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Cassandra | Giugno 2014

Date post: 23-Mar-2016
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i negri nel palazzo i negri ci hanno il cazzo
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cassandra
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cassandra

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editoriale

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Ok, forse detta così è un po’ tragica. Però è il mio ultimo editoriale e la cosa mi fa venire un po’ le vertigini. Per esempio ho realizzato che il 26 maggio è stato l’ultimo lunedì di scuola della mia vita. Cioè, se io a 40 anni mi ricorderò del mio ultimo lunedì, mi ricorderò di pochi giorni fa. Insomma, questo Cassandra che stiamo per stampare (manco solo io che scrivo mentre interroga in italiano) lo avete in mano oggi ultimo giorno, mentre mangiate torte ed imparate a fare bolle di sapone e pensate che finalmente è finita questa tortura, anche se vi mancheranno i vostri compagni, però tanto ci rivediamo a settembre, e stare tre mesi lontani dalla vostra compagna di banco che strilla come un’aquila non deve essere poi così male. E magari guardandovi intorno vedrete gente che si salta addosso e piange disperata. Forse non li capirete fino in fondo ora, ma fra qualche anno sì. Per la maggior parte di loro ( non tutti, ci sono anche quartini in lacrime perché è finito il loro periodo di segregazione), finisce la vita come è sempre stata e ne inizia una parte nuova che, per quanto bellissima, fa un po’ paura. Però la vita non è a blocchi, è un cammi-no e se mi giro indietro vedo tutta la strada che ho fatto, nella quale il Sarpi è tappa fondamen-tale. Detto questo, potete saltare direttamente al ciao! finale e non sorbirvi i miei ringraziamenti, ma lasciatemeli fare perchè li sogno dalla quarta ginnasio. Grazie a Giulia perché se devo descri-vere la nostra amicizia dico che Dio ha fatto un’anima e poi l’ha divisa in due. Grazie a Pietro per-ché mi allaccia sempre le scarpe senza chiedersi mai il motivo. Grazie alla Cami perché condivide con me il mio più grande segreto, e a Marco perché so che suona sempre e solo per me. Grazie alla Ale perché mi provoca molto questa nostra neonata amicizia e alla Lalla perché in fondo io l’amerò sempre. Grazie al Sarino che mi fa sempre i grattini anche se è acida con Vincent, e alla Patty che è la persona più buona del mondo. Grazie a Filippo che mi scrive l’Ave Maria sul braccio e a Muzzi che mi presta Adventure Time. Grazie a Chiara P. per l’Apollo up and down e a Chiara C. perché dice agli altri di non picchiarmi. Grazie al Pedro perché “anche Ale respirava!”. Grazie alla Paolina e alla Lu che mi facevano fare la mamma apprensiva in Puglia e a Monica che stava con me ad aspettarle, le disgraziate. E grazie anche per le bruschette con i pomodorini. Grazie alla Gio e alla Lela che mi hanno detto che da grande farò il pusher. Grazie alla Cate, che mi manche-rà tantissimo e a Giorgio, Elisa e Chiara perché un giorno saranno loro i grandi, e io sarò vecchia. Grazie a Bonti che mi chiama sempre Beatrice, e alla Paola che non ho ancora capito perché mi voglia così bene. Grazie a Sotti perché la nostra amicizia è un compromesso storico e io sono Don Camillo. Grazie alla Bob che anche se non era con noi, io l’ho pensata sempre. E grazie alla fu 4C con tutti quelli che ci siamo persi per strada perché siete stati la mia famiglia, anche se non siete tutti normali. Vi voglio bene. Ciao!

Micaela Brembilla, IIIC

The last Supper

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A fine anno ci si aspetterebbe un po’ di caldo, no? Non so come sia per voi ma “giugno”, nel mio immaginario, evoca pienamente l’atmosfera di inizio estate e magari lascia fantasticare riguardo le prime mete di vacanza. E invece a noi studenti non è data nemmeno questa certezza, in aggiun-ta all’incognita degli scrutini che ci tiene sicuramente già abbastanza impegnati, sia che si punti ad avere tutti nove che tutti sei. Eppure durante l’ultima settimana non si può fare a meno di essere almeno un po’ allegri perchè dopotutto la vita da liceali funziona ancora a cicli di nove e tre mesi anche se avremmo dovuto imparare che è la scuola ad essere al primo posto (soprattutto al liceo, in vista dell’Università). Non so se il mio sia un caso anomalo, soprattutto al Sarpi, ma non l’ho mai vista così. Inconsciamente sono sempre stata convinta che la mia condizione naturale di bambina, e poi di adolescente, fosse di poter usufruire del mio tempo a mio piacimento, che di base io fossi nata per scegliere come meglio impiegarlo in base ai miei gusti, alle mie esigenze e alle mie voglie. La scuola, attivitá di primaria importanza, ha sempre avuto il peso di una costrizione, una cosa necessaria, da sopportare e da cui a Giugno sarei finalmente stata libera. Semplicemente intral-ciava irrimediabilmente il mio modo di vivere. Nemmeno in sei anni siete riusciti a farmi cambiare idea, fortunatamente, aggiungerei. Non sarebbe stato un adeguamento spontaneo ma la conse-guenza di una martellante riproposizione di idee diverse dalle mie a cui avrei rischiato per finire di abituarmi. Questo non significa che andarmene non mi causi una discreta dose di malinconia. In questi anni città alta e il Sarpi sono diventati casa mia, non una seconda casa ma una equiparata a quella degli affetti. In quanto casa a tutti gli effetti mi sono adoperata, per quanto possibile, per migliorarla, per fornire il mio contributo alla sua sopravvivenza e alla dignità della sua esistenza e l’impegno che vi ho profuso è stato pienamente sentito e sincero. Sono stati soprattutto gli altri di voi che ho conosciuto a rendermi caro un posto che per certi aspetti somiglia ad una selva oscura e piena di rovi. Cassandra per prima: siete stati da sempre una seconda famiglia in cui ho fatto diverse esperienze e da cui ho imparato le cose più varie, fornendo contributi a mia volta. Ringra-ziare tutti uno per uno non mi sembra sensato dato che finire i per allungare ulteriormente tutta la faccenda e molte delle persone che includerei sono diplomate da qualche anno e non potrebbero mai sapere di essere state citate (e sappiamo tutti che fa sempre piacere). Quindi un grazie col-lettivo a quella parte di studenti che rende questa scuola degna di essere affrontata, perché sono convinta che in nessun altro liceo avrei potuto trovare un ambiente che sapesse accogliermi in un modo migliore. E se siete arrivati a leggere questa riga mi conoscete, mi vorreste conoscere o mi volete tanto bene, perché oltre alla mia presa di posizione reazionaria, amara e nostalgica c’è un intero numero che aspetta e si merita di essere letto.

Marta Cagnin, IIID

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AVVERTENZE PREULTIMO NUMERO CHE POI COME FA A ESSERE L’ULTIMO NUMERO SE IN NUMERI SONO INFINITI 2

Come assumere questo cassandra Preferibilmente a sangue freddo, e nelle ore di Greco e Latino. Se vi piacciono le cose estreme anche durante la partita di pallavolo in palestra. Rischi per la salute Potreste morire in un incidente intellettuale Rischi per “salute” starnuto Consigli da Ippocrate e Galeno Non portare a contatto il giornale con uno dei quattro umori (Scazzo, incazzo, sciallanza e gioia). Scazzo: periodo di verifiche e interrogazioni una il giorno dopo l’altra Incazzo: periodo di verifiche e interrogazioni una il giorno dopo l’altra + Dolori mestruali(anche per i maschietti) Sciallanza: Pasqua Natale et similia Gioia: Mai.

Consigli da Lino Campanelli(estrapolati da una qualunque conversazione della prima ora) V****************TUTTOFOTTUTAMENTECENSURATO*****************S*******D*****DF**F****gnomo*******scialaquaformiche********************************Gnekki***************paoloefrancescahannodettonoalC****O Che cosa leggere Non leggere nulla e risolvete il problema. Rischi per la salute Troppi. Tra cui: 1. Cecità causata da un’impaginazione frettolosa 2. Noia provocata dagli articoli di attualità 3. Dolori muscolari causati da Crippa e quelli della sua sottocommissione 4. Mascheronità causata dagli articoli di Sarpi 5. Sottosviluppo causato da Sabbo e Cultura

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6. Pianto e pessimismo causato dalle poesie di Raimondi e dai suoi amici di Narrativa 7. Fascismo e Comunismo causati da nobili sotto casa vostra 8. Vomito provocato da queste avvertenze dalle vignette di Lio (e dall’inutilità di Terza Pagina, perché non fa mai ridere) 9. Morte provocata dagli editoriali di Cagnin (e talvolta anche da quelli di Micaela) Altro “nome” e “Chiaramente” Altro ancora basta

Paolo Bontempo, IID

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Per l’ASS si sta per concludere il secondo anno di attività. Dunque, come avviene per tutte le associazioni che si rispettino, è ora di fare un bilancio. Niente cifre, per carità: mettiamo sul-la bilancia ciò che ha funzionato e ciò che biso-gna migliorare. Innanzitutto, in concreto, cosa è stato realizzato? Parecchio, anche se magari nemmeno ve ne siete accorti. Ad esempio, le magliette che ogni tanto vedo spuntare dalle felpe: tutto made in Sarpi, un po’ alla disperata come sempre, ma tanto simpatico ed autentico. Con il ricavato della vendita delle magliette sarà pagata la quota di partecipazione per la festa di fine anno al Lazzaretto, organizzata con diverse scuole della città. Quindi grazie a voi e a noi: c’è un gran senso di soddisfazione nel sapere che siamo riusciti a pagare tutto “ di tasca nostra”. Anche perché se aspettiamo gli altri…

Dopo avere vestito i sarpini, abbiamo pensato che avrebbe potuto far comodo un aiutino in la-tino e greco, perciò ci siamo impegnati a stipu-lare una convenzione con il dott. Luca Cortinovis per lezioni di latinorum e graecorum, garanten-do agli associati di poter usufruire del 20% di sconto.

Abbiamo anche tentato un’impresa più ambi-ziosa: proporre una mostra accompagnata da una conferenza all’interno dell’edificio scola-stico. Il tema scelto non era affatto “leggero”, anzi; questa particolare preferenza aveva come obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione di voi-noi studenti in merito ad un problema che ha percorso il Novecento, suscitando reazioni, polemiche e scandalo. La follia nei lager e la follia nei manicomi (prima della legge Basaglia) è stata declinata in immagini e testi che hanno ricoperto le pareti dello scalone, in modo che tutti poteste avere l’opportunità di conoscere anche quella realtà, che purtroppo è esistita.

In questa occasione, certamente costellata da imprevisti e cambiamenti dell’ultimo minuto, avremmo forse dovuto “farci sentire” di più, con comunicazioni mirate e diffuse per permettere un’affluenza maggiore all’incontro del 15 aprile. Si può sempre migliorare, a maggior ragione nel momento in cui si ha davvero voglia di farlo!

Un bel giorno, poi, ci è stato proposto di soste-nere e partecipare ad un incontro che si terrà il 3 giugno in aula magna, in cui sarà coinvolta Emergency. Noi abbiamo accettato entusiasti e convinti, perché crediamo in un intervento costruttivo ed indubbiamente interessante so-prattutto dal punto di vista umano.

Infine, dato che ci piace far festa, abbiamo pen-sato all’organizzazione di una cena autogestita in terrazza che possa essere un momento di convivialità serena, di spensieratezza, quella degli ultimi giorni di scuola. Ci stiamo rendendo utili nell’organizzazione della serata e abbiamo reso disponibili le risorse finanziarie dell’Asso-ciazione. Dunque vi aspettiamo numerosi!

Ah, così, giusto per saperlo, abbiamo all’attivo circa 2000€ ricavati dal tesseramento, dal ser-vizio guardaroba della festa di gennaio e dalla vendita delle magliette. Insomma ASS c’è, è qui per promuovere attività interessanti in modo indipendente, per agevolare gli studenti nel mo-mento in cui hanno proposte da condividere, per sostenere economicamente qualcosa che va oltre la scuola. ASS è un organo creato dagli studenti per gli studenti ed in quanto tale ha bi-sogno di persone e di nuove idee: ha bisogno di voi. Con la speranza che l’anno prossimo prose-gua il progetto di una componente studentesca propositiva e soprattutto autonoma, l’ASS vi au-gura buone vacanze!

Francesca Marchesi III B

ASS: Quando, dove e perche’

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La fine arriva per tutti, in un modo o in un altro. Spesso la si immagina, ma poche volte le aspet-tative si realizzano. Così eccomi, dopo tre anni, a scrivere il mio ultimo articolo su Cassandra. Ho pensato a lungo a cosa scrivere, a come mi sarei sentita, a cosa avrei ricordato. Ed ora che sono qui davanti al mio computer non possono che venirmi in mente mille momenti indimenti-cabili, mille emozioni che hanno segnato la mia crescita, mille motivi per cui Cassandra è una famiglia e non una commissione. Mille motivi per cui Cassandra è e resterà il mio vero amo-re (“Unico, esclusivo…e non corrisposto”). Ma per un solo ricordo sto scrivendo, ora. Alla fine tutto si confonde: rabbia, gioia, sogni, delusio-ni, aspettative, disillusioni. Tutto perde senso di fronte alla cima della salita. E non resta che pensare a quando si era all’inizio. Così, al di là di me stessa, di tutto quello che avrei da dire, vor-rei dedicare questo articolo e le mie ultime righe su Cassandra ad un paio di articoli del numero di giugno dell’anno 2011, quando per me stava finendo la quinta ginnasio. Quando pensai per la prima volta “e se entrassi a far parte di Cas-sandra?”. Quando lessi l’ultimo editoriale di Ire-ne Lizzola e l’ultimo articolo di “Sarpi” di Fabio Ravasio. Non ho mai incontrato questi ragazzi, ma sono stati loro a cambiarmi la vita. Non c’è bisogno di spiegare perché. Ringrazio questi or-mai ex sarpini e affido ogni mia emozione alle loro parole.

“ L’ULTIMO EDITORIALE ALIAS L’ARTICOLO DI ADDIO

Dopotutto, cosa resta? Resto perché ho bisogno di mantenermi salda a delle radici che ho paura di non ritrovare più. […] Che possiate tutti arri-vare alla fine del vostro percorso e poter dire con una buona dose di certezza: ‘se tornassi indie-tro, lo rifarei’. […] …Resto, sulle pagine di questo giornalino, nel ricordo di te che leggi.” Ire “Litz” Lizzola, III H

“MESSAGE IN THE BOTTLE

L’ultimo articolo. Mi sembra di scrivere un testa-mento o un’epigrafe. No, questa vuole essere una storia, un racconto. […] C’era una volta uno studente, il suo primo giorno di scuola. […] E dopo cinque anni non ci si ricorda nemmeno se facesse caldo o freddo, quel giorno. […] Non sia-mo eroi ora, non lo eravamo anni fa. Nessuno, poi, è tenuto ad essere un eroe, né un martire. Anni, pagine, libri e traduzioni t’insegnano: gli eroi erano solo grandi uomini capaci di essere fedeli alla propria indole, fino alla fine. “Solo”. Come se fosse poco desiderare di restare se stessi. Non volere cambiare. <<Cambierai da te, ragazzo!>>. Ma comunque, non ti preoccu-pare, dico io, ci saranno sempre delle colonne bianco-grigie pronte a cambiarti. E sai, forse non è un male non essere eroi; forse non è così male cambiare. Non è male quando cambiare significa crescere, significa imparare nuovi mo-tivi per andare avanti. Sarà un mondo di osta-coli, di pericoli, di pessimisti sempre pronti a dirti quello che rischi, mai quello che guadagni. Perché quello che guadagni è la tua identità, è la possibilità di avere la tua voce nello stonato coro del mondo, e questo, ragazzo mio, non te lo dice nessuno. Ma dovrai perdere l’innocenza […]. Non sentirti stabile, non sentirti al sicuro. Queste colonne bianco-grigie ti minacceranno, non ti riconosceranno più di quanto lo possano fare le scale, i muri, i banchi. Ma sai, ragazzo mio, chi ti parla ha scoperto che quando ti sen-ti perso nel deserto, se sai aspettare la notte e sopportare il freddo, se sai scrutare il cielo, trovi una stella di un colore diverso dalle altre: una stella del colore del mercurio, come fatta di argento liquido, che ti saprà indicare la via per proseguire. […] Ragazzo mio, ho un messaggio per te: dopo cinque anni ci si sente stanchi, ab-battuti persino. Ripensare al ragazzo del primo giorno mi tiene coi piedi per terra. […] Poi ho de-siderato svanire, e sono ritornato in me. Con un brivido, con quel vento del primo giorno ancora sulla pelle, ho guardato il mio cielo al di là degli

Chiudere il cerchio

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alti soffitti bianchi, al di là di ogni gabbia, al di là delle migliaia di pagine, dei litri di inchiostro. Mi sono fidato della voce nel deserto. E là, las-sù, fingendosi distratta, è brillata la mia stella di argento liquido. Un’altra volta mi ha stretto a sé. Un’altra volta, forse, mi ha salvato. E ti dirò, an-che qui, dopotutto, c’è spazio per vivere.” Fabio Ravasio IIIH

Il cerchio si chiude come è iniziato.

A Cassandra, a tutti Voi, a chi non è più qui ma ancora mi parla, Grazie.

Giulia Testa, III B

Fuggire da un fiume di magma incandescente è un’impresa, ma siamo sicuri che sia più facile essere travolti da un torrente di melodie senza lasciarsi contagiare? Dalla mediterranea regio-ne della Puglia, un membro del personale ATA ci delizia con la sua musica vivace e armoniosa.

G. Si presenti.

P. Mi chiamo Pietro Paolo Cosa, ho 56 anni e sono nato a Taranto, una bellissima città puglie-se.

G. Cosa faceva prima di lavorare al Sarpi?

P. Prima di lavorare al Sarpi facevo il musicista in un’orchestra di Brescia, dal 1984 fino al 2007. Poi, stanco di viaggiare, ho fatto domanda a scuola.

G. Qual era il suo sogno quand’era bambino?

P. Il mio sogno era girare il mondo suonando.

G. Cosa vorrebbe fare da grande?

P. Da grande vorrei fare il compositore (ma lo sono già)

G. Se ricevesse un’inaspettata busta contenente un milione di euro, come li spenderebbe?

P. Comprerei una casa qui e un’altra al mare, il resto lo darei in beneficenza ai bambini poveri.

G. Quale genere musicale preferisce ascoltare?

P. Latin Jazz, salsa, son cubano e musica etnica.

G. Quali sono i suoi hobbies?

P. Tiro con l’arco.

G. Chi è il suo mito? (persona a cui si ispira)

P. Non ho nessun mito, mi affascina il Dalai Lama.

G. Cosa pensa del nostro Liceo? Quali conside-razioni ha sviluppato sul Sarpi, dopo un anno?

P. Questa struttura vecchia rende il Sarpi una scuola bellissima, solo che dovrebbero metterla a posto perché d’inverno fa freddo. Comunque, nonostante questo disagio, tornerò di nuovo.

G. Se potesse tornare a scuola, frequenterebbe il Sarpi? Perché?

P. Non potrei frequentare questa scuola, perché è un po’ troppo rigida per me.

G. Cos’è la vita secondo lei?

P. La vita è tutto ciò che ci circonda, compresi noi stessi, che ne facciamo parte. In questo bre-ve percorso terreno cerco di rendere la vita più felice e più serena.

G. Saluti gli studenti nel modo che preferisce.

P. Saluto tutti gli studenti del Sarpi che sono dei bravi ragazzi, educati ecc. Ve lo dice uno che è passato da tante scuole. Ciao.

Giovanni Testa, IVC

Simu salentini dellu munnu cittadini.

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Tra tutte le cause che mi hanno spinto a iscri-vermi al Sarpi sicuramente non c’è la volontà. E nemmeno la consapevolezza di ciò che mi avrebbe atteso. Prima del termine delle iscri-zioni online, ancora indeciso, mi bendai con un foulard opaco e lanciai una freccetta su un quadrante nel quale erano riportate le mol-teplici scelte che mi tormentavano giorno e notte. La punta si conficcò nel puntino sulla lettera i di ‘’Sarpi’’. Il giorno dopo compilai l’i-scrizione per questo Liceo classico, con zaino in spalla e cartina geografica, pronto a partire. In realtà sapevo da sempre che sarei capitato in un Liceo, pur non sapendo dell’esistenza del Sarpi fino a qualche anno fa; qualcosa mi dice-va che il destino mi avrebbe condotto su questa strada. E quando mi tolsi la benda per leggere l’esito della partita a freccette, non sembrai af-fatto dispiaciuto. Probabilmente perché non avevo la minima idea di cosa significasse fre-quentare questa scuola. All’Open Day sembra-vano tutti così allegri, soddisfatti della propria scelta e vogliosi di trasmettere la propria pas-sione ai nuovi studenti. Fui entusiasta di quella giornata, ma non mi convinsi, pensando che ‘il greco è difficile’. Ora posso dire che la gramma-tica greca è più complicata di quanto pensassi nove mesi fa, ma tuttavia mi sento gratificato, in quanto, anziché girarmi i pollici tutto il dì, ri-empio il pomeriggio con qualcosa che in fondo, sforzandomi, riesco ad apprezzare. Ho passato l’intera estate a pormi domande e a costruir-mi castelli immaginari su come dovesse essere l’ambiente, cosa dovessi fare per essere uno Studente, quali nuove amicizie mi aspettassero. Nella mia desolata scuola media di provincia, un’altra ragazza prese la mia stessa decisione. Ella è ‘casualmente’ la mia migliore amica, la co-nosco da quando eravamo spermatozoi. In vista

dell’inizio di una vita nuova, decidemmo di tra-scorrere mercoledì 11 settembre a Gardaland, divertendoci e liberando le nostre anime da ogni timore. Ero pronto a passare una giornata indi-menticabile, ma accadde che questa ragazza in-contrò dei gravi problemi di salute e venne rico-verata in ospedale, mancando due settimane da scuola. Dissi, imbronciato, che senza di lei non sarei andato da nessuna parte, e allora i miei ge-nitori per consolarmi mi portarono a Orio Cen-ter. Invece di distrarmi non feci altro che fanta-sticare tutto il tempo di fronte alla vetrata del secondo piano, dove c’è McDonald’s, la quale offre una vista magnifica delle Orobie. Ma a me non interessavano le Alpi scongelate, io fissavo a bocca aperta il profilo inconfondibile del Sarpi che fino all’aeroporto ama mettersi in mostra. Iniziai da solo, dunque, l’anno scolastico. Come un bambino, che per la prima volta lascia la mano della mamma per andare all’asilo, così io percorsi il sentiero che separa la fermata dell’au-tobus dalla scuola, notando con piacere che Piazza Rosate era ancora deserta. Ma no, in real-tà era già deserta. Diedi un’occhiata all’ora e mi accorsi di essere arrivato in ritardo; ottimo per essere il primo giorno. Entrai ansimante nell’a-trio della scuola dove mi confusi in una folla di tanti studenti come me, sconosciuti, impauriti e incoscienti. Giusto in tempo per aggregarmi alla mia nuova classe: volti mai visti prima e bizzarri, sguardi impassibili e furtivi; una professoressa sorridente e accogliente scrive alla lavagna una frase in latino di Terenzio e così ci dà il benve-nuto al Sarpi; il sangue pulsante nelle vene fa vibrare le pareti dell’aula. Non mi resi conto del-la mia condizione umana fino a quando, nella prima lezione dell’anno, mi sentii un completo ignorante. Nell’aula fluttuavano nomi e citazioni che non avevo mai sentito prima. Mezz’ora per capire chi fosse Erodoto, un’ora per capire come si scrivesse historia, un mese per scoprire che non è ‘La tragedia è di Porè’, bensì ‘La tragedia Edipo Re’. Avrei infiniti aneddoti da raccontare per dimostrare quanto un quartino possa esse-re impacciato, goffo e malvisto all’interno della

Se sei un quartino e tu lo sai, batti le mani.

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scuola. Ad esempio, una mattina di ottobre sta-vo passeggiando per i corridoi, quando alle spal-le sentii intonare ‘Se sei un quartino e tu lo sai, batti le mani *clap clap*’, mi voltai sbigottito e non c’era nessuno. Da quel momento penso che la scuola sia infestata, non riesco a convincermi del fatto che alcuni liceali siano così discrimina-tori nei confronti dei più piccini. Un quartino è un indifeso e inesperto cerbiatto che esplora una selva rigogliosa e affascinante con occhi colmi d’innocenza. L’ho imparato a mie spese. Mentre le nozioni e lo studio si accumulavano, le corse in autobus diventavano sempre più abitudinali e le notti si allungavano, dentro di me qualcosa sta-va cambiando. Non sono più lo stesso fanciullo che, meravigliato, osserva il Sarpi a chilometri di distanza, che crede che Sarpi sia un acroni-mo satanista, che la lingua di comunicazione a scuola sia il latino. Questa non è la scuola dei so-gni, ma nemmeno un lugubre scantinato degli incubi. Se ci fossero gli armadietti personalizzati andrebbe già meglio. Devo ammettere che all’i-nizio pensavo che non ce l’avrei fatta, che a gen-naio avrei sicuramente congedato Città Alta per trasferirmi in un’altra scuola. Temevo di perdere completamente la vitalità, di trasformarmi in uno zombie. Va bene, con occhiaie e passo vacil-lante lo sembro, però al contempo ho sempre il piacere di sbizzarrirmi nel cercare di riconoscere gli edifici di città bassa, che dalla finestra della mia classe paiono lontani e insignificanti, e cer-care disperatamente il luogo in cui si nasconde il tesoro. Ma come posso gettare lo sguardo oltre le mura quando il vero tesoro si trova all’interno della scuola stessa? Non sto parlando dell’archi-tettura sublime o dei reperti storici, ma degli studenti che la popolano. Vivo ogni giorno nella certezza di essere circondato da magnifici alieni, di poter incontrare in ogni momento un mondo sconosciuto all’angolo del corridoio, conoscere un’anima diversa dalla mia. Nonostante gli stu-denti compongano un numero esiguo, a scuola mi manca sempre il fiato, non trovo uno spazio adatto a me a causa della ricchezza interiore degli individui e del peso e dell’influenza della loro anima, che si espandono fino a far tremare

i sanpietrini. È per questo che non mi arrendo, perché non troverei altro ambiente sociale mi-gliore del Sarpi, perché ovunque io possa recar-mi, non mi sentirei a casa come mi sento qui. Dopo aver trascorso un anno scolastico in que-sto edificio neoclassico non ho appreso solo come mimetizzarmi tra le colonne, come parla-re con animali impagliati e come salire le scale dal verso giusto, ma ho imparato anche a met-tere sotto lente qualsiasi cosa mi passi sotto al naso, a valutare con le mie basilari conoscenze il mondo circostante, a percepire la realtà filtrare nei pori della pelle, a darmi da fare per comple-tare il Ginnasio e affrontare il Liceo. Mi hanno insegnato ad apprezzare, osservare, disprezza-re, aggiustare, comprendere, distruggere, scol-pire, affermare, confutare, e sì, un po’ anche a tradurre.

Giovanni Testa, IVC

«È davvero finita, ed è giunto il momento in cui con una piccola stretta allo stomaco devo definitivamente chiudere con questa lunga e fantastica esperienza. Sono le ultime righe che scrivo per Cassandra e, anche se nella vita non si sa mai, le ultime da direttore di un giornale». Così cominciava l’ultima pagina di Cassandra numero 30, l’ultimo numero del 2003-2004, dieci anni fa. Chi scriveva è chi torna a scrivervi oggi, sarpino allora e sarpino ancora adesso (arrendetevi, l’etichetta di sarpino non si can-cella. Mai) per lanciarvi un messaggio.I tempi erano molto diversi, per tanti aspetti, e per altri sono uguali. Mi sono sfogliato i numeri di quell’anno: i temi trattati furono il bicentena-rio della scuola, la censura in tv (era l’anno in cui

Il Sarpi dieci anni dopo: istruzioni per l’usoRitorno al Futuro: Storie di ex studenti

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Berlusconi tuonò contro Biagi, Santoro e Luttaz-zi), la guerra in Afghanistan e le bandiere della pace, il film dell’anno (“Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re”), un libro appena uscito e molto atteso (“Harry Potter e l’Ordine della Fenice”), Marco Pantani, che morì a febbraio, lo scandalo fideiussioni nel calcio, con l’ultimo campionato a 18 squadre, e due album musicali appena usci-ti di due gruppi emergenti: si chiamavano Muse e Strokes. E poi, ovviamente, l’esasperazione dicembrina per il troppo studio e la poca voglia di stare sui libri ad aprile. Ci sono cose che non cambiano mai.

Quello che vorrei dirvi è che, dopo dieci pri-mavere, inevitabilmente tutto è diverso. Ma anche che ciò che siete o state diventando in questi anni è l’essenza di ciò che sarete negli anni a venire. Vi sorprenderebbe sapere che a ventinove anni ancora ci si trova nei bar con gli amici del liceo a ricordare quell’interrogazione di filosofia in cui, studiando tutto in un giorno, avevi strappato un 9, quella volta che la profe di chimica beccò il tuo bigliettino durante una verifica e volle sottolineare l’onta e il disonore del fatto non a tutta la tua classe, ma anche a quella parallela, oppure quella versione sbaglia-ta dalla prima all’ultima parola o quella bravata di quel tuo compagno di classe che, come segno di protesta per una “verifica a sorpresa di greco” fissata il penultimo giorno di seconda liceo, la trasformò in una “verifica a sorpresa di greche”. Sono momenti epici che vi accompagneranno a lungo.

Al di là di tutto questo c’è una cosa che ci tengo a dirvi. Il Sarpi ci insegna e ci segna, ci apre la men-te e ci abbrutisce la vita, a volte, ma vi rendere-te conto che più avanti vi tornerà utile. A volte, però, può confondere. Il Sarpi ci mette addosso la responsabilità di essere alla sua altezza anche dopo averlo lasciato (quante volte, come me, vi sarete sentiti dire che sarete la classe dirigente del futuro?). Non cascateci.

Molti di voi – la maggior parte, mi auguro – den-

tro sé stessi già sanno chi vorrebbero diventare, che lavoro piacerebbe loro fare, come si vedono quando tutto questo marasma di libri e quel-lo che li attende all’università sarà alle spalle. Quello che vi chiedo di fare è: ascoltate quella voce che dall’interno vi urla cosa fare. In quell’e-state del 2004 lasciai Cassandra con un sogno, preciso e complicato: continuare a fare quello che mi faceva stare meglio, scrivere, e diventare un giornalista. Ma il senso di responsabilità che il Sarpi ti inculca mi fece deviare dalla strada maestra e mi infilai per anni in una facoltà uni-versitaria che non mi piaceva, ma che avrebbe potuto garantirmi un ipotetico futuro radioso e magari di infilarmi in quel fantomatico percorso verso la “futura classe dirigente”.

Niente di più sbagliato. Il Sarpi insegna a fare tutto (davvero, fidatevi di chi l’ha finito prima di voi, passandosela tra l’altro non sempre benissi-mo), ma non a cambiare le proprie ambizioni. È ingombrante non solo nello skyline di Città Alta e nelle vostre vite attuali, ma anche per le scelte che state facendo e che farete. Ma deve essere un Virgilio, non un Caronte. E sappiate che tra dieci anni, quando proverete a ricordarlo, vi ver-ranno in mente i momenti di complicità con gli amici, di goliardia con i compagni e non la pe-santezza delle ore chiusi in camera a studiare o la tensione pre verifica. Quelle faranno parte solo del vostro vissuto e del vostro modo di af-frontare le prove della vita, ma se abbiamo tutti quanti imparato ad affrontare il sacrificio non significa che dobbiamo vivere di sacrifici.

Lo sapete di sicuro anche voi guardando i tele-giornali: la mia generazione non è particolar-mente fortunata per quanto riguarda il lavoro e spero che per voi la situazione potrà essere più rosea. Ma anche (e forse soprattutto) conside-rando i tempi che corrono, l’invito che vi faccio è: anche se siete allenati ad “immolarvi” abban-donate questa logica e sognate, il rischio di sve-gliarvi un giorno e rendervi conto che potevate farlo e non l’avete fatto in nome della paura di restare incompiuti è grosso.

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Non vi ho più detto che fine hanno fatto i miei sogni: molti anni dopo, mentre stavo stanca-mente concludendo il mio percorso universita-rio, mi sono improvvisamente reso conto di sta-re vivendo una vita che non era la mia. È stata una scossa tellurica, una scintilla, ha fatto male. Ma mi ha spinto a prendere in mano la situazio-ne ed è andata bene: ho mandato in un giorno quasi trenta curricula e uno dei destinatari mi ha richiamato. Ho fatto il colloquio, ho iniziato uno stage, inizialmente non remunerato, poi mi hanno preso. E ora sto facendo la trafila per di-ventare giornalista, un vero giornalista.

È quello che so fare, è quello che voglio fare, è quello che sono ed è stato il Sarpi a farmelo capire. Fate lo stesso, ascoltate i vostri sogni e non abbandonatevi al senso del dovere. Tanto il vostro dovere lo sapete fare.

Marco Venturini

Sportal.it

Calcissimo.com

e soprattutto

III D 2003-2004

Tutti sono concordi nel dire che il diritto alla privacy è un diritto fondamentale dell’uomo; tuttavia è sorto un’enorme dibattito legato all’utilizzo della crittografia per salvaguardare questo diritto. La crittografia, nota sin da tem-pi antichissimi, ha oggigiorno raggiunto vette sorprendenti riguardo complessità, garantendo quindi un’assoluta segretezza a chi sceglie di uti-lizzarla. Considerato questo fatto, è comprensi-bile come i governi, in particolare quello degli Stati Uniti, abbiano iniziato a temere un largo impiego della crittografia; infatti essa potrebbe benissimo essere usata da associazioni criminali

in modo che le informazioni su attentati terrori-stici, rapine o altri eventi del genere non possa-no essere ottenute dalla polizia tramite intercet-tazioni. Dopotutto le intercettazioni sono state una tecnica fondamentale nella lotta al crimine da quando è andata ampliandosi la possibilità di comunicazione con i cellulari ed internet. Forse vi spaventerà che appunto per questo fu creato Echelon, un sistema di computer finanziato da cinque paesi, tra cui ovviamente gli Stati Uniti, che intercetta le comunicazioni globali in cerca di informazioni criminose, reagendo di fatto a termini specifici nelle comunicazioni come at-tentato, Obama, o termini del genere. Scalpore ma forse non stupore fu sollevato dallo scoprire che Echelon è stato utilizzato anche come siste-ma per lo spionaggio economico industriale per favorire le imprese dei cinque stati aderenti al progetto.

Un crittografo statunitense, tale Phil Zimmer-mann, ovviò a tale chiara violazione della priva-cy da parte del governo regalando al mondo uno dei sistemi crittografici più sicuri, il PGP (pretty good privacy) nel 1991 (volendo è disponibile gratuitamente via internet). Ovviamente per questo fu citato in giudizio dalla NSA, dall’FBI e da altre organizzazioni, anche se furono poi fat-te cadere le accuse nei suoi riguardi .

L’Unione Europea si vanta nella sua carta dei di-ritti di garantire al cittadino un completo diritto alla privacy sia che egli si trovi nei confini degli stati aderenti all’Unione, sia che si trovi all’este-ro. Pertanto la crittografia pubblica, che ci per-mette di poter trasmettere informazioni private in completa sicurezza, è legalmente ottenibile nei paesi membri. È quindi questo un ottimo se-gno del fatto che l’Unione si preoccupa per noi, a differenza di quanto succede in America, dove le dispute sono ancora aperte.

Marcello Zanetti, IIB

Crittografia e Privacy

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In questi mesi si è parlato tanto di Europa, ele-zioni e quant’altro e sulle reti televisive italiane hanno fatto la comparsa pubblicità che elogiano la costruzione dell’organismo politico europeo. L’idea che viene fatta circolare è che l’Europa sia il frutto del raziocigno dell’uomo che ha deciso di non portare più la guerra, ma la pace. Insom-ma è iniziato quel processo di propaganda e di indottrinamento delle nuove generazioni al fine di creare una grande comunità europea che sia l’erede delle conquiste del passato: la pace, la libertà e la giustizia. Dicono che l’Europa sia pa-cifica, che non abbia un esercito e che non por-ti guerre. Peccato che la realtà sia ben diversa in quanto si sta sperimentando la creazione di reparti militari multinazionali, i quali andran-no a costituire il futuro esercito europeo e un esempio lampante della politica pacificatrice è l’impiego di una brigata franco-tedesca in Cen-trafrica. Certamente possiamo però riscontrare, almeno in questo frangente, come tedeschi e francesi non litighino più!

L’idea di Europa ha radici antiche, si può ritro-vare qualcosa di analogo in Kant, il quale nel suo scritto “Per la pace p e r p e t u a ” ipotizza la co-struzione di un organismo sovranaziona-le che abbia come fine la pace. In qust’o-pera politica si parla anche di smilitariz-zazione degli

eserciti permanenti e di quella che potrebbe essere considerata l’antenata della cittadinanza europea, ovvero il diritto per ogni uomo di es-sere ospitato in un altro paese. Purtroppo Kant non ha potuto assistere al mutamento profondo che il sistema capitalistico ha prodotto non solo nella vita quotidiana, ma più in generale nelle re-lazioni internazionali ed in particolare nelle varie politiche imperialistiche, preludio dei due grandi conflitti mondiali. Ed è proprio dopo il secondo conflitto mondiale che l’idea di un’Europa unita tornò a farsi sentire. Con la spartizione imperiali-stica e la divisione del mondo in blocchi, gli USA decisero di ridurre le spese militari per le truppe di occupazione in Europa e per questo incenti-varono una politica di riarmo degli stati membri della Nato, compresa la Germania Ovest. Il riar-mo della Germania era inaccettabile soprattutto per la Francia, la quale inizialmente si oppose, ma il 9 maggio 1950, per bocca del Primo Mini-stro Robert Shuman, fu presentato un piano di gestione sovranazionale dell’attività estrattiva del carbone e dell’acciaio. Nacque così la CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio), la quale doveva essere uno strumento che con-sentisse la pace tramite la messa in comune di queste due materie prime che all’epoca erano indiespensabili per una qualsiasi politica di riar-

mo. Questo fu, dunque, il pri-mo passo che avrebbe poi portato all’U-nione Europea.

Fin da subito l’Europa è sta-ta il tentati-vo, promosso anche dagli Stati Uniti, di costruire una sorta di terzo blocco quasi autonomo dal punto di vista

LE FAVOLE DELL’EUROPEISMO

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militare e con funzione di cuscinetto, che fosse in grado di fermare un’ipotetica invasione sovie-tica. Tutto ciò fu dettato dalla necessità statu-nitense di ridurre le spese militari in Europa per reimpiegarle nel sudest asiatico. L’unificazione, però, è andata avanti fino ai giorni nostri e ha visto l’entrata nella zona euro di 28 paesi, molti dei quali stati satellite del Patto di Varsavia. Nel 1991, con il crollo dell’URSS, si esce dalla logi-ca dei blocchi “ideologico-politici” e si entra in quella dei blocchi economici.

La costruzione dell’Unione Europea è infatti la risposta alla crescita spropositata della Cina, al declino della potenza statunitense e all’emer-gere di nuovi colossi quali il Brasile e l’India. Le borghesie nazionali europee hanno constatato quanto i paesi che una volta si ritenevano arre-trati stiano esplodendo sul mercato e quanto la loro forza sia insormontabile se si rimane entro la cerchia di un’economia nazionale. Nell’econo-mia di mercato, quello che conta è l’incessante riproduzione del capitale su basi allargate, dun-que, la sua valorizzazione e per ottenere ciò servono grandi gruppi che possano contrastare quelli avversari. Il mondo dunque si avvia verso una divisione tripolare. Mai bisognerà scordare la lezione dell’internazionalismo, poiché l’unico modo per la classe operaia di superare illesa gli eventi storici e di non essere strumento in mano alla borghesia è quello della solidarità di classe, della lotta di classe, quella lotta di classe che tutti negano e stigmatizzano. Le nostre armi saranno allora la formazione e l’organizzazione per costruire una società diversa, il cui centro sia l’uomo con la sua soggettività e le sue proble-matiche. Noi studenti possiamo avere un ruolo chiave, basta non farsi contagiare da ideologie avvelenate come i nazionalismi e decidere di non stare con nessuna potenza. Rendiamo ogni giorno un Primo Maggio in cui vedere lavoratori e studenti insieme per ribadire un concetto fon-damentale: il Primo Maggio è una lezione della storia... “Historia magistra vitae”.

E proprio a cent’anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, mentre tutti parlano di pace, tutte le potenze si riarmano, persino la pacifica Europa ha messo in cantiere un esercito proprio. I nazionalismi hanno sempre diviso l’umanità, oggi come ieri. Che differenza fa se il naziona-lismo diventa “continentale”? Perchè questa volta l’emergere di nuove potenze non dovreb-be finire in un disastro mondiale come nel No-vecento? Ai posteri l’ardua sentenza. Chiama-temi pure utopista, ma un’Umanità unita sotto un’Unica bandiera, per me, è un sogno ancora realizzabile.

Paolo Sottocasa, IIIA

Monarchia. Può essere una parola che oggi-giorno suscita strane impressioni, in fondo la maggior parte delle nazioni è una repubblica, noi viviamo in una repubblica, “monarchia” a pensarci bene fa venire in mente solo il Regno Unito. Ma la monarchia può essere molto di più, infatti è una forma di governo ancora ben pre-sente anche nella stessa Europa. Per citare solo alcuni paesi oltre al Regno Unito basti pensare a Spagna, Paesi Scandinavi, Lussemburgo, Paesi Bassi e ovviamente il Vaticano.

Anche se non sembra molte repubbliche ras-somigliano grandemente ad una monarchia; le repubbliche presidenziali infatti prevedono che appunto il presidente riceva un gran numero di poteri decisionali cosa che lo rende di fatto se non di nome assai simile alla figura di un mo-narca. Ovviamente la forma di monarchia at-tualmente più utilizzata è quella parlamentare e non quella assoluta o quella costituzionale. La monarchia parlamentare si differenzia da una repubblica presidenziale solo per il fatto che il monarca ha un mandato privo di scadenza, la successione è ereditaria e il re in casi di grave crisi può richiamare a sé tutti i poteri incarnando la figura del dittatore della Roma repubblicana.

Viva la Monarchia

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Ora forse vi chiederete il perché di questo mio discorso; perché qualcuno dovrebbe parlarci della monarchia? Perché secondo me è una for-ma di governo garante di maggiore stabilità. Non pretendo di risolvere il dibattito eterno su quale sia la migliore forma di governo, ma sem-plicemente esporre la mia personale visione a riguardo. Perché quindi ho scelto la monarchia? Perché il fatto di avere la figura di un re a guidare il paese dà un caposaldo all’opinione pubblica, arginando le crisi che si possono venire a creare a livello di partiti parlamentari. Di fatto il re in-carna la fiducia del popolo in un governo che di-fenda il loro diritti e grazie ai poteri di cui ancora è rivestito può effettivamente agire in tal senso.

Quando all’interno del paese c’è un acceso di-battito politico e un cittadino è invaso dal dub-bio su cosa potrà accadere, su chi tra i difensori delle varie correnti di pensiero meglio incarna le sue speranze, ci sarà sempre e comunque il so-vrano a calmare i suoi timori garantendo che an-che se compirà la scelta sbagliata c’è qualcuno pronto a rimediare e a riportare tutti nella giusta direzione.

GIGE DA DODONA

1896. Mentre nel Klondike inizia la corsa all’oro, i fratelli Lumière sconvolgono gli spettatori con “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” e ad Atene si svolge la prima Olimpiade, nella nostra bella penisola una ragazza marchigiana discute la sua tesi: è Maria Montessori, la prima donna a essersi laureata in medicina nell’Italia unita.

Maria Montessori è stata una di quelle fanciulle che rendono le altre fanciulle orgogliose di far parte del gentil sesso. Figlia di genitori istruiti, dopo gli studi si fece notare per ricerche dai risul-

tati eccellenti, ma la svolta nella sua vita si ebbe quando iniziò a lavorare presso la clinica psichia-trica dell’Università di Roma occupandosi del re-cupero dei bambini “anormali” (come venivano definiti): osservando i piccoli disabili, la Montes-sori si convinse che essi potevano essere integra-ti nella società attraverso un percorso educativo e, in seguito, sviluppò il suo innovativo pensiero pedagogico, il cosiddetto “Metodo Montessori”. Secondo Maria, il bambino doveva crescere in un ambiente che lo mettesse a suo agio e che gli permettesse di esprimere la propria creatività e di imparare rispettando i suoi tempi e la sua volontà (da qui gli spazi “a portata di bambino”, per esempio con le maniglie delle porte più bas-se del normale, e i materiali didattici apposita-mente studiati).

In anni di bacchettate quali quelli in cui visse la dottoressa marchigiana, la diffusione di una pe-dagogia basata sulla naturale curiosità e capaci-tà cognitiva dell’essere umano avrebbe potuto incontrare il ostacoli insormontabili, eppure tut-to il mondo la accolse positivamente e ancora oggi esistono scuole Montessori in ogni Paese. Ogni volta che sento del metodo stile Mary Pop-pins sviluppato da quella piccola grande don-na, non posso fare a meno di confrontarlo con quello con cui ho a che fare da quando avevo sei anni. La scuola italiana ha un bel po’ di proble-mi, lo sappiamo bene, ma uno non irrilevante è la scarsa attenzione prestata agli alunni quali INDIVIDUI DOTATI DI PENSIERI, ATTITUDINI ED EMOZIONI. Programmi da seguire, verifi-che da somministrare (manco fossero medicine amare), abilità da valutare, ecco a cosa si ridu-ce troppo spesso quel periodo di tempo che va da settembre a giugno; non c’è interesse ver-so ciò che il ragazzo crede o prova, né rispetto per le sue inclinazioni e i suoi tempi, semplice-mente un obiettivo da raggiungere perché il ministro del Governo vigente ha deciso così. Io credo che sia una vera e propria ingiustizia. A causa di insegnanti incompetenti e schizofrenici, di presidi indifferenti e di chiunque si occupa in

THE MOST INTERESTING WOMAN OF EUROPE

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modo superficiale del sistema scolastico, milio-ni e milioni di giovani menti vengono private del piacere della scoperta, che si riduce allo studiare quello che serve per prendere il bel votino, e tan-ti altri si vedono umiliati in quanto meno “dota-ti”.

A parer mio, la formazione culturale di un in-dividuo coincide, almeno in parte, con quella umana, perché contribuisce a plasmare il suo pensiero e ad aprire la sua mente, ma troppi “addetti”(con le dovute eccezioni, ci manche-rebbe) prendono sotto gamba il loro ruolo e non capiscono di avere la responsabilità di aiutare le nuove generazioni a liberarsi dall’ignoranza, madre di cancri come il razzismo, l’omofobia e la violenza.

La componente principale della scuola siamo noi, gli alunni, anche se quasi nessuno ci ascolta. Spero che quando verrà il nostro turno di ammi-nistrare questo Paese non cadremo negli stessi errori dei nostri padri e nonni, perché vorrebbe dire che il bambino non apprende sperimen-tando sulla propria pelle e che non è in grado di trarre delle conclusioni da ciò che vive, contra-riamente a quanto sosteneva quella Maria Mon-tessori che il New York Tribune del 1913 definì “the most interesting woman of Europe”.

Sara Latorre, I D

C’ERA UNA VOLTA IL WEST, A BERGAMO. Era il 1967, e fu un casino. Un vero casino. Giulio Questi e Franco Arcalli scrivono un film, un we-stern per l’esattezza. Sono gli anni di Sergio Le-one, dello spaghetti-Western, di un genere che non è più né John Wayne né John Ford, né Howard Hawks né Gregory Peck. Gli indiani d’ America scompaiono dal cinema e con loro la carica ideo-logica di quei film che tanto avevano accresciuto il mito nazionale americano, quella tendenza a bollare i nativi come “Ombre rosse”(Svarionata

pazzesca dei traduttori italiani, oltretutto). Fatto sta che i due chiamano il film “Se sei vivo spara”, poi portato all’estero come “Django Kill”, sulla scia del successo del film con Fran-co Nero dell’anno prima, ma la traduzione è completamente a cazzo, nel senso, una tro-vata commerciale. Ci sono tutte le premesse per un film di mmerda insomma. E invece no. Giulio Questi non è un registello della pri-ma ora, non fa il mestiere per guadagnare, è un bergamasco che si è fatto le ossa, fisica-mente con la resistenza post 8 settembre, e cinematograficamente con una serie di do-cumentari, alcuni entrati nell’agenda cult di film maledetti(“nudi per vivere” 1964, ritira-to dalle sale, e resuscitato pochi anni fa dal-la cineteca di bologna, un solo esemplare in pellicola, girato insieme a Montaldo e Petri). Arcalli invece è uno sceneggiato-re esperto, che poi sfonderà scriven-do per Antonioni (“Zabriskie Point”) e Bertolucci(“Il conformista” e “Novecento”). I due buttano nella sceneggiatura cose apparen-temente discostanti dal genere, e il risultato è un film cruento e sanguigno, cinico e a tratti geniale. L’impostazione è classica: un messicano(Thomas Milian) viene tradito dai suoi compagni dopo una rapina. I compagni si ritrovano però in una città assurda per cui se sei un criminale muori, cioè ti torturano, ti impiccano, ti mettono in mostra come trofeo divulgativo di una legge che deve essere rispettata. Giudici che diventano carnefici e colpevoli, un west già in partenza nero, senza via di scampo, chiuso in una struttura non areata. Thomas Milian cerca vendetta, ma rima-ne incastrato in qualcosa più grande di lui, in un mondo che ha perso valori, nella cor-ruzione, in una religione più che mai falli-mentare, nel nulla. L’epilogo è tragico e in-cendiario, sfumato nel suo non essere finale. Il film esce ma viene vietato ai diciotto anni. La censura ha paura. Da due ore di pellicola lo portarono a 90 minuti, tagliando in particolare lo scotennamento di un indiano, gli abitanti del

SE SEI VIVO SPARA

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paesino che strappano a mani nude i proiettili d’oro dal corpo di un morto, e cavalli sventrati da una bomba. Passa un mese e il film viene se-questrato e per dieci anni scomparirà nel nulla.

La cifra significativa del cinema di Questi diven-ta così la violenza, una violenza che non è solo distruzione, ma anzi, diventa allucinazione, vi-sione deformata della vita. Thomas Milian (stra-biliante giuro, meglio del solito) parla poco, ed è accompagnato da due misteriosi indiani, sorta di angeli accompagnatori. La visione deviata e le inquadrature ravvicinate trasmettono insicu-rezza, e la prima ora di film è veramente bella. Poi stucca un po’ e rischia di cadere in alcune convenzioni del genere, ma film imperfetti se ne vedono tanti. E forse anche questo lo è, ma ha qualcosa per cui vale la pena andare avanti, un inconscio fascino. (Per noi homini del 2000 non è per nulla violento, se vi può rassicurare). Abbiamo due registi bergamaschi degni di esse-re ricordati nell’albo d’oro, uno l’antitesi dell’al-tra, Olmi e Questi, l’uno un grandissimo(da riscoprire i suoi primi film) quotidianista tra-dizionale, l’altro un dinamico rompischemi. Questi è poco ricordato purtroppo, ma il suo estro straniante ha la fama di Cult, specie se si considerano i suoi ultimi film, tra cui “La mor-te ha fatto l’uovo” 1968 (sapiente thriller ) e il maledettissimo e assurdo “Arcana” del 1972, che consiglio caldamente se siete appassionati di film malati e fuori di testa (e pronti a vede-re tazze che volano e gente che vomita rane). Gli anni settanta sono anni fortunati per il cine-ma, specie quello italiano. C’è dentro di tutto, sfondano in molti, ma l’idea che da Bergamo si possa finire in Messico, fra sparatorie e Cowboy, fra corse all’oro e saloon di bassa portata, segna la fine dell’astrazione utopica, e un nuovo inizio verso la dialettica trascendentale. E tralascian-do questi scherzi retorici, consiglio di scaricare illegalmente uno dei tre film citati nell’artico-lo, e poi divertitevi ed entrate nel vortice di di-sperate sensazioni di un uomo che adesso ha

quasi novant’anni, ma che trova ancora il co-raggio di prendere una videocamera in mano, e girare cortometraggi da solo, in casa propria. Dicono che il proibizionismo verrà abolito, nel frattempo sdraiatevi sul divano e aspettate. “Lei sa sparare bene, può andare dove vuole”

Paolo Bontempo, IID

(Marianna Tentori va a concerti che non si me-rita)

Fra un sorso di birra per le verdi brughiere, una commedia di Oscar Wilde, una tavoletta di cioc-colato alla Guiness (io una volta ho provato a farlo ed è un miracolo se sono scampata all’arre-sto: sempre meglio non farmi cucinare e affidar-si all’originale) ed un romanzo di Joyce, un bel giorno dall’Irlanda arrivarono i Flogging Molly. Neanche più giovanissimi ormai, patriottici fino all’ossessione (e va beh: sono irlandesi) e, secondo me, tanto tanto bravi. Nella mia igno-ranza musicale, paragonabile a quella di uno scaricatore di porto dublinese (tanto per resta-re in tema), vi avrei detto che suonano musica Irish folk; Wikipedia mette una mano pietosa, e corregge in “celtic punk, pop punk, punk revival e alternative rock”. Ma non volevo lanciarmi in analisi musicologiche assolutamente fuori dalla mia portata; più semplicemente, volevo coin-volgervi nella mia passione per questo gruppo scoperto quasi per caso circa un anno e mezzo fa. Cominciamo col dire che ho avuto la fortuna di sentirli dal vivo: grazie ad un’intrepida amica che fece Brescia-Bergamo a mezzanotte pas-sata con il terrore dei camion, il 18 agosto 2013 ho assistito al concerto dei Flogging Molly al Festival di Radio Onda d’Urto (che si tiene ogni anno e al quale consiglio tutti di andare perché è molto carino). Oltre all’enorme salto di qualità dell’ascolto, dal mio ipod a dieci metri da me, mi è piaciuto anche il loro modo di fare durante il

Singin’ Drunken Lullabies

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concerto: nelle pause fra le canzoni parlavano al pubblico affabilmente, facevano battute (but-tavano giù un po’ di alcol…)…alla Guccini in-somma. Entrando invece un po’ più nel merito, quello che mi piace della loro musica è la par-ticolarità di ogni canzone, la sua unicità (e non che alla fin fine siano originalissimi nel variare lo stile, ve ne accorgete dopo che avete ascol-tato qualche canzone): da cover ben fatte come “The times are a-chancing” a pezzi ballabili come “Drunken Lullabies”, al ritmo travolgente di “With a wonder and a wild desire”, alla musi-ca meravigliosa di “Whistles the wind” o al testo dolcissimo di “If I ever leave this world alive”, per non parlare dell’aulicità del titolo di “Kiss my Irish ass” (non mi pare di essermi mai azzardata ad ascoltarla, quest’ultima), ogni brano costitu-isce un’opera a sé stante, godibile anche da un profano totale di questa band, e magari abba-stanza intenzionato a rimanere tale.

Dunque, ecco a voi (in pillole, me ne rendo conto, ma sono le undici meno un quarto e ho il terrore di aggiungere strafalcioni sintattico-grammaticali a quelli musicali, e soprattutto credo di aver fatto passare quello che per me è essenziale) i Flogging Molly! Non lasciateveli sfuggire, e buon ascolto!

Marianna Tentori, IIB

Stanley Kubrick fu un regista, sceneggiato-re, produttore, montatore, scenografo e fo-tografo americano, nato a New York nel 1928 e morto a St. Albans nel 1999 all’età di 70 anni. È considerato tra i migliori cineasti del-la storia del cinema in particolare per il suo grandioso eclettismo che lo portò, nel corso della sua carriera, ad affrontare con grande abilità ogni genere di film: dal noir all’horror, dalla commedia nera alla fantascienza, passan-do per il thriller e arrivando fino ai “war film”. In totale ha diretto tredici lungometraggi, per

ognuno dei quali è stato candidato al Premio Oscar, che vinse solo nel 1969 per i migliori effet-ti speciali con il film “2001:Odissea nello spazio”. La sua passione per gli audio-visivi incominciò fin da giovanissimo, quando, all’età di 13 anni, il padre gli regalò la sua prima macchina foto-grafica. Incominciò così a seguire studi artisti-ci di fotografia in parallelo con i suoi impegni scolastici; in questi anni inoltre si avvicinò alla poesia simbolista e alla filosofia, in particolar modo quella di Nietzsche, che influenzò for-temente la sua carriera negli anni successivi. Dopo essersi diplomato, nel 1967, venne in-gaggiato come fotografo dal magazine “Look”. Con il denaro guadagnato in que-sto periodo si pagò gli studi presso l’Accade-mia di Arte Cinematografica, decidendo di volersi occupare completamente di cinema. Nel 1953 uscì il suo primo lungometrag-gio “Paura e desiderio” (Fear and desi-re), che gli permise di prendere confi-denza con la tecnica cinematografica. Stanley Kubrick è ricordato per essere stato uno dei registi più ossessivi nella storia del cinema: attento a ogni particolare poteva passare ore a studiare e curare ogni inquadratura, con una cura maniacale per l’illuminazione, la prospetti-va e la posizione dei personaggi e degli oggetti in scena. Come causa di questa attenzione pos-siamo addurre due diverse motivazioni: la sua grande passione per la fotografia, che cercava di riversare nei suoi film, e il fatto che tendenzial-mente le sue inquadrature fossero prolungate, a tratti quasi esitanti, così da lasciare lo sguardo dello spettatore libero di indugiare su ogni com-ponente scenica e di indagarne i significati. Nei film di Kubrick preponderante non è il dialogo tra i personaggi, ma vi è una predilezione per il silenzio, lasciando che siano solo i movimenti di camera a esprimere sentimenti d’inquietudine, paura e drammaticità, per fare in modo che lo spettatore venga in qualche modo gettato nel-la realtà scenica rappresentata, facendogliela vivere in prima persona. Esempi illustri di que-sta capacità comunicativa possono essere due sequenze tratte da “Shining” e “Full Metal Ja-

Ciak si gira! Stanley Kubrick

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cket”. Nella prima, la cinepresa si muove con un movimento libero, cioè autonomo nell’ambien-te, seguendo la traiettoria del piccolo protago-nista, Danny, che corre sul suo triciclo lungo i corridoi dell’Overlook Hotel, finchè il bambino non esce di campo, dopo aver svoltato alla fine del corridoio; a questo punto la telecamera in-dugia ancora per qualche secondo sullo spazio vuoto e immobile, generando nello spettatore un momento di tensione, che preannuncia la sequenza successiva nella quale compariranno i fantasmi delle due gemelle un tempo massa-crate in quello stesso hotel. Nella seconda, in-vece, la cinepresa si trova a pochi centimetri dal suolo e segue un gruppo di soldati che avanza verso un villaggio nemico; la velocità di avan-zamento irregolare e la traiettoria ondulante e instabile sembrano voler proiettare lo spettato-re nel sentimento di paura e circospezione vis-suta dai soldati, sebbene i movimenti di camera non possano essere definiti delle vere e proprie soggettive, dal momento che la cinepresa è troppo bassa per fornire una tale prospettiva. Nelle inquadrature di Kubrick possiamo notare, come già accennato sopra, un’attenzione per la resa prospettica e un forte senso geometrico. Si è notato infatti che, per creare atmosfere in-quietanti o suggestive, il regista si avvale di una prospettiva così detta “ad un punto”, che preve-de l’utilizzo di linee parallele convergenti in un punto di fuga centrale; inoltre dividendo a metà il fotogramma è possibile riscontrare una per-fetta simmetria e specularità tra i due semipiani. Importante per il regista è anche il suono, in particolare lo stretto rapporto tra musi-ca e immagini, sempre volto a coinvolgere ed emozionare lo spettatore. Un esempio tra tanti è la forte contrapposizione creata nel film “Arancia Meccanica” tra la musica di Lu-dovico Van Beethoven e le immagini di ultra-violenza proposte nel corso della pellicola. Il tema principale nei film di Kubrick è la titanica lotta tra bene e male, la volontà di mostrare la vera natura dell’uomo, che tende sempre, suo malgrado, a compiere il male. La violenza, l’o-dio, la perversione sessuale, sono infatti realtà

che non possono essere sradicate né dalla so-cietà, né dall’interiorità dell’essere umano. Da qui nasce per esempio la critica sottesa posta da Kubrick nei confronti di Burgess, scrittore del ro-manzo di “Arancia Meccanica”, e della sua visio-ne futuristica della società, dove al protagonista Alex De Large viene negata persino la libertà di scelta tra perseguire il bene o compiere il male. Le sceneggiature di questi film inoltre pre-sentano una struttura ad anello, in cui il fi-nale si rifà sempre all’incipit della pellico-la; per esempio in “Arancia Meccanica” Alex ritorna al suo stato iniziale di malvagità, anzi, se possibile, ancora più cattivo di prima, per-ché cosciente dell’inevitabile presenza nella società del male, in ogni sua manifestazione. Kubrick contribuì infine all’innovazione di alcune tecniche cinematografiche, tra cui la steadycam (sfruttata principalmente in “Shining”), suppor-to meccanico indossabile dotato di un sistema di ammortizzazione che permette al cameraman di muoversi liberamente, persino correre, senza trasmettere vibrazioni alla macchina da presa. Insomma, per concludere sento di dover ci-tare una frase di Kirk Douglas che riassume un po’ tutto quello che è stato detto finora: “Stanley Kubrick è una merda di talento!”.

Giulia Argenziano, IIB

L’illusione del NienteTutto svanisce e ricompare,

si mescola e sparisce.

Come sabbia sospinta dal vento,

vortica e si assospisce.

Tutto muta e rimane invariato

in una confusione di colori,

che in fondo sono solo un’illusione.

Adriana Lirathni, IV

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“Ma io vorrei sapere, in tutta onestà, con che CUORE puoi farmi questo?” ormai Z urlava. X tirò un sospiro, si sistemò più comodo sulla poltrona e si massaggiò le tempie. “Senti” co-minciò, conciliante “la stai prendendo nell’ot-tica sbagliata. Non deve avere un senso. Sei un personaggio di un romanzo, non esisti davvero. Se in questo momento mi prendessi una bel-la sbornia” e per un attimo la sua mente corse, con un guizzo di desiderio, al suo scaffale degli alcolici “se mi prendessi una sbornia, se andassi a dormire, se semplicemente uscissi a fare un giro, smetterei di pensare a te e tu scompari-resti direttamente. Fattene una ragione. Sei un brav’uomo, hai pure fatto delle cose utili nella tua vita, quell’intuizione che ti è venuta a pagi-na 227 non è mica roba da tutti, cosa credi, però rassegnati. Devi morire. D’altronde capita a tut-ti. Cosa ci posso fare io? Si chiama espediente narrativo. Hai presente che schifo uscirebbe far-ti partire per l’Australia, farti diventare muto o che so io? Seriamente, non posso fare un finale così di merda. Niente di personale, ma dev’es-serci il colpaccio finale, capisci? Scrivo gialli io, mica Harmony”. “Sì però… Ma dai, che schifo. Non riesco a farmene una ragione. Ma che sen-so ha così? Che senso ha avuto la mia intuizione geniale di pagina 227, se mi fai morire come un topo a quaranta pagine dal finale? A cos’è servi-ta la laurea in fisica, cosa vuoi che me ne freghi dei miei cinque anni a Parigi, se poi devo finire così?” “Santo cielo… ma non capisci che la tua fine è ancora più tragica se avviene a fronte di tutta la tua intelligenza, la tua capacità di cavar-tela in ogni situazione ed il tuo successo? Mai letto l’Edipo Re? Eppure l’ho scritto bello chiaro a pagina 5 che hai fatto il classico. Adesso PIAN-TALA. Se la smetti di assillarmi vedrò… Boh, ti farò farò scrivere prima di morire una lettera in cui sveli una parte importante dell’enigma. Però… Beh, non so. Fammici pensare e vedrò che posso fare. E adesso va’ via!” Detto que-sto, X buttò giù l’ultimo sorso whisky, sbattè il

bicchiere sul tavolino e lasciandosi andare sulla poltrona chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Z non c’era più. “Dio, che stress” pensò “che accollo di uomo. Credevo di non riuscire più a sbarazzar-mene”. Si alzò dalla poltrona, percorse a passi lenti lo studio fino alla porta, uscì, scese le scale, entrò in salotto e fece per dirigersi verso il ca-minetto. “Non ti pare di averlo trattato un po’ male?” X fece un balzo, e si guardò attorno at-territo. “C-cos..?” “Sono qui” rispose tranquilla una voce proveniente dalla poltrona più vicina al caminetto. X si fece avanti. “Oddio!” Urlò, ca-dendo in ginocchio. “Oddio, oddio, oddio, non posso crederci!” e alzò gli occhi, colmi di reve-renza. Semisdraiato con noncuranza sulla pol-trona, con un portasigarette nella mano sinistra con cui giocherellava distrattamente, c’era Y, il poeta maledetto morto più di due secoli prima, il sommo, il leggendario, l’uomo grazie al quale X aveva capito di voler fare lo scrittore. “Mae-stro…” cominciò X, con le lacrime agli occhi “Ma-estro… Quale onore…” Y fece un gesto d’impa-zienza con la mano. “Lascia perdere. Perché fai fare quella fine atroce a quel poveraccio?” “Ma, Maestro… La suspance… Il finale… Le esigenze narrative…” “Oh, su, su, mon ami, risparmiami questo cumulo di fesserie. Questo è un proble-ma che io mi sono posto a ventritrè anni, di si-curo non a quaranta. Noi scriviamo perché ci è necessario e scriviamo le cose in un determinato modo perché sentiamo che non possono essere scritte altrimenti, però c’è un po’ dello scrittore in ogni personaggio. Sii un po’ onesto con te stesso… Perché non sei riuscito a far finta che un giovane genio possa inevitabilmente trion-fare? Era un romanzo, che ti costava? La verità, mon frère, è che tu sei un po’ un fallito. E lo dico con affetto, perché in duecentoquarant’anni un seguace così fedele e appassionato come te io non l’ho mai avuto, ma sei un fallito, e hai anche una discreta consapevolezza di esserlo, nono-stante tu ti ritenga intelligente. Ecco perché hai fatto fare quella fine a quel buon diavolo di Z. Se lo ammetti, sarai solo uno scrittore miglio-re”. “Io… Io…” X chinò il capo, sconfitto. “Ascol-

XYZ

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ta Maestro… Ti ho aspettato per tutta la vita, ogni sera sognavo che tu apparissi qui, nel mio salotto, e rivelassi il senso della vita, dell’arte e della letteratura… E’ comunque un onore che tu sia venuto fin qui per me… Però… Io non… Pro-prio non riesco a…. Sì, hai ragione, diamine, hai maledettamente ragione… Povero Z. Non se lo meritava davvero. Però… però non me lo meri-to nemmeno io!” X ebbe un sussulto, si levò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro davanti alla poltrona “l’hai detto anche tu! Io sono intelligente! Sono talentuoso! Non c’è una sola ragione al mondo per la quale io debba… A meno che…” X s’interruppe, la sua testa scattò a fissare Y negli occhi “Ma sì… a meno che anch’io non sia un personaggio di un tuo racconto! Tutto questo non è mai successo! Io non sono mai esi-stito! Tu puoi ancora cambiare le cose! Tu puoi ancora riscrivere il finale! IO LO SO!” “No, no, mon chère, no” disse Y con dolcezza “non è così. La mia ultima riga io l’ho scritta molto tempo fa. Tu sei vivo, reale. La tua storia devi scriverla tu. Non sei più giovanissimo, d’accordo, ma hai sempre avuto una discreta penna. Hai le capaci-tà per scrivere quello che vuoi, per te. Basta che la smetti di ammazzare poveri personaggi inno-centi, e ti dedichi al tuo finale. Almeno, prova a buttarlo giù. E poi, quel che sarà sarà.”

X ricadde in ginocchio, le mani sugli occhi ed un tumulto di sentimenti contrastanti nel cuore, che facevano a pugni fra loro. Quando li riaprì, era solo nella stanza.

Marianna Tentori, IIB

«Accetterai quel lavoro?». La luce del sole fil-trava attraverso le foglie, il cielo era terso, solo poche nuvole si rincorrevano in quella macchia indistinta color indaco, e i lunghi capelli rossi di Margaret erano sparsi tra l’erba, scompigliati.

Lei se ne stava distesa sul prato verde col suo ve-stito estivo preferito, teneva gli occhi chiusi e si

tamburellava il petto con le dita. Mi pose quella domanda con improvvisa serietà, preoccupata. Io cercai la risposta lontano da noi, volgendo lo sguardo verso un gruppo di bambini che si rin-correvano felici. «Non posso abbandonare tutto e andarmene così», risposi quasi soprappensie-ro.

«Insomma, la Nuova Zelanda è molto lontana». Tornai a osservare Margaret che nel frattempo si stava puntellando sui gomiti per potermi os-servare meglio. Capì immediatamente che più che convincere lei con quella frase, tentavo di convincere me stesso e aggrottò le sopracciglia in segno di protesta. «Ma sarebbe la tua grande occasione, vuoi veramente sprecarla?». Mi avvi-cinai a lei e sorridendo e le accarezzai il viso. «Ci saranno altre opportunità per me in futuro, ne sono certo. Per ora sto bene qui dove sono, con te, non ho bisogno d’altro».

Non era convinta, glielo si leggeva in faccia, ma alla fine dopo un lungo sospiro ricambiò il mio sorriso. Il parco cominciò ad affollarsi, si era fat-to tardi e Margaret si alzò d’improvviso scrollan-dosi dalla gonna i fili d’erba che vi si erano attac-cati. «Devo correre in negozio, sono in ritardo. Ci vediamo a casa sta sera», disse prima di chinarsi a scoccarmi un rapido bacio sulla guancia e diri-gersi a passo svelto verso la fermata del tram. La guardai mentre diventava un puntino tra la folla e svaniva all’orizzonte. Decisi poi di avviar-mi verso l’appartamento in cui da poco ci erava-mo trasferiti. Durante il tragitto ebbi il tempo di ripensare a quello di cui avevamo parlato poco prima. La decisione che ho preso è quella giusta, pensavo. Trasferirmi in Nuova Zelanda ora che io e Margaret avevamo finalmente deciso di an-dare a vivere assieme sarebbe stata la scelta più insensata che potessi mai prendere. Sebbene fosse il mio sogno ottenere un ingaggio come fotografo per una rivista in un paese straniero, questo non poteva realizzarsi, non in quel mo-mento per lo meno. Non potevo abbandonare tutto quello che eravamo riusciti a creare.

il rischio

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Arrivai a casa, passando in rassegna tutti i pro e tutti i contro della mia decisione, senza accor-germi di una busta abbandonata a terra proprio davanti alla porta d’ingresso. Soltanto quando la calpestai, notai la sua presenza. Incuriosito, mi chinai per prenderla. Era completamente bianca, non vi erano né l’indirizzo del destinata-rio, né il nome del mandante e neppure il fran-cobollo, come se fosse stata lasciata a mano proprio davanti casa nostra. Mi guardai attorno con circospezione. Non notando nessuno, en-trai nell’appartamento e mi andai a sedere sul vecchio divano che campeggiava nel centro del loft. Perplesso, mi rigirai tra le mani la lettera cercando di trovare una spiegazione, finché non presi coraggio e la lessi. C’erano poche parole, scritte a mano da una grafia che per quanto tre-molante mi sembrava famigliare:

“Vediamoci sta sera alle 21:00 al ristorante vici-no alla stazione. Ti devo parlare.”

Il messaggio non era firmato, proprio come la busta che lo conteneva, e non riuscivo a capire chi mai volesse incontrarmi per parlare e so-prattutto di cosa volesse discutere. Continuai a osservare la grafia cercando di capire di chi fos-se. Forse è un mio amico che mi vuole fare uno scherzo, pensai. Eppure nessuno dei miei amici aveva quella scrittura…

Dopo qualche tentennamento, decisi di andare all’incontro. Lasciai un messaggio a Margaret, dicendo che avevo avuto un contrattempo e che le avrei spiegato tutto non appena fossi tornato a casa, e mi avviai verso il luogo dell’appunta-mento.

Il ristorante in questione si trovava proprio di fronte alla stazione, nella zona più malfamata della città. Si stava facendo buio e l’aria era umi-da, pesante. Inspiravo a fatica, col torace gonfio d’ansia e preoccupazione.

Entrai nel ristorante. C’erano poche persone e i più dovevano essere pendolari. Guardai l’orolo-

gio. Erano le ventuno esatte. Un cameriere mi si avvicinò amichevolmente. «Signor Harris?». Lo guardai stupito. «Sì, sono io».

«Prego, la stanno aspettando», mi fece strada conducendomi verso il tavolino più isolato della sala. Un uomo stava seduto dandomi le spalle. «Ecco, si sieda pure, intanto io vado a prendervi il menù», il cameriere si congedò, lasciandomi solo. Io presi posto di fronte all’uomo che ora riuscivo a vedere in volto. Rimasi paralizzato, mentre un brivido mi percorreva tutto il corpo. L’uomo che avevo davanti era sulla sessantina, aveva i capelli brizzolati ed era vestito con un completo color cachi a coste. Il viso, sebbene solcato da profonde rughe e occhiaia violacee, era il mio. Sembravo io a sessant’anni…anzi, ero proprio io.

«Vedo che hai già capito», disse ridacchiando il vecchietto, poi tornò immediatamente serio. «So che può sembrarti strano, ma sono tornato indietro per avvertirti,quindi ascoltami atten-tamente». Tenni gli occhi fissi su di lui a bocca spalancata. Nel frattempo il cameriere tornò con i menù, chiedendoci cosa desideravamo da bere nell’attesa. Il mio io sessantenne rispo-se per entrambi e congedò nuovamente il ca-meriere. «Ma tu…chi….cosa…come fai a….? », biascicai io. «Senti, non posso dirti molto, sappi solo che nel futuro si potranno fare molte cose e tra queste anche fare una capatina nel passato. Ora però ascolta bene: devi accettare il lavoro in Nuova Zelanda e lasciare Margaret». Capii che non era una proposta ma un vero e proprio or-dine e cominciai a irritarmi. «Cosa vorrebbe dire che devo lasciare Margaret e accettare l’ingag-gio?».

«Quello che ho detto. Lei ti farà soffrire, si stan-cherà di te e si metterà con un altro e tu resterai solo, senza un lavoro che ti soddisfa e avrai spre-cato la più grande opportunità della tua vita…Guardami, ti sembra che io sia felice? Rimpiango ogni giorno di non aver realizzato il mio sogno…il nostro sogno». Il suo viso si rabbuiò mentre di-

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stoglieva gli occhi da me e giochicchiava nervo-samente con le posate. Mi fermai per un attimo a riflettere. Ciò che mi aveva appena rivelato mi cadde addosso come una secchiata d’acqua ge-lida. Margaret mi lascerà?, pensavo, sbigottito. Non potevo crederci. Non volevo crederci. «Non è possibile…», sussurrai. Lui tornò a guardarmi e mi diede una pacca sulla spalla per consolar-mi. «Lo so che è dura e che ti sembra assurdo, ma anche se credi che lei sia la donna della tua vita, non è così. Vuoi davvero sprecare tutta la tua vita per una donna?». La domanda mi col-se di sorpresa. Provai a immaginarmi dall’altra parte del mondo senza Margaret, ma tutto ciò non mi era possibile, nemmeno dopo quello che il mio io sessantenne mi aveva rivelato. Proba-bilmente avrei vissuto di rimpianti per non aver accettato il lavoro e sarei rimasto solo, ma alme-no avrei avuto la consapevolezza di averci pro-vato e di non essere fuggito alla prima difficoltà. Così la risposta mi venne spontanea:«Correrò il rischio».

Giulia Argenziano, IIB

Quando mi hai detto che non volevi niente, niente se non la certezza che io fossi lì e da nessun’altra parte, forse non mi seguivi ancora su ask.fm. Quando su quella panchina ti batteva il cuore ed appoggiavi la testa sulla mia pancia, non potevi sapere che due mesi prima un anoni-mo mi aveva chiesto “voti i nomi?” e tra questi nomi c’eri anche tu. Ti votai 7/8, due mesi prima. Due mesi prima di scrivere alla Rocca i nostri nomi con un’infinito di mezzo. Due mesi prima che iniziassimo a scriverci sempre “ti amo” alla fine di ogni conversazione su Whatsapp.

Mi sembrava naturale. Ci mandavamo serie in-terminabili di emoticon: quella con la faccina che manda un bacio, quella con il ragazzo e la ragazza per mano, quella con la bocca rossa e poi i cuori... miliardi di cuori rossi gialli verdi viola rosa blu, con le stelline, con la freccia di

cupido in mezzo. Talmente tanti cuori, talmente tanti “che fai amore?”, talmente tanti papiri su casa tua, sui tuoi compagni, su noi due, che la conversazione smise di funzionare. Dati eccessi-vi nella cronologia. Allora ricordo che tu installa-sti Facebook Messenger e iniziammo a scriverci sempre lì, anche se non ti andava perché avevi paura che tuo fratello vedesse la conversazione dal computer in camera vostra.

Ci vedevamo due volte al mese per colpa mia che stavo in Friuli e i miei non mi lasciavano scendere a Bergamo tutti i weekend. Quando litigavi con tua madre mi chiamavi e piangevi al telefono per ore, Viber o Skype. Non sapevo fare altro che prometterti “appena posso prendo il treno” e quando ero lì, quando ero fisicamente lì, tu eri diverso. Sembravi tipo realizzato quan-do mi correvi incontro in Piazzale Marconi, fuori dalla Stazione. Una volta mi dicesti: “Questo è tutto quello che posso chiedere: averti qui ed essere assolutamente certo che tu non sia con qualcun altro, forse è stupido, ma è così”. Stu-pido, sì. Non capivi che in quel momento io ero ancora in Friuli, ancora in discoteca, ancora a scuola, ancora in gita, sempre e comunque con qualcun altro. Le foto nei club di provincia in cui le amiche mi taggavano. Mentre ti baciavo in Piazza Vecchia, a Pordenone qualcuno mette-va “Mi piace”. Mentre camminavamo verso gli spalti e mi prendevi la mano, qualcuno su ask mi chiedeva “parlami del tipo di Bergamo” e io dieci minuti dopo rispondevo con una selfie di me e te abbracciati in cui ero uscita bene io, non tu. La stessa foto fatta con Retrica e quell’effet-to vintage. Il tempo dell’upload, un sorriso e poi il gesto definitvo. Semplice, come accorciare le distanze per sempre.

Ora dicono tutti omicidio premeditato, solo perché mi ero portata la pistola del non-no militare, ma ti giuro: è stata più istanta-nea come cosa, più spontanea, più concreta. #io #ilmioragazzo #bergamo #tiamo #damorire

Martino De Piori, IID

retrica

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Aspettare

avvenimenti cosmici

in terrazza.

Guardarsi attorno

confusi

e fingere lentamente

di passeggiare

nel silenzio statico del sole,

quasi ad alzarsi

un po’ sulle punte

per guardare meglio là in alto

da dove verrà

l’apocalisse.

Pietro Raimondi, IID

io la sesta ora non la reggo

Giocavamo a carte segnando i punti sopra con-gerie di cartoline sciupate e l’alba ci sputava sul rossore delle guance gli indici tediosi dell’estate.

Il posacenere di vetro rifletteva la lanugine delle grinza di Kelsie mentre il mozzicone incendiava estinte emozioni e quando i vezzi diventano in-solite crisi di paranoia mi facevo un caffè.

Malato, dicevano. Moribondo, sussurravano.

<< Domattina Caleb passiamo ancora un attimi-no in ospedale>>

Risposi sbottando più per l’amarezza di dover pagare il parcheggio che per altro.

Non so farlo il caffè io e allora metà hamburger avanzato me lo facevo andare per colazione.

Servizio a domicilio e non pagavo troppo, lo stemma rubato della Mercedes al posto del nu-mero d’appartamento mi risparmiava la mancia.

Mi sentivo come quei fasulli letterati che non sa-pevano improvvisare la storia di una festa senza festeggiato. Riflettevo e non sapevo se fosse una provocatoria autocritica la mia o un istinto di superbia. Anche a scrivere male bisogna ave-re un certo stile.

Le giornate che prima erano squilibranti ana-coluti ora diventavano il frettoloso finale di una lenta intimità con la malinconia.

Da piccolo mi ripetevano che non nascevo da un grembo illibato: mi sentivo comunque più figlio di Cèline che di una puttana.

<< Portami alla fermata del quarantadue. Andia-mo oggi in ospedale >>

Strano che passasse la metro sotto i piedi e gli orari del pullman erano scritti a matita tra le ir-regolarità della parete che distingueva la ferma-ta dai magazzini della fabbrica.

Sbagliavo a non chiamare l’ambulanza ma pre-ferivo crepare tra lo yiddish stretto dei contabili della ditta che tornavano a casa che con una fle-bo nel braccio e le mascherine delle infermiere.

Ascoltavo attentamente con la radiolina di un ragazzo lì vicino i risultati della National League e scontento guardavo la schedina. Nessun se-condo giro questa sera, purtroppo.

storie di wretched town - il finale

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Kelsie mostrava ancora un po’ di femminilità ed ero contento. Non mi sono mai sposato per la paura di schiattare al fianco di una donna che per il grigiore dei capelli aveva barattato la sua indole.

Il pullman arrivava con un lieve ritardo e il rumo-re dei clacson accompagnava i miei ultimi respi-ri. Dentro e con la ressa che c’era non potevo fare altro se non dimenticare il mio alito pesante e il mio battito lento.

Mi domandavo se fossi nato precoce per i debiti o tardivo per i calori.

D’esser venuto al mondo postumo ne ero certo, di cosa non ricordo. Forse una molestia cere-brale di un autore senza immaginazione che ha finito l’inchiostro dell’autenticità e ha preferito inventarsi un ultima giustificazione. Meglio così, dopotutto, che per avere un occhio di riguardo potevo morire con una riga in più.

Jacopo Signorelli, IVC

L’INVENZIONE DI WEBDINGS ( (CON POSTFAZIONE DEL NOSTRO AMATO ARISTIDE MASSACESI) OVVERO COME UNA SCIMMIA MANGIA IL LI-BRO DI MATEMATICA

Tra i caratteri di Word è sempre stata una pre-senza costante… Ma quando è stato inventato? E da chi? L’inventore di webdings è chiaramente Giuglio. Giuglio nacque a Dallas nel 1974 a. C. e morì a Cornale giovedì prossimo. Nella sua vita Giuglio fece molte azioni rivoluzionare di stam-po, però, menscevico, come ad esempio met-tere un pesce giallo nella vasca dei pesci rossi (atto estremamente rivoluzionario e di protesta per quell’epoca), sconfiggere la lega pokèmon

con il suo criceto (morto) e scrivere libri e girare film sotto lo pseudonimo di Federico Moccia – è tutto vero! (dichiarazione di Giuglio fulminea durante la redazione di quest’articolo)-. Nel suo 10libro Giuglio, non sapendo cosa fare… Muore. IL giorno dopo decide di partire per il Brasile. Ignaro del pericolo che sta correndo, s’imbarca sulla Concordia, direzione: Capo Horn. Durante il viaggio però, a causa di una potente scossa, a Giuglio va di traverso l’oliva del suo Martini e muore. Mentre muore, lì vicino c’è Luca, prin-cipale esponente dell’ arredamento degli sca-toloni. Luca decise che Giuglio sarebbe stato la nuova moda dell’arredamento scatologico. Purtroppo la nave, doppiato Capo Horn, venne inghiottita da un enorme gatto marino estrema-mente obeso e quindi non abbiamo più notizie né di Giovanni né di Michele, probabilmente morti nel combattimento contro un drago ninja.

P O S T F A Z I O N E : Quando lessi la storia di Giuglio, morto troppe volte per essere un normale uomo, mi appassio-nai immediatamente. Io credo di poter scorgere nella figura di questo ribelle senza età, una vera e grande opposizione alla chiesa cattolica, in tutte le sue componenti dogmatiche e costrittive. Vedo nel suo gesto un sacrificio cristologico ma non re-ligioso senza precedenti, un’analisi della vita che trapassa il materialismo per sfociare nel più bell’i-dealismo di sempre. Tanti uomini si sono immola-ti martiri di una guerra che sanno già di perdere, ma combattere nonostante tutto è proprio solo dei grandi uomini, come Giuglio, come Michele, come Giovanni. Tutto questo per dirvi che sabato esce il mio nuovo film, quindi non andate a mes-sa la sera, e nemmeno al catechismo, e accorrete numerosi perché sono a corto di soldi e mi hanno detto di scrivere qualcosa su Cassandra.. Il film è stra bello, si chiama “Hercules ritornerà e ti uc-ciderà, Idra scappa adesso o mai più altrimenti muori e attenta a non farti male che mi togli la gloria”. Siateci. Grazie. Siete commoventi.

Marco Stupido(ndr) Balestra, VE

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MEDICI: domanda posta da chi non è sicuro di essere stato interpellato

PESANTE: colui che si occupa di misurare il peso delle porte degli armadi

ORDIRE: momento in cui serve la presenza di un sovrano

BUSSOLA: se nessuno apre di qua, provo di là

ESODO: non è né alla coque né strapazzato

LAVA: o la spacca

MANDARINO: non andare tu, manda lui

NOVITA’: chiamata anche ‘morte’

SPADINO: centro benessere per dinosauri

(NEANCHE: purtroppo non ha nemmeno quelle)

Adele Carraro, VC

TREGGATTI

IV A Cavagnera: “come.. Non sapete cos’è l’alcova?” Classe: “no” Cavagnera: “e ma è un pó imbarazzante da spiegare.. Diciamo che è il luogo dove si produ-cono gli amori..” Aurora: “un motel!”

Colombo: “qualcuno sa come si fa ad alzare il volume?” Andrea: “io” (si dirige verso il proiettore e inizia a premere vari tasti)

Colombo: “no.. Ma fuori dal muro!” (Intenden-do: non il volume del proiettore ma quello del computer) Andrea (intendendo male, esce dalla porta, guarda il muro e..)”ma non c’è nessun tasto qui!” Filippo: “profe io non c’ero la scorsa settimana quindi non ho la fotocopia..” Studente non identificato: “nemmeno io ce l’ho” Margherita: “prof posso spostare il banco vicino a Beatrice così guardo la scheda con lei? Perchè io l’ho dimenticata a casa..” Maffioletti: “per fortuna ho detto no ad alcuni miei colleghi che volevano sostituire il libro di antologia con delle fotocopie! Se no a breve sa-rei finita in manicomio tra i pazzi pericolosi” IV E Sciarrotta: Ma tu cosa vuoi fare da grande? Leo: Boh Sciarrotta: Ma tu ti fai le canne?

Piccirilli: Come si chiamava il figlio? Classe: Felicissimo Alice: Eh no, dai, i genitori l’hanno fatto di proposito, come chiamare il cane Lucky e poi ti muore dopo due giorni

(Si parlava di un’epigrafe funeraria dedicata a Felicissimo)

Strocchia: Ragazzi, pilae fractae sunt

Sciarrotta (dopo l’interrogazione): Oggi quanti ne abbiamo? Classe: 9 Leo (appena svegliato): Ma anche 9 e mezzo

Strocchia (programmando lo studio pasquale): Poi riprendete lo studio dalle 14.30 alle 18.30 Federica: Certo! E poi andiamo a messa!

Piccirilli (dettando i compiti): Amato, che fai? Non scrivi? Ti arrivano direttamente su Whatsapp?

ipse dixit

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IIIA

parlando del discorso diretto* AGAZZI: ad esempio, il “Malebar” è tutto un “e lui gli dice, e lui gli risponde”. Certo, non si parla poi delle imprese epiche di Sottocasa... COLOMBO: anche la tua pronuncia si sta dete-riorando. LU: no ma profe li ho fatti i compiti delle vacan-ze! COLOMBO: Sì Sì, li ho visti... *ridacchia* all’e-same di settembre AGAZZI A BUONINCONTRI: tu sei l’unica a cui non vorrei mai rubare minuti di lezione... poi di fatto te li tirerò via comunque MISSALE: Secondo la riforma bisognerebbe ar-rivare fino alla fine del ‘900 col programma... LU: Moccia! AGAZZI: morotti, conciata così mi ricordi qual-cuno che m’inquieta... MOROTTI: *s’indigna* AGAZZI: Ah, ecco chi.. mi ricordi la terrorista della meglio gioventù! AGAZZI: sono tutti dei Giulio-Claudi! dovete credermi! PIAZZA: potrebbe alzare un po’ la voce? non sento molto bene COLOMBO: neanche io sento molto bene TRIVIA: avete mai visto il gabinetto di fisica? PAOLO: io, all’open day... 6 anni fa! TRIVIA: Ah, nell’antico testamento! AGAZZI:... E πέος, che in greco, scusate, vuol dire «cazzo» *risolini* AGAZZI: tra l›altro è una parola che rientra perfettamente nel trimetro giambico...

TRIVIA: e questi esercizi ve li lascio mentre non siete impegnati col latino, greco, svizzero ecc ecc

AGAZZI: Agosti, chi è la madre di Nerone? GIULIA: ...Agrippa? AGAZZI: Agrippinaaaaaaaa! Agrippa è un uomo! TRIVIa: Dove sono gli altri? BENA: Stanno arrivando! TRIVIA: eh, anche la morte sta arrivando... TRIVIA: ...e per calcolare il Delta t... PAOLO E FRANCI: PEppa Pig?!?! LU: e che fine ha fatto la moglie di Einstein? TRIVIA: eh, si è persa... PAOLO: è andata a comprare le sigarette e non è più tornata, ahahahaahah AGAZZI: MA NOOO! temporibus è giusto, è quel tria che grida vendetta al cospetto di Dio! AGAZZI: qui perchè c›è «e»? GIULIA: per apofonia... AGAZZI: se dici apofonia latina ti accoppo TRIVIA: se io e Cesarini abbiamo 20 caramelle e Cesarini ne ha 15, quante ne ho io? CESA: ma poverino ne ha poche! *Albena parla* AGAZZI: we, bulgara!

TRIVIA: dottoressa Capecchi, se vuole ottenere occupata la bocca le do un pezzetto di gesso da masticare! LU: ma no...

AGAZZI: l›amante περιφοιτον è l›amante che si concede a tutti, un po› puttanoso... AGAZZI: Catullo si lascia invaghire da Lesbia un po› come fanno Titti e Gatto Silvestro

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TRIVIA: e questo è chiamato «solenoide» PIAZZA: o sole mio...

PEZZA: ma allora mi ammette agli esami? no, perchè così vengo

(Piazza ha una statuina di batman sul banco ndA) RINO: Batman! PIAZZA: Cosa? RINO: mettilo via, per cortesia. PIAZZA: cosa, Batman? RINO-OCCHIO-CHE-TUTTO-VEDE: nono, Bat-man può restare, è il cellulare che deve sparire

(La cattedra è piena di adesivi di Peppa Pig ndA) BUONNI: ragazzi, ma la cattedra non è mica una banana chiquita!

RINO: Agosti, vuoi uscire interrogata? GIULIA: NO.

PAOLO: ho acidità di stomaco FRANCI: vuoi una mela? PAOLO: perchè? aiuta? FRANCI: nono, così, visto che ne avevo anco-ra...

RINO: Morotti, ho rotto la tua pietra! ALE: noooo... RINO: No ma l›ho rotta volutamente!

RINO: non fatemi innervosire o all›interrogazione ci do dentro

TRIVIA: blablablasenalfablavlatangentebetapi-grecocoseno SHA: PROFE MA CHE COSA STA FACENDO?!

AGAZZI: questo lo sanno anche i pistolini di quarta ginnasio che non sanno neanche dove sorge il sole

AGAZZI: Giasone non è proprio un eroe senza macchia e senza paura... è, diciamo, un eroe segaiolo.

AGAZZI: di Cicerone potete dire quello che vo-lete, simpatico, antipatico, ma che era un frufru no.

PAOLO: che poi «SasuNaru» (ovvero la coppia yaoi Naruto e Sasuke) sembra un sardo che dice «sa suonare»

IID Danny: what wuold you make with 30000000000$? Bonti: i could buy… Clint Eastwood

Strocchia: lo avete fatto con le 2 Finlandesi? (Riferito al Baseball) Giaco: (filosofando Kant) Chi di fronte a un paesaggio così sarebbe in grado di dire “Che schifo”? Gnekkki: Omero Giaco: Perché? Gnekkki: è cieco

Prima ora, Giaconia sta per iniziare la lezione. Entra Ruggeri(che avrebbe lezione in seconda ora). Giaconia a Ruggeri: “Batti Cinque” Strocchia: Come si chiama quando ti interessi di bambini? Gnekkki: pedagogo? Strocchia: no Gnekkki: Pedofilo?

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Giulia Vitale, ID

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...

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DIRETTRICE: Marta Cagnin, IIID

VICEDIRETTRICE: Micaela Brembilla, IIIC

SEGRETARIA: Marianna Tentori, IIB

CAPOREDATTORI:

Attualità: Sara Latorre, ID

Cultura: Andrea Sabetta, IIC

Narrativa: Pietro Raimondi, IID

Sarpi: Giulia Testa, IIIB

Sport: Federico Crippa, IIIB

Terza Pagina: Paolo Bontempo, IID

IMPAGINATORE: Pietro Raimondi, IID

COPERTINA: Michele Paludetti, IIC

ILLUSTRAZIONI: Silvia Caldi IIIB, Lucia Marchionne, Laura Gabellini e Clara Rigolet-ti, VE

REDATTORI: Giulia Argenziano IIB, Batman VE, Bianca Bona IVB, Silvia Caldi IIIB, Adele Carraro VC, Selene Cavalleri IE, Martina Di Noto IE, Chiara Donadoni ID, Valentina Fastolini IVC, Camilla Finzi IVD, Riccardo Ghislotti IVE, Gaia Gualandris VF, Federico Lionetti IIC, Roberto Mauri IVD, Caterina Moioli VF, Pietro Micheletti VB, Elena Occhino IF, Alice Paludetti VF, Michele Paludetti IIC, Chiara Pezzini VC, Matilde Ravaschio VE, Elisa Salvi IE, Sofia Savoldi VB, Giorgia Scotini VC, Elena Seccia VE, Jacopo Signorelli IVC, Valeria Signori ID, Paolo Sottocasa IIIA, Giovanni Testa IVC, Sara Testa VF, Giorgio Trussardi IVC, Eleonora Valienti VE, Chiara Maria Viscardi VC, Giulia Vitale ID, Sara Zanchi ID, Marcello Zanetti IIB

la redazione


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