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Capitolo V

Date post: 19-Jan-2016
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Capitolo V del libro "Questioni Fondamentali della parte speciale di diritto penale" di Fiorella
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CAPITOLO V I REATI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA P.A. R. Rampioni Sezione I Caratteri generali 1. La sistemazione codicistica dei delitti contro la P.A. e la riforma legislativa del 1990 Il titolo II del codice disciplina i delitti contro la P.A. e si articola in 3 capi: - nel terzo capo (artt. 375 - 360 c.p.) vengono descritte le “disposizioni comuni”; - nel primo e secondo capo differenziandoli a seconda della provenienza dell’offesa, si individuano i “delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.” (artt. 314 - 335 c.p.) ed i “delitti dei privati contro la P.A.” (artt. 336 - 356 c.p.). L’impianto codicistico attuale ripropone la denominazione già adottata dal codice previgente, rispetto al quale tuttavia anticipa la collocazione della materia dal terzo al secondo capo e ancora oggi presenta un assetto complessivo immutato rispetto alla formulazione originaria, almeno rispetto agli aspetti strutturali.La materia è stata oggetto di due importanti interventi: uno nel 1990, l’altro nel 2012. 2. La riforma legislativa del 1990 La materia è stata oggetto di modifica con la l. 86/1990 MODIFICHE IN TEMA DI DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA P.A. per allineare la materia al mutato quadro politico-costituzionale e al differente assetto amministrativo-organizzativo dello Stato, si è inteso potenziare la risposta punitiva in ordine ai delitti del funzionario pubblico e di evitare prassi giurisprudenziali eccessivamente rigoriste attraverso una descrizione più determinata del tipo legale. Si è poi proceduto all’abrogazione (vedi ad esempio l’art. 324 c.p. INTERESSE PRIVATO IN ATTI DI UFFICIO), alla riformulazione o all’introduzione, ex novo di non poche norme incriminatrici (vedi art. 319-ter c.p. CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI; art. 323 c.p. ABUSO D’UFFICIO; art. 326 c.p. RIVELAZIONE DI SEGRETI DI UFFICIO, con la previsione della figura della “utilizzazione”). Si è poi inteso
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CAPITOLO VI REATI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA P.A.

R. Rampioni

Sezione ICaratteri generali

1. La sistemazione codicistica dei delitti contro la P.A. e la riforma legislativa del 1990Il titolo II del codice disciplina i delitti contro la P.A. e si articola in 3 capi:

- nel terzo capo (artt. 375 - 360 c.p.) vengono descritte le “disposizioni comuni”; - nel primo e secondo capo differenziandoli a seconda della provenienza dell’offesa, si

individuano i “delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.” (artt. 314 - 335 c.p.) ed i “delitti dei privati contro la P.A.” (artt. 336 - 356 c.p.).

L’impianto codicistico attuale ripropone la denominazione già adottata dal codice previgente, rispetto al quale tuttavia anticipa la collocazione della materia dal terzo al secondo capo e ancora oggi presenta un assetto complessivo immutato rispetto alla formulazione originaria, almeno rispetto agli aspetti strutturali.La materia è stata oggetto di due importanti interventi: uno nel 1990, l’altro nel 2012.

2. La riforma legislativa del 1990La materia è stata oggetto di modifica con la l. 86/1990 MODIFICHE IN TEMA DI DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA P.A. per allineare la materia al mutato quadro politico-costituzionale e al differente assetto amministrativo-organizzativo dello Stato, si è inteso potenziare la risposta punitiva in ordine ai delitti del funzionario pubblico e di evitare prassi giurisprudenziali eccessivamente rigoriste attraverso una descrizione più determinata del tipo legale.Si è poi proceduto all’abrogazione (vedi ad esempio l’art. 324 c.p. INTERESSE PRIVATO IN ATTI DI UFFICIO), alla riformulazione o all’introduzione, ex novo di non poche norme incriminatrici (vedi art. 319-ter c.p. CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI; art. 323 c.p. ABUSO D’UFFICIO; art. 326 c.p. RIVELAZIONE DI SEGRETI DI UFFICIO, con la previsione della figura della “utilizzazione”). Si è poi inteso ridisegnare le nozioni delle qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio o dei soggetti destinatari.Sul piano del trattamento sanzionatorio con la riforma del ’90 si è fatto corrispondere a un generale inasprimento delle pene detentive, la soppressione di quella pecuniaria. Si è introdotta un’attenuante speciale indefinita (art. 322-bis c.p. PECULATO, CONCUSSIONE, CORRUZIONE E ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE DI MEMBRI DEGLI ORGANI DELLE COMUNITÀ EUROPEE E DI FUNZIONARI DELLE COMUNITÀ EUROPEE E DI STATI ESTERI) che mira ad attenuare il regime sanzionatorio di alcune tassative ipotesi di reato contro la P.A. (artt. 314, 316, 316 bis, 317, 318, 319, 320, 322, 322 bis e 323 c.p.) quando il fatto si “riveli” di “particolare tenuità”.La riforma del ’90 conserva l’originario assetto del titolo II (autoritario), rinnovando la scelta di concentrare i delitti contro la P.A. in un autonomo settore per la peculiarità dei compiti assegnati al pubblico funzionario il cui ruolo di ricollega alla manifestazione della sovranità statuale.Mutato il rapporto cittadino-Stato con l’avvento della Carta costituzionale, la riforma ha inteso contrastare il rigorismo giurisprudenziale fondato su un illiberale oggettività giuridica (il prestigio della P.A.); tuttavia gli interventi modificativi non sono valsi ad impedire interpretazioni che sanzionano l’infedeltà del pubblico funzionario piuttosto che la lesione o messa in pericolo di beni giuridici materiali e personali.

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3. La riforma legislativa del 2012La riforma del 2012, accompagnata dal clamore mediatico allarmante, presenta tre rationes. Innanzitutto ovviare alla presenza, nell'impianto normativo risultante dalla riforma del ’90, di vere proprie “lacune” di tutela sia alla luce delle indicazioni provenienti dall'esperienza giurisprudenziale, sia in ragione delle mutazioni subite dal fenomeno corruttivo. A ciò si è associata l’esigenza di riconfigurare alcune fattispecie incriminatrici per semplificare l’accertamento giudiziale.In secondo luogo si è fatto riferimento alla necessità di adempiere gli obblighi contratti in sede internazionale, adeguando il quadro normativo alle “raccomandazioni” provenienti dagli strumenti di soft law.Da ultimo è stata rimarcata l’esigenza di operare un rafforzamento della stigmatizzazione penale in materia e un inasprimento della forbice sanzionatoria.Per soddisfare tali esigenze gli interventi si sono concentrati sulla struttura dei delitti di concussione e corruzione, fattispecie incriminatrici sostanzialmente non toccate dalla riforma del ’90; è stato introdotto, imposizioni limitrofa alla reato di millantato credito, il delitto di TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE art. 346-bis c.p. e si è ampliata l’area dell’incriminazione dell’articolo 2635 c.c. rubricato ex novo CORRUZIONE FRA PRIVATI. Le principali novità sono individuabili, da un lato nella scissione del binomio costrizione - induzione, schema tipico proprio dell’originario reato di concussione, con assunzione da parte della condotta di induzione di autonoma rilevanza penale nel quadro della fattispecie di INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITÀ, art. 319-quater c.p.; dall’altro nella fissazione del baricentro della tipicità dei diritti di corruzione non più nella compravendita dell’atto, ma nella mercificazione della funzione, sostituendo l’originaria forma di corruzione “per atto d’ufficio” con quella di corruzione “per l’esercizio della funzione”.Anche sul piano della risposta sanzionatoria, le cornici digitali risultano generalmente innalzate anche in quelle fattispecie rimaste immodificate sotto il profilo strutturale: notevole importanza riveste l’estensione delle pene accessorie.L’inasprimento delle cornici edittali, se sul piano processuale comporta l’applicabilità delle misure cautelari personali al delitto di abuso d’ufficio, sul piano sostanziale determina l’importante effetto di prolungare il termine finale della prescrizione. Alcune fattispecie, nella loro formulazione recepiscono “pezzi di diritto giurisprudenziale”, così legittimandolo; altre, nuove nei contenuti, riguardano i soggetti attivi “privati”. I mutamenti del quadro precettivo vanno tutti intensi nel senso, ambiguamente espresso, di un ampliamento dell'area della responsabilità. Si assiste così ad un generale inasprimento dei livelli sanzionatori, nel tentativo improprio, di arginare fenomeni prescrittivi. L’unica reale modifica di sistema sta nello spostamento del confine tra corruzione e concussione; sospinti dalle pressioni provenienti dalle istituzioni internazionali si è dato vita ad un proliferare di fattispecie incriminatrici che aumenta la difficoltà di qualificazione giuridica del fatto e pone gravi problemi di concorso di norme.

4. La nozione penalistica di “P.A.” Proprio al fine di offrire un contenuto reale a quei beni di rango costituzionale (imparzialità e buon andamento dell'amministrazione pubblica - art. 97 Cost.) al riconoscimento della cui tutela era mirata la prima riforma, occorre operare un chiarimento circa il significato e la portata dell’espressione che individua la nozione di “pubblica amministrazione”.Quando si fa riferimento alla nozione di “pubblica amministrazione”, generalmente, non si va al di là del vago enunciato che la pubblica amministrazione ha subito profonde trasformazioni, limitandosi costatare come gli interventi hanno fatto sì che l’assetto amministrativo dello Stato repubblicano sia

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“non solo radicalmente diverso da quello proprio dell’ordinamento precedente ma altresì in continua evoluzione”. Tuttavia, i mutamenti intervenuti nell’apparato statuale sono ben più sostanziali.Da tempo, lo Stato non circoscrive l’area del suo intervento, ma diviene esso stesso fornitore di prestazione ai cittadini: “quasi ogni attività umana trova una corrispondenza in una qualche pubblica amministrazione”. L’amministrazione per gli innumerevoli compiti assunti perde così quella fisionomia unitaria che in origine la caratterizzava, al punto che oggi si parla di “pubbliche amministrazioni”.Si delineano così “modelli diversificati di organizzazione” con la logica conseguenza che ciò comporta il pericolo che l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice si ampli dismisura, per il fatto che un numero sempre maggiore di individui viene fatto nell’orbita pubblicistica.Inoltre, l’intervento dello Stato in settori rispetto ai quali in precedenza era rimasto estraneo, è sempre più spesso operato a scapito delle forme pubblicistiche, differenziandosi l’amministrazione d’imperio da quella di gestione.Avendo la P.A. subito numerose trasformazioni ed essendo in continua evoluzione, è impossibile delineare una nozione “ampia” di essa.La “riduzione” dell’intera attività statuale in un’unica nozione appare preclusa inoltre dall’introduzione a livello costituzionale di nuove funzioni ( in particolare quelle del Capo dello Stato e della Corte costituzionale) così come si rivela in contraddizione con il principio del decentramento amministrativo e legislativo.Di conseguenza alla configurazione di una pluralità di amministrazioni corrisponde una diversificazione della tutela penale:sotto tale aspetto la riforma del ’90 risultava inadeguata. Con la riforma operata dalla l. 6 novembre 2012 n. 190, non si è proceduto a enunciare una definizione precisa della P.A ma ci si è concentrati piuttosto sulle nuove norme incriminatrici e sull’ampliamento delle cornici edittali nell’ottica di potenziare l’efficacia dissuasiva delle norme incriminatrici.

5. Il mutamento del rapporto cittadino-Stato nel nuovo ordinamento costituzionale. Funzioni pubbliche e rispettivi interessi meritevoli di tutelaI mutamenti costituzionali privano di fondamento logico-giuridico oltre che storico-culturale, una concezione autoritaria, anche in materia penale, dei rapporti tra apparato statale e cittadini.L’originaria concezione autoritaria ha spostato il fulcro del reato dall’offesa al bene tutelato alla generica violazione di un dovere: le norme in esame hanno finito per svolgere una mera funzione sanzionatoria di quei precetti, contenuti in norme di diritto pubblico, che stabiliscono appunto i doveri dell’ufficio o del servizio.Si è fatto così richiamo ai valori-fine, imparzialità e buon andamento indicati dalla Costituzione (art. 97 Cost.) per rifondare sotto il profilo dell’oggettività giuridica la materia e delimitare l’area dell’illecito penale. Imparzialità (divieto di far preferenze) e buon andamento (criterio di efficienza) sono caratteri propri ed esclusivi dell’azione amministrativa.Anche se fossero concentrate nello stesso organo le tre funzioni base (normativa, giurisdizionale e amministrativa), non verrebbero a perdere le loro caratteristiche differenziali inerenti allo specifico contenuto di ciascuna. Alla diversità di attività non può che corrispondere una diversità di “valori” da tutelare.La funzione legislativa tende ad appagare l’esigenza razionale della giustizia e mira a rendere certo l’ordinamento; il valore-fine posto a fondamento di essa è il “principio di uguaglianza” che incide sul legislatore e che, se rispettato, consente di raggiungere la “legalità sostanziale”, la “certezza” del diritto e la caratterizzazione della norma in termini di astrattezza e generalità.Il bene tutelato nell’espletamento della funzione giudiziaria è l’indipendenza del giudice (art. 104 Cost.). L’esigenza è quella di sottrarre i giudici ad ogni influenza capace di turbare la retta formazione

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delle loro pronunce; da ciò la previsione di uno specifico istituto di autogoverno del corpo giudiziario per assicurare il rispetto dello status giuridico di magistrato.Il legislatore della riforma del 1990 fa riferimento tout court ai canoni di imparzialità e buon andamento ma non tiene conto che tali interessi per essere propri dell’attività amministrativa non possono informare le diverse attività degli altri numerosi settori di intervento statuale.L’estensione della sfera di tutela dei beni detti anche alle altre funzioni statuali presuppone il loro svuotamento di ogni reale contenuto sostanziale. Da qui il rischio di negare la natura frammentaria del diritto penale che impone di determinare con nettezza la linea di demarcazione tra sfera della punibilità e sfera della non punibilità.In conformità con la funzione originaria liberale del bene giuridico si deve mirare a una nozione “materiale” del concetto di bene che non venga identificata con la ratio legis ma presenti un significato sociale autonomo, anteriore alla norma penale, così da poter fungere da misura del contenuto e da elemento delimitatore di essa.Il bene giuridico porta un autonomo contributo all’individuazione della reale fisionomia del modello legale e alla determinazione della sfera di operatività dell’incriminazione. L’offesa fa parte della fattispecie e si inquadra nella tipicità in modo tale che se la lesione o la messa in pericolo dell’interesse non si è verificata, è proprio il fatto tipico a non essersi realizzato.Dunque il reato è un “fatto tipico offensivo” in quanto il momento dell’offesa è interno, coessenziale alla legalità.Solo una formula vuota quale quella dell’art. 97 Cost. priva di reale contenuto è suscettiva di accomunare tutte le funzioni statuali sul piano del disvalore dell’offesa. Partiti dall’idea di sostituire l’interesse al prestigio della P.A. , beni di rilevanza costituzionale, con la riforma si è tornati a ravvisare il contenuto offensivo del fatto “nella violazione anche del solo dovere di correttezza” da parte del pubblico funzionario.L’accertamento giudiziale si incentra nella constatazione della violazione o meno di meri doveri d’ufficio quali la fedeltà, l’onestà, la correttezza che assurgono ad oggetto di tutela; sfuma l’interesse del buon andamento e quello dell’imparzialità diviene un mero dovere.E’ infondato qualunque indirizzo che intenda eludere la portata precettiva dell’art. 97 Cost.L’imparzialità può essere individuata nella “obbiettività”: l’amministrazione obbiettiva è quella che persegue scopi prestabiliti mediante strumenti obbiettivi. Imparzialità quale “divieto di preferenze”, consiste nel realizzare gli scopi prefissati attraverso un’azione non deviata da pressioni o influenze esterne che possono determinare discriminazioni arbitrarie fra i soggetti destinatari.Viene ad incidere sull’amministrazione l’obbligo di procedere all’esame comparativo degli interessi in gioco sulla scorta di criteri oggettivi.La nozione di buon andamento invece richiama concetti tecnici quali la “buona amministrazione” e l’efficienza. Il principio di efficienza si risolve nel principio di elasticità e puntualità dell’azione amministrativa. La norma costituzionale dà pieno riconoscimento giuridico al principio di “aderenza” e “adeguatezza” allo scopo: discrezionalità e potere di auto-organizzazione sono le due forme di manifestazione del principio di elasticità. Il buon andamento ricomprende anche la “validità” e quindi la legittimità dell’azione amministrativa.Dunque offenderanno l’interesse al buon andamento le condotte che ostacolino l’efficienza dell’azione amministrativa e dunque la capacità di perseguire i fini prestabiliti dalla legge e le condotte che costituiscono esercizio abusivo dei poteri e delle qualità connesse alla funzione, o integrino forme appropriative dei beni dell’amministrazione.Sarà lesa l’imparzialità quando la pubblica funzione non venga esercitata obiettivamente, impersonalmente in modo da distribuire equamente tra i cittadini le utilità e i sacrifici derivanti dall’azione amministrativa.

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6. I limiti del potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo e l’accertamento del fatto-reatoFra gli elementi costituitivi di vari delitti contro la P.A. figura un “atto” della P.A. che può anche non essere un atto amministrativo in senso stretto ma anche ad es. giudiziario.Il legislatore del ’90 non ha preso posizione in tema di sindacato del giudice penale sull’atto della P.A.Di poco antecedente alla riforma è il “nuovo” codice di procedura penale che agli artt. 2 e 479 sembrerebbe risolvere ogni problematica riconoscendo al giudice penale al pari di quello amministrativo, la possibilità di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo per incompetenza, violazione di legge e eccesso di potere, non per il merito.E’ sufficiente scindere l’efficacia dalla validità dell’atto ed il giudice penale, senza intervenire sulla seconda, ben potrà riconoscere che l’atto è privo di effetti, disapplicandolo.Simile impostazione è di natura processuale.Nel processo penale non rilevano le problematiche relative alla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi , all’incidenza sulle relazioni intersoggettive, ai rapporti tra cognizione principale e incidentale, presupposto della disapplicazione, ma è la stessa formula della norma incriminatrice ad individuare la necessità o meno di un’indagine del giudice sull’atto amministrativo; il problema del sindacato del giudice penale sugli atti della P.A. si risolve attraverso l’analisi delle singole ipotesi di reato.Per una soddisfacente trattazione del tema si deve far riferimento non ai poteri del giudice, ma alla rilevanza penale del dato oggetto di valutazione.Il giudice penale ha esclusivamente il potere-dovere di accertare la responsabilità di un soggetto in relazione a un fatto di reato; e l’esercizio da parte del giudice del potere si sindacato non è finalizzato alla disapplicazione dell’atto, ma si sviluppa nella sfera della sua ordinaria attività di accertamento, limitandosi egli a verificare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato (in particolare la legittimità o meno dell’azione amministrativa).Nella struttura della fattispecie penale il provvedimento amministrativo viene in considerazione:

- quando la sua sussistenza o la sua mancanza costituisce un presupposto del reato (art. 650 c.p. INOSSERVANZA DEI PROVVEDIMENTI DELL’AUTORITÀ);

- altre volte l’atto amministrativo concorre a costituire fattispecie esimenti connotate in termini di legittimità (l’ordine dell’autorità) o in termini di illegittimità (l’atto arbitrario del pubblico ufficiale e la reazione ad esso);

- in altre ipotesi il compimento o l’omissione di un determinato atto amministrativo integra la stessa condotta costitutiva del reato, sia che in tale attività od inattività si esaurisca la condotta tipica, sia che debba essere qualificata da ulteriori note caratterizzanti quali l’abusività, l’arbitrarietà ecc…Il problema della determinazione del contenuto della fattispecie ha trovato soluzione in una disciplina processuale relativa ai poteri del giudice: “la valutazione dell’illegittimità dell’atto non costituisce una vicenda di disapplicazione ma è imposta dalla struttura della norma incriminatrice, che eleva a elemento costitutivo... l’illegittimità medesima”.Se il provvedimento non è legittimo, l’insussistenza del reato non discende dalla disapplicazione dell’atto amministrativo, ma in quanto non può dirsi realizzato il fatto costitutivo tipico.Non è mai l’atto a costituire oggetto della valutazione giudiziale, ma la condotta umana consistente nell’aver posto in essere o omesso quel determinato atto.In questa prospettiva il sindacato del giudice non è incidentale, costituendo l’oggetto diretto e immediato dell’accertamento giudiziale al pari di ogni elemento di fattispecie; non solo ricomprende la potestà di verificare l’esistenza dei vizi di legittimità ma anche di quelli di merito.Anche con riferimento agli atti discrezionali è possibile il controllo della legalità formale e sostanziale in quanto questi atti possono

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integrare il substrato oggettivo essenziale della condotta criminosa. Anche quando la discrezionalità concerne l’an, la stessa possibilità cioè di agire o meno, è configurabile un’omissione rilevante. L'ampiezza di poteri di accertamento del giudice penale discende anche in tal caso dalla particolare struttura della fattispecie, dalla necessità di verificare la realizzazione della condotta antidoverosa.

7. Le qualifiche soggettive: le nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio (artt. 357 e 358 c.p.) La classe dei delitti in esame è costituita da reati propri.La soggettività di tali delitti viene configurata dal Codice Rocco in tre figure fondamentali:

- pubblico ufficiale, - incaricato di pubblico servizio ed - esercente di un servizio di pubblica necessità

Gli artt. 357, 358, 359 c.p. enunciano le rispettive definizioni e configurano delitti denominati “funzionali” in quanto commessi nell’esercizio della funzione, del pubblico servizio e così via.La qualifica soggettiva non precede il fatto ma viene riconosciuta al soggetto in ragione dell’attività che egli in concreto sta realizzando; non discende cioè dalla qualità formale dell’agente, ma dal reale esercizio della funzione o del servizio.La riforma del ’90 ha risposto all’esigenza sentita sul piano logico-sistematico di descrivere con chiarezza le qualifiche soggettive.L’originaria formulazione riconosceva la qualità di incaricato di pubblico servizio a chi impersonasse la pubblica funzione, lasciando all’interprete il compito di riempire la definizione sul piano dei contenuti.Si assisteva a un’interpretazione-applicazione del dato normativo molto incerta riguardo ad alcune attività socio - economiche di particolare rilievo, come l’attività economica della P.A.E’ stato così utilizzato dalla riforma un criterio oggettivo che potesse fungere da parametro di delimitazione esterna tra le attività ascrivibili all’area del pubblico e a quella del privato e al contempo da parametro di delimitazione interna tra i contenuti specifici della nozione di pubblico ufficiale e quelli della nozione di incaricato di pubblico servizio. Va segnalato l’ampio e vivace dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, sulla nozione di pubblica funzione e, di conseguenza, sulla nozione di pubblico ufficiale.

7.1. La nozione di pubblico ufficiale Art. 357 c.p. NOZIONE DI PUBBLICO UFFICIALE: “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della P.A. o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.L’art. 357 c.p. si articola in due parti:

a) la prima parte intende definire le aree riconducibili alla nozione di “attività pubblica”. Il I° comma, nella formulazione risalente alla riforma del ’90 e alla modifica del 1992, attribuisce “agli effetti della legge penale” la qualifica di p.u. a coloro i quali “esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria, amministrativa”. E’ quindi venuto meno il rapporto di dipendenza dell’agente dallo Stato o da un altro ente pubblico. Infatti, si è inteso impostare le qualifiche su base funzionale- oggettiva: la pubblica attività dovrà essere sottoposta a verifica, vuoi se assunta direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico, vuoi se delegata a un soggetto privato e occorrerà fare esclusivo riferimento alla disciplina pubblicistica o privata cui è sottoposta l’attività.

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b) La seconda parte fissa i criteri esclusivi della pubblica funzione. Per quanto non correttamente formulata (la funzione pubblica, infatti, non può essere disciplinata da atti ma al più estrinsecarsi in essi) la disposizione ha comunque il pregio di precisare che la pubblica funzione non può prescindere “da un’imposizione coattiva e dal conseguimento di un obiettivo di natura non privatistica”. Il II° comma presenta una portata più innovativa offrendo i dati contenutistici della formula normativa da utilizzare sia nell’ottica della delimitazione esterna, sia in quella della distribuzione interna all’area pubblicistica. Il legislatore ha descritto la sola funzione amministrativa, ritenendo le altre due sufficientemente tipizzate. Il criterio della qualificazione della funzione va individuato nella “disciplina” cui è assoggettata una determinata attività. In tal senso si potrà operare una delimitazione in positivo dell’attività amministrativa con riferimento ad alcune categorie di atti che si manifestano attraverso schemi tipici tassativi e in cui l’azione amministrativa assume carattere autoritativo e certificativo (es. licenza, autorizzazioni ecc..); ed una delimitazione in negativo quando l’attività sia improntata nel forme di un contratto tipico o allo schema del procedimento di formazione di un negozio giuridico privato. Nei casi residui, si farà ricorso a strumenti interpretativi che consentono di distinguere la normativa pubblicistica da quella privatistica. Il ricorso al criterio di disciplina si esplicita attraverso il riferimento all’assoggettamento dell’attività a “norme di diritto pubblico” e ad “atti autoritativi”: ai fini della qualificazione dell’attività come pubblica funzione dovrà cioè coesistere questo duplice requisito. All’interno della sfera delle attività già riconosciute quali “pubbliche” si pone poi la distinzione tra pubblica funzione e pubblico servizio. La titolarità di poteri certificativi, autoritativi ed espressivi della volontà della P.A., individua i connotati della funzione pubblica, meritevole di maggiore tutela rispetto all’altra. L’ultimo elemento indica che il contributo del pubblico ufficiale dovrà consistere nell’apporto di un autonomo elemento di volontà nell’iter procedimentale che conduce all’adozione dell’atto. L’intervento modificativo del 1992 sostituendo l’elemento verbale “e” con la disgiuntiva “o” ha chiarito che i criteri sono alternativi, così che il ricorrere di uno solo di essi è condizione necessaria e sufficiente per il riconoscimento della qualifica di p.u.

7.2. La nozione di incaricato di pubblico servizioArt. 358 c.p. NOZIONE DI INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO: “Agli effetti della legge penale sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.L’originaria nozione di incaricato di pubblico servizio presentava carenze acuite dal moltiplicarsi dei modelli organizzativi della P.A., non uniformi.Il legislatore della riforma ha offerto criteri definitori più pregnanti. Eliminando il riferimento al rapporto di dipendenza da un ente pubblico, si è inteso privilegiare la prospettiva oggettivo - funzionale: è incaricato di pubblico servizio chi presta un pubblico servizio.Il carattere pubblicistico si sposta dalla natura dell’ente a quella del servizio.

- al I comma si sancisce la nota caratterizzante della funzione; - al II comma si statuisce da un lato che anche questa figura individua il proprio criterio

di delimitazione esterna nel criterio di disciplina e dall’altro che, ai fini della delimitazione interna si mantiene la tradizionale impostazione in negativo fissando nella “mancanza di poteri tipici” della

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pubblica funzione, il limite superiore e nella “esclusione dello svolgimento di semplici mansioni (...) il limite inferiore. Nel richiamare i “poteri tipici” si fa riferimento al criterio dei “poteri certificativi ed autoritativi”. Rientrano tra i primi quelli che concernono tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale ne sia il grado, e tra i secondi non sono soltanto quelli coercitivi, ma anche tutte le attività che sono comunque esplicazione di un potere discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su di un piano non paritetico rispetto all’Autorità. Il criterio della formazione della volontà della P.A. non essendo delineato in termini di potere, può essere considerato come appartenente a entrambe le nozioni.Tuttavia, così ragionando si finirebbe per negare concreta operatività alla qualifica soggettiva dell’incaricato di pubblico servizio. Tale qualifica costituita dal rapporto di concessione, vede un soggetto che svolge la propria attività concessoria, formando e manifestando la propria volontà in una posizione di autonomia rispetto alla P.A. alla cui organizzazione resta estraneo; ove agisca in nome e per conto della P.A., la sua attività sarà riconducibile all’area della pubblica funzione. In altri termini il concessionario, una volta instauratosi il regime concessorio, opera nell’ambito di una disciplina pubblicistica ma agisce iure proprio mediante atti e strumenti che non rifluiscono nella sfera soggettiva della P.A. in quanto direttamente ascrivibili al concessionario stesso. Dunque se si volesse ascrivere tra i requisiti comuni al servizio pubblico il criterio riferito alla volontà si finirebbe per ristringere la figura del pubblico servizio.In conclusione per pubblico servizio deve intendersi ogni fine assunto dallo Stato come proprio, seppur il perseguimento di esso sia affidato a privati nell’ambito di un rapporto concessorio; “assunzione” riconoscibile dalla disciplina giuridica cui viene sottoposta l’attività diretta a soddisfarlo, attività residuale rispetto alle ipotesi in cui l’agente non svolga compiti direttivi o almeno di concetto.Art. 359 c.p. PERSONE ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITÀ Agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità:1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione.L’articolo in parola rappresenta il limite inferiore dell’esercizio di un pubblico servizio e le ipotesi in esso previste (l’esercizio privato di professioni forensi, sanitarie o altre il cui esercizio richieda un’abilitazione e il pubblico sia obbligato per legge a valersi dell’opera del soggetto abilitato) non suscettive di integrare il pubblico servizio.

7.3. L’esercizio di fatto delle pubbliche funzioniLa matrice oggettivistica della pubblica funzione trova conferma nella figura del funzionario di fatto: l’esercizio effettivo della funzione e del servizio fa assumere la corrispondente qualifica a chi eserciti il potere relativo alla funzione o al servizio, benché sprovvisto di un valido titolo.Dovrà sussistere una manifestazione di volontà, espressa o tacita della P.A. che sia competente a svolgere l’attività il cui compimento affida a persona priva di legittimo titolo. Ove difetti tale requisito, l’agente non eserciterà alcuna funzione e non assumerà alcuna qualifica e integrerà l’ipotesi di usurpazione di pubbliche funzioni.La migliore dottrina e la prevalente giurisprudenza sono concordi nel ritenere che deve considerarsi pubblico ufficiale anche il c.d. funzionario di fatto, ossia il soggetto che, senza essere un organo della

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P.A., esercita una pubblica funzione essenziale o indifferibile, in presenza della convinzione pubblica della validità ed efficacia degli atti posti in essere.L’ammissibilità del funzionario di fatto nel nostro ordinamento si giustifica in applicazione del principio di indefettibilità e di continuità dell’azione amministrativa, poiché egli fa sì che quest’ultima sia continua nel tempo e nello spazio anche in casi eccezionali di necessità ed urgenza. Si pensi al completo isolamento di una parte del territorio nazionale, ad esempio per un terremoto, con la conseguente assunzione di poteri pubblici da parte di un individuo o di un gruppo di individui. È necessario, tuttavia, che non vi sia usurpazione o comunque autorizzazione contra legem della funzione.

7.4. L’ultrattività delle qualifiche soggettive (art. 360 c.p.)Art. 360 c.p. CESSAZIONE DELLA QUALIFICA DI PUBBLICO UFFICIALE: “Quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato”.Un soggetto può aver perso la qualifica pubblica che in precedenza ha rivestito e può “sfruttare” tale pregressa attività per commettere un fatto che, se posto in essere quando la possedeva, avrebbe costituito reato.Non essendo la qualifica soggettiva coeva alla condotta, quest’ultima sarebbe atipica e dunque non punibile. Le qualifiche quali elementi costitutivi della fattispecie rilevano se e in quanto sussistenti nel momento in cui viene realizzata la condotta.Simile regola trova un’eccezione nella disposizione in esame che afferma che la cessazione della qualifica non fa venir meno la rilevanza penale del fatto nel caso in esso “si riferisca all’ufficio o al servizio esercitato”.Si privilegia il rapporto funzionale reato/qualifica soggettiva. L’art. 360 tuttavia non sarà applicabile in tutte le ipotesi in cui la fattispecie incriminatrice descrive una condotta costitutiva del reato che presuppone la compresenza di poteri-doveri. Si tratta di una norma che estende l’efficacia delle norme in esame al caso in cui il fatto sia commesso quando il soggetto abbia perso la sua qualità, al fine di evitare i danni che potrebbero derivare dalla commissione delle fattispecie punite pur dopo la cessazione delle qualità di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio o esercente un servizio di pubblica necessità. Così risponderà di rivelazione di segreti d’ufficio colui il quale, dopo aver cessato di essere pubblico ufficiale, riveli un segreto da lui appreso quando rivestiva tale qualifica

7.5. Cessazione della qualifica soggettiva per il mutamento della normativa extra-penaleIl progressivo processo di privatizzazione degli enti pubblici economici ha acuito il problema del rilievo del fenomeno delle modifiche mediate; in esse l’innovazione legislativa non incide direttamente sulla disposizione incriminatrice principale, ma su un enunciato normativo secondario che tuttavia, contribuisce a definire la portata effettiva della fattispecie.Si è ritenuto ad esempio che la trasformazione di un’azienda municipalizzata in società per azioni non è suscettiva di modificare la fattispecie tipica; si ritiene che il fenomeno della privatizzazione delle strutture economiche statali non determina una modificazione della norma applicabile, in quanto il mutamento concerne solo l’aspetto formale della veste giuridica di tali soggetti, il modello organizzativo dell’ente, lasciando inalterata la disciplina delle attività che ora risulterebbero affidate in concessione. Al di là delle attività di rilevanza pubblicistica che conservino la regolamentazione tipica del servizio in concessione, tutte le altre attività di carattere “imprenditoriale” svolte dall’ente privatizzato non possono presentare come operatore un pubblico agente.

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Sezione III delitti di peculato

Presentazione dell’argomentoSe l’ipotesi di peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.) ha conservato la struttura voluta dal legislatore del 1930 e l’elemento modificativo è consistito nell’eliminazione della previsione congiunta della pena pecuniaria, diversamente la fisionomia del delitto di peculato è stata del tutto ridisegnata.E’ stata espunta dalla previsione normativa la condotta “distrattiva” che in alternativa alla condotta “appropriativa” individuava il fatto tipico; la nuova fattispecie ha inglobato il delitto di malversazione (art. 315 c.p. MALVERSAZIONE A DANNO DI PRIVATI abrogato) venendo a punire anche le condotte di appropriazione di beni appartenenti a privati; infine si è introdotta la figura del peculato d’uso sancendo livelli sanzionatori molto contenuti rispetto alla figura principale del peculato. Con la l. 97/2001 e con la l. 190/2012 la disciplina del reato ha subito alcune modifiche

1. Il peculato (art. 314, comma 1 c.p.)Art. 314 comma I c.p. PECULATO: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da 3 a 10 anni”.

1.1. I soggetti e l’oggetto di tutelaIl peculato è un delitto proprio. E’ richiesto che il possesso o la disponibilità del bene, oggetto di appropriazione, scaturisca da “ragioni di ufficio o di servizio”: dunque si postula che l’agente pubblico, in relazione al bene, sia titolare di poteri e doveri nel momento in cui realizza la condotta tipica.Di conseguenza è inapplicabile l’art. 360 c.p.- CESSAZIONE DELLA QUALITÀ DI PUBBLICO UFFICIALE). A seguito della riforma del ’90 oltre alla amministrazione pubblica, si ritiene soggetto passivo del reato anche il privato.Le modifiche precedentemente descritte della riforma hanno accentuato la tutela del momento “patrimoniale” del fatto, valorizzando la tesi che sostiene il carattere plurioffensivo del bene.Il contenuto sostanziale dell’offesa è costituita da condotte di appropriazione incompatibili con la funzione o col servizio e dunque dal mancato rispetto della destinazione impressa a quei beni di cui il soggetto pubblico abbia il possesso per ragione d’ufficio o di servizio.Dunque in realtà l’art. 314 individua il proprio disvalore essenziale nell’abuso delle facoltà giuridiche connesse alla qualifica pubblica rivestita circa la destinazione di risorse di cui si dispone per ragioni di ufficio o di servizio e dunque l’oggetto di tutela va ravvisato nel buon andamento dell’azione amministrativa.Il buon andamento qui si sostanza nell’esigenza di un corretto ed efficiente funzionamento dell’amministrazione con riferimento alla piena disponibilità ed effettiva destinazione dei beni ai fini istituzionali; ricomprende il rispetto, il corretto esercizio da parte del pubblico agente di funzioni e competenze anche riguardo all’uso appropriativo dei beni di cui dispone e presenta una connotazione patrimoniale in considerazione della valutazione economica dei beni.Sarà tutelato anche il bene dell’imparzialità nelle ipotesi in cui il pubblico agente sfrutti la sua particolare posizione rispetto al bene per avvantaggiare illecitamente altro privato.

1.2. L’oggetto materiale del reato e il presupposto della condottaOggetto materiale del reato è “il denaro o la cosa mobile”. Tale nozione non ricomprende cose immateriali (i diritti sulle cose) o le “energie umane”, in quanto non suscettibili di appropriazione.Solo le cose mobili di valore economico nullo possono ritenersi penalmente irrilevanti. L’appropriazione di

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una cosa mobile non suscettibile di valutazione economica (di pregio morale o affettivo), che invece l’art. 314 sembra imporre, potrà eventualmente integrare l’ipotesi di appropriazione indebita che si limita a contrapporre la cosa mobile al denaro.La cosa mobile o il denaro devono essere altrui.Il generico riferimento alla altruità discende dalla unificazione dei delitti di peculato e di malversazione a danno di privati che ha imposto il superamento della distinzione tra beni appartenenti alla P.A. e beni nella titolarità dei privati.Il termine va inteso in un’accezione ampia: comprende sia il diritto di proprietà, sia un diverso diritto, reale o di godimento, sul bene.Presupposto della condotta è la situazione di possesso o comunque di disponibilità dell’oggetto materiale da parte del pubblico agente, inerente all’ufficio o servizio.Ciò che rivela è il rapporto con la cosa e il relativo potere di disposizione: in capo all’agente dovrà sussistere riguardo al bene, una situazione di potere-dovere funzionale.

1.3. La condotta di appropriazioneIn passato, prima della riforma del ’90, si assisteva a un’interpretazione “allargata” dell’art. 314 che muoveva dall’individuazione di un generico oggetto di tutela (dovere di fedeltà connesso alla corretta cura e gestione dei beni mobili appartenenti alla P.A.) e dalla descrizione dei concetti di “distrazione” e “profitto” in termini vaghi e onnicomprensivi: dare al denaro e alle cose mobili una destinazione difforme rispetto a quella fissata, deviare tali beni dallo scopo che l’amministrazione intende raggiungere.Il legislatore, per assicurare una maggiore precisione e tassatività alla formula normativa ha eliminato tale forma realizzativa del reato.Ora da un lato va stabilito quali siano i fatti distrattivi che ricadono nell’art. 323 c.p. e dall’altro vanno definita l’appropriazione tipica visto che l’eliminazione comporta un’espansione del concetto di appropriazione.Le due condotte nell’originaria formulazione tendevano ad uniformarsi sul piano contenutistico, dovendo entrambe presentare una portata offensiva omogenea in considerazione della identità di risposta punitiva. Appropriazione sta per interversio possessionis: il soggetto compie sui beni atti di disposizione incompatibili con il titolo della situazione possessoria e che manifestano una signoria sui medesimi beni che non gli compete ma che egli si riconosce.Dunque vi sono due diversi momenti:

a) uno negativo (comune alla distrazione): l’espropriazione consistente nella negazione del diritto altrui;

b)uno positivo: l’impropriazione, consistente nell’affermazione del proprio dominio sulla cosa. Essenziale affinché si realizzi l’interversio è la compresenza di un coefficiente di volontà che consente di differenziare la mancata restituzione dal rifiuto di restituzione, condotta pienamente tipica.Dunque l’appropriazione a profitto è tipica e la deviazione delle risorse verso finalità non coerenti con il possesso per ragione dell’ufficio o del servizio integra l’ipotesi di cui all’art. 323 c.p. ABUSO D’UFFICIO (Cass. pen. 2010 “(...) non ricorre la figura del peculato sussistendo quella dell’abuso di ufficio quando si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio che si concretizzi semplicemente in un indebito uso del bene che non comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto”).Costituisce inoltre appropriazione a profitto altrui l’atto di disposizione che si riveli del tutto privo di collegamento con la finalizzazione pubblicistica del potere possessorio (es. pubblico agente che emette un mandato di pagamento, in difetto di alcuna causale , a favore di un familiare).

1.4. Il dolo. Consumazione e tentativo.Il dolo è generico, consistente nella coscienza e nella volontà dell’appropriazione. L’appropriazione per essere rilevante richiede l’intenzione di far propria la cosa. Necessiterà anche la consapevolezza

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che del bene si abbia il possesso o la disponibilità per ragione d’ufficio o del servizio che su di esso insiste un diritto altrui (della P.A. o del privato).L’errore sul fatto esclude il dolo (es. scambio di beni) così come l’errore sulla legge extra penale quando l’ignoranza o l’erronea interpretazione della fonte amministrativa faccia venir meno la consapevolezza della ragione d’ufficio o di servizio del possesso o la consapevolezza della realizzazione di una condotta appropriativa.Il delitto di peculato è un reato istantaneo che si consuma nel momento in cui si realizza l’interversio possessionis; il tentativo sarà ammissibile e potrà concretizzarsi nella mancata impropriazione del bene.

1.5. Circostanze; rapporti con altre figure criminose; pena accessoriaOve si ritenga che la tutela sia estesa anche al patrimonio risulteranno applicabili le aggravanti ed attenuanti di cui agli artt. 61, n.7 (avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità) e 62 n.4 e n.6 c.p.(avere nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità) (avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56 c.p., adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato). L’attenuante speciale di cui all’art. 323-bis c.p. opererà nelle ipotesi in cui il fatto risulti di “particolare tenuità”.Secondo la giurisprudenza quando il possesso sia conseguito dall’agente in modo fraudolento, risulterà integrato il delitto di truffa non già quella di peculato che ricorrerà nei casi in cui l’agente, dopo l’appropriazione, faccia ricorso alla frode per celare il comportamento illecito.La differenza tra i reati di peculato e di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n.9 c.p. va individuato nel fatto che nel primo il possesso del denaro è un antecedente della condotta appropriativa mentre nel secondo la condotta fraudolenta, attuata mediante raggiri o artifizi è finalizzata a consentire all’agente di entrare in possesso del denaro per poi appropriarsene.L’art. 317-bis per il peculato dispone l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, a seconda dei casi, perpetua o temporanea.

2. Il peculato d’uso (art. 314 comma 2 c.p.)Art. 314, comma 2. c.p. PECULATO D’USO: “Si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.Introducendo questa figura il legislatore della riforma mira a due scopi:

1) eliminare ogni incertezza circa la punibilità dell’utilizzo momentaneo di beni posseduti per ragioni di ufficio o di servizio;

2) fissare livelli sanzionatori in linea con il minor disvalore del fatto. Si è inteso realizzare ciò, predisponendo una norma che ricalca l’art. 626, n.1 c.p. (FURTO D’USO), senza tener conto della diversità strutturale tra l’uso e la condotta base di quest’ultima fattispecie incriminatrice (sottrazione-uso/restituzione).Nel peculato, l’uso costituisce una particolare forma di manifestazione del comportamento criminoso non riconducibile né alla distrazione (la destinazione originaria non viene meno) né all’appropriazione (l’uso momentaneo esclude la volontà di appropriazione).

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Si evidenzia che il peculato d’uso è una figura autonoma e distinta e non una circostanza attenuante rispetto al delitto di peculato.Se oggetto dell’uso momentaneo possono essere le cose di specie (l’automobile), le cose di genere e quantità e il denaro, potranno rientrare nell’ambito di applicazione della norma solo se questa viene separata dal peculato comune.L’uso deve essere momentaneo e la restituzione immediata.Per quanto riguarda il dolo, se si rivelano comuni all’art. 314 c.p. i contenuti del momento conoscitivo (qualifica soggettiva, possesso, altrui titolarità) il momento volitivo presenta una differenza qualitativa: non l’appropriazione ma l’uso momentaneo e la restituzione immediata costituiscono l’oggetto della volizione.Dunque il dolo è intenzionale e non specifico.Il tentativo ipotizzabile nel fatto dell’agente che cerchi di fare un uso momentaneo della cosa, per poi restituirla prontamente si rivela di difficile configurabilità per il difetto di una preventiva condotta distrattiva e appropriativa.

3. Il peculato mediante profitto dell’altrui errore (art. 316 c.p.)Art. 316 c.p. PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni”.Previsto dal codice Zanardelli nella sola forma della ricezione (e non anche della ritenzione) quale ipotesi attenuata di concussione, è transitato nel codice Rocco tra le forme appropriative, anche se qui il soggetto pubblico non pone in essere una condotta induttiva e manca una previa situazione di possesso per ragioni di ufficio o di servizio ed il soggetto passivo versi autonomamente in errore.L’agente realizza un “abuso” dei poteri e delle qualità connesse all’esercizio della funzione o del servizio, così ledendo i beni dell’imparzialità e del buon andamento della P.A.; solo in via mediata risulterà offesa l’altrui sfera patrimoniale.L’oggetto materiale del reato è costituito dal denaro o altra utilità.Non è necessario che la ricezione/ritenzione trovino la propria causa nell’esercizio della funzione o del servizio, piuttosto è l’errore in cui versa il soggetto passivo a determinare il comportamento tipico. L’agente pubblico si giova di un preesistente errore, la sua condotta è agevolata dall’errore altrui, errore che può vertere sull’esistenza del dovuto, come sull’entità del dovuto ma anche sul reale creditore. Ciò spiega il minor disvalore del fatto; nel peculato comune il pubblico agente ha il possesso del bene per ragione dell’ufficio o del servizio.Ricezione e ritenzione implicano la negazione del diritto altrui sul bene e sono finalizzate a un vantaggio personale del pubblico agente o di un terzo, mirano alla privatizzazione del bene così che il terzo non potrà più essere la P.A. (altrimenti art. 323 c.p.). Ricezione sta per accettazione del bene che viene trasferito; non è sufficiente ad integrare la condotta tipica. La ritenzione può anche consistere nella semplice omessa restituzione del denaro o dell’utilità.Il soggetto attivo deve ricevere/ritenere indebitamente, avverbio che vale solo a marcare la differenza tra la previsione delittuosa in esame e il peculato comune. Tuttavia evidenzia che l’erronea credenza di ricevere/ritenere il dovuto determina l’operatività dell’art. 47, comma 3, c.p.(ERRORE DI FATTO) Il dolo consiste nella rappresentazione dell’errore in cui altri versa, unita alla volontà di appropriarsi del denaro o dell’utilità per sé o per un terzo.

Sezione IIILe frodi nelle erogazioni pubbliche e comunitarie

Presentazione dell’argomento

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Solo nel 1986 in Italia viene soddisfatta l’esigenza di una disciplina specifica contro gli abusi in materia di erogazioni pubbliche e comunitarie; anche se l’art. 2 della l. 898/1986 si pone una tutela delle sole frodi commesse per ottenere erogazioni a carico del Fondo europeo agricolo.Con la l. 55/1990 si introduce la figura della TRUFFA AGGRAVATA PER IL CONSEGUIMENTO DI EROGAZIONI PUBBLICHE (art. 640-bis) e con la l. 142/1992 si chiarisce che il rapporto tra la fattispecie dell’art. 2 della l. del 1986 e l’art. 640-bis c.p. è un rapporto di sussidiarietà e dunque la prima previsione appronta una tutela anticipata rispetto al conseguimento indebito di contribuzioni ottenuto con artifizi e raggiri.Sempre nello stesso periodo la legge di riforma dei delitti contro la P.A. introduce la figura della MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO (art. 316-bis c.p.).Con la l. 300/2000 è stato inserito l’art. 316-ter c.p. che sanziona le forme meno gravi di frode in materia di “conseguimento di erogazioni” a beneficio dell’agricoltura.Oggi le frodi nell’utilizzazione delle erogazioni sono punite dall’art. 316-bis c.p.; le frodi nell’ottenimento sono punite o dall’art. 640-bis o dall’art. 316-ter c.p.. Dubbi sussistono circa l’inserimento nella classe dei delitti dei p.u. contro la P.A. di ipotesi criminose che abbiano soggetto agente un privato.La giurisprudenza ritiene in ogni caso che gli artt. 316-bis e 316-ter siano posti a tutela dell’interesse dello Stato o di un ente pubblico ovvero dell’U.E. per la corretta gestione e utilizzazione delle risorse pubbliche destinate a fini di incentivazione economica, sicché persona offesa è sempre e solo il soggetto pubblico. Inoltre il termine “malversazione” è inopportuno in quanto sta per comportamento illecito posto in essere dal pubblico agente che si appropria della cosa mobile appartenete ai privati.

1. Malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.)Art. 316 bis c.p. MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO: “Chiunque, estraneo alla P.A., avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalla Comunità europea contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni”.Il legislatore ha inteso tutelare l’interesse dello Stato, di altre P.A. e, dal 1992, della Comunità europea alla destinazione effettiva degli strumenti di sostegno finanziario erogati, alla realizzazione delle attività economiche di pubblico interesse.Il soggetto agente “distrae” le risorse pubbliche a lui affidate (da qui il nome di “malversazione”, anche se tuttavia dovrebbe essere collocato tra i delitti contro l’economia pubblica.Presupposto della condotta ed elemento costitutivo del reato è “l’ottenimento di contributi, sovvenzioni o finanziamenti”, termini che indicano l’ausilio economico di qualunque tipo destinato alla realizzazione di attività di pubblico interesse.E’ necessario che esista un vincolo di destinazione, che l’attività sia da intraprendere o non sia stata portata a compimento.La condotta costitutiva del reato consiste nella semplice “non destinazione” dei fondi ottenuti agli scopi programmati.La “non destinazione” potrà consistere sia nella “distrazione” verso finalità diverse , sia nella semplice “non utilizzazione delle risorse” ma anche nel mancato adempimento entro il termine prefissato ove il termine presenti carattere essenziale.Il delitto è un delitto omissivo istantaneo che si consuma con la “non destinazione” dei fondi. Il tentativo non è configurabile; quando l’agente, infatti, prima della scadenza del termine, abbia volontariamente reso impossibile l’adempimento, la fattispecie tipica risulterà integrata.Il dolo è generico e consiste nella volontaria distrazione della erogazione dalle finalità di interesse pubblico a scopi incompatibili col soddisfacimento di esse.L’art. 316-bis e il 640-bis

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c.p. approntano una tutela complementare in materia di finanziamenti pubblici: quest’ultima copre l’area degli illeciti ottenimenti di erogazioni pubbliche, la prima sanziona l’abusiva utilizzazione di tali risorse.Tuttavia non possono concorrere. L’art. 316-bis presuppone il regolare ottenimento delle risorse; ove la frode sia finalizzata al conseguimento dei fondi, implicando la ricezione del finanziamento un’utilizzazione dei fondi non in linea con l’interesse dell’ente erogatore, risulterà sanzionabile la sola ipotesi di truffa, fattispecie criminosa più grave, che assorbe l’art. 316 bis c.p.Per quest’ultimo oltre alla responsabilità penale dell’agente, prevede la responsabilità amministrativa da reato degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni anche prive di tale personalità (con eccezione dello Stato, enti pubblici regionali, enti pubblici non economici e enti aventi funzioni costituzionali).

2. Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.)Art. 316-ter c.p. INDEBITA PERCEZIONE DI EROGAZIONI A DANNO DELLO STATO.: “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, o mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da 5164 a 25.822 euro. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito”.Questa figura di reato è stata introdotta nel 2000 e si inserisce tra le disposizioni che mirano a contrastare condotte abusive in materia di finanziamenti pubblici.Essa anticipa la tutela sanzionando le forme illecite di “captazione” di fondi e l’ottenimento di risorse mediante “falsità od omissioni informative”.L’articolo ricalca il modello di cui all’art. 2, l. 898/1986 con l’aggiunta della condotta omissiva; individua un’ipotesi sussidiaria e residualerispetto all’art. 640-bis c.p. nonostante i due reati risultino coincidenti quanto agli aiuti economici e quanto all’evento dell’ottenimento indebito degli aiuti stessi.L’unica differenza risiede nelle “false dichiarazioni o le omissioni informative” (che implicano un quid minus rispetto a quanto necessario per la truffa aggravata) e negli “artifizi o raggiri”.La condotta costitutiva è integrata dall’utilizzazione dichiarazioni verbali, documenti falsi o mancate informazioni doverose da cui derivi l’ottenimento di un finanziamento non conseguibile.Il dolo si consuma con il ricevimento degli aiuti economici ed è generico consistendo nella consapevolezza della falsità o incompletezza delle dichiarazioni fornite e nella volontà di ottenere quegli aiuti non spettanti. Anche qui è prevista la responsabilità amministrativa da reato dell’ente.Non scatta, in quanto risulta integrata la sola ipotesi di illecito descritta dall’art. 2 dell’art. 316-ter, quando l’aiuto economico ottenuto è uguale o inferiore alla soglia predeterminata.

Sezione IVLe fattispecie di abuso

1. Presentazione dell’argomento. L’abuso di ufficio (art. 323 c.p.)Art. 323 c.p. ABUSO DI UFFICIO: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un

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interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri l’ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.Con la l. n. 234/1997, l’abuso d’ufficio ha assunto l’attuale assetto, nel tentativo di circoscrivere l’area del penalmente rilevante e per uniformare la prassi.Già nel’90, il reato in questione cessa di essere una norma sussidiaria e viene ad assumere un ruolo centrale nella repressione delle condotte abusive dei pubblici agenti. Ora, è sussidiaria solo rispetto a fatti abusivi che integrano gli estremi di un reato “grave”.Nel quadro originario coesisteva con il peculato per distrazione, la malversazione e con l’interesse privato in atti di ufficio; oggi riempie in parte gli spazi risultanti dall’abrogazione di tali fattispecie.Recentemente si è cercato di valorizzare questa figura:

- per contenere il sindacato del giudice penale in materie riservate alla discrezionalità politica della P.A.;

- per evitare interpretazioni allargate delle figure richiamate; - per eliminare la questione attinente la corretta individuazione della linea di confine

tra le originarie fattispecie di abuso innominato di ufficio e di interesse privato in atti d’ufficio.Dal ’90 la disposizione descrive in modo più puntuale la condotta ora legata alla “violazione di legge o di regolamento” e richiede la realizzazione di un evento naturalistico (danno o vantaggio) e un dolo intenzionale.

1.1. Soggetto attivo e passivo del reatoSoggetti attivi possono essere sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio. Non è applicabile l’art. 360 c.p., essendo richiesto lo svolgimento della funzione o del servizio.Il soggetto pubblico agisce con “abuso di poteri”, tornando così all’impostazione originaria: la condotta abusiva deve inerire all’attività propria dell’agente e dunque collegata all’esercizio dei poteri non solo sul piano temporale, ma anche funzionale.Non rileverà il mero abuso della qualità e il semplice sfruttamento della situazione personale. Soggetto passivo è la P.A. quale titolare degli interessi oggetto di tutela.

1.2. La condotta di abusoLa condotta costitutiva del reato consiste in un abuso realizzato “in violazione di norme di legge o regolamento” o con un abuso consistente nell’ “omessa osservanza di un obbligo di astensione”.La prima forma individua la risultante del tentativo di ovviare all’indeterminatezza della formula “abusa del suo ufficio” in sede di riforma. Chiarisce che il comportamento tenuto dal pubblico agente rileva solo se contrario a regole prescritte prefissate.Dovrà trattarsi di norme che dispongono regole attinenti al concreto esercizio della funzione o del servizio, dal contenuto delimitato e non di principi e direttive, generali, cui deve conformarsi l’azione amministrativa. Così da un abuso innominato si passa ad un abuso “tipico” che non offre tutela agli atti discrezionali e all’eccesso di potere.Il giudice non potrà più valutare il merito della discrezionalità amministrativa come ravvisare il reato nell’uso del potere per un fine diverso da quello previsto.Per regolamento deve intendersi la fonte sub-primaria adottata tramite un iter legislativamente disciplinato o un regolamento emanato in base a una potestà normativa attribuita dalla legge (dunque ne sono esclusi le circolari e i provvedimenti amministrativi in quanto atti generali, di programmazione o di pianificazione). La seconda forma rappresenta l’area di operatività dell’abrogato interesse privato in atti di ufficio o di quelle situazioni

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di conflitto di interessi che assumono rilevanza quando, attraverso una condotta abusiva, l’agente realizzi uno degli eventi normativamente previsti (ingiusto vantaggio patrimoniale - danno ingiusto). Mentre in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto si impone un obbligo generale di astensione negli altri casi, non sarà necessario che l’obbligo sia fissato da fonti qualificate; la situazione di conflitto tuttavia dovrà essere individuabile in un momento anticipato rispetto all’attività posta in essere dall’agente, quale potenziale interesse privato, che rileverà quale interesse proprio del pubblico agente. Cass. pen. 2004: “ (...) la norma ricollega l’obbligo di astensione a due ipotesi distinte e alternative: quella dell’obbligo di carattere generale, derivante dall’esistenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto e quella della verificazione dei singoli casi in cui l’obbligo sia prescritto da altre disposizioni di legge richiamate in via generale. (...) in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto la facoltà di astensione eventualmente prevista da una norma speciale viene abrogata e sostituita dall’obbligo di astensione derivante appunto dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”.

1.3. L’evento del reato. L’ingiustizia del vantaggio o del dannoLa verificazione del vantaggio patrimoniale e del danno sono essenziali per la consumazione del reato dopo la riforma del ’90 (prima della quale costituivano la finalità perseguita dal pubblico agente).Risulta rafforzata la componente oggettiva del fatto illecito.Il vantaggio per sé o per altri può essere esclusivamente patrimoniale (non solo in termini di incremento economico ma come evenienza migliorativa apprezzabile in termini economici come l’illegittima dichiarazione di edificabilità di un suolo).Il danno arrecato ad altri potrà invece consistere in un qualunque pregiudizio pure di natura morale. E’ necessario che siano ingiusti. L’ingiustizia si atteggia quale elemento qualificante dell’evento costitutivo del reato e presenta un significato autonomo.Appare fondata la tesi della doppia ingiustizia: l’ingiustizia va ricavata da elementi ulteriori rispetto ai parametri sulla scorta dei quali apprezzare il carattere abusivo della condotta; non coincide con la contrarietà ad una particolare forma normativa ma nella non conformità all’intero ordinamento (es. art. 97 Cost.).La sua presenza assegna al reato la nota dell’antigiuridicità speciale.

1.4. Consumazione e elemento psicologico del reatoIl delitto si consuma con il verificarsi dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o dell’ingiusto danno. Il tentativo è ammissibile.Il dolo consiste nella consapevolezza da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio di svolgere la funzione o il servizio e nella volontà di violare una legge o un regolamento o nella volontà consapevole di non osservare un obbligo di astensione.La norma inoltre prevede che il pubblico agente abbia “intenzionalmente” procurato il vantaggio o il danno; dovrà avere una rappresentazione e volizione piena e certa delle conseguenze vantaggiose o dannose del proprio operato.L’errore sul fatto o di diritto extra-penale che cada sul requisito dell’ingiustizia o sulla violazione delle norme attinenti l’esercizio del servizio o della funzione escludono il dolo.

1.5. La circostanza aggravante speciale. Il concorso eventuale di persone nel reatoIl comma 2 dell’art. 323 c.p. prevede una circostanza aggravante speciale per le ipotesi in cui il vantaggio o il danno abbia carattere di rilevante gravità.La circostanza è oggettiva e ha effetto comune; al concorrente di circostanze attenuanti entrerà nel giudizio di bilanciamento delle circostanze.

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Per configurare il vantaggio dell’extraneus deve essere provata l’intesa intercorsa col pubblico funzionario o la sussistenza di pressioni o sollecitazioni dirette ad influenzarlo, non potendo dedursi dalla semplice presentazione dell’istanza e dal suo accoglimento.

2. I delitti di corruzione (art. 318 s.)La l. 190/2012 ha riformato l’intero assetto dei reati di corruzione previsti dal nostro ordinamento, in particolare attraverso:

- l’introduzione di una fattispecie generale di corruzione per l’esercizio della funzione, in sostituzione della precedente figura della corruzione per un atto d’ufficio;

- la scomposizione della vecchia fattispecie di concussione in due distinte incriminazioni, l’una (che conserva la denominazione di concussione) riferita alle ipotesi di autentica “costrizione” del privato alla dazione o promessa di denaro o altra utilità, l’altra alla sua mera “induzione” mediante abuso dei poteri o della funzione da parte del pubblico funzionario;

- l’introduzione di una nuova figura delittuosa di traffico di influenze illecite, affiancata alla vecchia fattispecie sul millantato credito;

- la riformulazione del reato societario di infedeltà a seguito di dazione o promessa di altra utilità, oggi rubricato più semplicemente “corruzione tra privati”.

2.1. I delitti di corruzione e la riforma del 2012Il codice del 1930 distingueva, tra due figure fondamentali di corruzione:

a) la corruzione per un atto d’ufficio (cd. impropria), disciplinata dall’art. 318 c.p. e caratterizzata dalla ricezione, da parte del pubblico ufficiale, della promessa o dalla dazione di denaro o altra utilità quale indebita retribuzione per compiere (cd. corruzione impropria antecedente passiva), o per aver compiuto (cd. corruzione impropria susseguente passiva), un atto del proprio ufficio; e

b) la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (cd. propria), disciplinata dall’art. 319 c.p. e caratterizzata parimenti dalla ricezione da parte del pubblico ufficiale della promessa o della dazione di denaro o altra utilità «per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio [cd. corruzione propria passiva, antecedente e susseguente]».Nella seconda e più grave ipotesi l’ordinamento reagiva, dunque, non solo al mercimonio della pubblica funzione e all’indebito arricchimento del pubblico ufficiale (con correlativo pregiudizio al prestigio della pubblica amministrazione), impliciti in qualunque ipotesi corruttiva; ma anche all’effettiva distorsione delle funzioni pubbliche, concretizzata dal mancato compimento (o dal ritardo nel compimento) di uno specifico atto dell’ufficio, ovvero dal compimento – addirittura – di un atto in contrasto con i doveri d’ufficio da parte del pubblico ufficiale.Il quadro delle incriminazioni fondamentali era poi completato, in particolare: dall’art. 320 c.p., CORRUZIONE DI PERSONA INCARICATA DI UN PUBBLICO SERVIZIO che estendeva (e tuttora estende dopo la riforma) le disposizioni citate ai fatti corrispondenti commessi da un incaricato di pubblico servizio, prevedendo però una riduzione di pena non superiore a un terzo; e dall’art. 321 c.p. PENE PER IL CORRUTTORE, che stabiliva che le pene previste dagli articoli precedenti si applicassero anche al privato che dà o promette denaro o altra utilità al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (cd. corruzione attiva), salvo che nell’ipotesi di corruzione impropria susseguente (promessa o dazione di denaro o altra utilità al pubblico ufficiale per aver compiuto un atto del proprio ufficio), in cui il privato non era punibile.

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La riforma del 2012 apporta, in questo quadro, una radicale innovazione, rappresentata dalla scomparsa dei delitti di corruzione impropria (nelle forme antecedente e susseguente, attiva e passiva) in favore di un inedito delitto di «CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI», disciplinato nella forma passiva dal nuovo art. 318 c.p., che si affianca al vecchio delitto di corruzione propria passiva (CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO) di cui all’art. 319 c.p., i cui requisiti costitutivi restano inalterati. Le due incriminazioni vengono anche dopo la riforma estese – tenendo ferma la riduzione di pena sino ad un terzo – all’incaricato di pubblico servizio, nonché a tutte le corrispondenti ipotesi di corruzione attiva in forza del novellato art. 321 c.p. Restano invece sostanzialmente invariate le norme di cui agli artt. 319 ter (corruzione in atti giudiziari), 322 (istigazione alla corruzione) e 322 bis c.p. (corruzione internazionale), salve talune interpolazioni necessarie ad assicurarne il coordinamento con le modifiche agli articoli precedenti.Rispetto al passato, la nuova norma sulla corruzione per l’esercizio delle funzioni ,di cui all’art. 318 c.p. svincola la punibilità del pubblico ufficiale (nonché dell’incaricato di pubblico servizio e dello stesso privato, in forza rispettivamente degli artt. 320 e 321 c.p.) dalla puntuale individuazione di uno specifico atto o comunque di una specifica condotta oggetto dell’illecito mercimonio, consentendo la punizione di entrambe le parti del pactum in ragione della mera promessa o dazione indebite di denaro o altra utilità al pubblico funzionario. Laddove, invece, la pubblica accusa riesca a dimostrare che la pattuizione aveva ad oggetto il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, il fatto risulterà inquadrabile ai sensi della più grave fattispecie di «corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio» di cui all’art. 319 c.p., che continuerà ad applicarsi tanto alla corruzione antecedente come a quella susseguente.Così ristrutturato, il sistema si muove attorno ad una fattispecie generale (la corruzione per l’esercizio delle funzioni), della quale la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e la corruzione in atti giudiziari costituisce una species, essendo evidente che la compravendita di uno specifico atto contrario al dovere d’ufficio (ovvero dell’omissione o ritardo di un atto dovuto) altro non è se non una ipotesi particolare della più generale “compravendita della funzione” del pubblico ufficiale, che si realizza ogniqualvolta questi sia impropriamente retribuito «in relazione all’esercizio delle sue funzioni dei suoi poteri».La nuova disposizione di cui all’art. 318 c.p. richiede che la dazione o la promessa di denaro o altra utilità al pubblico funzionario siano effettuate «per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri». L’inciso sostituisce quello originariamente previsto dall’emendamento governativo presentato il 17 aprile 2012 alla Camera dei Deputati, che faceva riferimento a una dazione o promessa «in relazione all’esercizio delle … funzioni o dei … poteri» del pubblico funzionario. Non è, peraltro, chiaro il senso della modifica, e in ogni caso essa non sembra comportare alcuno spostamento del confine dei fatti punibili: la proposizione «per» è suscettibile di essere intesa in senso sia finale sia causale, e pare dunque riferibile tanto alle ipotesi in cui la dazione o la promessa siano effettuate in vista del futuro esercizio – non importa se legittimo o illegittimo – delle funzioni, quanto a quelle in cui esse siano prestate in conseguenza del già avvenuto esercizio di tali funzioni, a mo’ – insomma – di improprio ringraziamento al pubblico ufficiale per i favori o, genericamente, per l’attenzione prestata al privato. Rispetto al passato, l’area della punibilità si allarga dunque anche alle ipotesi in cui il privato dia o prometta denaro o altra utilità al pubblico funzionario per ringraziarlo di un atto dovuto: ipotesi che sinora non erano, invece, abbracciate dalla norma estensiva della punibilità di cui all’art. 321 c.p., che

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richiamava solo – nella formulazione previgente – il primo comma dell’art. 318 (disciplinante la corruzione impropria antecedente).Anche il quadro sanzionatorio è notevolmente inasprito rispetto al passato . Il nuovo art. 318 c.p. prevede la reclusione da uno a cinque anni (contro la reclusione da sei mesi a tre anni stabilita dalla vecchia norma in tema di corruzione impropria), mentre le pene previste dall’art. 319 c.p. (rimasto invariato nella sua parte precettiva) si elevano alla reclusione da quattro a otto anni (rispetto al quadro precedente che prevedeva la reclusione da due a cinque anni). Analoghi irrigidimenti sanzionatori concernono il delitto di corruzione in atti giudiziari, dove in particolare la pena prevista per l’ipotesi base sale da tre a quattro anni nel minimo, e da otto a dieci anni nel massimo.La conseguenza pratica più rilevante di tali inasprimenti si apprezza, naturalmente, sul terreno delle ricadute processuali, dal momento che in relazione a tutti questi delitti sarà ora possibile adottare misure cautelari (anche di natura custodiale, in presenza di massimi edittali sempre superiori ai quattro anni di reclusione), e sarà possibile altresì procedere a intercettazione delle conversazioni o comunicazioni giusta il generale disposto dell’art. 266, co. 1, lett. b, c.p.p.

2.2. L’oggetto di tutelaIl bene giuridico tutelato è da rinvenire nell’interesse della Pubblica Amministrazione all’imparzialità, correttezza e probità dei funzionari pubblici, ed in particolare, che gli atti di ufficio non siano oggetto di mercimonio o di compravendita privata.Buon andamento e imparzialità qui non individuano due beni dal contenuto generico e non appaiono così ampi e indeterminati da risultare inidonei a circoscrivere la portata delle singole norme incriminatrici.Essi trovano specificazione nel quadro della singola fattispecie incriminatrice alla luce dell’attitudine offensiva della condotta tipica; quella caratterizzazione lesiva che esclude la possibilità di inquadrare i reati di corruzione nell’area della criminalità economica, ravvisando in essi una forma di aggressione alla fiducia nella correttezza del sistema economico.La ratio della incriminazione, infatti, è il discredito che tale reato getta sulla categoria dei pubblici funzionari e, quindi, della stessa Pubblica Amministrazione.Il dato fondamentale comune a tutte le ipotesi di corruzione è il mercimonio dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio che viene a compromettere il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione ma, poiché tale mercimonio può avere ad oggetto un comportamento di per sé corrispondente ai doveri di ufficio o contrario ai doveri medesimi, il codice configura due differenti forme di corruzione, propria ed impropria.

2.3. La struttura del fatto-reato: i delitti di corruzione quale reato a concorso necessarioE’ preferibile l’ipotesi che opta per l’unificazione tra corruzione passiva e attiva. Sono condotte diverse ma finalizzate ad unico scopo (l’accordo illecito e relativo scambio di favori) e indispensabili per l’integrazione del tipo legale.Si è di fronte a un’ipotesi di reato a concorso necessario o plurisoggettivo configurantesi quale reato- accordo a struttura bilaterale.L’unicità della sanzione poggia sull’unitarietà del fatto corruttivo.Secondo la giurisprudenza di legittimità, nel delitto di corruzione, che è a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale, è ben possibile il concorso eventuale di terzi, sia nel caso in cui il contributo si realizzi nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolva in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari.

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2.4. La condotta costitutiva tipica e il momento consumativo del reatoIl delitto di corruzione si configura come reato a duplice schema, principale e sussidiario. Secondo quello principale, il reato viene commesso con due attività, l'accettazione della promessa e il ricevimento della utilità e il momento consumativo coincide con il ricevimento della utilità e, allorché vi siano più dazioni di pagamento, ogni remunerazione integra un fatto-reato e una pluralità di dazioni corrisposte in esecuzione di un unico patto corruttivo configura un delitto continuato. Secondo lo schema sussidiario, che si realizza quando la promessa non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione della promessa.Le fattispecie in esame descrivono la condotta in via alternativa: ricevere/versare denaro o accettarne la promessa/farne promessa.In giurisprudenza si è parlato di corruzione quale “fattispecie a duplice schema” che si consumerebbe con il ricevimento dell’utilità nel caso in cui alla promessa segua la dazione o con la semplice accettazione della promessa ove questa non venga mantenuta; per altro si è inteso affermare il principio secondo cui “promessa” e “dazione” individuerebbero due distinti precedetti da sanzionare autonomamente.Occorre accertare se ci si trovi di fronte a una pluralità di precetti o a plurime modalità di violazione del medesimo precetto e dunque ad una fattispecie unitaria.Appare opportuno distinguere:

- le norme a più fattispecie : la pluralità di fattispecie, contenute in un’unica norma vale ad integrare un’unica figura di reato;

- le disposizioni a più norme: alla pluralità di modelli descrittivi fa riscontro una pluralità di norme incriminatrici e di autonomi titoli di reato. Va osservato che le disposizioni in esame sanciscono il fatto del pubblico agente che, in relazione ad un atto del proprio ufficio, “riceve denaro o altra utilità o ne “accetta la promessa”; all’art. 321 c.p. si statuisce che le pene previste per il corrotto “si applicano anche a chi dà o promette denaro o altra utilità”.La semplice accettazione della promessa di una qualche utilità integra ed esaurisce l’unitario delitto di corruzione come evidenzia la collocazione della “condotta di accettazione della promessa” nella struttura dello schema tipico e la particella pronominale “ne” che legando l’accettazione della promessa alla ricezione di un’utilità delinea l’alternativa delle due fattispecie. La realizzazione di entrambi i comportamenti tipici integra una lesione unitaria dell’oggetto di tutela: l’integrazione della prima condotta consuma la possibile conformità al tipo della realizzazione della seconda.L’aggressione agli interessi del buon andamento e dell’imparzialità della P.A. con la condotta di “accettazione della promessa di denaro” costituisce l’offesa tipica del delitto. Presupposto del concorso di reati è la pluralità di offese mentre nel caso in esame resta unitario il fatto per l’unicità della lesione dei beni protetti.La realizzazione di più fattispecie vale qui ad individuare il concretarsi di fatti omogenei che vanno ad integrare un’unica ipotesi di reato. L’offesa resta unica pur nella varietà delle condotte suscettive di realizzarla.Dunque la fattispecie appare integrata con la semplice accettazione della promessa restando ininfluente che non si assista alla dazione-ricezione dell’utilità pattuita.Ogniqualvolta intervenga la compravendita dell’atto di ufficio (pactum scleris), quale sia la modalità esecutiva del reato cui si è fatto ricorso, il delitto di corruzione sarà perfetto nei suoi elementi costitutivi.Nel primo orientamento vi è un equivoco: la confusione tra il momento consumativo con quello della valutazione della gravità dell’offesa (art. 133 c.p.) Nei reati istantanei non è dato distinguere tra “perfezione” (esprime il realizzarsi di tutti i requisiti richiesti dal tipo) e “consumazione” (raggiungimento della massima lesività concreta di un reato già integratosi) dal momento che quest’ultima nozione esprime la compiuta realizzazione degli elementi costitutivi della fattispecie.Del resto è indifferente l’effettivo compimento dell’atto oggetto dell’accordo.

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2.5. Il dolo e il suo oggetto; la "contrarietà ai doveri di ufficio" quale nota materiale, non meramente soggettiva, della condotta. Il contenuto del doloL’atto di ufficio indica il requisito costitutivo centrale.In giurisprudenza tuttavia viene affermato che il reato non si caratterizzerebbe per l’incontro dei consensi in ordine alla negoziazione di un atto amministrativo, ma risulterebbe integrato da qualsiasi comportamento che violi i doveri di fedeltà, imparzialità, onestà che devono essere osservati dal pubblico agente.Vi è un indirizzo restrittivo poi per il quale l’atto o il comportamento amministrativo, oggetto dell’illecito accordo, se non individuato ab origine, deve essere quanto meno individuabile.Di recente per contrastare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, per ritenere realizzato il delitto, non è richiesto il collegamento del pactum scleris ad un atto preciso e individuato, rientrante nelle competenze dell’ufficio al quale appartiene il pubblico funzionario, si è affermato che “non è sufficiente che il soggetto pubblico riceva o accetti la promessa e che il privato dia o prometta il denaro o l’utilità; è necessario che dazione o ricezione, promessa o accettazione della promessa siano finalizzate all’omissione o al ritardo di un atto di ufficio o alla commissione di un atto contrario a doveri di ufficio”.“Agli effetti della realizzazione della corruzione è necessario accertare il collegamento delle condotte reciproche dei soggetti alla realizzazione di un preciso e concreto atto rientrante nelle competenze del soggetto pubblico”.Secondo la concezione mercantile, l’utilità assume rilievo quale controprestazione di un comportamento funzionale dell’intraneus, quanto meno determinabile: si retribuisce ciò che è individuato almeno nel genere ed il requisito costitutivo dell’atto d’ufficio concretizza l’idea della corruzione come mercato, fissando la portata e la direzione offensiva delle condotte.Inoltre l’atto di ufficio costituisce l’oggetto stesso del dolo.L’identificazione dell’atto appare essenziale ai fini della differenziazione fra corruzione propria e impropria: la determinazione della conformità o meno ai doveri d’ufficio presuppone necessariamente l’individuazione dell’atto.Il collegamento funzionale tra l’accordo corruttivo e l’atto d’ufficio oggetto dell’accordo, vale a caratterizzare sul piano materiale la fattispecie incriminatrice e preclude la possibilità di porre a fondamento delle ipotesi di corruzione la mera violazione di un dovere di non venalità, altrimenti si configurerebbe un reato di infedeltà il cui disvalore incide sulla figura soggettiva dell’agente.E’ necessario un concreto atto d’ufficio che materializza quelle caratteristiche di sinallagmaticità, proporzione e retributività della prestazione del privato, tipiche della corruzione propria e impropria.Perché si abbia corruzione non è sufficiente “lo scambio di favori”; è necessario che tali condotte siano finalizzate (almeno nella corruzione propria antecedente) al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. Occorre chiedersi cosa si intenda per atto per individuare il dolo.La giurisprudenza fa rientrare nella nozione di atto di ufficio non solo l’atto amministrativo in senso formale, ma anche il comportamento materiale del pubblico agente “occasionato” dall’ufficio.Il requisito della contrarietà dell’atto ai doveri funzionali non costituisce un elemento “reale” della fattispecie incriminatrice ma si limiterebbe a individuare una nota che qualifica il dolo connotando in termini finalistici la condotta; si sostanzia nei motivi che hanno ispirato l’accordo illecito.La corruzione propria antecedente si atteggia a fattispecie a consumazione anticipata: è sufficiente a integrare il tipo la semplice “promessa” di dazione e non è richiesto il compimento dell’atto d’ufficio. Dunque si profila quale reato a dolo specifico.Riconoscendo rilievo alla sfera motivazionale degli agenti si rischia di ampliare a dismisura l’area dell’illecito penale.In realtà il dolo in questa fattispecie oltre ad avere una funzione selettiva rispetto alle diverse forme di corruzione, assolve alla fondamentale funzione “limitativa” della sfera di applicazione della fattispecie.In tal senso lo scopo normativo richiesto non consiste nella motivazione che sottende la condotta, ma al contempo nell’idoneità della condotta medesima a raggiungere il fine

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che il soggetto agente persegue.Per lo stretto collegamento dolo specifico/fatto tipico, la condotta dovrà porsi in connessione condizionale con il contenuto finalistico descritto dalla norma penale così da rendere tipico il comportamento materiale posto in essere.L’idea di scopo che muove i concorrenti necessari dovrà pertanto, essere finalizzata alla realizzazione di un “atto contrario a doveri di ufficio” e non di un mero comportamento materiale occasionato dall’ufficio che violi il generico dovere di correttezza.Per l’integrazione del delitto sarà necessario il confluire della volontà su un preciso e corretto atto contrario ai doveri di ufficio non potendosi individuare l’oggetto del dolo in una generica attivazione del funzionario suscettiva di interferire sugli atti dell’ufficio di altri soggetti pubblici.In sede applicativa sarà necessario riscontrare nella condotta dei concorrenti necessari la presenza di quegli elementi concreti idonei a disvelare la direzione offensiva di tali comportamenti.E’ in virtù dell’approccio qui criticato che per la giurisprudenza la contrarietà dell’atto ai doveri di ufficio, si esaurisce nel semplice riferimento ai motivi della condotta; si giunge così ad esempio a presumere la contrarietà ai doveri di ufficio ove l’atto presenti natura discrezionale.Dunque è evidente il ruolo fondamentale dell’elemento finalistico. La dazione-ricezione di un’utilità individua un comportamento anonimo in sé considerato; la condotta tipica nei delitti di corruzione è quella caratterizzata da una particolare contenuto intenzionale. Quel comportamento per essere conforme al tipo legale dovrà presentare un significato retributivo: le fattispecie di corruzione si atteggiano quali ipotesi di indebita retribuzione ma di volta a volta una di esse potrà risultare integrata solo ove la retribuzione sia funzionale (corruzione antecedente) o meno legata al compimento dell’atto di ufficio (corruzione susseguente).La natura retributiva della prestazione patrimoniale frutto dell’accordo corruttivo, investe il momento intellettivo del dolo: il pubblico funzionario dovrà essere consapevole che l’utilità si atteggia quale corrispettivo per la prestazione richiesta (atto d’ufficio) e dovrà al contempo condividere col privato tale idea di scopo; mentre la condotta dell’extraneus dovrà risultare qualificata dalla volontà consapevole che quanto richiesto all’intraneus è legato alla retribuzione; le due autonome e convergenti condotte verranno ad individuare uno “scambio”.Entità del denaro, tipologia dell’atto, natura dell’utilità saranno oggetto di rappresentazione “nel grado di determinazione sufficiente per l’esistenza dell’accordo”.In tal senso nella corruzione antecedente propria tali condotte non potranno non essere specificamente finalizzate allo scopo di omettere o ritardare l’atto di ufficio o compiere un atto contrario ai doveri funzionali.Ipotesi di reato che individua il contenuto offensivo della condotta illecita.Intraneus e extraneus dovranno rappresentarsi la contrarietà dell’atto negoziale ai doveri di ufficio; se uno dei concorrenti necessari erra sulla conformità, risponderà di corruzione impropria (art.47 c.p. ultimo comma).Dunque l’elemento psicologico nella corruzione non può essere ravvisato nella violazione di un dovere generico di correttezza, fedeltà, non venalità. Si finirebbe così di far perdere al dolo ogni significativo elemento contenutistico, punendo l’autore piuttosto che il fatto.

2.6. L'introduzione del delitto di induzione indebita a dare o a promettere utilità: si sposta il confine tra corruzione concussione, scatta la punibilità del privatoL’introduzione, con la 190/2012 della nuova fattispecie di INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITÀ art. 319-quater c.p. ha dato luogo ad un forte contrasto giurisprudenziale, rivelato dall’emersione di tre diversi indirizzi in ordine alla linea di demarcazione con la contigua figura della concussione, ora imperniata esclusivamente sulla condotta di costrizione mediante abuso. Per dirimere tale disputa sono dovute intervenire le Sezioni Unite della Cassazione. Nell’ottica del legislatore del 2012, la restrizione dell’ambito precettivo del delitto di concussione e l’introduzione del

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delitto di nuovo conio trovano la loro giustificazione politico-criminale sia in ragioni interne, legate al problematico vissuto giurisprudenziale dei delitti di concussione e corruzione e ai mutamenti della realtà criminologica di riferimento, sia in istanze di penalizzazione rivenienti da fonti ed organismi europei e internazionali.Dal primo punto di vista rileva, soprattutto, l’eccessiva dilatazione applicativa cui era pervenuta la fattispecie di concussione, frutto di quattro fattori convergenti: il «carattere evanescente della c.d. concussione per induzione», del tutto priva di limiti tassativi; il principio – mai messo in discussione dalla passata giurisprudenza – di “mutua esclusività” tra le due figure liminari della concussione e della corruzione; l’assunzione del “rapporto tra la volontà delle parti” – soggezione psicologica del privato alla volontà prevaricante del pubblico agente nella concussione, piena par condicio contractualis nella corruzione – a criterio divisorio “di essenza”; last but not least, semplici ragioni di convenienza processuale.La spinta decisiva alla revisione del delitto di concussione è venuta, però, dagli organismi deputati al controllo sull’attuazione degli strumenti convenzionali di contrasto alla corruzione, adottati in seno al Consiglio d’Europa e all’OCSE

2.7. Corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.)In materia di corruzione, il principale intervento è costituito dalla sostituzione dell’art. 318 c.p. (Corruzione per un atto d’ufficio) con la fattispecie di “CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE”, punita con la reclusione da 1 a 5 anni. Essa ricomprenderà sia l’ambito applicativo della novellata disposizione, sia le ipotesi corruttive relative all’esercizio della funzione. La norma prima della riforma, rubricata “CORRUZIONE PER UN ATTO D’UFFICIO” disponeva che: “Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del proprio ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto di ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino a un anno”.Il primo comma contemplava la corruzione impropria antecedente, mentre il secondo comma conteneva la disciplina della corruzione impropria susseguente.Il quadro normativo previgente aveva due evidenti limiti: da un lato, si riscontrava “un’indiscutibile ipertrofia incriminatrice”, quanto alla “difficilmente difendibile rilevanza penale attribuita alla corruzione impropria passiva susseguente”; dall’altro, vi erano vuoti di tutela nelle ipotesi di corruzione in incertis actis, connotate dall’assenza di un atto.La legge 190 del 2012 ha posto rimedio al secondo limite, introducendo talune rilevanti novità.Prima di procedere all’indagine sul contenuto del nuovo articolo 318 del codice penale è opportuno premettere l’analisi su taluni obblighi internazionali, che hanno ispirato la riforma.Il legislatore invero, ha riformulato il reato di corruzione impropria proprio allo scopo di recepire gli obblighi posti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione, cosiddetta “Convenzione di Merida” del 2003 e dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio di Europa, detta “Convenzione di Strasburgo” del 1999, ratificate rispettivamente con legge 116 del 2009 e 110 del 2012.L’articolo 15 della Convenzione di Merida impone l’incriminazione del fatto di “promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale, direttamente od indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali” (lett. a), nonché il fatto del pubblico ufficiale che consiste nel “sollecitare o

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accettare, direttamente od indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali” (lett. b).La Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 invece, prevede all’articolo 2 l’obbligo di incriminare la condotta di “corruzione attiva di pubblici ufficiali nazionali” definita come “il fatto di promettere, offrire o di procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito a un pubblico ufficiale, per sé o per terzi, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni”; il successivo articolo 3 prevede l’obbligo di incriminazione della “corruzione passiva di pubblici ufficiali nazionali”, definita come “il fatto di sollecitare o ricevere, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, o di accettarne l’offerta o la promessa, allo scopo di compiere o di astenersi dal compiere un atto nell’esercizio delle proprie funzioni”.Completata l’indagine sulle disposizioni contenute nelle Convenzioni internazionali, occorre analizzare le modifiche apportate al codice penale.Il nuovo articolo 318 del codice, la cui rubrica reca l’intestazione “CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE” dispone che “Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.Dal confronto tra la diposizione interna previgente e quella introdotta con la riforma è agevole osservare in primo luogo che il legislatore della riforma ha colpito il fenomeno della cosiddetta “iscrizione a libro paga”, sganciando il reato dall’esistenza di un atto.Un primo profilo di novità dunque, si identifica con la scomparsa del riferimento ad un atto, il quale soprattutto in giurisprudenza, stante l’esigenza di interpretare la norma coerentemente con il principio di tassatività, era inteso in senso formale e implicava l’identificazione di uno specifico provvedimento oggetto di compravendita, rendendo piuttosto gravoso l’onere probatorio in capo all’accusa.La nuova fattispecie si incentra sulla ricezione indebita di denaro o altra utilità da parte del funzionario pubblico (sia pubblico ufficiale, sia incaricato di pubblico servizio, cui è estesa la punibilità ai sensi dell’articolo 320 del codice penale) “per l’esercizio della funzione o dei suoi poteri”.Il legislatore ha determinato dunque, la fusione delle due precedenti fattispecie della corruzione impropria antecedente e susseguente.L’esercizio della funzione può prospettarsi dunque, al contempo quale “scopo del pagamento o della promessa (corruzione antecedente), ma anche come presupposto di essi, per essere la funzione già stata esercitata (corruzione susseguente). Il “per” del nuovo articolo 318 del c.p. deve certamente essere letto indifferentemente in chiave finale o in chiave causale.Secondo un primo orientamento l’articolo 318 del codice penale avrebbe semplicemente operato una riformulazione “sintetica” del vecchio articolo sulla corruzione impropria.Atra parte della dottrina invece, sostiene che la formulazione generica del nuovo articolo 318 del codice penale sia ampia e idonea a ricomprendere nel proprio ambito sia l’attività conforme ai doveri d’ufficio e alle finalità istituzionali, sia quella che si svolga in violazione di tali doveri o frustrando lo scopo per cui il potere è attribuito.Nella nuova fattispecie viene ricompresa dunque, la generica messa “a libro paga” del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, in cambio della sua disponibilità all’asservimento ai desiderata del soggetto privato, che possa porre in concreto una distorsione dell’esercizio del potere.

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Si punisce il mercimonio della funzione, caratterizzato dalla ricezione del denaro o di altra utilità o dall’accettazione della promessa per l’esercizio della funzione o dei poteri pubblici, con il vantaggio di alleggerire l’onere probatorio in capo al pubblico ministero, non più costretto ad individuare uno specifico atto.In secondo luogo, è scomparso con la riforma il riferimento alla “retribuzione”. Il termine, adoperato nella formulazione originaria della corruzione propria, comportava il rischio di un’interpretazione della norma che identificasse il disvalore insito nella condotta di corruzione impropria non nell’offesa alla pubblica amministrazione, bensì alla sua gratuità. Occorreva dunque dimostrare oltre all’esistenza di un atto dell’ufficio, anche l’esistenza di un sinallagma tra corrotto e corruttore, che avesse come fine lo svolgimento dell’atto stesso.Si poneva conseguentemente il problema di verificare la proporzione tra la dazione o la promessa e l’atto da adottare o adottato, con l’esclusione dell’attitudine corruttiva dei cosiddetti “munuscula”, i piccoli doni occasionali offerti dal privato per usanza o cortesia.Il legislatore, sopprimendo il riferimento alla retribuzione e dunque, al carattere sinallagmatico dell’accordo corruttivo, determina quale conseguenza che anche la dazione o la promessa dei “munuscula” e di regalie d’uso che sia connessa all’esercizio della funzione potrà essere perseguita.Infine, si evidenzia l’ulteriore profilo consistente nell’innalzamento del trattamento sanzionatorio, sia nel minimo, sia nel massimo edittale; la pena prevista dal nuovo articolo 318 del codice penale si identifica con la reclusione da uno a cinque anni, al cospetto della pena precedentemente prevista, della reclusione da sei mesi a tre anni (e fino ad un anno per la corruzione impropria susseguente).

2.8. Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.)Art. 319 c.p. CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI DI UFFICIO: “Il pubblico ufficiale, che per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.”.Viene qui sempre tutelato il bene giuridico del buon andamento della P.A., che viene leso da condotte imparziale che compromettono il dovere della P.A. di trattare in maniera eguale gli interessi di tutti i cittadini rimanendo estranea agli interessi di carattere particolare.Oggetto della tutela, nelle tesi tradizionali è il prestigio della P.A., il dovere di fedeltà dei pubblici impiegati, la fiducia riposta nella P.A.Soggetto attivo è il pubblico ufficiale; l’incaricato di pubblico servizio (art. 320 c.p.); il privato (art. 321 c.p.). Il soggetto pubblico deve effettivamente rivestire la qualifica al momento del fatto.La condotta incriminata per il soggetto pubblico è quella di ricevere il denaro o altra utilità o accettarne la promessa; per il privato il “dare o promettere”. Perché ci sia il reato nel caso di “promessa” è necessario che emergano concretamente gli elementi del patto: il p.u. deve riconoscere nella promessa l’impegno a conseguire in futuro una utilità in cambio della sua attività contraria ai doveri d’ufficio, mentre il privato deve promettere aspettandosi il contraccambio dal p.u.Il reato in questione è un reato a forma libera. Se la promessa non viene accettata dal p.u. residua il reato di istigazione alla corruzione. La struttura della condotta è un sinallagma, dunque, anche se il testo non fa un riferimento esplicito al concetto di “retribuzione”, è pacifico che tra le due controprestazioni vi deve essere un generale rapporto di proporzionalità, da accertarsi secondo parametri di adeguatezza sociale (escluse piccole donazioni).

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Oggetto materiale della condotta è il denaro o l’utilità data o promessa al soggetto pubblico. Problemi interpretativi sorgono per la nozione di “utilità”: è un concetto ampio che comprende qualsiasi tipo di vantaggio.In tema di corruzione, la nozione di "altra utilità", quale oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente. Nella specie, la Corte ha ritenuto integrato il delitto di corruzione di cui all'art. 319 cod. pen. nei confronti di un consigliere comunale che, in cambio del voto favorevole ad una delibera, aveva ricevuto una promessa di aiuto, finalizzata ad ottenere una progressione di carriera nell'ente in cui prestava attività lavorativa. In tema di corruzione propria, l'atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto dell'accordo illecito, non deve essere individuato nei suoi connotati specifici, essendo sufficiente che esso sia individuabile in funzione della competenza e della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non preventivamente fissati o programmati, ma appartenenti al "genus" previsto.L’ art. 319-bis c.p. enuncia la circostanza aggravante nel caso in cui la corruzione abbia ad oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o stipulazione di contratti in cui sia interessata l’amministrazione ala quale appartiene il p.u., nonché il pagamento o il rimborso di tributi. Si tratta di due aggravanti speciali applicabili alla corruzione propria di cui all'art. 319, che si applicano qualora l'accordo corruttivo tra il soggetto esercente una pubblica funzione e il privato abbia ad oggetto determinati atti considerati dal legislatore particolarmente delicati e pregiudizievoli per la P.A.. In caso di condanna per il reato in esame troverà applicazione l'art. 32quater ovvero l'applicazione della pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la P.A.

3. Corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.)Art. 319-ter c.p. CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI: “Se i fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p. sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da 3 a 8 anni.Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a 5 anni, la pena è della reclusione da 4 a 12 anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a 5 anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da 6 a 20 anni”.

3.1. Sull’ipotizzabilità della forma susseguenteLa riforma del ’90 ha introdotto, quale fattispecie autonoma di reato, la figura dell’art. 319 ter c.p. originariamente individuante un’aggravante speciale della corruzione propria antecedente quando dall’accordo illecito fosse derivato un favore o un danno a una parte processuale.Figura speciale di corruzione passiva si presenta quale delitto a struttura bilaterale. Qui l’incaricato di pubblico servizio non potrà rivestire la qualità di agente, dal momento che l’art. 320 c.p. non opera alcun richiamo all’art. in esame ( per la non ipotizzabilità di atti giudiziari realizzati da semplici incaricati di pubblico servizio e per il fatto che anche gli “ausiliari” del giudice rivestono la qualifica di pubblico ufficiale).L’art. 319 ter c.p. non descrive la condotta di reato, ma si limita a operare un rinvio ricettizio “ai fatti indicati negli artt. 318 e 319”.Dunque, affermando un’omologazione tra i due articoli, si riconosce che la condotta tipica può indifferentemente assumere le forme della corruzione propria e impropria e che la corruzione in esame è configurabile anche nella forma “susseguente”.Le S.C. delle Sezioni Unite afferma: “Non è il contenuto dell’atto giurisdizionale in sé considerato, data la fisiologica opinabilità che lo caratterizza, a qualificare come propria o impropria la corruzione del giudice, ma il metodo attraverso il quale costui perviene alla decisione.Il giudice che riceva denaro o

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altra utilità in relazione all’esercizio della sua funzione viene meno ai doveri di proibità indipendenza, imparzialità e correttezza e resta condizionato nei propri orientamenti valutativi sul caso portato al suo esame, la cui soluzione se pur accettabile sul piano della formale correttezza giuridica, soffre dell’inquinamento metodologico a monte.La corruzione in atti giudiziari è reato plurioffensivo nel senso che viene offeso non soltanto l’interesse al buon andamento e all’imparzialità della P.A. ma anche l’interesse alla correttezza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie che viene compromesso da una decisione alterata dal fatto corruttivo.Se inizialmente il giudice di legittimità si era espresso nel senso che il delitto in esame è configurabile anche nell’ipotesi della ripetuta dazione di utilità economiche “ancorchè successive” al compimento di atti giudiziari, più di recente si era venuti ad affermare che la condotta deve essere posta in essere “per favorire o danneggiare una parte” e che dunque essa può assumere rilievo penalistico solo “nella prospettiva di un atto funzionale che dovrà ancora essere adottato e che il pubblico ufficiale si impegna a adottare”.La corruzione in atti giudiziari è a dolo specifico: è caratterizzata da una tensione finalistica verso un risultato che la rende incompatibile con quella “proiezione verso il passato, con quell’interesse già soddisfatto su cui è montato lo schema della corruzione susseguente”; l’accettazione di utilità in un momento successivo al compimento dell’atto giudiziario, avrebbe potuto essere sanzionata con le ipotesi che sanzionano la corruzione ordinaria.Da ultimo tuttavia si è tornati a riconoscere la configurabilità della corruzione in atti giudiziari susseguente col rilevare che “una disposizione di tale ampiezza... trova la sua propria giustificazione nell’essere posta a presidio di una funzione di garanzia, costituzionalmente prevista, che in ogni concreta estrinsecazione costituisce espressione di legalità e rispetto dei diritti fondamentali, beni che non possono essere garantiti da un magistrato che abbia mercificato in qualsiasi modo la sua funzione. Mercificazione dunque che metta in crisi il valore fondamentale della funzione giudiziaria in ogni suo concreto esercizio”. In questo modi si anticipa la tutela: mentre infatti la vecchia circostanza speciale sanzionando più gravemente “il favore o il danno di una parte in un processo” era ancorata alla sola forma di corruzione propria antecedente, oggi il favore o il danno risultano spostati sul terreno dell’oggetto del dolo e la loro concreta realizzazione è irrilevante agli effetti della integrazione del tipo legale.La corruzione in atti giudiziari presenza un quid pluris sul piano dei contenuti di disvalore del fatto. Tuttavia questo preteso accostamento di situazioni molto diverse, è irragionevole anche in ragione dell’unitario e grave regime di pena.La parificazione poggia su un difetto di tecnica legislativa.Se è plausibile che possa essere contratto un accordo corruttivo allo scopo di favorire una parte del processo con riferimento ad un atto che deve essere ancora compiuto (corruzione antecedente), non si riesce a comprendere come un’analoga finalità possa sorreggere un accordo corruttivo relativo ad un atto già compiuto (corruzione susseguente).In materia il significato retributivo della promessa-dazione dell’utilità lega l’accordo tra i concorrenti necessari all’atto, teso a favorire o danneggiare una delle parti processuali.Dunque il legislatore del ’90 ha costruito un delitto a dolo specifico la cui struttura è incompatibile con la corruzione susseguente con la conseguenza che queste riconfluiranno nella disciplina della corruzione comune.Nulla autorizza l’interprete a leggere l’espressione “per favorire o danneggiare una parte in un processo” come se includessi “l’aver favorito o danneggiato una parte in un processo”.Ragionando in tale modo si ottiene il risultato cui si mirava con il disegno di legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione penale sulla corruzione ovvero l’eliminazione dallo schema tipico della

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fattispecie il riferimento alla finalità di favorire o danneggiare la parte in un processo civile, penale o amministrativo.Il reato di cui all’art. 319-ter c.p. costituisce una figura autonoma di reato, introdotta nel 1990 al fine di sottolineare l’accentuato disvalore di comportamenti corruttivi connessi all’esercizio della funzione giurisdizionale.Soggetto attivo è p.u.; non rientrano nella nozione gli incaricati di pubblico servizo, atteso che il reato non è richiamato dall’art. 320. La giustificazione risiede nel fatto che solo i p.u. sono in grado di influire sul contenuto delle decisioni giudiziarie.L’elemento oggettivo è il fatto di corruzione per l’esercizio della funzione o di corruzione propria commesso per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo. Il reato è integrato indipendentemente dal raggiungimento dell’obiettivo, essendo sufficiente soltanto che l’atto corruttivo sia finalizzato a favorire o danneggiare una parte del processo (dolo specifico: favore o danno della parte).Anche se non è espressamente previsto, è da ritenere che il danno o il vantaggio per la parte debbano essere “ingiusti”. Problemi pone l’inclusione dell’art. 318 c.p. nel caso di mancanza di ingiustizia del danno. Allora, o il richiamo al 318 è pleonastico (ogni corruzione giudiziaria è di per sé una violazione di un dovere funzionale) o si dovrebbero qualificare come corruzione in atti giudiziari anche fatti di minore gravità (accettazione di utilità non dovute anche per atti legittimi). Normalmente, la finalità di danneggiare o avvantaggiare una parte processuale è riscontrabile soltanto in capo alla parte privata, mentre il p.u. si limita a rappresentarsi tale situazione Problematica è l’operatività della corruzione propria susseguente in atti giudiziari: secondo le SS.UU. sarebbe configurabile, perché il dato letterale non consentirebbe interpretazioni diverse. Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del p.u. Ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 319-ter cod. pen., è necessario un "atto giudiziario" l'atto funzionale ad un procedimento giudiziario, sicché rientra nello stesso anche la deposizione testimoniale resa nell'ambito di un processo penale. L’elemento soggettivo: dolo specifico.Nel delitto di corruzione in atti giudiziari, non essendo applicabile l'ipotesi di cui all'art. 322 cod. pen., è configurabile il tentativo, quando sia posta in essere la condotta tipica con atti idonei e non equivoci (l'offerta o la promessa) e l'evento non si verifichi (ad esempio per mancata accettazione). 3.2. Sulla rilevanza della forma “impropria”La nota qualificante della corruzione in atti giudiziari rispetto alle corruzioni comuni è costituita dallo scopo di avvantaggiare o danneggiare una parte del processo.Poiché ogni provvedimento giudiziario, anche quello legittimo, oggettivamente “favorisce o danneggia” comunque una parte del processo, e poiché non sembra ragionevole che un’accentuazione così rilevante del carico sanzionatorio, possa risultare giustificata dalla sola circostanza che un atto giudiziario oggettivamente giusto sia stato soggettivamente compiuto allo scopo di recare un vantaggio o un danno a qualcuno, sembra fondato ritenere che in realtà, il legislatore abbia inteso far riferimento alle sole ipotesi in cui il fatto sia commesso allo scopo di adottare un provvedimento ingiusto riguardo una delle parti.L’art. 319 ter c.p. stesso parla di “ingiustizia” della finalità di favore o di danno richiesta ai fini della realizzazione della fattispecie.Si pone allora il problema circa l’introduzione da parte del legislatore del ’90 all’interno dell’art. 319 ter la corruzione impropria antecedente di corruzione nella quale l’atto che costituisce punto di riferimento del factum scleris, è, per definizione, un atto conforme ai doveri di ufficio.L’oggetto di tutela della disposizione non può essere individuato nella “incontaminazione da

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qualsiasi forma di incidenza dettata da finalità di lucro”.Se si condivide l’idea che il dolo specifico dell’art. 319-ter c.p. debba essere connotato dal profilo dell’ingiustizia, anche la corruzione impropria viene a risultare irrilevante.Il delitto di corruzione in atti giudiziari è posto a tutela dell’indipendenza del magistrato intesa quale interesse a che la formazione del provvedimento giudiziario sia sottratta ad ogni influenza così da non essere turbata; nello specifico a che la pronuncia non sia adottata per un qualcuno a fronte della promessa o dazione di una retribuzione.L’indipendenza del giudice è la prima garanzia del “giusto” esercizio della funzione giurisdizionale.Ove si pretendesse un’applicabilità in senso ampio dell’art. si violerebbe il principio di legalità in ragione dell’indeterminatezza del precetto (art. 25 Cost.) come quello di ragionevolezza (art. 3 Cost.) per l’arbitraria parificazione sul piano del trattamento sanzionatorio di fatti diversi sotto il profilo del contenuto e del peso dell’offesa.

3.3. La corruzione del falso testimone: concorso di reati o concorso apparente di norme? La nozione di atti giudiziari.Riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale al testimone, si è ritenuta integrata anche la previsione delittuosa in esame nell’ipotesi in cui questi accetti la promessa di denaro od altra utilità al fine di rendere falsa testimonianza nel processo.La fattispecie concreta è quella del soggetto il quale, oltre ad aver accettato la promessa-dazione di denaro commetta l’atto contrario ai doveri di ufficio consistente nella falsa testimonianza; se il soggetto non ponga in essere la falsa testimonianza, risulterà applicabile il solo titolo speciale di subordinazione; nel caso in cui all’accettazione segua il mendacio si pone un problema di rapporti tra corruzione in atti giudiziari e delitto di falsa testimonianza.Rivelato che il testimone non può rendersi soggetto attivo di alcun delitto proprio dei pubblici ufficiali, va rimarcato che la fattispecie di subordinazione è ipotesi speciale rispetto alla corruzione attiva in atti giudiziari.Nella nozione di atti giudiziari possono essere annoverati in via esclusiva gli atti costituenti esercizio della funzione giudiziaria qualora commessi per favorire o danneggiare una parte nel processo. E’ l’operatività delle specifiche attribuzioni del giudice a costituite l’oggetto dell’attività giudiziaria rilevante ai sensi dell’art. 319 ter c.p.

4. Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c. p.)Art. 319-quater c. p. INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITÀ “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.

4.1. La condotta di induzione e l’oggetto di tutelaL'articolo è stato inserito dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 (art. 1) per dare chiarezza ai rapporti tra condotte costrittive e corruzione.La clausola di salvezza mira a ribadire, per i casi di costrizione, la prevalenza dell’art. 317 per il pubblico ufficiale e dell’art.629 c.p. per l’incaricato di un pubblico servizio, non essendoci ulteriori incriminazioni fondate sull’induzione a dare o promettere utilità. Rispetto alla concussione di cui all'art. 317, soggetto attivo può essere, oltre che il pubblico ufficiale, anche l'incaricato di pubblico servizio.

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L’attenzione sul concetto di induzione esprime l’idea della pressione su un terzo affinché tenga un determinato comportamento. Con la riforma del 2012 viene dunque introdotta la punibilità del soggetto privato che è indotto alla dazione o alla promessa di denaro o altra utilità. In precedenza, infatti, al pari del "concusso mediante costrizione", il "concusso mediante induzione" non era punibile, mentre ora invece è considerato concorrente necessario del reato. Prima della legge 6 novembre 2012 n. 190, l’art. 317 c.p. sanzionava in via alternativa la concussione esplicita o violenta e la concussione implicita o induttiva. La condotta induttiva, dunque, si mostrava come uno dei delitti più gravi contro la pubblica amministrazione.Di seguito alla legge 6 novembre 2012 n. 190, invero, la concussione implicita, ora denominata induzione indebita a dare o promettere utilità, ha assunto una autonoma configurazione e disciplina nell’art.319-quater c.p. con un significativo ridimensionamento della fattispecie. Rispetto alla previgente formulazione della concussione per induzione, difatti, la pena è stata ridotta a dimostrare il minore disvalore sociale della condotta induttiva rispetto alla concussione esplicita: l’attuale formulazione della induzione indebita prevede infatti una pena da 3 a 8 anni di reclusione, mentre la concussione implicita ex art. 317 c.p. prevedeva una pena da 4 a 12 anni di reclusione. Il bene giuridico tutelato si evince dalla stessa collocazione della norma tra i delitti contro la pubblica amministrazione ed è rappresentato dal regolare funzionamento della pubblica amministrazione, sotto il profilo del buon andamento e dell’imparzialità ex art. 97 Cost.Prima della modifica di cui alla legge 190/2012, oltre al bene primario, la concussione implicita tutelava in via sussidiaria anche il diritto del cittadino a disporre liberamente del proprio patrimonio senza coazione da parte dei pubblici poteri, con una protezione, dunque, dell’intera sfera dei rapporti che fanno capo al privato. Successivamente alla modifica legislativa, avendo il legislatore ricompreso tra i soggetti attivi del reato di cui al secondo comma dell’art. 319-quater c.p. anche l’autore della promessa o della datio, sia pure sanzionato con una pena più lieve, si ritiene il reato non più plurioffensivo ma solo posto a tutela dell’art. 97 Cost. Resta da chiedersi se l’ipotesi di cui al primo comma (induzione attiva) e l’ipotesi di cui al secondo comma (induzione passiva) siano “frammenti” o parti di un unico reato plurisoggettivo proprio, a concorso necessario, ovvero rappresentino due autonome incriminazioni unisoggettive. La formulazione della norma e la diversa direzione del dolo sembrano privilegiare la seconda impostazione. La condotta del privato (che effettua la datio o la promessa), difatti, pur risultando parte del medesimo “fatto”, non risulta sanzionata nel primo comma. Anche l’oggetto del dolo appare difforme: nella induzione attiva l’agente pubblico vuole deviare la volontà del privato; nella induzione passiva il privato intende promettere o consegnare l’indebito in ragione della induzione abusiva del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.Il delitto di induzione indebita previsto dal primo comma è un reato proprio che può essere commesso dal pubblico ufficiale ovvero dall’incaricato di un pubblico servizio. Soggetto attivo del reato ai sensi dell’art. 319-quater, 2 comma , è il privato autore della promessa o della datio. Soggetto passivo del reato è la pubblica amministrazione offesa nel suo interesse al regolare funzionamento ex art. 97 Cost. La induzione altro non è che la forma attraverso la quale si manifesta esternamente l’abuso. Non qualsiasi dazione o promessa al pubblico ufficiale integra il reato di specie, ma solo quella dazione o promessa determinata da un processo causale di induzione, ricollegabile strumentalmente all’abuso dell’agente. Poiché l’abuso, come si è detto, è parte della stessa condotta induttiva (abuso ed

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induzione sarebbero due momenti della medesima condotta), si ritiene che la induzione rilevante possa essere solo quella attuata attraverso l’abuso e come tale idonea a determinare non tanto un “ piegamento” della volontà (tipico della concussione esplicita), bensì solo una “deviazione” del privato dal suo originario intendimento. Nella induzione indebita, difatti, il privato non perde la capacità di libera determinazione, pur tuttavia cede all’abuso del soggetto pubblico. La condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, dunque, nella induzione indebita, non appare caratterizzata da quella violenza psichica assoluta tipica della concussione, bensì solo da una forma di violenza psichica relativa che non annulla, ma rende solo scemata la capacità di autodeterminazione del privato.

4.2. L’abuso della qualità o dei poteriL’abuso è un elemento costitutivo, essenziale e qualificante il delitto di induzione indebita a dare o a promettere utilità. La struttura oggettiva del reato di induzione è costituita da tre elementi: 1) l’abuso della qualità o dei poteri; 2) l’induzione;3)la dazione ola promessa indebita di denaro o di altra utilità. I primi due possono considerarsi momenti della medesima condotta (e non condotte distinte) nel senso che l’abuso deve avere per effetto l’induzione della vittima; il terzo è l’evento del reato.L’abuso può essere della qualità o dei poteri. Le due manifestazioni di abuso appaiono assolutamente alternative nella fattispecie e dunque risultano equivalenti e fungibili. Si ha abuso della qualità (in rapporto alla soggettività; c.d. abuso soggettivo) quando il soggetto attivo fa un uso indebito della propria condizione personale a prescindere dall’esercizio dei poteri a questa corrispondenti; in sostanza si ha abuso soggettivo quando il soggetto attivo fa un uso non legittimo della propria qualifica soggettiva. Si ha, invero, abuso dei poteri (in rapporto alla oggettività; c.d. abuso oggettivo) quando il soggetto attivo esercita i poteri attribuitigli al di fuori dei casi previsti dalle norme che ne regolano l’esercizio, oppure nei casi previsti ma in modo diverso dal dovuto oppure non li esercita nei casi in cui dovrebbe. Si ha, dunque, l’abuso dei poteri quando si esercita un potere secondo criteri volutamente diversi da quelli imposti dalla sua natura. L’abuso, in generale, consiste nella strumentalizzazione da parte del soggetto attivo della propria qualifica soggettiva o dei poteri esercitabili.

4.3. Dazione o promessa “indebita”L’evento materiale del reato può consistere, indifferentemente, sia nel dare che nel promettere denaro o altra utilità. Tra la condotta di induzione del soggetto attivo e la dazione o la promessa da parte del privato deve sussistere sempre un rapporto di causalità nel senso che il privato deve essere « motivato » dalla condotta del pubblico ufficiale. Per dazione si intende il trasferimento di qualcosa ad altri, sia in senso materiale che in senso simbolico (può essere anche un documento, un’attività lavorativa ovvero ancora prestazioni sessuali). Per promessa si intende l’impegno ad eseguire una prestazione futura di denaro o altra utilità. In quanto effetto di induzione la promessa rappresenta un negozio illecito e quindi radicalmente nullo. Di conseguenza, la promessa, ai finì della rilevanza penale, non necessita di requisiti formali ma deve essere almeno di “apparente credibilità” o comunque “vestita di credibilità”.La promessa è sufficiente a determinare la consumazione del delitto, tanto che l’adempimento di essa non influisce sulla struttura del reato. Destinatari della datio o della promessa possono essere il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio oppure anche un terzo.

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4.4. Dolo. Momento consumativo e tentativoAi fini della sussistenza del reato di induzione indebita è necessaria la presenza del dolo generico che richiede la rappresentazione e la volontà di tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato. Non è richiesto il dolo specifico. Occorre pertanto che il pubblico ufficiale abbia la coscienza e volontà di abusare della sua qualità o dei suoi poteri sino ad indurre il privato a dare o a promettere indebitamente denaro o altra utilità. Occorre inoltre che il privato abbia la coscienza e volontà di promettere o dare indebitamente.

4.5. La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni. Pena accessoriaLa legge anticorruzione incide sul d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche). Con il comma 77 inserisce il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere nella rubrica e nel testo dell’art. 25, comma 2. Pertanto all’ente responsabile di tale illecito si applicherà la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote. In tema di reati societari, viene inserita nel comma 1 dell’art. 25-ter un’ulteriore disposizione, identificata con la lettera s-bis, con cui si applica la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote al fatto di corruzione tra privati previsto dal nuovo art. 2635 c.c., comma 3, ovvero di chi dà a promette denaro o altra utilità ai soggetti indicati nei primi due commi (amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e soggetti a loro preposti). Da ricordare che sulla base dell’art. 26 della Convenzione di Merida ciascuno Stato deve prevedere accanto alla responsabilità delle persone fisiche che hanno commesso i reati anche quella delle persone giuridiche, adottando sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive di natura penale o non penale, comprese le sanzioni pecuniarie

5. I nuovi delitti di traffico di influenze illecite e di corruzione fra privati: cenniArt. 346-bis c.p. TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITA “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie.Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita”.

Art. 2635 c.c. CORRUZIONE TRA PRIVATI “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sè o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.

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Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste.Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.La L. n. 190/2012 introduce, all’interno del codice penale, un nuovo art. 346 bis, rubricato “Traffico di influenze illecite”, ai sensi del quale si prevede la punibilità, con la pena della reclusione da uno a tre anni, di chiunque, fuori del caso di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319 e 319 ter c.p., sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio.Il medesimo trattamento sanzionatorio si applica a chi, indebitamente, dia o prometta denaro o altro vantaggio patrimoniale.La pena è aumentata, ai sensi del terzo comma, se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. La pena è, altresì, aumentata se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie mentre, se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.Scopo della norma è quello di contrastare le attività di mediazione illecite poste in essere da soggetti in cambio della dazione o della promessa indebita di denaro o altro vantaggio patrimoniale. Si tratta di una forma di tutela anticipata, contemplando condotte preliminari rispetto a quelle di cui agli artt. 318, 319 e 319 ter c.p.Il delitto richiede lo sfruttamento di relazioni esistenti con un pubblico funzionario, da parte di un soggetto che indebitamente si faccia dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il pubblico funzionario medesimo.La norma, nel fare riferimento alle “relazioni esistenti”, esclude la possibilità di ricondurre nell’ambito di applicazione della fattispecie i casi nei quali la capacità del mediatore di influire sul soggetto pubblico sia solo apparente.L’art. 2635 c.c. è la disposizione dedicata alla corruzione nel settore privato: rubricato come “Corruzione tra privati” dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando un nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.Ai sensi del secondo comma, se il fatto è commesso da un soggetto sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui sopra, la pena è della reclusione fino a un anno e sei mesi. Il medesimo trattamento sanzionatorio è applicato a chi dia o prometta denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e secondo comma.Le pene sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del Testo

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Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni (quarto comma).In merito ai soggetti attivi del reato si registra una estensione anche a chi sia sottoposto alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti indicati nel primo comma.Rispetto alla versione previgente, la nuova formulazione della norma individua il contenuto dell’oggetto della dazione nell’utilità e nel denaro, individua anche il “terzo” quale soggetto destinatario della dazione o della promessa e prevede che gli atti possano essere commessi od omessi anche in violazione degli obblighi di fedeltà e non più limitatamente in violazione degli obblighi inerenti all’ufficio.La norma configura un reato di danno, subordinando l’applicabilità della sanzione penale al verificarsi di un nocumento alla società, il quale deve derivare dalla commissione o dall’omissione di un atto in violazione degli obblighi d’ufficio.

6. Istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.)L’originaria formulazione dell’art. 322 c.p. disponeva che chiunque offriva o prometteva denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio che rivestiva la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio, soggiaceva, qualora l'offerta o la promessa non fosse accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo. Ai sensi del secondo comma, la pena di cui al primo comma si applicava al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che rivestiva la qualità di pubblico impiegato che sollecitava una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 318.A seguito dell’entrata in vigore della legge 190/2012, il nuovo art. 322 c.p. recita: “Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo.Se l'offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell'articolo 319, ridotta di un terzo.La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 319”.Con il termine offerta si intende l’effettiva e spontanea messa a disposizione di denaro o altra utilità, mentre la promessa consiste nell’impegno ad una prestazione futura. Per l’integrazione del reato di istigazione alla corruzione è sufficiente la semplice offerta o promessa, purché sia caratterizzata da adeguata serietà e sia in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), sì che sorga il pericolo che lo stesso accetti l'offerta o la promessa: non è necessario perciò che l'offerta abbia una giustificazione, né che sia specificata l'utilità promessa, né quantificata la somma di denaro, essendo sufficiente la prospettazione da parte dell'agente, dello scambio illecito.

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Secondo la disciplina vigente, l’istigazione alla corruzione è una fattispecie autonoma di delitto consumato e si configura come reato di mera condotta, per la cui consumazione si richiede che il colpevole agisca allo scopo di trarre una utilità o di conseguire una controprestazione dal comportamento omissivo o commissivo del pubblico ufficiale, indipendentemente dal successivo verificarsi o meno del fine cui è preordinata la istigazione.Secondo la disciplina vigente, l’istigazione alla corruzione è una fattispecie autonoma di delitto consumato e si configura come reato di mera condotta, per la cui consumazione si richiede che il colpevole agisca allo scopo di trarre una utilità o di conseguire una controprestazione dal comportamento omissivo o commissivo del pubblico ufficiale, indipendentemente dal successivo verificarsi o meno del fine cui è preordinata la istigazione.In caso di condanna per il reato in esame troverà applicazione l'art. 32-quater ovvero l'applicazione della pena accessoria della incapacità di contrattare con la P.A.

7. La responsabilità amministrativa di enti, società ed associazioni. Pena accessoriaLa legge anticorruzione incide sul d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche). Per i delitti di corruzione in genere, comprese le istigazione alla corruzione, è prevista anche la responsabilità amministrativa dell’ente, società e associazione nel cui interesse o a cui vantaggio sia stato commesso il reato. La pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici è stata estesa al delitto di corruzione per atto contrario, sanzionato con pena non inferiore a tre anni di reclusione.

8. La concussione (art. 317 c.p.)Art. 317 c.p. CONCUSSIONE: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da 4 a 12 anni”.

8.1. L’evoluzione normativa della fattispecie. L’oggetto di tutela ed i soggettiL’art. 317 c.p., novellato dalla riforma del 2012, è la risultante della scissione della condotta di costrizione attualmente unica forma di agire costitutiva del delitto di concussione, e della condotta di induzione, comportamento che va ad integrare il modello legale di cui all’art. 319-quater c.p.E’ il delitto più grave della classe dei delitti contro la P.A.Le modifiche della riforma del ’90 oltre alla soppressione della pena pecuniaria, hanno interessato la soggettività del reato: accanto al p.u. è stato inserito l’incaricato di pubblico servizio e il termine “funzioni” è stato sostituito da quello più comprensivo di “poteri”.Il codice Rocco ha segnato invece un intervento sulla struttura della fattispecie.Il codice Zanardelli prevedeva due figure delittuose di diversa gravità: la concussione per costrizione (violenta) punita con la reclusione da 3 a 10 anni e la concussione per induzione (fraudolenta) unitamente alla concussione negativa (il p.u. che riceve denaro o altra utilità “giovandosi soltanto dell’errore altrui”) punita con la reclusione da 1 a 5 anni.Il codice vigente ha collocato in un'unica norma, equiparandole sotto il profilo sanzionatorio, concussione per costrizione e concussione per induzione e ha configurato come un’ipotesi particolare di peculato la concussione con approfitta mento dell’altrui stato di errore.Oggetto della tutela sono il buon andamento e l’imparzialità della P.A. aggrediti dall’abuso della qualità o dei poteri posti in essere dall’agente ai fini di vantaggio personale o di terzi; ma altresì la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.Dunque il reato presenta natura plurioffensiva.Soggetti attivi sono il p.u. e

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l’incaricato di pubblico servizio. L’art. 360 c.p. non trova applicazione.Soggetti passivi sia la P.A. sia la persona destinata alla prevaricazione.

8.2 La condotta di “costrizione”Il termine "costringe" dell'art. 317 c.p., modificato dalla L. n. 190 del 2012, significa qualunque violenza morale attuata con abuso di qualità o di poteri che si risolva in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto recante lesione non patrimoniale o patrimoniale, costituita da danno emergente o lucro cessante.Nella concussione viene minacciato un danno ingiusto, ossia un risultato sfavorevole: vi è la “costrizione” della vittima perché il pubblico ufficiale rappresenta che egli, violando la legge, recherà un danno ingiusto, patrimoniale o non patrimoniale, costituito da danno emergente o da lucro cessante.Nella induzione di cui al successivo articolo 319-quater del c.p., vengono minacciate conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge per ricevere il pagamento o la promessa indebita di denaro o di altra utilità. Non vi è quindi la minaccia di un male ingiusto, ma viene prospettata una qualsiasi conseguenza dannosa che “non sia contraria alla legge” e che il privato, quindi, dovrebbe comunque legittimamente subire. Ciò che spiega la punibilità anche del privato, il quale agisce in fondo per ottenere un vantaggio dalla non applicazione della legge.

8.3. Costrizioni, induzione e problemi di diritto intertemporale Abusando delle qualità o dei poteri il pubblico agente costringe o induce il soggetto passivo a dare o a promettere denaro od altra utilità.Il vantaggio che egli ottiene è il risultato del condizionamento psicologico che in forza dell’abuso, determina nella vittima.L’abuso deve essere idoneo e diretto in modo non equivoco a costringere o a indurre alla dazione (altrimenti estorsione).Nel caso in cui l’abuso difetti e il soggetto effettui la prestazione per il particolare stato psicologico in cui versa, non risulterà integrato il reato.Costrizione: la volontà del soggetto viene piegata a una determinazione cui egli non addiverrebbe in assenza di una condotta impositiva e avvertita come cogente; dà o promette per scongiurare la conseguenze negative rappresentate dall’agente.Induzione: per alcuni indurre sta per “induzione in errore” in linea con l’unificazione operata dal legislatore del ’30; per altri consiste non solo nell’ingannare ma anche nel convincere quale coazione implicita, subdola persuasione che suggestionando il soggetto passivo i ispirandogli timore, ne forza la volontà.Non rilevano i mezzi artificiosi, quelli cioè che mediante l’inganno determinano il errore il privato: si parla di induzione e non di induzione in errore; l’induzione agisce sull’intelletto, sul quadro conoscitivo della vittima e non sulla volontà; si finirebbe altrimenti a far coincidere la concussione con la truffa aggravata (art. 61, n.9 c.p.).Il soggetto passivo deve avere la consapevolezza di dare o promettere il “non dovuto”. La vittima cioè agisce motivato dalla condotta abusiva posta in essere e si determina a offrire all’agente l’indebito, in quanto consapevole del sopruso.

8.4. Dazione e promessa “indebita”Promettere sta per assumere l’impegno di una prestazione futura, esternandolo in qualche modo. “Altra utilità” vale a chiarire che oggetto della concussione possono essere non solo utilità economiche ma anche vantaggi morali.La dazione e la promessa devono materializzarsi “indebitamente”.

8.5. Dolo. Momento consumativo e tentativo.

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Il dolo è generico e consiste nella rappresentazione e volontà dell’agente pubblico di abusare della qualità o dei poteri e di costringere o indurre il soggetto passivo a dare o promettere denaro o altra utilità; e ciò nella consapevolezza del carattere indebito della dazione- promessa.Rileva l’errore sul fatto come sulla legge extra-penale.La concussione si consuma con la dazione o la promessa.Il tentativo è configurabile. Costituisce tentata concussione la condotta abusiva ex ante idonea, quando la vittima agisca con la riserva mentale di non mantenere la promessa o effettui la dazione simulata (es. preventiva denuncia del fatto con consegna del denaro concordata con le forze della polizia): il soggetto passivo messo di fronte all’alternativa dare-promettere o subire, non risulta limitato nella sua capacità di autodeterminazione e non assume alcun reale impegno, anzi respinge l’alternativa.

8.5. La responsabilità amministrativa di enti, società ed associazioni. Pena accessoriaAnche per il delitto di concussione, il d.lgs. n. 231/2001 prevede accanto alla responsabilità penale del p.u. e dell’i.p.s. anche la responsabilità amministrativa dell’ente, società o associazioni nel cui interesse o nel cui vantaggio il reato sia stato commesso.La condanna per il reato di concussione comporta l’interdizione, perpetua o temporanea dai pubblici uffici (art. 317-bis c.p.).

Sezione VRifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328 c.p.)Art. 328 c.p. RIFIUTO DI ATTI D’UFFICIO. OMISSIONE “Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.”

1. le ragioni della riformulazione della fattispecie incriminatriceL’art. 328, nella formulazione introdotta con la riforma del 1990, include due autonome fattispecie incriminatrici. Con la prima, per la quale è prevista una pena più grave, è sanzionato il fatto del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che rifiuta indebitamente un atto che, per ragioni specifiche, indicate dalla norma, deve essere compiuto senza ritardo. Con la seconda fattispecie, contenuta nel secondo comma, è incriminata la condotta consistente nel non compiere, entro trenta giorni dalla richiesta di chi abbia interesse, l’atto dovuto, senza rispondere per esporre le ragioni del ritardo.Il bene tutelato dalla norma in esame è il normale funzionamento della pubblica amministrazione, di cui costituisce presupposto ineludibile l’effettività, tempestività ed efficacia dell’adempimento delle pubbliche funzioni e delle prestazioni dei pubblici servizi.

2. Struttura ed elementi costitutivi del fatto-reatoQuanto al soggetto attivo, le fattispecie in esame costituiscono esempi di reati propri, che possono essere compiuti soltanto dal pubblico ufficiale e dall’incaricato di pubblico servizio. Quanto alla

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condotta punibile, l’attuale formulazione dell’art. 328 opera una netta distinzione, nel primo e nel secondo comma, tra la condotta di rifiuto di atti d’ufficio e quella dell’omissione.La condotta di rifiuto prevista dal primo comma dell’art. 328 c.p. può estrinsecarsi in qualsiasi forma: scritta, orale ovvero attraverso atti significativi. Può essere anche espressa in modo implicito. Il primo comma dell’art. 328 commina la sanzione penale per il rifiuto non di qualsiasi atto d’ufficio, ma solo di quelli che per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità debbano essere compiuti senza ritardo. Il reato in esame non è dunque integrato “qualora l’atto, pur rispondente alle ragioni indicate nell’art. 328, non riveste carattere di indifferibilità e di doverosità”.Quanto alla fattispecie di cui al secondo comma la condotta consiste nel mancato compimento dell’atto d’ufficio richiesto, senza che vi sia una risposta che giustifichi le ragioni del ritardo.Trattasi di reato plurioffensivo. Quanto all’elemento soggettivo, il dolo del pubblico funzionario deve comprendere non solo la consapevolezza e la volontà di omettere un atto del proprio ufficio, ma anche la consapevole volontà di agire indebitamente.Secondo l’opinione unanime della giurisprudenza i delitti di cui all’art. 328 c.p. non sono compatibili con il tentativo, trattandosi di reati istantanei; verificatasi la violazione del dovere di ufficio o del servizio, il reato è consumato.Il reato di omissione di atti d’ufficio può altresì concorrere con altri reati, come ad es. quello di corruzione, qualora, ad esempio, il pubblico ufficiale, una volta ricevuto il prezzo della corruzione, ometta effettivamente di compiere l’atto dovuto, sempre che, l’omissione, il rifiuto o il ritardo sia l’atto pattuito con tale delitto (la corruzione).


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