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Frontiere migratorie Governance della mobilità e trasformazioni della cittadinanza Carmelo Buscema Alessandro Corrado Mariafrancesca D’Agostino
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Frontiere migratorie

Governance della mobilità e

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ISBN 978–88–548–2789–9

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I edizione: ottobre 2009

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Migrazioni per lo sviluppo.

Modelli di cooperazione

e politiche di co-sviluppo

di Alessandra Corrado

Introduzione

Il riferimento alle migrazioni in associazione ai temi della

sicurezza, dell’ordine pubblico, della gestione dei flussi è diven-tato sempre più ricorrente nel discorso politico ed anche in quel-lo dei mass media, cassa di risonanza delle posizioni dominanti e di linee governative e partitiche. L’ostilità crescente da parte dell’opinione pubblica verso migranti di diversa provenienza e appartenenza, rifugiati, rom o nomadi, è il prodotto di una “macchina tautologica della paura”, alimentata, oltre che dal di-scorso politico e dalle cronache dei media, da un “diritto specia-le” riservato ai migranti, ovvero da una produzione normativa finalizzata a definire in categorie specifiche e particolari le per-sone straniere, non nazionali o “extracomunitarie” (Dal Lago 1999). Tale meccanismo ha contribuito alla progressiva stigma-tizzazione, criminalizzazione e clandestinizzazione delle migra-zioni, al crescere di nuove e vecchie forme di discriminazione e di razzismo (Anderson 2004; Bojadzijev et al. 2004; Crush J. e Ramachandran 2009; Lunaria 2009; Palidda 2009), in maniera funzionale all’attuale riorganizzazione del sistema economico e sociale.

Tuttavia, la più recente analisi scientifica sulle migrazioni sembra sempre di più preferirne l’associazione ai temi dello svi-luppo, non concependo però la problematica come relativa solo

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alle dinamiche di cambiamento che interessano i paesi di pro-venienza o neppure, in seconda battuta, in termini di effetti pro-dotti in quelli di arrivo. In un mondo sempre più integrato, per effetto dei processi di globalizzazione, dove le divisioni Nord-Sud, Centro-Periferia vengono interpretate in maniera sfumata, la questione dello sviluppo è letta in termini di global policy is-

sue, divenendo oggetto di strategie e politiche di governance da parte delle Istituzioni Internazionali. Mobilità e migrazioni e-mergono come fattori chiave per l’integrazione dell’economia globale e per il perseguimento di dinamiche di crescita positive e sostenute. D’altra parte, la stessa letteratura ha oramai ben e-videnziato l’ineluttabilità, inarrestabilità e la crescente autono-mizzazione dei processi migratori, apprezzandone il carattere transnazionale, pure adottando spesso interpretazioni funziona-liste, interessate a cogliere più le connessioni che non il caratte-re destrutturante di tali processi, oppure semplicemente rispon-denti all’interesse politico-istituzionale per un governo ottimale delle migrazioni (Castles 2008a).

Ora, intento di questo lavoro è, dapprima, operare una sintesi delle innovazioni analitiche prodotte riguardo alla relazione tra migrazioni e sviluppo, che negli ultimi anni sembra aver trovato una sintesi in un concetto, quello di co-sviluppo, accreditatosi negli ambienti politici e della cooperazione internazionale. Si procederà poi con l’analizzare l’utilizzo del concetto nel “cam-po del politico”, guardando a diversi livelli: quello nazionale, quello europeo e quello territoriale. A ciascun livello corrispon-dono approcci di cooperazione e dispositivi diversi. L’ipotesi è che, apprezzata la capacità trasformativa ed innovativa delle migrazioni, il potenziale delle forme di socialità da queste pro-dotte, la strumentalità politica (oltre che economica) della mobi-lità, la tendenza sia quella di articolare un sistema di governan-

ce basato sulla selezione, sulla formalizzazione delle forme or-ganizzative e di socialità delle migrazioni, al fine di “responsa-bilizzare” le stesse per lo sviluppo delle comunità e dei territori di origine, il controllo della mobilità, l’integrazione nell’econo-mia transnazionale.

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Migrazioni per lo sviluppo

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L’evoluzione del rapporto tra migrazioni e sviluppo

Il rapporto tra migrazioni e sviluppo è stato oggetto di studi e di interpretazioni che, a partire dagli anni ’50 e ’60, hanno vi-sto contrapporsi visioni ispirate alla teoria economia neo-classica e quelle invece di matrice storico-strutturalista. Nel modello neo-classico, il migrante è un individuo che compie una scelta razionale calcolando costi e benefici relativi al rima-nere nel contesto di appartenenza oppure al partire. Le sue con-siderazioni pesano soprattutto vantaggi/svantaggi economici in termini di condizioni salariali ed opportunità di impiego. La teo-ria neoclassica interpreta le migrazioni – inizialmente quelle ru-rali verso i contesti urbani – in stressa relazione con i processi di modernizzazione e di sviluppo che, nel lungo periodo, per-verranno alla rimozione degli stessi fattori migratori. Questo modello interpretativo è collocato entro il paradigma funziona-lista dell’analisi sociale dal momento che, sulla base del pareg-giamento del prezzo dei fattori (factor price equalization) – i-gnorando l’esistenza di imperfezioni di mercato o di ogni tipo di condizionamento strutturale – si assume che le forze economi-che tendano automaticamente ad un equilibrio. Le migrazioni sono parte di questo ingranaggio che, migliorando gli squilibri di mercato, i differenziali di reddito, l’allocazione dei fattori produttivi, non può che contribuire allo sviluppo dei paesi di partenza. Gli assunti qui sintetizzati sono alla base degli ap-procci push-pull, per cui fattori di spinta e di attrazione presie-dono all’origine e organizzazione delle migrazioni. Tale visio-ne, giudicata astorica, individualista ed eurocentrica, ha trovato un’opposizione critica nell’elaborazione dell’approccio storico-strutturalista, che affonda invece le sue radici nell’analisi neo-marxista dello sviluppo ed in particolare nelle teoria della di-pendenza, elaborata a partire dagli anni ’60 dagli studiosi della CEPAL (Comisión Económica para América Latina y el Cari-be). Questo approccio legge le migrazioni come il prodotto del-le condizioni di sottosviluppo determinate dall’espansione capi-talistica, che nel suo progredire ha strutturato una “economia mondo”, con un centro (sede dei processi di accumulazione) e

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delle periferie (in cui avviene l’estrazione di risorse). Le migra-zioni sono interpretate come “escrescenza naturale” delle di-struzioni e dislocazioni intrinseche al processo dell’accumu-lazione capitalistica: la penetrazione capitalistica nelle periferie e la sussunzione delle forme di riproduzioni preesistenti sono alla base dei processi di proletarizzazione. Le migrazioni sono lette come la modalità attraverso la quale mobilitare forza lavo-ro a basso costo da immettere nel sistema della valorizzazione e, allo stesso tempo, riprodurre le condizioni di scambio inegua-le e dunque di sottosviluppo, con cui le periferie sono incorpo-rate nell’economia mondo. Questo processo di drenaggio delle risorse è evidentemente l’opposto del pareggiamento o del rie-quilibrio ipotizzato dalla teoria neoclassica: invece di circolare nella direzione opposta a quella del capitale, come predetto dal-la teoria neo-classica, l’idea in questo caso è che il lavoro segua la direzione del capitale. L’approccio strutturalista è stato a sua volta criticato per il carattere deterministico e rigido, soprattutto nell’interpretare i migranti come vittime o pedine mosse dalle forze di mercato, completamente assoggettate al capitale, in grado di farne ciò che vuole. Aspetto, questo, che ha fatto anche parlare di un “funzionalismo implicito” alla teoria strutturalista delle migrazioni (Cohen cit. in Sivini 2000). Pertanto, volendo sintetizzare, se l’approccio di matrice neo-classica legge il rap-porto migrazioni-sviluppo nei termini di circolo virtuoso, di contro l’approccio di matrice neo-marxista lo legge nei termini di circolo vizioso (Castles 2008b).

Nel corso degli anni, molti studi sono stati prodotti, tutti per lo più riconducili ai due paradigmi principali (quello funzionali-sta e quello strutturalista), ai quali sono stati apportati elementi correttivi nel tentativo di renderli più aderenti alla realtà e so-prattutto di adeguarli ai cambiamenti intervenuti in seguito alla crisi economica scoppiata negli anni ’70 e alla ristrutturazione capitalistica intervenuta a livello globale – realizzata attraverso la delocalizzazione produttiva, l’organizzazione di zone di libe-ro scambio, l’implementazione di politiche neoliberiste ed il coinvolgimento di nuove aree geografiche e popolazioni nei processi di valorizzazione economica. Gli approcci della causa-

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zione cumulativa, delle reti, dei sistemi migratori, insieme con quelle definite come teorie della transizione (transitional teo-

ries) (de Haas 2008) – in virtù del tentativo di collegare la mo-bilità ai processi di sviluppo e di integrazione economica – han-no cercato e in parte sono riusciti ad apportare significativi ag-giustamenti alle analisi formulate sulla base dei due paradigmi dominanti (Massey et al. 1998; Castels e Miller 2003; Sivini 2000, 2005), sostanzialmente collegando le dinamiche dei pro-cessi migratori con i contesti di origine e di destinazione, con i cambiamenti del sistema capitalistico, con lo sviluppo progres-sivo di relazioni e interconnessioni di vario tipo a livello globa-le.

Presi insieme, essi ci sono di aiuto a comprendere come la migrazione evolve nel tempo – e cambia nella sua natura, magnitudine, destina-zione e selettività – ed è reciprocamente collegata al più ampio pro-cesso di sviluppo. Questa prospettiva teorica è fondamentalmente in conflitto con e superiore rispetto agli statici e astorici approcci push-pull, neo-classico e strutturalista, i quali focalizzano tutti sulla – erro-nea – statica nozione per cui migrazione e sviluppo sono sostituiti piuttosto che complementi (de Haas 2008).

Gli studi sulla new economics of labour migration (NELM),

sulle condizioni di vita e sul transnazionalismo sono invece col-locati all’interno di un più ampio cambio paradigmatico relativo all’analisi sociale: dai due paradigmi dominanti, quello struttu-ralista e quello funzionalista, ad approcci più ibridi e plurali, tendenti ad armonizzare i rapporti fra attori sociali e struttura. Questo cambiamento paradigmatico è visto all’origine del so-stanziale “ottimismo” relativo al potenziale di sviluppo delle migrazioni, e ciò in virtù: dell’abilità di individui, famiglie e comunità di fronteggiare i condizionamenti strutturali; del carat-tere transnazionale assunto dalle migrazioni contemporanee – considerandone la capacità di connessioni e l’appartenenza mol-teplici, così come il coinvolgimento in contesti diversi e plurali attraverso una mobilità sempre più circolare ed un impiego sempre più flessibile. Tuttavia, questo cambiamento a livello

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analitico riflette in parte la svolta occorsa a livello delle politi-che di sviluppo in un’ottica neoliberista.

De Haas ricostruisce la successione storica degli orientamen-ti rispetto al rapporto tra migrazione e sviluppo distinguendo a partire dal secondo dopoguerra, quattro diversi periodi: il primo fino al 1973, dominato dalle teorie della modernizzazione e ne-oclassica, caratterizzato da un sostanziale ottimismo rispetto al-la relazione migrazione-sviluppo; il secondo, dal 1973 al 1990, contrassegnato invece dalla diffusione delle teorie strutturaliste e neomarxiste, e da un sostanziale pessimismo; il terzo, dal 1990 al 2001, che vede ancora un pessimismo persistente e la rielaborazione delle politiche di immigrazione; il quarto, dal 2001 in poi, caratterizzato da un nuovo ottimismo, in seguito al boom di studi condotti nel solco di nuovi approcci (come quello della NELM) e di un cambio di paradigma.

La nuova “ondata di interesse” (Newland 2007) rispetto al rapporto tra migrazioni e sviluppo, soprattutto da parte delle or-ganizzazioni sovranazionali e internazionali1, deriva in primo luogo dall’apprezzamento dei trasferimenti di risorse di tipo fi-nanziario, ma anche sociale e cognitivo, veicolato attraverso le migrazioni. Si è così nutrita una crescente aspirazione – anche da parte di governi nazionali e agenzie di sviluppo – ad andare “oltre le rimesse” (Newland and Patrick 2004) e a supportare l’impegno transnazionale di individui e collettività migranti per lo sviluppo dei paesi di origine, a “mobilitare” i migranti per la cooperazione allo sviluppo.

1 Per una rassegna dei principali interventi e programmi promossi dalle Istituzioni

Internazionali per l’analisi delle connessioni tra migrazioni e sviluppo e l’implementazione di progetti di cooperazione ad hoc si veda de Haas 2006. Tra le ini-ziative più significative è in ogni caso possibile citare il programma Migration for De-velopment in Africa (MIDA), lanciato nel 2001dall’OIM in collaborazione con l’Organization of African Unity (OAU); a partire dalla fine del 2003, è poi promossa la Global Commission on International Migration (GCIM), organismo indipendente sup-portato da un core group di 32 stati e incaricato di formulare raccomandazioni per la governance delle migrazioni internazionali; e poi, ancora, il United Nation High Level

Dialogue on Migration and Development.

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Il nuovo consenso intorno al nesso migrazioni-sviluppo

Un nuovo consenso intorno al nesso migrazioni-sviluppo si è progressivamente affermato (Nyberg-Sørensen et al. 2002). Vi hanno contribuito: il carattere transnazionale delle pratiche mi-granti, la crescita esponenziale delle rimesse, la mobilitazione e l’impegno delle diaspore spesso organizzate in forme associati-ve. Questi fattori hanno prodotto una “svolta transnazionale” anche nelle analisi (Levitt e Nyberg-Sørensen 2004), facendo ri-tenere che i migranti e le loro organizzazioni possano essere importanti partners nell’implementazione di iniziative di svi-luppo e di cooperazione.

L’accezione originaria della prospettiva transnazionale da conto del “processo mediante il quale i migranti costruiscono campi sociali che legano insieme il paese d’origine e quello di insediamento” (Glick Schiller et al., 1992: 1), ponendo al centro i legami, gli spostamenti e le attività che connettono i migranti con i luoghi d’origine e con altri terminali dei movimenti di persone e famiglie. Il transnazionalismo porta così alla luce le innovazioni prodotte dai migranti attraverso il loro coinvolgi-mento simultaneo in più contesti. La portata dell’approccio può essere apprezzata valutando non tanto la dimensione spaziale e l’evidenza data alle connessioni prodotte dalle migrazioni, quanto la produzione autonoma di attività e processi che riesco-no a trasformare le condizioni strutturali, ovvero ad erodere le strategie di potere e di controllo delle differenze proprie degli stati nazione (Castles 2004).

Tuttavia, nell’interpretazione progressivamente elaborata nell’ambito della new economics of labor migrations, l’intersezione tra transazionalismo e sviluppo è ricavata soprat-tutto nell’investimento e nel commercio veicolati dai migranti, quali fattori critici per la crescita e la modernizzazione. Orozco et al. (2005) derivano la definizione di una integrazione tran-

snazionale, dando evidenza della funzionalità del lavoro mi-grante, della mobilità all’interno dell’economia globale, di cui il migrante diviene collante, proprio in virtù della capacità di par-tecipazione, di consumo e di investimento.

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All’interno di questo framework, le rimesse sono appunto in-terpretate come una manifestazione di una più ampia integra-zione economica a livello globale. Gli studi prodotti hanno poi evidenziato la maggiore efficacia delle rimesse ai fini della re-distribuzione del reddito, della riduzione della povertà e della crescita economica – soprattutto a confronto con i mastodontici e burocratici programmi di aiuti allo sviluppo. In breve, le ri-messe dei migranti sono valutate sempre più come una forma ideale di finanza ed innovazione per lo sviluppo dal basso. Se-condo Kapur (2003), le migrazioni e le rimesse sono attualmen-te percepite – dalle diverse organizzazioni, internazionali, go-vernative e non governative – come il nuovo “mantra dello svi-luppo”, con un’euforia tale da giustificarsi come reazione ai fal-limenti dei precedenti strumenti – come fu già per i flussi di ca-pitali privati a metà degli anni ’90. Lo stesso evidenzia come ta-le enfasi sulle rimesse si iscriva in un approccio comunitario, da “terza via”, rispecchiando il principio del self-help: i migranti si configurano così come nuovi donors di una forma “privata” di aiuto estero. Tuttavia, questo ottimismo risulta fortemente ideo-logico, considerandone la coerenza con il pensiero neoliberista dominante, e chiede piuttosto di interrogarsi sugli effetti desta-bilizzanti che anche le rimesse possono avere a livello globale.

Il modello win-win – al quale si ispira l’approccio delle Isti-tuzioni Internazionali e sempre più anche quello dell’Unione Europea (CEC 2005) – tralasciando le cause originarie, in so-stanza postula che le migrazioni producano benefici, sia per i paesi di partenza, sia per quelli di arrivo. Il legame tra migra-zioni e sviluppo si baserebbe sull’attivazione del circolo virtuo-so delle 3R: reclutamento, rimesse e ritorni. La prospettiva della migrazione circolare (Agunias 2006) dovrebbe ispirare le politi-che degli stati e ad essa dovrebbe essere costretta l'esperienza dei migranti, ovvero la mobilità dovrebbe essere regolata in rapporto ai vincoli ed alle potenzialità di movimento del capita-le produttivo e in funzione della crescita economica. Secondo Vitale (2005), questo è l’assunto principale di un modello di re-golazione che ha come finalità il controllo della riproduzione del proletariato mondiale e la trasformazione delle migrazioni in

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forza valorizzatrice del capitale. Ad ispirarlo vi sarebbe la nuo-va teoria della crescita economica della Banca Mondiale, fonda-ta sulla produttività del lavoro e sul capitale finanziario (Collier e Dollar 2003). Sulla base della prospettiva delle 3R possono dunque meglio comprendersi i “regimi delle politiche migrato-rie-di sviluppo”, implementati attraverso le politiche nazionali o gli accordi transnazionali. I discorsi sugli skills e sul brain-

drain giustificano, da un lato, la chiusura all’immigrazione de-qualificata (almeno regolare), l’incentivazione a quella selezio-nata e temporanea (si vedano le riforme di legge promosse in USA e Francia) e, dall’altro, la previsione del ritorno nei paesi di origine. Per le rimesse, invece, si incoraggia l’investimento produttivo o la canalizzazione produttiva – da ciò anche il so-stegno alla “bancarizzazione” delle stesse. L’apertura alle mi-grazioni è perciò interpreta dall’analisi strutturalista come ri-spondente ad una “nuova divisione internazionale del lavoro funzionale all’istanza imperiale” di crescita globale (Vitale 2005). Nel contempo, paradossalmente, le politiche migratorie nazionali continuano a produrre condizioni di irregolarità e con-tribuiscono ad una clandestinizzazione a livello sociale. Il risul-tato è quindi uno scenario complesso in cui, se da una parte si incentiva la valorizzazione economica di una mobilità selezio-nata e qualificata, dall’altra si producono condizioni di invisibi-lizzazione sociale e di discriminazione delle migrazioni.

Il co-sviluppo come campo del politico All’interno di questo modello, il concetto di co-sviluppo è

stato progressivamente assunto a sottolineare il ruolo delle mi-

grazioni per lo sviluppo, tanto dei paesi di origine che per quelli di destinazione. Utilizzato per decifrare le forme di cooperazio-ne e di organizzazione collettiva spontaneamente prodotte dalle migrazioni per sovvenire ai propri bisogni (Daum 1994, 1997, 1998; Sivini 2000; Quiminal 1992, 1994) – e definibili in ter-mini di “innovazione sociale” –, il concetto di co-sviluppo è sta-to progressivamente appropriato dalla retorica politico-

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istituzionale, per indicare forme di cooperazione diverse, che si iscrivono invece nel disegno di un sistema di governance artico-lato attraverso politiche, programmi e dispositivi specifici.

La natura e gli obiettivi di questi strumenti di co-sviluppo differiscono in funzione del livello di messa in opera. A livello degli Stati, il co-sviluppo si iscrive per lo più nella strategia globale di controllo dei flussi; a livello delle collettività locali, invece, esso può mirare: a) all’inserimento delle popolazioni migranti nel territorio di accoglienza; b) all’internaziona-lizzazione o integrazione economica dei territori coinvolti. Guardando alle esperienze europee, se la Gran Bretagna tenta di integrare le migrazioni nella sua politica di cooperazione allo sviluppo, sono la Spagna, l’Italia e dapprima la Francia ad avere esplicitamente adottato il co-sviluppo in una prospettiva di ge-stione dei flussi migratori, ma a sperimentare anche forme di cooperazione decentrata nei territori locali.

L’esempio francese fa scuola

Il concetto di co-sviluppo fu introdotto in Francia nel corso degli anni ’70, nei circoli terzomondisti del partito socialista. Dal 1977 al 1986, l’obiettivo di queste politiche è stato quello di ridurre la popolazione immigrata stimolandone il ritorno – at-traverso programmi di aiuto al ritorno (aide au retour, 1977-1980) e di aiuto al reinserimento (aide à la réinsertion, fino al 1983). I principali strumenti utilizzati consistevano in bonus concessi ai migranti per promuovere nuove condizioni di esi-stenza oppure nell’offerta di formazione professionale prima del ritorno. Tuttavia, pochi migranti hanno partecipato a questi pro-grammi e per la maggior parte si è trattato di portoghesi e spa-gnoli rientrati nei rispettivi paesi in seguito ai processi di demo-cratizzazione e di rilancio economico. Progressivamente, le po-litiche esplicite di ritorno sono state abbandonate e dal 1986 i discorsi politici si sono focalizzati sull’aiuto allo sviluppo come strumento utile per ridurre la “pressione migratoria” nei paesi di origine. Tuttavia, sebbene il ritorno non si configura più come il principale strumento di intervento, la prospettiva sottostante re-sta quella di ridurre le migrazioni strumentalizzando l’aiuto. Un

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ruolo nuovo viene così attribuito alle associazioni della diaspora orientate ai problemi dello sviluppo – le OSIM (Organisations

de Solidarité Internationale Issues des Migrations) – la cui co-operazione nelle politiche di sviluppo viene giudicata necessaria al fine di governare i flussi migratori2.

Nel 1991, viene nominato un responsabile inter-ministeriale per il “reinserimento e la cooperazione” all’interno dell’ufficio del Primo Ministro e, nel 1995, viene lanciato il Programme

Développement Local Migration (PDLM), come prima misura concreta nella prospettiva odierna delle politiche di co-sviluppo. Il Programma – che si ispira in particolare al significativo con-tributo della migrazione senegalese e maliana allo sviluppo a-gricolo nella valle del fiume Senegal – si propone di facilitare progetti di sviluppo locale e di offrire aiuto, individuando e rac-cordando partners progettuali come le OSIM, municipalità ge-mellate e Ong di sviluppo. Un secondo asse del programma prevede supporto tecnico e finanziario per progetti individuali di ritorno. Questi programmi hanno promosso il ritorno di mi-granti senegalesi e maliani, fornendo assistenza per il reinseri-mento, nella forma di crediti per l’investimento economico o di programmi di formazione, ecc. (Raunet 2005). La novità dei PDLM deriva dunque dall’aver sostituito, come finalità delle politiche migratorie e di sviluppo, il rientro dei migranti nei pa-esi di origine – ovvero l’inversione dei flussi migratori – con l’arresto delle migrazioni stesse attraverso lo sviluppo. Queste politiche si basano infatti sul presupposto per cui lo sviluppo delle zone di partenza può fornire un’alternativa all’emigrazione e perciò contribuire alla diminuzione dei flussi (Daum 1998). Le debolezze di questo programma derivano non solo delle limitate risorse messe a disposizione, quanto soprat-tutto dall’ignorare il fatto che lo sviluppo e le trasformazioni socio-economiche prodotte tendono ad essere associate ad un

2 Il Forim è il risulato di questa visione. Si tratta di una piattaforma associativa di

OSIM creata nel 2001 e incaricata di rappresentare le organizzazioni di migranti di fron-te a partners pubblici e privati.

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aumento delle migrazioni stesse, almeno del breve-medio pe-riodo (Lacroix 2009).

È nel 1997 che, nell’ambito della missione interministeriale Migratoins et codéveloppement, il rapporto prodotto da Samir Nair da al termine co-sviluppo l’accezione corrente. Lo studioso chiarisce che il co-sviluppo non ha per obiettivo il ritorno dei migranti e che non vi è da aspettarsi il governo dei flussi attra-verso lo sviluppo dei paesi di origine. L’aspetto principale posto in evidenza è invece il ruolo del migrante come “attore consa-pevole di sviluppo”. Il rapporto contiene i fermenti di una poli-tica multiforme di aiuto, finalizzata soprattutto “a rafforzare l’integrazione in Francia pur favorendo la solidarietà attiva con i paesi di origine, a creare le condizioni sociali per aiutare i po-tenziali migranti a rimanere” (Nair 1997: 3). Viene così definita una politica sfaccettata, che include non solo l’amministrazione centrale, ma anche le collettività territoriali, le associazioni, le imprese e le università. Sulla base delle raccomandazioni del rapporto Nair, è creata la MICOMI (Mission Interministérielle

Codéveloppement et Migrations Internationales) incaricata di realizzare i dispositivi della nuova politica. Tuttavia, a partire dal 1998, l’azione di quest’organismo viene minata nella sua credibilità – soprattutto di fronte alle OSIM – dal momento che il governo incarica lo stesso di accompagnare il ritorno dei re-spinti dell’onda di regolarizzazione occorsa nello stesso anno (ne è lo strumento il Contrat de Réinsertion dans le Pays

d’Origine, CRPO). Nel 2002, il nuovo governo rimpiazza la MICOMI con un Ambasciatore al co-sviluppo, incaricato di ne-goziare l’organizzazione di nuovi dispositivi con i paesi di ori-gine. Collegato amministrativamente alla segreteria generale del Ministero degli Affari Esteri, egli ha un ruolo di progettazione, coordinazione, di dialogo con le associazioni dei migranti; la realizzazione dei progetti è assicurata attraverso i servizi del ministero. Nel 2003, il governo fissa le linee generali della nuo-va politica di co-sviluppo. Essa è strutturata intorno a tre assi: a) l’appoggio ai progetti di sviluppo promossi dai migranti nei pa-esi di origine (con o senza il ritorno da parte degli interessati); b) la mobilitazione delle competenze dei migranti qualificati; c)

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la mobilitazione del risparmio dei migranti facilitando i trasfe-rimenti monetari3. Nel 2006, la creazione di un nuovo Ministero dell’Immigrazione, dell’Identità Nazionale e del Co-sviluppo (poi tramutato in Sviluppo Solidale), da parte di Nicolas Sar-kozy, è l’ultima tappa di questa evoluzione della politica france-se di co-sviluppo, esplicitamente finalizzata ad una migliore ge-stione dei flussi migratori (MIINDS 2009).

I fallimenti della politica nazionale di co-sviluppo sono però denunciati dallo stesso Nair, constatando soprattutto i limiti alla libertà di circolazione:

Nous avions promis aux Etats africains de construire avec eux une telle politique, fondée sur des mécanismes précis: le financement des microprojets, une relative liberté de circulation pour certaines catégo-ries de population, l'augmentation du nombre de visas pour les étu-diants et la possibilité pour eux de retourner dans leur pays d'origine sans perdre le droit de revenir en France. Il s'agissait aussi de former des travailleurs dans des secteurs correspondant à l'intérêt de ces pays : l'hôtellerie, le tourisme... L'idée était de fixer, en concertation avec les pays d'origine, des contingents de personnes qui viendraient se former et qui repartiraient chez eux, mais en conservant la possibilité de revenir en France4.

Bayart (2007) va oltre, definendo la nozione di co-sviluppo

nei termini di una “finzione”, in quanto: “tiene a distanza i mi-granti assegnandogli uno spazio, quello dello sviluppo del loro villaggio, e interdicendogli altri spazi, quelli della cittadinanza nella loro società di accoglienza e dell’accumulazione nell’economia globale; “indigenizza” l’Africa; funge da “ingra-naggio dell’amministrazione indiretta del limes maghrebino e saheliano dell’Europa, verso il quale la stessa esternalizza la sua politica anti-immigrazione con un briciolo di carità interessata”; “asservisce l’aiuto al ministero degli Interni”. In pratica, per Bayart, si tratta di una “compensazione ruffiana che si concede

3 In quest’ottica, il ministero della cooperazione ha promosso la creazione di un sito

internet (www.envoidargent.fr) per fornire informazioni relative al trasferimento di de-naro.

4 «Sami Naïr Les migrations, une chance pour l'économie», Le Monde, 26 novem-bre 2006.

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ad un domestico divenuto importuno perché si allontani senza chiasso”.

Il co-sviluppo nella politica europea di gestione delle migrazio-

ni

A partire dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999, anche il dibattito politico europeo volto a conciliare le politiche migratorie con le politiche di sviluppo ha conosciuto una profonda evoluzione. In occasione del Consiglio Europeo straordinario di Tampere il concetto di co-sviluppo viene intro-dotto a livello europeo, menzionato nell’ambito delle cinque li-nee del new comprehensive approach che caratterizza la nuova politica migratoria europea nell’ottica della costruzione di uno “spazio comune di libertà, giustizia e sicurezza”: a) nuovi canali per l’immigrazione legale; b) lotta all’immigrazione illegale; c) politiche di immigrazione a largo spettro; d) partnership con i paesi di origine; e) ammissione per ragioni umanitarie. Su que-ste basi è costruita la Fortezza Europa e orientata la nuova poli-tica di cooperazione allo sviluppo. Il pacchetto “partenariato” comprende difatti un doppio fine: una gestione concertata dei flussi, con facilitazioni per le migrazioni economiche e forme di cooperazione allo sviluppo. I paesi partners sono così investiti del controllo delle migrazioni illegali – come paesi di transito o di partenza – attraverso la firma di accordi di rimpatrio. La maggior parte dei finanziamenti per i programmi relativi alle migrazioni riguarda tuttavia essenzialmente la gestione dei flus-si.

A quel tempo, nell’ambito del Consiglio prevaleva ancora l’idea che l’emigrazione economica fosse essenzialmente una conseguenza della povertà. Ne derivava un root causes appro-

ach a fondamento delle azioni di cooperazione allo sviluppo, fi-nalizzate in sostanza ad una riduzione della pressione migrato-ria. Nell’arco di meno di dieci anni, il root causes approach è stato gradualmente integrato dalla tesi del migration hump, se-condo la quale lo sviluppo (nelle sue fasi iniziali) non riduce, ma piuttosto favorisce la crescita dei flussi migratori. È solo nel lungo periodo, e quando i differenziali di sviluppo si riducono

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significativamente, che i flussi decrescono. Il root causes ap-

proach non viene abbandonato, ma orientato piuttosto sul lungo periodo. Se si analizzano inoltre i documenti della Commissio-ne (a partire dal 2002) sono individuabili tre punti di vista: il primo prevede che il controllo della migrazione non deve per-vadere l’intera politica di sviluppo della Commissione Europea; il secondo prevede che le quote di immigrazione legale vengano considerate uno strumento di mobilità per ridurre le pressioni migratorie illegali; il terzo considera la mobilità come una es-senziale risorsa per lo sviluppo e a tal proposito incoraggia la previsione di politiche che stimolano quanto più possibile la circolarità della migrazione (Caso 2007).

Soppesate non solo le opportunità di sviluppo per i paesi di provenienza, ma soprattutto l’esigenza di una stabilità economi-ca in un contesto di declino demografico come quello europeo, il dibattito sulle politiche migratorie e di cooperazione passa quindi da una logica di riduzione della pressione migratoria (more development for less migration) a una logica di massi-mizzare dell’impatto positivo delle migrazioni, sia negli stati di provenienza che in quelli di destinazione (better migration for

more developmen) (Pastore 2007). La comunicazione della Commissione sul rapporto tra mi-

grazioni e sviluppo del settembre 2005 lascia di fatto emergere una precisa consapevolezza in merito alla stretta relazione tra mobilità (interna e internazionale) delle persone e sviluppo so-cio-economico.

Le cooperazione europea, rielaborata nell’ottica donor-

donor, adotta pertanto due principali strumenti: la politica eu-

ropea di vicinato (PEV) e la politica di co-sviluppo. LA PEV ha come obiettivo quello di far condividere ai paesi vicini, a est e a sud dell’Unione Europea, i benefici dell’allargamento, al fine di «rinforzare la stabilità, la sicurezza ed il benessere dell’insieme delle popolazioni interessate» sulla base di un impegno recipro-co in favore di “valori comuni” (good governance, rispetto dei diritti dell’uomo, promozione dei principi dell’economia di mercato, ecc.). La PEV rappresenta il quadro strategico per l’intensificazione della cooperazione con i paesi prossimi, so-

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prattutto nei campi dell’immigrazione e dell’asilo politico, di fatto permettendo di realizzare un sistema di cogestione delle frontiere basato sulla delocalizzazione dei controlli all’esterno delle frontiere UE, sui territori vicini. La politica di co-sviluppo è invece rivolta ai paesi in via di sviluppo, nel tentativo di evi-denziare una rottura con il carattere unilaterale che tradizional-mente ha caratterizzato la cooperazione europea (si vedano in proposito anche gli Accordi di Cotonou siglati nel 2000 con i paesi ACP). A partire dal 2006, sono state così organizzate nu-merose conferenze governative tra rappresentanti dell’UE e dei paesi del Sud, intorno alla tematica “migrazioni e sviluppo”. Tuttavia, nonostante l’evoluzione della posizione delle Istitu-zioni comunitarie, ridefinita nell’ottica di un “approccio globale sulle migrazioni”5 e coerentemente con dell’approccio del triple

win così come proposto dalle Nazioni Unite6, le questioni legate alla sicurezza delle frontiere occupano un posto preponderante nelle relazioni che l’UE intende strutturare con i paesi di prove-nienza delle migrazioni7. Il piano di azione adottato a Rabat nel 2006, nel corso del primo di questi incontri, è composto di tre assi: a) la promozione dello sviluppo, attraverso strumenti fi-nanziari che favoriscono il co-sviluppo; b) la migrazione legale, attraverso la promozione di programmi di cooperazione; c) la repressione dell’immigrazione irregolare, attraverso il rafforza-mento della capacità di controllo delle frontiere nazionali dei paesi di transito e di partenza.

5 European Commission’s Communication The Global Approach to Migration one

year on: Towards a comprehensive European migration policy (COM(2006) 735 final) e European Commission’s Communication Strengthening the Global Approach to Mi-

gration: Increasing Coordination, Coherence and Synergies (COM(2008) 611/3). 6 L’espressione triple win venne utilizzata dal Segretario Generale delle Nazioni

Unite Kofi Annan, in occasione del High-Level Dialogue of the General Assembly on

International Migrations and Development, tenutosi a New York nel Settembre 2006, per sottolineare i benefici derivanti dale migrazioni: per i paesi di origine e per quelli di arrive, ma anche per il migrante stesso.

7 Dall’analisi delle prospettive finanziarie 2007-2013 emerge che la componente di controllo dei flussi resta ancora prevalente: gli stanziamenti in materia di “spazio euro-peo di libertà, sicurezza e giustizia” sono oggi attribuiti per oltre il 60% al Fondo per le frontiere esterne (Caso 2007).

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In questo quadro, il “dialogo politico” permette di includere le condizionalità sotto forma di “pacchetti globali win-win” o di “partenariati donor-donor”, che in realtà mascherano veri e pro-pri “atteggiamenti ricattatori”, strumentalizzando di fatto il so-stegno allo sviluppo e gli accordi commerciali (Duvell 2004: 34-35), ma soprattutto sempre più offuscando le questioni rela-tive al riconoscimento dei diritti, ovvero il trattamento riservato a migranti, rifugiati politici e richiedenti asilo catturati, impri-gionati o deportati8.

Gli approcci delle politiche nazionali di Italia, Spagna e Gran

Bretagna

L’approccio europeo appare recepito nei suoi aspetti di ge-stione delle frontiere da due dei paesi membri tra quelli mag-giormente interessati dai nuovi processi migratori e dagli arrivi irregolari via mare: Spagna e Italia. Entrambi i paesi promuo-vono politiche di co-sviluppo a livello sia centrale che territoria-le, ma evidenziando differenze sostanziali.

In Spagna, l’amministrazione centrale percepisce il co-sviluppo come uno strumento di governo dei flussi, ma anche di sviluppo delle regioni di origine e di aiuto al ritorno. Alcune misure sono infatti orientate verso i paesi di provenienza (ritor-no, utilizzazione razionale dei trasferimenti di denaro, raffor-zamento dell’investimento produttivo). L’integrazione è una tematica assente dai dispositivi predisposti a livello nazionale. Tra i prodotti più significativi dell’approccio nazionale spagno-lo vi sono gli accordi promossi con il Senegal. Dopo una lunga negoziazione, alla fine del 2006, il governo senegalese ha infatti accettato un accordo di cooperazione nell’ambito della gestione dei flussi migratori, comprendente la riammissione dei senega-lesi arrivati alle isole Canarie. Allo stesso tempo vi si prevede la

8 Si vedano in particolare le critiche mosse alla Direttiva rimpatri approvata dalla

Commissione Europea nel giugno 2008 e definita anche “direttiva della vergogna”. Uno dei punti più allarmanti è l’apertura alla possibilità di deportazione dei migranti irrego-lari nei paesi di transito, ai quali l’Unione Europea si impegna a corrispondere stanzia-menti per blindare le frontiere e per la successiva deportazione verso i paesi di prove-nienza (Cfr La Cimade 2009).

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realizzazione di un dispositivo di controllo delle coste senegale-si, tanto nel quadro delle operazioni dell’agenzia europea Fron-tex – responsabile del coordinamento delle attività dei corpi di polizia degli stati membri per il controllo dei confini esterni dell’Unione europea – che nel quadro di accordi bilaterali. In cambio, il governo spagnolo ha messo a disposizione un credito di 20 milioni di euro di aiuto allo sviluppo che il presidente Ab-doulaye Wade ha orientato verso il piano Reva (Retour vers

l’agriculture). Questo piano prevede anche il ritorno dei mi-granti senegalesi presenti in Spagna e in Europa per contribuire a sviluppare l’agricoltura del paese. Annunciato con grande en-fasi dal presidente Wade in piena campagna elettorale presiden-ziale, con la promessa di 300.000 nuovi posti di lavoro, questo piano di sviluppo ha dunque anche il fine di rafforzare la politi-ca “emigrazione clandestina zero”, in virtù del suo condiziona-mento ad azioni più restrittive nella gestione dei flussi migrato-ri.

Tra gli accordi di cooperazione siglati dall’Italia, invece, quello con la Libia, in cui la lotta alle migrazioni irregolari o clandestine e dunque la gestione delle frontiere appaiono essere strumenti di scambio fondamentali, è di certo il più significati-vo. L’accordo, inizialmente promosso dal governo di centro-sinistra guidato da Prodi, venne siglato nel 2007 dall’allora mi-nistro Amato, prevedendo: la cessione temporanea alla Libia di sei navi della Guardia di Finanza, l’impegno congiunto di una task force italo-libica per contrastare l’immigrazione clandesti-na nelle acque territoriali libiche, l’istituzione di un comando operativo interforze per coordinare gli interventi di pattuglia-mento9. Alla fine del mese di agosto 2008, un ulteriore e ben più articolato accordo è stato definito dall’incontro tra Berlu-sconi e Gheddafi, con il pretesto formale di chiudere il conten-zioso sul risarcimento del colonialismo in Tripolitania e Cire-naica. In base a questo accordo, l’Italia si è impegnata per un ammontare di 5 miliardi di dollari, da erogare in 25 anni, per fi-

9 Gheddafi aveva già ottenuto dall’Italia un impegno per la revoca dell’embargo da

parte dell’Unione Europea, arrivata poi nel 2004.

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nanziare progetti infrastrutturali e servizi vari (pensioni di guer-ra, borse di studio, ecc.) in cambio di nuove garanzie da parte della Libia a potenziare il contrasto all’immigrazione clandesti-na, anche rendendo realmente operativo l’accordo stipulato nel 2007 e finora non attuato.

L’accordo evidenzia nuovamente le tendenze a “esternaliz-zare il controllo delle migrazioni” (Jordan e Duvell 2002), di-scriminando e negando ogni condizione di bisogno e di diritto, anche considerando che tali funzioni di controllo, trattenimento e respingimento sono affidate ad una paese, la Libia, che non ha firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sul riconoscimento e la tutela dello status di rifugiato e in cui sono da tempo de-nunciate – anche da Amnesty International, Human Rights

Watch e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Ri-fugiati – i trattamenti delle forze dell’ordine e le condizioni vis-sute nei campi allestiti o nei centri di permanenza temporanea sovvenzionati dall’Italia stessa in territorio libico. Dal momento che Libia si è impegnata a riprendere sul proprio territorio gli immigrati, espulsi dall'Italia e precedentemente transitati per il proprio territorio, il controllo dei confini viene deterritorializza-to e esternalizzato rispetto al sistema giuridico10, senza pertanto

10 Accordi di cooperazione nell’ambito del controllo dei flussi migratori sono stati

promossi dall’Italia anche con la Tunisia. Ai cittadini tunisini sono state riservate quote nell’ambito dei decreti flussi emanati annualmente per regolare l’immigrazione legale di lavoratori stranieri in Italia. Inoltre sono state aumentate le cifre stanziate dal governo italiano per i programmi di cooperazione allo sviluppo in Tunisia. Infine, le autorità tu-nisine hanno ricevuto ingenti contropartite tecniche. Anche in questo caso, l’aiuto legato appare una quota rilevante: nel periodo 2002-2004, per esempio, il 45% degli aiuti ita-liani alla Tunisia fu destinato all’acquisto di prodotti italiani. Tuttavia, se le migrazioni irregolari dalle coste tunisine sono sensibilmente diminuite dal 2004 in poi, non sono però mai cessate del tutto, piuttosto si sono dirottate sulle coste libiche. Inoltre, vi è da dire che la Tunisia, pur avendo aderito alla convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, non ha mai adottato una legislazione organica, impedendo così nei fatti la piena applicazione delle disposizioni della convenzione. In sostanza, anche i rifugiati ri-conosciuti come tali dal Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati sono esposti a violazioni dei loro diritti fondamentali, incluso quello al non respingimento nel paese dal quale sono fuggiti.

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incorrere nel rischio di sanzioni dall’Ue o di critiche dalle asso-ciazioni umanitarie11.

Tuttavia, strumentalizzando il contenimento delle migrazio-ni, l’Italia favorisce altri interessi. Gli investimenti previsti dall’accordo rilanciano infatti una pratica consueta e da tempo criticata della cooperazione allo sviluppo italiana, quella dell’aiuto legato (Sbilanciamoci 2008). L’accordo prevede il fi-nanziamento di attività contabilizzate come Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) per un ammontare di circa 200 milioni di euro annuali, ma questi aiuti sono vincolati al 100% all’appalto di imprese italiane (portando così il totale dell’aiuto legato italiano a ben il 60% del totale). La costruzione di strade e infrastrutture in Libia verrà affidata alle imprese italiane, con un aumento dei costi di oltre il 30% rispetto a quanto si spenderebbe appaltando le opere a imprese locali o al miglior offerente scelto con un bando internazionale12. Gli altri interessi curati sono poi quelli petroliferi dell’Eni, che in Libia ha alcuni dei suoi principali in-vestimenti, divisi tra greggio e gas naturale13. La costruzione di un sistema antintrusione e di controllo delle frontiere terrestri nel deserto sarà poi affidato dalla Libia all’Italia, ovvero a Fin-meccanica: il costo dell'operazione è per metà a carico dell'Ita-lia, per l'altra metà verrà chiesto l'intervento dell'Unione Euro-pea. La proiezione militare europea sull’Africa sub-sahariana è un ulteriore aspetto importante. Il deserto libico infatti è al cen-tro del cosiddetto «corridoio dell’instabilità», che va dalle coste della Somalia fino a quelle della Nigeria, toccando il margine del Sahara e il nord della regione dei Grandi Laghi, compren-dendo il Sud Sudan ed il Darfur. In virtù dell’accordo con la Li-bia, l’Italia ha dunque la possibilità di avere una presenza mili-

11 Cuttitta P., L’Italia e il regime euro-africano dei controlli migratori, Melting Pot

http://www.meltingpot.org/articolo13881.html (Consultato nell’agosto 2009). 12 Comunicato di ActionAid. http://www.unimondo.org/In-primo-piano/ACCOR-

DO-ITALIA-LIBIA-SOLO-VERGOGNOSI-AIUTI-VINCOLATI-A-RISCHIO-I-DI-RITTI-DEI-MIGRANTI

13 L'Eni, in qualità di principale operatore nella ricerca di idrocarburi, dovrà versare un'addizionale all'imposta sul reddito delle società pari al 4 per cento dell'utile prima delle imposte, dal 31 dicembre 2008 al 31 dicembre 2028 coprendo così la durata del rimborso.

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tare stabile al centro di un’area considerata di importanza stra-tegica per il controllo dell’Africa e delle sue risorse14.

La politica della Gran Bretagna, diversamente, non recepire la formula del co-sviluppo, ovvero non collega la gestione dei flussi con lo sviluppo dei paesi di origine. A partire dal 1997, il DFID (Department for International Development) ha integrato la propria politica nell’ottica della lotta contro la povertà attra-verso le migrazioni. Un Libro bianco pubblicato nel 2007, pre-ceduto dalla conferenza di Londra intitolata Making Migration

Work for the Developing World, precisa le linee generali intorno alle quali si articola la strategia del DFID in materia. Questo la-voro mette in evidenza l’importanza di distinguere i diversi tipi di migrazione con un accento particolare sulle migrazioni forza-te, le donne, i bambini e le migrazioni Sud/Sud, che costituisco-no delle categorie particolarmente legate ai fenomeni della po-vertà. Ma gli assi principali intorno ai quali si articola la politica britannica sono due: a) l’iscrizione delle organizzazioni di mi-granti nella politica di cooperazione; b) la facilitazione dei tra-sferimenti finanziari delle migrazioni. Nell’ambito del primo asse, il DFID ha finanziato la creazione di una piattaforma di associazioni di migranti coinvolte nello sviluppo dei rispettivi paesi di origine: Connection For Development (CfD). L’obiettivo del CfD è principalmente quello di sensibilizzare le organizzazioni di migranti rispetto alla questione dello sviluppo. Il DFID ha inoltre integrato le organizzazioni delle diaspore in una serie di Azioni Paese (Country Action Plans), come nel ca-so di Bangladesh, Pakistan, Nigeria e India (De Haas 2006: 62). Infine, relativamente alle migrazioni qualificate e ai fini dell’investimento produttivo, dal 2002, il DFID sostiene l’iniziativa Africa Recruit, lanciata dal NEPAD (New Economic

Partnership for African Development) e dal Commonwealth. Nell’ambito del secondo asse, invece, si è promossa la creazio-ne di un sito internet (www.sendmoneyhome.co.uk), fornendo informazioni su come realizzare i trasferimenti verso i paesi di origine in modo ottimale (Lacroix 2009).

14 Enzo Mangini, “Alla Camera l'accordo Italia-Libia”, Carta, 21 gennaio 2009.

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Il fatto che la politica di ingresso e di soggiorno sia total-mente sconnessa rispetto alla presa in considerazione dell’impatto sullo sviluppo è rivelatore di contraddizioni. Di re-cente, l’emissione di permessi a punti va infatti a rafforzare la selezione dei candidati in funzione delle loro competenze. Tut-tavia, secondo l’OCDE (2007), sono proprio i paesi più poveri a beneficiare maggiormente del contributo dell’emigrazione di forza lavoro poco qualificata, in virtù degli aumenti salariali e dei trasferimenti diretti ai più poveri.

Co-sviluppo e cooperazione decentrata

Il concetto di co-sviluppo è stato recuperato anche per de-scrivere le finalità delle forme di cooperazione decentrata e di partenariati territoriali articolati nella prospettiva della gover-

nance multilivello. Il co-sviluppo è in questi termini interpretato come:

un approccio strutturale e olistico che opera sui crescenti e diversi le-gami tra territori. In questo modo si relativizza e si supera il concetto di confine e la divisione tra politica interna ed esterna. Dallo sviluppo locale si passa allo sviluppo trans-locale e glocale. In questa politica è implicita una visione cosmopolita del bene comune che si articola su diversi livelli, da quello globale a quello locale, in modo interconnes-so. Ed è questa visione che ha nutrito il concetto di partenariati territo-riali avanzato dalla cooperazione decentrata negli ultimi anni (Stoc-chiero 2007).

La cooperazione decentrata, rappresenta una modalità speci-fica di cooperazione internazionale, che si sviluppa in seguito alla crisi manifestatasi all’inizio degli anni novanta con la dimi-nuzione dell’aiuto pubblico allo sviluppo. A questo processo di crisi della cooperazione tradizionale è associata anche una ri-cerca di maggiore equità e reciprocità nei rapporti a livello in-ternazionale, che ha visto la progressiva emersione di nuovi at-tori sulla scena della cooperazione: in primo luogo le Autono-mie locali e il variegato universo di organizzazioni della società civile e di associazioni di base. Gli obiettivi perseguiti dalla co-operazione decentrata sono dunque legati alla possibilità di mo-

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bilitare e coinvolgere gruppi o comunità locali nelle fasi di ide-azione, progettazione ed esecuzione di iniziative di sviluppo che abbiamo un radicamento territoriale in modo da tener conto maggiormente dei loro bisogni e delle loro priorità, rafforzare il ruolo e la posizione di soggetti, organismi, gruppi di base per favorire un cambiamento duraturo ed equo (Stocchiero e Zupi 2005).

Richiamandosi esplicitamente al concetto di co-sviluppo, la cooperazione decentrata intende ricercare risposte appropriate a bisogni economici e sociali avvertiti a livello locale, ai processi di cambiamento prodotti dalle migrazioni e dalla convivenza tra comunità diverse, alle esigenze di internazionalizzazione terri-toriale (Ianni 2006).

Tuttavia, bisogna chiarire che a concorrere alla crescita di queste forme diverse di cooperazione allo sviluppo sono anche: il processo di decentramento amministrativo e finanziario che interessa i paesi del Sud come quelli del Nord del mondo (Ianni 2008), ma innanzitutto il processo di “deresponsabilizzazione” degli stati centrali rispetto alla soddisfazione dei bisogni di base delle popolazioni, a seguito dell’adozione delle politiche neoli-beriste di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni in-ternazionali e delle potenze dominanti, che trasferiscono così – e in modo ancor più evidente guardando proprio ai nuovi dispo-sitivi di co-sviluppo – il peso dei meccanismi non ugualitari dell’economia e del commercio mondiale proprio su quanti le subiscono15 (Robert e Servant 2009).

In Francia, Spagna, Italia, il co-sviluppo è legato ad iniziati-ve di cooperazione decentrata promosse da enti locali. Il princi-pio base di questi dispositivi è quello di cofinanziare dei proget-ti di organizzazioni di migranti a beneficio delle regioni di ori-gine (Bencini 2004; Tera e Frey 2008). La specificità di questi programmi sarebbe quella di promuovere delle dinamiche di in-tegrazione dei migranti nella società di accoglienza, di cui i progetti di sviluppo sono il motore (Lacroix 2009).

15 Cfr. Robert e Servant (2009), “Quando i gestori di fondi speculano sui poveri.

Chi mette le mani sul denaro degli emigranti”, Le monde diplomatique, gennaio.

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Un rapporto del CeSPI (Mezzetti e Ferro 2008) ha preso in esame i casi spagnoli del Fons Català (fondo di oltre 200 città della Catalogna) e della Municipalità di Madrid, di Parigi e di Rotterdam. Sulla base del confronto e della valutazione dei casi sono stati elaborati i principi ispiratori del Bando sul co-sviluppo lanciato dal comune di Milano nel dicembre del 2007. Ciascun caso ha adottato scelte diverse e specifiche. Il caso di Parigi dimostra un interesse prioritario verso il protagonismo dei migranti e l’importanza dei partenariati; il caso di Madrid esprime particolare interesse verso proposte di capacity

building dei migranti: in ambito lavorativo, professionale e as-sociativo, per il miglioramento e lo sviluppo di sistemi di invio e canalizzazione produttiva delle rimesse, per la gestione dei flussi irregolari; il Fons Català sostiene prevalentemente percor-si di informazione e formazione, accompagnamento rivolti ad associazioni di migranti del territorio, al fine di coinvolgerle nei Consigli di Cooperazione Municipale e nelle reti di co-sviluppo16. Il caso di Rotterdam privilegia infine il trasferimento di competenze di migranti, non solo ed esclusivamente nei paesi di origine, ma anche in maniera trasversale tra Nord e Sud.

Nel contesto italiano vi è poi da menzionare anche il proget-to MIDA-Italia, attivato grazie al finanziamento del Ministero Affari Esteri – Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo e realizzato dall’OIM Italia in partenariato con il Ce-SPI (Centro Studi di Politica Internazionale). Il progetto, inizia-to a gennaio 2006, è finalizzato a valorizzare il ruolo della dia-spora dell’Africa sub-sahariana nella crescita socio-economica dei Paesi di origine, attraverso l’identificazione di percorsi di sviluppo auto-sostenibile e l’attiva collaborazione tra le realtà territoriali di provenienza e quelle di destinazione. Il progetto ha focalizzato la sua azione su due particolari comunità di migran-ti, quella ghanese e quella senegalese, in virtù della rilevanza quantitativa della loro presenza sul territorio italiano, ma anche

16 Il Fons Català infine é attualmente coinvolto in un progetto pilota sulla canalizza-zione delle rimesse in Senegal finanziato dall’Agenzia Spagnola di Cooperazione allo Sviluppo (AECI), alla luce di un accordo di buone intenzioni tra il Governo, l'Associa-zione Spagnola delle Banche e la Confederazione Spagnola delle Casse d’Estalvis.

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dell’alto grado di ‘transnazionalismo’ che sembra caratterizzar-le – secondo Ceschi e Stocchiero (2006) – dal momento “che anche in emigrazione continuano ad alimentare i rapporti con la propria madrepatria”. In questo quadro, è stato promosso un progetto di cooperazione decentrata che ha coinvolto, insieme con la locale comunità ghanese, la Regione Emilia Romagna, la Provincia ed il Comune di Modena, la Confcooperative e la Le-gacoop Emilia Romagna, Emiliafrutta, Emilbanca e la CISL. Il progetto ha portato alla nascita di Ghanacoop, una realtà im-prenditoriale a carattere cooperativo, nata all’interno della se-zione di Modena della Ghana National Association (COGNAI), attiva nell’importazione di prodotti ortofrutticoli e di prodotti etnici, nell’esportazione di prodotti regionali emiliani in Ghana; nella gestione di una propria azienda agricola in Ghana; nel fa-vorire l’inserimento lavorativo dei migranti ghanesi; nella pro-mozione di azioni di solidarietà verso le comunità di origine. È da sottolineare come il criterio per la selezione di questo proget-to, come di altri 5 progetti individuali per l’avvio di PMI nella regione Ashanti – giudicata ad elevato dinamismo nel settore agricolo ed imprenditoriale –, sia stato la capacità di attrarre in-vestimenti e sviluppare un mercato con sbocchi internazionali.

Considerazioni conclusive: ciò che sfugge…

La panoramica delle prospettive e delle iniziative di co-

sviluppo, elaborate nel “campo del politico” a diversi livelli – sovranazionale, nazionale e territoriale – e qui prese sintetica-mente in rassegna, rivelano diverse finalità: a) la gestione delle migrazioni ed il controllo delle frontiere; b) l’integrazione eco-nomica e finanziaria; c) l’internazionalizzazione territoriale; d) la “cooptazione” delle organizzazioni di migranti e la captazio-ne del molteplice potenziale produttivo che gli stessi esprimono, per le finalità anzidette.

Le forme di cooperazione e i dispositivi derivati da questa architettura si traducono dunque in un sistema di governance che collega co-sviluppo, transnazionalismo e circolarità delle

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migrazioni (Chaloff 2007), in cui anche le organizzazioni non governative e le stesse associazioni di migranti vedono attri-buirsi un ruolo ancillare, ai fini del disciplinamento e del con-trollo.

Tuttavia, queste modalità del co-sviluppo possono essere di-stinte dalle forme di cooperazione autonomamente prodotte e veicolate dalle migrazioni e traducibili invece nei termini di “innovazione sociale”. Nella maggior parte dei casi, bisogna in-fatti osservare che la densa rete di relazioni strutturate dalla dia-spora con i paesi di origine e di destinazione o circolazione, così come la promozione di progetti locali, è il prodotto dell’iniziativa spontanea di individui o gruppi collettivi e non dell’intervento governativo e istituzionale (Newland and Patrick 2004; Van Hear et al. 2004). I progetti istituzionali che dovreb-bero coinvolgere i migranti sono poi spesso complessi e di più difficile realizzazione, non riscuotono fiducia ma piuttosto so-spetto nell’uso delle risorse; non aderiscono alle logiche e ai punti di vista dei soggetti che vorrebbero coinvolgere. I migran-ti sembrano perciò preferire le attività informali di tipo indivi-duale o comunitario – perché snelle, efficienti e garantite (Ric-cio 2005) – che hanno comunque significative implicazioni per la trasformazione delle proprie condizioni di vita e degli stessi contesti di origine, anche se non immediatamente apprezzabili in termini economici o di “sviluppo”.

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