelson, entrato nell’UDA nel 1972, aveva collaborato con il

servizio segreto britannico la Military Intelligence 5 (MI5) dal 1983 al 1985 e ancora, dopo la sua

‘promozione’ all’interno dell’UDA, dal 1987 fino al suo arresto. La difesa chiamò a deporre come

unico testimone un alto ufficiale del servizio segreto britannico, definito Colonnello ‘J’. la cui

identità rimase segreta. Durante il processo emerse che durante la sua duplice militanza, Nelson

164 Amnesty International, United Kindom. Political Killings in Northern Ireland, Al Index: EUR 45\01\94, Londra, 1994.

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gestì lo scambio di informazioni relative a cittadini sospettati di appartenere all’IRA, tra l’ UDA ed

i suoi contatti nel servizio segreto britannico.

Nelson, inoltre, giocò un ruolo importante nel piano di consegna di un notevole quantitativo di

armi da fuoco ed esplosivi che i lealisti riuscirono ad acquistare dal Sud Africa nel 1987, e che

contribuì notevolmente ad aumentare la capacità di fuoco di alcuni gruppi paramilitari

filobritannici, in primo luogo l’UVF e l’UDA. Secondo quanto emerso nel corso del processo MI5

era a conoscenza del traffico di armi, ma non impedì la consegna per non smascherare l’agente

Brian Nelson, il quale ammise la propria colpevolezza davanti a 20 capi di imputazione, far cui

concorso in omicidio nel caso di cinque vittime citate con il loro nome in aula, più altre relative alla

“raccolta e al possesso di informazioni potenzialmente utili a terroristi”. Nelson fu condannato a

dieci anni di reclusione e scarcerato dopo averne scontati quattro, nel 1996. Dopo la sua condanna,

Brian Nelson riconobbe la sua partecipazione diretta nell’omicidio di Pat Finucane.

In un diario tenuto nei primi mesi della detenzione e citato nel corso del programma televisivo

“The Dirty War”, trasmesso dalla BBC l’8 giugno 1992, l’agente del MI5 scrisse di essere stato

interpellato dai suoi superiori nell’UDA a proposito dell’operazione che avrebbe portato

all’assassinio di Finucane poche settimane prima dell’omicidio e di avere informato MI5 della

richiesta.

Nelson scrive poi di aver consegnato all’UDA una fotografia dell’avvocato, pochi giorni prima

dell’assassinio. La RUC, tuttavia, negò di avere ricevuto informazioni dall’esercito riguardo al

piano per assassinare Finucane. Nonostante la gravità e l’importanza di tali affermazioni, Nelson

non è mai stato processato per l’omicidio di Pat Finucane e le sue dichiarazioni non sono mai state

esamine in un aula di tribunale.165

In seguito al servizio trasmesso dalla BBC, il capo della RUC chiese a John Stevens di investigare su

alcune questioni sollevate dal programma televisivo; questi consegnò il rapporto finale al DPP,

funzionario capo della pubblica accusa nel gennaio del 1995.

Ebbene, né il rapporto né le conclusioni di Stevens sono state mai rese pubbliche.

Il 17 febbraio il DPP emise un ordine a non procedere nel caso, nonostante Stevens avesse

affermato di conoscere “con assoluta certezza”l’identità degli assassini di Finucane.

Nel settembre 1996, il “Relatore Speciale sulle esecuzioni sommarie o arbitrarie

extragiudiziali”dell’ONU scrisse una lettera al governo britannico chiedendo spiegazioni

165 Per maggiori informazioni si veda “An Appalling Vista” Collusion: British Military Intelligence and Brian Nelson, A case for an Independent Public Inquiry submitted to British Government 21 December 1997 by Sinn Fein, in http://www.cain.ulst.ac.uk

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relativamente alla decisione del DPP ed informazioni sulle intenzioni di Londra rispetto al caso in

questione.

Dopo due mesi, il governo britannico rispose con una lettera al Relatore Speciale, nella quale

spiegò la decisione del DPP sostenendo che le prove legate al caso erano insufficienti per

raccomandare l’istituzione di un processo.

Sono ormai passati quattordici anni dall’assassinio dell’avvocato Finucane, le domande sono le

stesse di un tempo, ma nessuna di queste ha ancora ricevuto risposta. Nessuno è stato imputato

del suo assassinio, nonostante l’ammissione dell’agente britannico Brian Nelson che lui stesso

collaborò alla preparazione dell’attentato e la dichiarazione del funzionario di polizia inglese John

Stevens di conoscere i nomi dei colpevoli.

Il rapporto di Amnesty International si chiedeva come fosse possibile che, pur avendo un agente

efficace come Nelson ai vertici dell’UDA, quasi nessuno sforzo sia stato fatto per impedire l’attività

dell’organizzazione lealista, pochissimi dei suoi attivisti siano stati arrestati e, infine come la stessa

UDA sia potuta rimanere legale fino all’estate del 1992.

Il rapporto dl Relatore Speciale sull’Indipendenza dei Giudici e degli Avvocati, Param

Cumaraswamy, che fu pubblicato nel marzo 1998 a Ginevra, esprimeva pesanti riserve

sull’amministrazione della giustizia nel Nord dell’Irlanda e si concludeva con alcune precise

raccomandazioni alla RUC e al governo britannico.

Riporto alcuni passaggi circa la conclusione del capitolo dedicato al caso Finucane:

“Alcuni avvocati affermarono nel loro incontro con il Relatore Speciale che l’assassinio di Finucane

li convinse, in alcuni casi ad abbandonare del tutto la professione legale o a rivedere la loro

gestione di casi legati alla situazione politica.”

L’assassinio, pertanto, ebbe un effetto drammatico sul fondamentale diritto alla difesa. Molti

avvocati del Nord si procurarono armi da fuoco per provvedere alla propria difesa e dotarono le

loro case di sistemi di sicurezza.

Il Principio n. 17 del documento “Principi fondamentali riguardo al ruolo degli avvocati”prevede

che “In quei casi in cui la sicurezza di un avvocato sia minacciata per ragioni legate alla propria

attività professionale, è compito delle autorità provvedere alla sua protezione”. Se è vero, come lui

stesso afferma nel suo diario, che Brian Nelson informò il servizio segreto militare dell’intenzione

dell’UDA di assassinare Patrick Finucane, circostanza che appare sostanziata dalla testimonianza

del colonnello ‘J’ nel corso del processo Nelson, il Governo Britannico è venuto meno al suo dovere

di difendere Patrick Finucane. Tale omissione, inoltre, costituirebbe una violazione dell’art. 6 della

Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici.

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Le questioni che circondano l’omicidio di Patrick Finucane testimoniano della necessità di

un’inchiesta giudiziaria indipendente sulle circostanze in cui esso è avvenuto. Fino a quando le

circostanze dell’omicidio non saranno state chiarite, una gran parte dei cittadini dell’Irlanda del

Nord non potrà mai abbandonare la propria sfiducia nella capacità del Governo di gestire le

condizioni per una giusta ed equa amministrazione della giustizia.”

Ignorando del tutto le altre raccomandazioni contenute nel rapporto, il governo britannico

laburista di Tony Blair rispose alla richiesta della Commissione relativamente al caso Finucane,

sostenendo che in “assenza di nuove prove” non c’era “giustificazione per una nuova inchiesta.”

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“L’uomo che dipinge la propria vita la vede nell’insieme, all’ingrosso; i particolari, per lui, non hanno più

importanza; ciò che è vicino si allontana, ciò che è lontano si avvicina, i riguardi svaniscono.

L’uomo si dispone da sé alla confessione con atto spontaneo e in questa occasione lo spirito di menzogna

non fa presa così facilmente in lui, perché in ciascuno c’è un’inclinazione innata alla verità, contro la quale

bisogna lottare ogni volta che si è tentati di mentire, e che nel caso presente si fa sentire con forza

incredibile.”

Schopenhauer A.

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“L’Irlanda del Nord ha avuto una storia tormentata per secoli, il cui risultato è stato che l’intolleranza, non

la tolleranza, è diventata parte integrante del modello di vita. Poiché l’intolleranza si è accompagnata ad un

enorme spreco e ad un’enorme sofferenza, penso che possiamo imparare da questa esperienza una lezione

sul valore della tolleranza, di cui non ci accorgiamo quando esaminiamo circostanze in cui la tolleranza è

data per scontata.

Intolleranza vuol dire che la politica è dominata dalla paura dell’altra parte. Vuol dire che i leader non sono

incoraggiati a prendere iniziative che rimarginino le ferite, ma sono invece costantemente tentati di far leva

sui pregiudizi tribali e sulla paura.

Per la gente comune (anche coloro che non erano le vittime di aperta discriminazione), l’intolleranza e la

paura hanno fatto sì che venissero di fatto loro negati quei benefici politici che derivano dalla pratica

democratica di avere un’opposizione reale ed un governo responsabile di fronte agli elettori.

Vediamo che, in ultima istanza, l’intolleranza terroristica chiama in causa sia la sopravvivenza dello stato,

sia la sicurezza fisica dei suoi sudditi.

Quando osserviamo quanto l’intolleranza avveleni gli affari politici, possiamo capire meglio perché la

tolleranza sia essenziale per una pratica politica sana. E quando assistiamo agli esempi scioccanti di

insensibilità spietata dei quali ho parlato, verifichiamo che l’intolleranza porta ad una scala di valori

completamente distorta.

Anche se la gente che la pensa così non prova veramente dell’odio, permette tuttavia che l’intolleranza le

impedisca di vedere i fatti chiaramente.

Messo in altri termini, comprendiamo quanto sia importante la tolleranza (l’essere capaci di vedere le cose

dal punto di vista dell’altro) per avere una visione realistica della vita.

Nel parlare del dramma dell’Irlanda del Nord non era mio intento, non era mio obiettivo condannare né la

maggioranza unionista né la minoranza nazionalista per le posizioni che hanno assunto in difesa delle loro

diverse identità e dei loro diritti legittimi.

Il problema pressante che devono affrontare è che devono vivere e lavorare insieme,

e ribadisco che la soluzione a questo problema non può essere trovata da nessun’ altra parte se non nella

stessa Irlanda del Nord.

La soluzione va trovata dai leader eletti da quelle comunità.

Se rinunciano a tentare, se rimangono prigionieri delle loro tribù o non riescono a vedere la correttezza e

l’equità nelle rivendicazioni dell’altra comunità, la situazione può persino peggiorare.

Potremmo essere testimoni del ripetersi di fatti già accaduti in altri paesi; le persone di buona volontà

devono cercare di impedire a tutti i costi che questo possa accadere ed è per questo che dobbiamo cercare di

promuovere la tolleranza nell’Irlanda del Nord.”

Fitt G.

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“Esiste la possibilità di guidare lo sviluppo psichico dell’uomo in modo tale da difenderlo dalla psicosi

dell’odio e della violenza?”

Einstein A.

“Vorrei indugiare ancora un attimo sulla pulsione distruttiva…ci siamo persuasi che essa è all’opera in ogni

essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stadio di materia

inanimata…Una sua parte rimane attiva all’interno dell’essere vivente…Di tutti i caratteri psicologici della

civiltà, due sembrano i più importanti:

il Rafforzamento dell’intelletto…e l’interiorizzazione dell’aggressività…

Quanto dovremmo aspettare…?”

Freud S.

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