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Castelnuovo Ginzburg Centro e Periferia

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Centro e periferia di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg Storia dell’arte Einaudi 1
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Centro e periferia

di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in Storia dell’arte italiana, I. Materiali e problemi,1. Questioni e metodi, a cura di Giovanni Previtali,Einaudi, Torino 1979, 1981, 1994

Storia dell’arte Einaudi 2

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Indice

1. Periferia e provincia 5

2. Il caso italiano 6

3. La «Storia» del Lanzi 8

4. Storia artistica e distribuzione geografica 13

5. Città capitali e città suddite 17

6. Concorrenza e società civile 22

7. Gli squilibri territoriali 25

8. Questioni di lunga durata 26

9. La dislocazione dei centri artistici 30

10. Le città comunali 32

11. Centri di innovazione e aree di ritardo 34

12. Periferizzazione e declassamento 36

13. Vasari 38

14. Fine del policentrismo e nascita della «terza

maniera» 48

15. Un caso esemplare: l’Umbria 49

16. Riflusso e ritardo in periferia 52

17. Ritardo periferico o ritardo di metodo? 54

18. Periferia come scarto 56

19. La resistenza al modello 60

20. Modello e nuovo paradigma 61

21. L’alternativa di Avignone 64

22. Le regioni di frontiera 66

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23. L’esilio del Lotto 68

24. Urbino e Barocci 71

25. Il Seicento e il Settecento 72

26. Centro e periferia, persuasione e dominazione 74

27. La dominazione simbolica 76

28. La dinamica delle opere 79

29. La dinamica degli artisti 81

30 La dinamica dei committenti 84

31. La Chiesa dopo Trento 87

32. I conti con l’Europa 89

Indice

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1. Periferia e provincia.

Periferia, o provincia? Forse è meglio parlare di peri-feria, termine piú neutro, meno carico di implicazionivalutative. Ma anche l’apparente neutralità del termine«periferia» non è priva di trabocchetti. È stato un geo-grafo a scrivere, a proposito dell’opposizione paradig-matica centro/periferia, che quest’ultimo termine vainteso come un’«allegoria nello stesso tempo spaziale epolitica»1. Ma qual è il peso rispettivo di questi ele-menti? In quale sistema s’inseriscono di volta in voltale coppie, piuttosto complementari che antitetiche, cen-tro/periferia?

Queste domande, evidentemente cruciali per i geo-grafi, potrebbero esserlo altrettanto per gli storici del-l’arte2. Ma c’è il rischio di sentirsi dare la risposta un po’disarmante contenuta nelle parole di Sir Kenneth Clark:

La storia dell’arte europea è stata, in larga misura, la sto-ria di una serie di centri da ciascuno dei quali si è irradiatouno stile. Per un periodo piú o meno lungo questo stile hadominato l’arte del tempo, è divenuto di fatto uno stile inter-nazionale, che al centro era uno stile metropolitano e dive-niva sempre piú provinciale quanto piú raggiungeva la peri-feria. Uno stile non si sviluppa spontaneamente in un’areavasta. È la creazione di un centro, di una singola unità da cui

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proviene l’impulso, che può essere piccola come la Firenze delxv secolo o grande come la Parigi dell’anteguerra, ma che hala sicurezza e la coerenza di una metropoli3.

Se il centro è per definizione il luogo della creazioneartistica, e periferia significa semplicemente lontananzadal centro, non rimane che considerare la periferia sino-nimo di ritardo artistico, e il gioco è fatto. Si tratta, aben vedere, di uno schema sottilmente tautologico, cheelimina le difficoltà anziché cercare di risolverle. Pro-viamo invece ad accogliere i termini «centro» e «peri-feria» (e i relativi rapporti) nella loro complessità: geo-grafica, politica, economica, religiosa – e artistica. Ciaccorgeremo subito che ciò significa porre il nesso trafenomeni artistici e fenomeni extrartistici sottraendosial falso dilemma tra creatività in senso idealistico (lo spi-rito che soffia dove vuole) e sociologismo sommario. Mala rilevanza di uno studio del genere non è soltantometodologica. Considerato in una prospettiva poliva-lente il rapporto tra centro e periferia apparirà bendiverso dalla pacifica immagine delineata da Sir Ken-neth Clark. Non di diffusione si tratta, ma di conflitto:un conflitto rintracciabile anche nelle situazioni in cuila periferia sembra limitarsi a seguire pedissequamentele indicazioni del centro. E in un’età di imperialismi edi subimperialismi, in cui anche le bottiglie di Coca-Colasi configurano come segno tangibile di vincoli non soloculturali, il problema della dominazione simbolica, dellesue forme, delle possibilità e dei modi di contrastarla,ci tocca inevitabilmente da vicino4.

2. Il caso italiano.

Per uno studio del nesso centro/periferia in campoartistico, l’Italia appare un laboratorio privilegiato. Per

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molte ragioni: anzitutto, geografiche. Ricordiamo subi-to i dati piú appariscenti: la lunghezza della penisola; ilrapporto tra il perimetro delle coste e la superficie; la fre-quenza delle insenature; la presenza di due catene mon-tuose trasversale l’una, longitudinale l’altra – come leAlpi e gli Appennini; l’abbondanza di valli e di valichi.Questi elementi hanno configurato un paesaggio quantomai contraddittorio e diversificato. Una relativa facilitàdi scambi con paesi lontani è stata accompagnata dacomunicazioni scarse e difficoltose tra zone internemagari vicinissime. (Ancora oggi, del resto, è piú facileandare in treno da Torino a Digione che da Grosseto aUrbino).

Questa contraddizione è stata accentuata, anzichésmorzata, dalla storia della penisola fin dalla tarda anti-chità. La presenza di una fitta rete di strade romane edi una quantità eccezionale di centri urbani, la spacca-tura politica della penisola fin dalla guerra greco-gotica,hanno esaltato la diversificazione da un lato e l’abbon-danza delle comunicazioni dall’altro. Fin da allora la pro-duzione artistica in Italia era destinata a fare i conti conuna fortissima tendenza al policentrismo, non solo: unpolicentrismo consapevole, caratterizzato il piú dellevolte da molteplicità e non da mancanza di contatti. Sitrattò del resto di contatti spesso più subiti che cercati:basta pensare agli imperatori d’Oriente e a quelli delSacro Romano Impero, ai califfi arabi e ai re franchi, agliinvasori ungari e ai pirati normanni. Ripensare la fisio-nomia della produzione artistica italiana dal punto divista dei rapporti tra centro e periferia – sia pure sof-fermandosi soprattutto sulla pittura, molto meno sullascultura, e quasi per nulla sull’architettura – significadunque ripensare, intera, la storia d’Italia.

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3. La «Storia» del Lanzi.

«E veramente – scriveva il Lanzi – la storia pittori-ca è simile alla letteraria, alla civile, alla sacra». La gran-de sistemazione proposta dal Lanzi è, per il discorso chec’interessa, un punto di partenza obbligato: se non altroperché per primo egli si distaccò dal venerando schemaimperniato sulle biografie degli artisti per adottarne unodiverso, storico-geografico, che rifletteva le sue preoc-cupazioni di curatore della galleria granducale. Con lasua Storia pittorica il Lanzi si era proposto esplicitamen-te di fornire un corrispettivo della Storia del Tiraboschi:«Questo bel tratto di Paese [l’Italia] ha già, mercè delCav. Tiraboschi, la storia delle sue lettere; ma desideraancora quella delle sue arti». Ciò implicava, ai suoiocchi, l’individuazione di un criterio ordinatore coe-rente e adeguato alla materia:

una qualche distinzione di luoghi, di tempi, di avvenimen-ti, che ne divisi l’epoche e ne circoscriva i successi; tolto viaquest’ordine, ella [la storia pittorica] degenera, come lealtre, in una confusione di nomi piú conducente a gravar lamemoria che a illustrare l’intendimento.

Dove trovare questo filo conduttore?

Non si può [...] imitare i naturalisti, che, distinte per attodi esempio le piante in piú o in meno classi, secondo i varisistemi di Tournefort o di Linneo, a ciascuna classe facil-mente riducono qualsisia pianta che vegeti in ogni luogo,aggiugnendo a ciascun nome note precise, caratteristiche epermanenti. Conviene, a fare una piena istoria di pittura,trovar modo da allogarvi ogni stile per vario che sia da tuttigli altri; né a ciò ho saputo eleggere miglior partito che tes-sere separatamente la storia di ogni scuola. Ne ho presoesempio da Winckelmann, ottimo artefice della storia anti-

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ca del disegno, che tante scuole partitamente descrive quan-te furono nazioni che le produssero. Né altramente veggoaver fatto nella sua storia de’ popoli Mr. Rollin...5.

Solo le scuole, dunque, forniscono un criterio di clas-sificazione immune da rigidità o da schematismi, tale dapoter «tessere una storia piena come l’Italia la deside-ra». La ricchezza della storia pittorica italiana non èriducibile all’individuazione delle maniere o alla narra-zione delle biografie dei capiscuola. Ma di quali scuoleprecisamente si trattava?

La geografia dell’Italia pittorica si precisò con len-tezza nella mente del Lanzi. Il progetto originario pre-vedeva due volumi, che avrebbero dovuto ricalcare ladivisione di Plinio in Italia superiore e inferiore:

Nel primo volume io pensai di comprendere le scuole[...] dell’Italia inferiore; giacché in essa le rinascenti artiebbero piú presto maturità; e nel secondo le scuole dell’I-talia superiore, la cui grandezza apparve piú tardi.

Ma solo il primo volume fu dato alle stampe, nel1792: esso comprendeva due scuole considerate «prin-cipali», la fiorentina e la romana, piú altre due, la sene-se e la napoletana, considerate «come adjacenze delleprimarie»6. Nella dedica a Maria Luisa di Borbone,granduchessa di Toscana, il Lanzi avvertiva che la lavo-razione, già avanzata, del secondo volume, era statainterrotta «né può riassumersi cosí presto». Ma le suc-cessive rielaborazioni, destinate a sfociare nella terza,definitiva, edizione del 18o9, sostituirono all’inizialebipartizione un’opera piú ampia e complessa, divisa incinque volumi (piú un sesto volume di indici)7. A cia-scun volume corrispondeva (con un’eccezione impor-tante, come vedremo subito) una delle scuole principa-li. Tale suddivisione s’ispirava esplicitamente a quella

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formulata al principio del Seicento da monsignor Aguc-chi, che di scuole, però, ne aveva menzionate soltantoquattro (lombarda, veneta, toscana e romana) ricalcatea loro volta sulle quattro «maniere de gli antichi» (atti-ca, sicionia, asiatica e romana)8. Di «ordini, classe ovogliam dire schole» aveva parlato Giulio Mancini, pre-scindendo però da considerazioni di ordine geografico,per distinguere i principali indirizzi stilistici presenti aRoma attorno al 16209. E prima ancora, nel 1591, il pit-tore G. B. Paggi aveva visto operare in Italia «tre famo-se scuole di pittura, in Roma, in Firenze, e in Venezia»;e di «virtuosa scuola» aveva discorso, a metà del Cin-quecento, il Cellini10.

Nel definire le scuole pittoriche italiane il Lanzi s’in-seriva dunque in una discussione che durava ormai dapiú di due secoli. In questo arco di tempo il numero dellescuole riconosciute era via via cresciuto, sia perché cen-tri già esistenti avevano assunto una posizione di primopiano (Bologna, Genova) sia perché la reazione munici-palistica del Seicento aveva cercato di sostituire, nel-l’ambito della letteratura artistica, un quadro policen-trico all’immagine sostanzialmente monocentrica trac-ciata dal Vasari. La novità del Lanzi consisteva nell’a-ver affiancato alle maggiori una ricca costellazione discuole minori: in tutto, quattordici, compreso il Pie-monte «che senz’avere successione di scuola sí anticacome altri Stati, ha però altri meriti considerabili peresser compreso nella storia della pittura»11. Ne risulta-va un quadro molto piú articolato di quelli precedenti:la novità maggiore era rappresentata forse dalle cinquescuole (modenese, parmense, mantovana, cremonese,milanese) in cui veniva scomposta la generica etichettadi «scuola lombarda». Eppure si trattava pur sempre diun quadro fortemente squilibrato dal punto di vista geo-grafico.

Partiamo da una considerazione brutalmente quanti-

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tativa. Nell’edizione del 1809 della Storia pittorica laparte del leone spettava, com’era prevedibile, alle scuo-le maggiori (esclusa quella lombarda, per la ragione appe-na detta): fiorentina (300 pp.), veneta (293), romana(28o), bolognese (214). A notevole distanza seguivano:la milanese (98 pp.), la napoletana (85), la genovese(73), la senese (70), la ferrarese (64). Ancora piú distac-cate la parmense (46), la cremonese (45), la piemontesee sue adiacenze (38), la modenese (35), la mantovana(25). In altre parole, la parte dedicata ai pittori dell’I-talia meridionale – quella «scuola napoletana» che findal progetto originario del Lanzi figurava come appen-dice della scuola romana – costituiva non piú di un ven-tesimo del totale: 85 pagine su piú di 16oo complessive.

Per spiegare uno squilibrio cosí appariscente bisognaricordare anzitutto che il Lanzi non si recò mai nelRegno né nelle isole. Il suo scrupolo di conoscitore, chelo indusse a perlustrare anche zone meno ovvie come ilFriuli (per non parlare di Genova o della Lombardia) performulare il piú possibile giudizi di prima mano, si arre-stò apparentemente di fronte alle difficoltà e alle fatichedi un viaggio a sud di Roma. Di questa situazione d’in-feriorità il Lanzi era il primo a essere consapevole. Nel-l’intervallo tra la seconda edizione in tre volumi (Bassa-no 1795-96) e la terza, definitiva (Bassano 18o9) eglicercò di entrare in possesso di informazioni piú ampie eattendibili sulla scuola napoletana. Il 13 giugno 1801scriveva da Bassano all’amico Bartolomeo Gamba:

Vorrei avere o da lui [il cavalier Lazara] o da lei qualchebuon libro della pittura napoletana e siciliana piú recente;giacché nulla ho veduto dopo Dominici12.

Ma queste ricerche non ebbero troppo successo: e ilLanzi si trovò a scontare i ritardi dell’erudizione pitto-rica meridionale. La sua unica fonte d’informazione per

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la scuola napoletana rimase il De Dominici (Vite dei pit-tori... napoletani, Napoli 1742-43), con l’aggiunta, perla Sicilia, o meglio per Messina, delle Memorie de’ pit-tori messinesi apparse a Napoli nel 1792 sotto il nomedello Hackert, ma redatte in realtà da un erudito loca-le, il Grano. Dal De Dominici il Lanzi volle prenderele distanze con una vera e propria stroncatura, in cui unisolato e generico apprezzamento positivo suonava iro-nico perché accompagnato da una serie di critiche net-tissime:

La recente Guida o sia Breve descrizione di Napoli desi-dera in questa voluminosa opera [del De Dominici] «piúcose, miglior metodo, meno parole». Si può aggiungere,rispetto ad alcuni fatti piú antichi, anche miglior critica, everso certi piú moderni meno condiscendenza. Nel rima-nente Napoli ha per lui a luce una storia pittorica assolu-tamente pregevole pe’ giudizi che presenta sopra gli artefi-ci, dettati per lo piú da altri artefici, che col nome loro ispi-rano confidenza a chi legge. Se l’architettura e la sculturavi stian bene ugualmente, non è di questo luogo muovernequestione13.

Le Memorie de’ pittori messinesi, d’altra parte, dovet-tero ispirare al Lanzi una diffidenza perfino maggiore,visto che le notizie ch’egli ne trasse furono scrupolosa-mente relegate in nota.

In conclusione, il capitolo sulla scuola napoletanaprende in considerazione soltanto due centri, Napoli eMessina. Gli accenni ai pittori operanti nel Regno al difuori di Napoli (Cola dell’Amatrice, Pompeo dell’Aqui-la, G. P. Russo da Capua, Pietro Negroni) sono pochi egenerici. Viene auspicata un’opera sui pittori siracusa-ni, e in genere sulla Sicilia. La Sardegna e la Corsica nonsono neppure ricordate.

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4. Storia artistica e distribuzione geografica.

I diciannove ventesimi della Storia pittorica sono dun-que dedicati all’Italia centro-settentrionale. Qui nonmancavano al Lanzi né una conoscenza diretta dellefonti primarie, né un apparato ampio e attendibile difonti secondarie. Nel corso della sua trattazione eglis’imbatté tuttavia in un problema di ordine, diciamocosí, tassonomico, ch’egli discusse soprattutto in rap-porto alla scuola romana e alla scuola lombarda. Riguar-do alla prima egli scriveva:

Piú volte ho udito fra’ dilettanti della pittura muovereil dubbio se scuola romana dicasi per abuso di termini, o conquella proprietà con cui la fiorentina, la bolognese e laveneta si denomina14.

Coloro che a Roma avevano «insegnato, o anche datotuono alla pittura» erano stati infatti, con l’eccezione diGiulio Romano e del Sacchi, «artefici esteri». Ciò noncostituiva, agli occhi del Lanzi, una difficoltà,

perciocché a Venezia furono similmente esteri Tiziano diCadore, Paol di Verona, Jacopo da Bassano; ma perché sud-diti di quel dominio si contan fra’ Veneti; essendo questo nelcomune uso un vocabolo che comprende i nativi della capi-tale e della Repubblica. Lo stesso vuol dirsi de’ pontifici. Oltrei nativi di Roma, vi venner maestri da varie città suddite, iquali insegnando in Roma han continuata la prima successio-ne, e in qualche modo anche han tenute le prime massime15.

L’appartenenza o meno a una determinata scuolasembra dunque legata a considerazioni politiche, comela provenienza da «città suddite» della capitale. In realtàl’atteggiamento di Lanzi è piú complesso. Da un lato,l’esclusione, anche se giustificabile da un punto di vista

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geografico-politico, risulta di fatto formulata sul terre-no stilistico:

molto meno le ascrivo [a Roma] quegli che in lei visseroesercitando tutt’altro stile; siccome fece, per darne un esem-pio, Michelangiolo da Caravaggio16.

Dall’altro, alcune città suddite di Roma nel momen-to in cui Lanzi scrive, hanno dato vita in passato a scuo-le autonome:

non segno i confini di questa scuola con quei dello statoecclesiastico; perché vi comprenderei Bologna e Ferrara ela Romagna, i cui pittori ho riservati ad altro tomo. Quiconsidero con la capitale solamente le provincie a lei piúvicine, il Lazio, la Sabina, il Patrimonio, l’Umbria, il Pice-no, lo stato d’Urbino, i cui pittori furono per la maggiorparte educati in Roma, o da maestri almeno di là venuti17.

Dunque, i due criteri, quello stilistico e quello poli-tico, spesso coincidono, perché ogni scuola presupponeun centro, che è un centro anche politico. Talvolta peròdivergono, perché esistono centri artistici che sono statiin passato centri politici, e ora non lo sono piú. In altreparole, la geografia pittorica e la geografia politica del-l’Italia nel momento in cui Lanzi scrive, non sono sem-pre sovrapponibili. In questi casi il criterio determi-nante è, per il Lanzi, quello stilistico. Si vedano le affer-mazioni, particolarmente nette, a proposito del Pie-monte:

i Novaresi, i Vercellesi e alcuni del Lago Maggiore [...] chefurono prima di questa epoca, nacquero, vissero, morironosudditi di altro Stato; e per le nuove conquiste non piúdivennero torinesi di quel che divenisser romani Parrasio eApelle dal momento che la Grecia ubbidí a Roma. Per tal

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ragione [...] ho considerati costoro nella scuola milanese; acui, quantunque non fossero appartenuti per dominio, sidovrebbon ridurre per educazione, o per domicilio, o pervicinanza. Questo metodo ho tenuto finora; avendo io peroggetto la storia delle scuole pittoriche, non degli Stati18.

In un caso, tuttavia, il Lanzi è costretto a confessa-re che tale metodo è inadeguato. Arrivato al momentodi esporre «i princìpi e i progressi della pittura nellaLombardia», che «fra quelle d’Italia è la meno cognita»,il Lanzi rileva come «la sua storia pittorica dovessedistendersi con un metodo affatto diverso da tutte lealtre». Ciò è dovuto all’assenza di un centro unificato-re, una capitale:

La scuola di Firenze, quelle di Roma, di Venezia e Bolo-gna, possono riguardarsi quasi come altrettanti drammi,ove si cangiano ed atti e scene, che tali sono l’epoche di ogniscuola; si cangiano anche attori, che tali sono i maestri diogni nuovo periodo; ma la unità del luogo, ch’è una mede-sima città capitale, si conserva sempre; e i principali attorie quasi protagonisti sempre rimangono se non in azione,almeno in esempio [...]. Diversamente interviene nella sto-ria della Lombardia, che ne’ miglior tempi della pittura divi-sa in molti domíni piú che ora non è, in ogni Stato ebbescuola diversa da tutte le altre, e contò epoche pur diver-se; e se una scuola influí nello stile dell’altra, ciò non inter-venne o sí universalmente, o in un tempo cosí vicino cheun’epoca istessa possa convenire a molte di loro. Quindiinfino dal titolo di questo libro ho io rinunziato al comunmodo di favellare, che nomina scuola lombarda, quasi ellafosse una sola.

Certo, qualcuno ha creduto di poter dare il nome discuola lombarda ai seguaci del Correggio, individuan-done le caratteristiche: «ma limitata cosí la scuola, overiporremo noi i Mantovani, i Milanesi, i Cremonesi, i

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tanti altri che, nati pure in Lombardia e quivi fioriti, eoltre a ciò educatori di molta posterità, meritano purluogo fra’ Lombardi?»19.

Alla consueta immagine di un centro maggiore incon-trastato subentra questa volta un’immagine policentri-ca. Ma la diversificazione tra le diverse scuole lombar-de, su cui il Lanzi insiste contro il «comun modo difavellare», scaturisce dalle divisioni politiche del passa-to. La preminenza assegnata alle determinazioni stili-stiche fa intravedere un nesso, non risolto dal Lanzi, tra«storia delle scuole pittoriche» e «storia degli Stati»,adombrato dal fatto che i centri artistici da lui presi inconsiderazione furono anche, in un momento almenodella loro storia, centri di potere politico.

In conclusione, la galassia pittorica italiana descrittadal Lanzi appare dominata da quattro pianeti piú impor-tanti, le «città capitali»: Firenze, Roma, Venezia, Bolo-gna. Solo in rarissimi casi una delle «capitali» è riuscitaa diventare un sole, a unificare artisticamente l’interapenisola:

Giotto cosí fu in esempio agli studiosi per tutto il seco-lo xiv, come di poi Raffaello nel sestodecimo, e i Carraccinel seguente; né so trovare in ltalia una quarta maniera cheabbia fra noi avuto seguito quanto queste tre20.

Ma si tratta di periodi eccezionali. Di regola, le «cittàcapitali» sono quelle che riescono a imporre un’egemo-nia artistica durevole sulle «città suddite» dei rispetti-vi Stati. Quando ciò non si verifica, come nel caso dellaLombardia, ci troviamo di fronte a una costellazione dipianeti di seconda grandezza. È chiaro che il termine«capitale» è usato in un’accezione artistica, non politi-ca: nel 18o9, quando il Lanzi dava alle stampe l’edizio-ne rivista della Storia, Milano era capitale del regno d’I-talia, e tutti gli altri centri delle scuole lombarde da lui

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descritte (con l’eccezione di Cremona) erano stati sedidi corti fino a un passato piú o meno recente. Infine,abbiamo una miriade di satelliti (le «città suddite») gra-vitanti, in posizione del tutto subordinata, attorno aipianeti di prima e seconda grandezza:

Ha, è vero, ogni capitale il suo Stato, e in esso deon ricor-darsi le varie città e le vicende di ognuna; ma queste sono d’or-dinario cosí connesse con quelle della metropoli che facil-mente si riducono alla stessa categoria, o perché gli statistihanno appreso l’arte nella città primaria, o perché in essal’hanno insegnata, come nella storia della veneta scuola si èpotuto vedere, e i pochi ch’escon fuor d’ordine non alteranogran fatto la unità della scuola e la successione de’ racconti21.

Basterà ricordare, a questo proposito, i due casi, inun certo senso opposti, di Jacopo Bassano e di Verone-se. Il primo

era limitato d’idee, e perciò facile a ripeterle; colpa anchedella sua situazione; essendo verissimo che le idee agli arte-fici e agli scrittori crescono nelle grandi metropoli, e sce-mano ne’ piccoli luoghi22.

Il secondo, invece, da Verona

passò prima a Vicenza, e quindi a Venezia. Era il suo talen-to naturalmente nobile, elevato, magnifico, ameno, vasto;e niuna città di provincia potea fornirlo d’idee proporzio-nate a tal genio come Venezia23.

5. Città capitali e città suddite.

Si potrebbe dire che nella Storia del Lanzi la perife-ria è presente soltanto sotto forma di zona d’ombra che

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fa risaltare meglio la luce della metropoli. Rozzezza omancanza d’idee caratterizzano i pittori delle città sud-dite, che il Lanzi sbriga generalmente subito prima dipassare ai generi pittorici minori. In una delle sue infre-quenti formulazioni di carattere generale, egli scriveva,a proposito di un pittore periferico seguace del Marat-ta, il fermano Ubaldo Ricci:

Comunemente non oltrepassa la mediocrità; condizioneassai solita de’ pittori che vivono fuor delle capitali, senzastimoli di emulazione e senza dovizia di buoni esempi24.

Bontà del clima; mecenatismo; emulazione; buoniesempi: queste sono, secondo il Lanzi, le caratteristichedelle metropoli atte a stimolare le arti. A esse si sonoaggiunte, nell’età piú recente, una piú diffusa culturaartistica, e l’esistenza delle accademie. Si tratta di unelenco tradizionale, se si eccettuano gli ultimi due ele-menti, legati a una situazione specifica, sostanzialmen-te settecentesca. Ma il tema dell’emulazione tra gli arti-sti, largamente presente nella letteratura precedente (sipensi al Vasari) si carica nel Lanzi di implicazioni nuove.Rileggiamo, per intenderle, le ragioni che avevano spin-to il Lanzi a scrivere la sua Storia pittorica:

ogni cosa par che il consigli; il trasporto de’ príncipi per lebelle arti; la intelligenza di esse distesa a ogni genere di per-sone; il costume di viaggiare reso su l’esempio de’ grandisovrani piú comune a’ privati; il traffico delle pitture dive-nuto un ramo di commercio importante alla Italia; il geniofilosofico della età nostra, che in ogni studio abborriscesuperfluità e richiede sistema25.

Le pitture sono divenute dunque un ramo del commer-cio: anche per esse valgono i principî della concorrenza. Siveda la pagina che conclude la sezione sulla scuola romana:

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Cosí, cresciuti i sussidi, estesa la coltura in ogni cetocivile, la quale in altri tempi era ristretta in pochi, l’arteprende un nuovo tuono, animata anche dall’onore e dal-l’interesse. L’uso di esporre in pubblico le pitture alla vistadi un popolo, che fa giustizia alle buone, e ne fa talora riti-rare a forza di sibili le malcomposte; i pubblici premi datia’ piú meritevoli di qualunque nazione essi sieno, e accom-pagnati da’ componimenti de’ letterati e da festa pubblicain Campidoglio; lo splendore de’ sacri tempii confacente aduna metropoli della Cristianità, il quale con le arti si man-tiene, e scambievolmente mantiene le arti; le commissionilucrose che vengon di fuori e abbondano in città, per lagenerosità di Pio VI [...]; l’esempio continuo de’ sovrani[...]; queste cose tengono in perpetuo moto e in gara lode-vole gli artisti e le scuole loro...26.

«Onore» e «interesse»; «gara lodevole» e «sussidi»;«pubblici premi» e «commissioni lucrose». Sull’impor-tanza delle «pubbliche gare» per lo sviluppo dell’arte inAtene aveva insistito il Winckelmann in quella Storiadelle arti del disegno presso gli antichi esplicitamente richia-mata dal Lanzi, anzi presa a modello della Storia pittori-ca per il suo ordinamento27. Ma l’insistenza sull’«inte-resse» come motore dello sviluppo artistico non èwinckelmanniana. Si è tentati di legarla all’ipotetica let-tura di un’opera che siamo abituati a inserire in un’or-bita culturale lontanissima da quella dell’abate Lanzi:l’Essay on the History of Civil Society di Adam Ferguson(1767). Di esso apparve a Vicenza nel 1791-92 una tra-duzione italiana – Saggio sopra la storia della società civi-le – condotta sulla base di una precedente traduzionefrancese, e debitamente munita di una licenza di stam-pa del Sant’Uffizio veneziano28.

Le tracce di una possibile lettura di questa traduzio-ne di Ferguson da parte del Lanzi sono, come vedremo,esigue. Certo è che, nella Storia pittorica, l’importanza

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della concorrenza è fortemente sottolineata: sia nelsenso di emulazione tra artisti, sia nel senso di emula-zione tra committenti. Perché, ad esempio, si hanno indeterminati periodi concentrazioni di artisti – pittori oletterati – di eccezionale livello, come il «secolo di LeoneX»? Il Lanzi comincia col dare una risposta di tipo tra-dizionalmente accademico:

io son d’avviso che i secoli sian formati sempre da certemassime ricevute universalmente e da’ professori e da’dilettanti; le quali incontrandosi in qualche tempo ad esse-re le piú vere e le piú giuste, formano a quella età alquantistraordinari professori e moltissimi de’ buoni.

Ma la frase che segue, di timbro ben diverso, anchese presentata come un’aggiunta suona piuttosto comeuna spiegazione alternativa:

Aggiungo però che questi felici secoli non mai sorgonose non v’è un gran numero di príncipi e di privati chegareggino in gradire e ordinare opere di gusto: cosí vi s’im-piegano moltissimi; e fra il loro gran numero sorgono sem-pre certi geni che dan tuono all’arte29.

Una riprova di tutto ciò è data, secondo il Lanzi, dalla«storia della scultura in Atene, città ove la magnificenzae il gusto andavan del pari»: il richiamo immediato è,anche qui, a Winckelmann – ma non si può non ricorda-re la pagina di Ferguson sul lusso nel suo rapporto con ilprogresso delle arti30.

È chiaro che l’insistenza sulla pluralità dei commit-tenti pone implicitamente un problema politico: un prin-cipato assoluto è favorevole allo sviluppo delle arti alpari di una repubblica? Il Lanzi sembra essersi posto unproblema del genere nella prima edizione (1792) dellaStoria, a proposito di Siena:

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Dopo che Cosimo I spogliò i Senesi di una libertà ch’es-si avrian ceduta con men dispetto a qualunque altra italicanazione che alla fiorentina, decaddero in Siena le arti nonsolamente perché queste sieguono d’ordinario la fortunacivile delle Città; ma perché due terzi de’ cittadini in taleoccasione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi ov’e-rano nati liberi31.

Nella terza edizione (1809) il passo era formulatopiú prudentemente in questi termini:

Venne finalmente l’anno 1555, nel quale Cosimo I spo-gliò i Senesi dell’antica lor libertà. Essi l’avrian ceduta conmen dispetto a qualunque altra nazione che alla fiorentina;onde non è da stupire se due terzi de’ cittadini in tale occa-sione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi di sí abbo-minato nimico32.

In questo modo il nesso libertà – fortuna civile – pro-sperità delle arti, proposto nella prima edizione, venivacancellato. Tra le due formulazioni si era inserito Napo-leone, il «nuovo Alessandro» cui il Lanzi, alla fine del-l’edizione del 18o9, rendeva laconicamente omaggio.

L’accento, discreto ma eloquente, alla libertà, avevaun timbro molto winckelmanniano. Nella Storia dellearti del disegno, la sua opera maggiore, egli aveva scrit-to per esempio che «la libertà fu la principal cagione de’progressi dell’arte [greca]». «È un principio favorito delsig. Winckelmann – annotava a questo punto il curato-re della traduzione italiana (Roma 1783) C. Fea – chela libertà abbia sempre avuta una grandissima influenzasulla perfezione delle arti; ma il ragionamento, e la sto-ria provano sovente l’opposto...»33. A quanto pare ilLanzi si sentiva su questo punto, almeno nel 1792, piúvicino alle idee del Winckelmann che a quelle del Fea.Ma nel richiamo alla «fortuna civile» non si può esclu-

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dere un’eco del Saggio di Ferguson. Nel capitolo viidella parte III, intitolato Della storia delle arti, si legge:

La immaginazione ed il sentimento, l’uso dell’intellettoe delle mani non sono invenzioni di alcuni uomini partico-lari. Il florido stato delle arti è il segnale della interna feli-cità politica di un popolo, anziché una prova di lumi altron-de avuti, ovvero una superiorità naturale di talenti e d’in-dustria34.

«Il florido stato delle arti è il segnale della internafelicità politica di un popolo», scriveva Ferguson; «learti [...] seguono d’ordinario la fortuna civile delle città»dichiarava Lanzi (salvo poi, come abbiamo visto, cor-reggere l’intero passo). Si potrebbe congetturare cheanche l’espressione «società civile» che ricorre nell’in-troduzione alla Storia pittorica, nella parte dedicata aimetodi dei conoscitori («la natura, per sicurezza dellasocietà civile, dà a ciascuno nello scrivere un girar dipenna che difficilmente può contraffarsi o confondersidel tutto con altro scritto») costituisca una traccia dellalettura di Ferguson: soprattutto perché qui la «societàcivile» non è la comunità umana organizzata della tra-dizione aristotelica ma, piú precisamente, la società bor-ghese – una società fondata sulla fiducia reciproca, deri-vante in primo luogo dalla difficoltà di falsificare lefirme apposte ai contratti commerciali35.

6. Concorrenza e società civile.

Se si insiste sulla possibilità, comunque non provata,di una lettura di Ferguson da parte di Lanzi, è perchéessa potrebbe dar conto di un tema che ricompare piú epiú volte nelle pagine della Storia pittorica, e a cui nonsi è dato generalmente il rilievo che merita. L’esistenza

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di una committenza molteplice, e quindi di un mercato,influisce, abbiamo visto, in maniera positiva sulla pro-duzione artistica. Ma questa è per Lanzi soltanto unafaccia della medaglia. Egli vede infatti il rischio, deplo-revole, che per far fronte alle committenze e battere laconcorrenza un artista sia indotto a risparmiare sultempo, o sui materiali. L’attenzione del Lanzi agli aspet-ti artigianali, manuali del fare pittorico assume a questopunto risonanze singolarmente moderne. Per allontana-re dal Correggio la taccia tradizionale di avarizia egli nonesita a rompere vistosamente il tono stilistico dominan-te della Storia inserendo un minuzioso elenco di paga-menti, che culmina in quest’affermazione:

Ogni sua pittura è condotta o in rame, o in tavole, o intele assai scelte, con vera profusione di oltremare, con lac-che e verdi bellissimi, con forte impasto e continui ritoc-chi, e per lo piú senza tor la mano dalla opera prima di aver-la al tutto finita; in una parola senza niuno di que’ rispar-mi o di spesa, o di tempo, che usarono poco meno che tuttigli altri36.

Soprattutto il risparmio di tempo, la «velocità», pareal Lanzi una pratica diffusa e condannabile. Troppi pit-tori seguono le orme del Vasari, che «il piú delle volteantepose la celerità alla finitezza», richiamandosi allapittura, compendiaria degli antichi: ma il passo di Pliniosu Filosseno Eretrio, commenta Lanzi, parla di pitturein cui la velocità di esecuzione era accompagnata dallaperfezione. Invece il metodo moderno basato sul «mec-canismo», sul «tirar via di pratica»,

quanto è vantaggioso all’artista, che cosí moltiplica i suoiguadagni, altrettanto è nocivo all’arte, che per tal via urtanecessariamente nel manierismo, o sia alterazione del ver037.

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Il punto di discrimine è rappresentato dai veneti, e inparticolare da Giorgione, che «sdegnò quella minutezza,che rimaneva ancora da vincersi; e a lei sostituí una certalibertà, e quasi sprezzatura, in cui consiste il sommo del-l’arte». In questo modo, lavorando «non tanto d’impa-sto, quanto colpeggiando o di tocco» i veneti si sono atti-rati dagli stranieri l’accusa di aver ceduto a

una celerità che abborraccia, che sdegna freno di regole, chenon finisce il lavoro presente per ansietà di passar prestoad altro lavoro, e cosí ad altro guadagno38.

Da quest’accusa il Lanzi assolve Tiziano, di cui diceche «nel perfezionare i suoi lavori si sa che durava fati-ca grande, e che avea insieme premura grande di nascon-dere tal fatica», e Veronese, in cui la celerità era accom-pagnata da «somma intelligenza»: ma critica la mancan-za di diligenza di Tintoretto, i quadri che sembranoabbozzi di Palma il Giovane dovuti alle troppe commis-sioni, la rapidità divenuta incuria del Piazzetta, per con-cludere, a proposito del cremonese Giuseppe Bottani:

Il lettore può oggimai aver notato nel corso di questaistoria che lo scoglio piú fatale alla riputazione de’ pittoriè la fretta. Pochi sono che possano far presto e bene39.

La «società civile» analizzata da Rousseau e da Fer-guson è la società borghese basata sulla concorrenza.Non si vuol caricare di troppe implicazioni l’accenno iso-lato del Lanzi alla «società civile»: certo è però ch’eglisottolineò sia gli effetti propulsivi della concorrenzasullo sviluppo della pittura, sia il dilagare del «mecca-nismo» a danno della qualità dei prodotti causa la cre-scente commercializzazione dell’attività artistica.

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7. Gli squilibri territoriali.

Questa rilettura della Storia del Lanzi condotta sulfilo dei rapporti tra centro e periferia ha fatto emerge-re due ordini di problemi irrisolti, e, come si vedrà,interdipendenti. Dal punto di vista geografico, lo squi-librio tra la parte dedicata all’Italia centro-settentrionalee quella dedicata all’Italia meridionale e alle isole. Dalpunto di vista storico-genetico, l’importanza decisivaattribuita alla concorrenza non solo tra artisti ma tracommittenti – e quindi un nesso non chiarito tra centridi potere (politico, o di altro tipo) e centri di elabora-zione artistica. Con questi problemi (anche se posti intermini inevitabilmente un po’ diversi) ci troviamo afare i conti ancora oggi.

Cominciamo dalla questione geografica. È stato rile-vato autorevolmente che tra Cinquecento e Settecento,fra Tasso e Metastasio, passando per Marino e Gravi-na, si determina nell’ambito della cultura letteraria ita-liana un pieno equilibrio tra Nord e Sud40. Si ricorderàinvece quanto diverso e sbilanciato fosse il quadro trac-ciato dal Lanzi. È lecito chiedersi se questa distorsionedi cui il Lanzi stesso, come abbiamo visto, era consape-vole, sia tutta da attribuire alla povertà e inattendibilitàdelle sue fonti d’informazione sull’Italia meridionale,nonché alla mancanza di indagini dirette.

Che la pittura del Regno e delle isole sia ancora ingrandissima parte da scoprire, è indubbio. Altrettantoindubbio è che la perdurante trascuratezza della storio-grafia artistica nei confronti di questa parte d’Italia vadaascritta a una situazione riassumibile nel termine «que-stione meridionale»41. E tuttavia – per anticipare unaconclusione che apparirà ovvia – le auspicabili ricerchesulla pittura meridionale non potranno porre in luce unarete di centri artistici paragonabile a quella del Centro edel Nord d’Italia. In questo senso, è lecito dire che la

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distorsione presente nella Storia pittorica del Lanzi riflet-te in sostanza una distorsione, o meglio la distorsione checaratterizza la storia (non solo pittorica) d’Italia.

Abbiamo parlato di una conclusione ovvia. Ma ladistribuzione geografica dei centri artistici italiani nonè ovvia. Varrà la pena di analizzarla.

Proviamo a considerare i centri artistici italiani comeuna specie di club. Quali erano le condizioni per iscri-versi a questo club? e quando si chiusero le iscrizioni?Fuor di metafora: perché i centri artistici italiani sonostati, storicamente, certi e non altri? e quando (e per-ché) cessarono di emergere centri nuovi?

Per rispondere bisognerà partire da molto lontano.L’antichità e la persistenza dei centri urbani è infattiuna delle caratteristiche piú evidenti della storia dellapenisola. Secondo il Sereni, su un campione di 8000 cen-tri piú di un quarto (2684) risulta fondato in età roma-na o preromana, un po’ meno di un terzo tra l’viii e ilxii secolo, e meno di un ottavo nel periodo posterioreal xiv secolo42. Ma questo dato quantitativo, di per séimpressionante, ne nasconde un altro, qualitativo, anco-ra piú denso di conseguenze per la storia, anche artisti-ca, italiana: e cioè che un contrasto fondamentale tra icentri urbani della penisola si era già delineato nel corsodel i secolo a. C.43.

8. Questioni di lunga durata.

In questo periodo si verificarono infatti due proces-si paralleli ma di segno diverso. Dopo la fine della guer-ra sociale (88 a. C.) un gran numero di contadini impo-veriti del Centro-Sud tendeva ad abbandonare le cam-pagne per riversarsi su Roma. La classe dirigente roma-na dovette perciò vedere con favore le massicce inizia-tive di ricostruzione e di rinnovamento edilizio attuate

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dai municipi ex alleati. Anche se una consapevole poli-tica di assorbimento della manodopera disoccupataattraverso l’edilizia sembra da escludere, il risultato fucomunque quello di alleggerire la pressione migratoria indirezione di Roma. Antichi centri si ampliarono, cin-gendosi di mura, e numerose comunità uscirono dallostato tribale per passare a una vita associata di tipourbano. Queste iniziative municipali si verificarono intutto il Centro-Sud, con l’eccezione (significativa, permotivi che vedremo) della fascia centrale dove si eranoavuti in passato insediamenti etruschi: l’Etruria, e partedell’Umbria odierna.

All’incirca nello stesso periodo si venne attuando lacolonizzazione romana della Gallia cisalpina. Anch’essafu accompagnata dalla fondazione di centri urbani, masecondo modalità molto diverse da quelle delCentro-Sud. Non solo perché il numero dei nuovi cen-tri fu di gran lunga minore, ma soprattutto perché la lorofondazione avvenne secondo un vero e proprio pianoregolatore, che implicava una riorganizzazione del terri-torio, la costruzione di opere idrauliche e cosí via44. Daun lato, quindi, una sorta di «urbanizzazione selvaggia»gestita dai singoli municipi; dall’altro, un’urbanizzazioneregolata e pianificata da Roma. In definitiva, diversi, ediversamente equilibrati, rapporti tra città e campagna.

Anni fa, esponendo in maniera piú precisa una suavecchia idea, il Salvatorelli sostenne che di storia d’Ita-lia in senso proprio si poteva cominciare a parlare fin dali secolo a. C., e precisamente dalla guerra sociale, segui-ta dalla concessione della cittadinanza romana agli ita-lici45. Le considerazioni esposte or ora portano ulteriorielementi a favore di questa tesi. La storia d’Italia, cosípovera di rivoluzioni, sarebbe nata dunque sotto il segnodi una rivoluzione vittoriosa a metà.

Con questo non si vuol dire, evidentemente, che laquestione meridionale sia cominciata allora. È vero però

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che lo squilibrio fondamentale che caratterizza la storiadella penisola (e senza il quale essa sarebbe stata diver-sa da quella che è stata ed è) ha le sue lontanissime radi-ci nelle divergenti vicende del i secolo a. C. I rivolgi-menti e i traumi successivi poterono alterare questosquilibrio, non cancellarlo.

Alla fine dell’evo antico la rete dei centri urbani ita-liani presentava dunque un aspetto duplice: nel Cen-tro-Sud (con l’eccezione dell’Etruria e di parte dell’o-dierna Umbria) una maglia fittissima, nel Nord un reti-colato molto piú rado. La resistenza dei due settori, giàallora fortemente indeboliti, allo sconvolgimento cheseguí, fu oltremodo diversa. Per convincersene, basteràesaminare la carta delle diocesi italiane all’inizio delsecolo vii. Come si sa, le sedi vescovili coincidevano difatto con altrettanti centri urbani: la distruzione o lospopolamento di questi ultimi comportava, dopo unperiodo di tempo spesso assai lungo, o il trasferimentodella diocesi a un centro contiguo, o la sua soppressio-ne. Per questi motivi, un esame delle diocesi soppressefornisce una serie di indicazioni assai significative.

Ciò che salta agli occhi è l’entità del fenomeno: su232 diocesi esistenti all’inizio del secolo vii, 106 (com-prese 3 incerte) furono soppresse. Quasi la metà, dun-que. Va notato che le diocesi trasferite da un centro inrovina a un centro contiguo di recente fondazione (daLuni a Sarzana, per esempio, o da Roselle a Grosseto)non sono state incluse tra quelle soppresse: il quadro deicentri scomparsi o ridotti a villaggi risulta quindi appros-simato per difetto. Ma accanto all’entità del fenomenocolpisce la sua distribuzione geografica. Delle 106 dio-cesi soppresse, 15 appartenevano al Nord, 42 al Centro,49 (quasi la metà) al Sud e alle isole. Il reticolo urbanopiú fitto risultò dunque il piú fragile. È vero che, nono-stante la falcidia avvenuta, il numero delle diocesi meri-dionali rimase elevatissimo: ma si trattava, e si tratta

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ancor oggi, di diocesi spesso piccolissime, coincidenticon località d’importanza spesso trascurabile.

Ben diversa resistenza oppose invece il reticolo urba-no comparativamente piú rado del Nord (e di parte delCentro). Scomparvero, certo, o decaddero gravemente,centri litoranei o semilitoranei come Aemonia, Aquileia,Altinum, Vicohabentia, maggiormente esposti alle inva-sioni: ma il quadro complessivo non subí modificazionitroppo gravi. Si potrebbe tracciare su questa base unalinea congiungente Roselle (o, se si vuole, Grosseto)Chiusi, Perugia, Ancona. A sud di questa linea imma-ginaria, un mezzo cimitero di antichi centri urbani46; anord, una serie di città colpite talvolta in maniera gra-vissima, ma quasi mai definitiva. Corfinium o Marru-vium, a differenza di Bologna o Piacenza, non doveva-no risorgere piú. Dietro questa dicotomia traspare (tran-ne qualche divergenza nella fascia comprendente il Laziosettentrionale e l’Umbria meridionale) l’opposizione chesi era venuta determinando, nel i secolo a. C., tra gliinsediamenti urbani nelle varie parti della penisola.

La diversa sorte di Bologna o Piacenza rispetto aCorfinium o Marruvium si spiega naturalmente alla lucedella storia italiana successiva. Ora, il punto è proprioquesto. Proviamo a fare un salto di alcuni secoli. Dopoil Mille, in tutta Italia c’è una rinascita delle città. Manel giro di un secolo le vicende del Centro-Nord da unlato, e del Sud dall’altro, divergono ancora una volta.All’Italia dei Comuni si contrappone un’Italia feudale.Lo sviluppo autonomo delle città meridionali si arresta:Amalfi, per ricordare solo un caso esemplare, decade.Palermo prospera e si rafforza, ma perché è sede di unacorte. Al panorama che si andava profilando, analogo aquello riccamente policentrico dell’Italia centro-setten-trionale, ne subentra uno del tutto diverso, caratteriz-zato dallo schiacciamento delle città minori a dannodelle metropoli. Si è soliti attribuire questa svolta deci-

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siva a fattori esogeni: la conquista normanna prima, ildominio svevo poi. Ma le spiegazioni del tipo «invasio-ne degli hyksos» sono sempre semplicistiche. La geo-grafia dell’Italia comunale invita piuttosto a riflettere sulpeso determinante che poterono avere elementi piúprofondi e piú antichi. L’area di diffusione dei Comu-ni coincide largamente, infatti, con quella parte d’Italiain cui il reticolo urbano di origine romana o preromanaera risultato piú resistente. Si tratta, è vero, di unacoincidenza imperfetta: se sovrapponiamo le due aree,rimane fuori una fascia dell’Italia centrale, a sud dellazona Roselle (Grosseto)-Chiusi-Perugia-Ancona, dovepure si svilupparono città comunali come Orvieto oViterbo. Ma proprio questa fascia di non-coincidenza èsignificativa, perché rinvia ancora una volta a una dico-tomia piú antica: il contrasto tra le due parti della peni-sola emerso nel i secolo a. C. Piú di mille anni dopo, quelcontrasto agiva ancora.

9. La dislocazione dei centri artistici.

Queste contraddizioni di lungo (o lunghissimo) perio-do vanno tenute presenti se vogliamo capire la disloca-zione geografica dei centri artistici italiani. Tra essi tro-viamo infatti molti centri di origine romana o preroma-na: ma ciò non costituisce una condizione necessaria (etanto meno sufficiente) per l’ammissione al club di cuiparlavamo piú sopra. Basta pensare a Venezia o a Fer-rara per rendersi conto che dobbiamo cercare in altradirezione. L’essere stati sede di diocesi, allora? È pro-babile che questa debba essere considerata una condi-zione pressoché necessaria, nel senso che è difficile tro-vare un centro artistico italiano che non sia stato anchesede vescovile. Le eccezioni, come Saluzzo o Fabrianosolo tardivamente divenute sedi vescovili, sono pochis-

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sime: quanto ai monasteri, si tratta di centri sui generis,caratterizzati dall’assenza di una periferia relativa. Macerto non si tratta di una condizione sufficiente: i cen-tri di diocesi che non hanno avuto una parte di rilievonella storia artistica della penisola sono innumerevoli –da Sarsina, a Numana, alla miriade di centri vescoviliminori del Mezzogiorno.

È nell’ambito dei centri di diocesi, dunque, chedovremo cercare di regola i centri artistici italiani. Maquali elementi (storici, s’intende, non formali) defini-scono questo sottoinsieme?

Procediamo per scarti successivi. Prendiamo anzi-tutto in esame i centri scomparsi o decaduti (e non piúrisorti) dopo l’inizio del secolo vii. Tra essi, nessuno (conla possibile eccezione di Aquileia) può essere definitocentro artistico in senso proprio. Il campo dell’indaginesi restringe immediatamente. Proviamo allora a passarein rassegna le sedi vescovili istituite dopo il secolo vii.È possibile identificare una fase di intensa riorganizza-zione della geografia ecclesiastica italiana che comincia,nel Sud, fin dai secoli xi e xii, e nel Centro-Nord, dopola metà del secolo xiv47. Tuttavia, nessuna delle sedivescovili istituite dopo queste date può ambire alla qua-lifica di centro artistico. Come si vede, la rosa dei pos-sibili candidati continua a restringersi. Se continuiamoquesta manovra a tenaglia, arriviamo alla seguente con-clusione: che le iscrizioni al club dei centri artistici ita-liani, aperte in linea di principio a tutte le sedi vescovi-li, si chiusero alla fine dell’xi secolo. Dopo questo perio-do, le nuove sedi – si trattasse di Alessandria o di Livor-no, di Carpi o di Prato, di Foggia o di Civitavecchia –trovarono le porte sbarrate.

A questo punto abbiamo circoscritto fortemente lecondizioni cronologiche necessarie all’ammissione: manon abbiamo ancora identificato le condizioni sufficien-ti. In altre parole: i centri artistici italiani corrispondo-

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no tutti ad altrettante sedi vescovili esistenti alla fine delsecolo xi; ma non è vero il reciproco. Perché Andria,Matelica, Venosa, Taranto (per citare alcuni nomi disedi scelte a caso) non riuscirono a diventare centri arti-stici nel senso pieno del termine?

Ciò che ci consente finalmente di decifrare le coor-dinate geografiche e cronologiche dei centri artistici ita-liani è la decisiva contrapposizione tra le due Italie –quella comunale e quella feudale – che emerge per l’ap-punto nel corso del secolo xi. Nell’Italia centro-setten-trionale (a parte i casi sui generis di Venezia e, ovvia-mente, di Roma) i centri artistici s’identificano con lecittà che svilupparono un’intensa vita comunale – tutte,senza eccezione, sede di diocesi48. Nell’Italia meridio-nale, a parte l’eccezione di Messina, con le città poisoffocate dal centralismo normanno-svevo (Amalfi, Bari)e con le città sedi di corte (Palermo, Napoli). La fron-tiera tra queste due Italie artistiche – policentrica l’una,oligocentrica l’altra – ricalca quella emersa nel i secoloa. C. e mai cancellata dalle vicissitudini posteriori.

10. Le città comunali.

È chiaro che sottolineare l’importanza decisiva dellecittà comunali nello sviluppo dell’arte italiana non signi-fica riproporre divagazioni retoriche di sapore ottocen-tesco sul libero comune, rustico e non. Ciò che conta ainostri occhi è anzitutto la presenza simultanea in unaserie di centri urbani di un potere comunale e di unpotere vescovile, talvolta alleati, piú spesso in contrasto,che diedero luogo a una duplice, alternativa commit-tenza, laica ed ecclesiastica, di durata non episodica. Insecondo luogo, l’esasperata tensione municipalistica,esplosa in età comunale con particolare violenza madestinata a durare molto piú a lungo, che costituí una

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spinta fortissima alla diversificazione artistica. Da unlato, dunque, una situazione di potenziale concorrenzaall’interno dei singoli centri; dall’altro, l’esistenza diuna situazione analoga tra centri diversi. Ciò significache ci muoviamo, ancora oggi, nell’ambito del modelloconcorrenziale delineato dal Lanzi. Anche per noi, infat-ti, la presenza o meno di una situazione di concorrenzatra artisti e tra committenti è indice di una tendenza omeno all’innovazione artistica. Ci guarderemo bene dal-l’identificare senz’altro innovazione e qualità – col chericadremmo nella tautologia riscontrata nelle parole diKenneth Clark citate all’inizio. È indubbio, però, chele condizioni che tendono a favorire l’innovazione arti-stica si verificano di regola nei cosiddetti centri. I cen-tri artistici, infatti, potrebbero essere definiti come luo-ghi caratterizzati dalla presenza di un numero cospicuodi artisti e di gruppi significativi di committenti, che perdiverse motivazioni – orgoglio familiare o individuale,desiderio di egemonia o brama di salvezza eterna – sonopronti a investire in opere d’arte una parte delle loro ric-chezze. Quest’ultimo punto implica, evidentemente,che il centro sia un luogo in cui affluiscono quantità con-siderevoli di surplus da destinare, eventualmente, allaproduzione artistica. Inoltre, potrà essere dotato di isti-tuzioni di tutela, educazione e promozione degli artisti,nonché di distribuzione delle opere. Infine, conterà unpubblico ben piú vasto di quello dei committenti veri epropri: un pubblico non omogeneo, certo, ma diviso ingruppi, ognuno dei quali potrà avere abitudini percetti-ve e criteri di valutazione suoi propri, che potranno tra-dursi in attese e richieste specifiche.

Si tratta, come si vede, di una definizione quanto maigenerica – ma, nello stesso tempo, storicamente restrit-tiva. Non si vede, infatti, come sia possibile, per esem-pio, rintracciare una pluralità di committenti nell’ambitodi un monastero alto-medievale, tale da provocare con-

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flitti paragonabili a quelli che opposero talvolta, anchesul terreno delle scelte artistiche, vescovo e capitolo49.Ma è chiaro che le nozioni di «centro» e «periferia»hanno, se riferite all’Europa monastica, tutt’altro signi-ficato rispetto a quello attribuibile a esse per i secoliposteriori al Mille. Inoltre, la definizione che abbiamoproposto implica che la nozione di centro esclusivamen-te artistico è contraddittoria. Centro artistico potrà esse-re soltanto un centro di potere extrartistico: politico e/oeconomico e/o religioso. Pertanto, la mera presenza, oaddirittura la concentrazione di opere d’arte in unadeterminata località non basta a fare di quest’ultimo uncentro artistico nel senso anzidetto. I castelli, le ville oi santuari potranno eventualmente essere consideratiproiezioni fisiche nel territorio di un potere politico,economico, religioso situati altrove.

11. Centri di innovazione e aree di ritardo.

Se il centro tende a configurarsi come il luogo del-l’innovazione artistica, la periferia, correlativamente,tende a configurarsi (anche se non sempre) come il luogodel ritardo. Di questo fenomeno – certo il piú frequen-te, nei rapporti tra centro e periferia – proviamo a deli-neare una sommaria tipologia. È possibile distinguere unritardo plurisecolare, come nel caso della produzioneartistica detta «popolare», spesso elaborata da contadi-ni per i contadini; un ritardo plurigenerazionale, comenel caso di prodotti eseguiti da artisti professionisti, sí,ma per una clientela contadina; e un ritardo di pochianni, che però viene avvertito come traumatico perchécoincide con momenti e situazioni caratterizzati da subi-tanee svolte del gusto. Avremo cioè, rispettivamente,prodotti come culle o cucchiai decorati, letti, cassoni,tessuti di vario genere, oggetti d’uso costruiti dagli stes-

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si fruitori50, cicli di affreschi dipinti da botteghe di pit-tori itineranti, impegnati nella decorazione di oratoricampestri o di pievi di piccole cittadine; oppure operedi pittori rinomati che di colpo si trovano respinte aimargini del mercato artistico.

Prendiamo un prodotto contadino, sia esso un uten-sile o un oggetto liturgico. Le forme fondamentali sibasano su un repertorio limitato (spirali, cerchi, stelleecc. variamente combinati) che rimane pressoché immu-tabile per secoli, al punto che alcune di esse sembranorisalire addirittura al periodo neolitico. In questo ambi-to la vischiosità, la persistenza tipologica sono partico-larmente forti. Se ci volgiamo invece ai prodotti degliateliers itineranti, per esempio quelle squadre di artistioperose nel Vercellese attorno al 1450-70 cui si deve tral’altro la decorazione pittorica dell’oratorio di San Ber-nardo a Gattinara51, vediamo che essi riprendono conminime variazioni modelli risalenti magari agli ultimidecenni del Trecento. Come esempio del terzo tipo sipotrà ricordare quanto scriveva il Vasari a proposito dialcuni dipinti del Perugino per la chiesa della Santissi-ma Annunziata a Firenze:

Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti inuovi artefici assai biasimata; e particolarmente perché siera Pietro servito di quelle figure che altre volte era usatomettere in opera: dove tentandolo gli amici suoi dicevano,che affaticato non s’era, e che aveva tralasciato il buonmodo dell’operare o per avarizia o per non perder tempo.Ai quali Pietro rispondeva: Io ho messo in opera le figurealtre volte lodate da voi, e che vi sono infinitamente pia-ciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne possoio? Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanielo saettavano.

Onde egli, già vecchio, partitosi da Fiorenza e tornato-si a Perugia, condusse alcuni lavori a fresco nella chiesa di

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san Severo [...]. Lavorò similmente al Montone, alla Frat-ta, e in molti luoghi del contado di Perugia52.

Ai diversi livelli che abbiamo schematicamente distin-to corrispondono dunque diversi gradi di vischiosità (euna correlativa maggiore o minore possibilità di data-zione). Non sarà arrischiato concludere che in una situa-zione di autoconsumo artistico come quella dei contadi-ni la spinta all’innovazione sia praticamente nulla. In unasituazione di semimonopolio come quella in cui opera-vano i pittori itineranti vercellesi della metà del Quat-trocento, ci si poteva servire tranquillamente di modelliin certi casi assai antichi, senza correre il rischio di delu-dere le attese di un pubblico che non aveva alcuna pos-sibilità di confronto. In una situazione di concorrenzacome quella di Firenze attorno al 1505, è la critica eser-citata dai «nuovi artefici» colleghi e rivali che spinge ilPerugino a lasciare (sia pure non definitivamente) la cittàper il contado umbro. Non possiamo parlare in questocaso di «ritardo periferico» in senso proprio: ma è inperiferia che il pittore è costretto a rifugiarsi per potercontinuare a lavorare e a ricevere commissioni per unaproduzione che al centro non soddisfa piú.

12. Periferizzazione e declassamento.

Altre volte, invece, è lo spostamento materiale delleopere dal centro alla periferia – geografica e/o sociale –a far intravedere che quest’ultima viene identificata conun gusto artistico ritardatario. Si prenda il caso del pul-pito della Cattedrale di Cagliari, scolpito da un maestroGuglielmo tra il 1159 e il 1162 per la Cattedrale di Pisa,e trasportato in Sardegna allorché in Pisa venne inau-gurato, nel 1312, il pulpito di Giovanni Pisano. Un’i-scrizione in versi venne apposta a ricordare l’evento:

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Castello Castri concexitVirgini Matri direxit Me templum istud invexit Civitas Pisana53.

Il nuovo pubblico a cui veniva indirizzato il pulpitoera quello della colonia pisana stabilita a Cagliari, nelquartiere alto dominato da Castel di Castro. Nei pressidi quest’ultimo, simbolo e fulcro del dominio pisano, erastata costruita la nuova cattedrale. Il vecchio pulpitodella Cattedrale di Pisa doveva dunque configurarsi,per la colonia toscana, come una venerabile reliquiadella terra d’origine, un riferimento a un patrimonio cul-turale comune, uno strumento d’identificazione e diaggregazione. Va rilevato inoltre che allorché il pulpitovenne trasferito si andava precisando una grave minac-cia per l’avvenire della dominazione pisana, poiché ilpontefice aveva concesso al re d’Aragona l’investituradel reame di Sardegna. Ma non è senza significato cheil rinsaldamento simbolico dei vincoli culturali con lamadrepatria avvenisse attraverso l’invio di un’opera vec-chia di centocinquant’anni: alla colonia veniva pur sem-pre attribuito un gusto piú arretrato di quello dellametropoli.

Altri casi del genere, sia pure meno clamorosi,mostrano che quest’interpretazione non si basa su unapetizione di principio. Tra Cinque e Settecento i polit-tici trecenteschi vengono allontanati dalle piú celebrichiese di Siena e relegati in remoti oratori o pievi dicampagna: quello di Pietro Lorenzetti, già al Carmine,finisce a Sant’Ansano a Dofana. Talvolta il declassa-mento è piuttosto sociale che geografico, come nel casodell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti, che dallasala del Concistoro del Palazzo Pubblico passa a «unastanza [...] accanto alla cucina dove sogliono pranzare idonzelli». In tal modo, un’opera che era stata commis-

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sionata da Francesco monaco di San Galgano, camer-lengo della Biccherna, finiva con l’essere fruita, anzichédai governanti senesi, a cui era stata originariamentedestinata, da un pubblico socialmente infimo54. Capita,in altre parole, che monumenti, arredi e opere del pas-sato a un certo momento vengano ceduti o gettati in uncanto come vestiti smessi. Una raccolta sistematica diquesto tipo di testimonianze sarebbe quanto mai rive-latrice dei mutevoli rapporti che intercorsero storica-mente tra i singoli centri e le rispettive periferie.

Quanto detto fin qui mostra a sufficienza che il nessocentro/periferia non può essere visto come un rapportoinvariabile tra innovazione e ritardo. Si tratta, al con-trario, di un rapporto mobile, soggetto a brusche acce-lerazioni e tensioni, legate a modificazioni politiche esociali, oltre che artistiche. Varrà la pena di analizzarea questo proposito il panorama tracciato da Vasari, datoche nelle Vite egli fornì un modello canonico, destinatoa pesare e a durare, della periferia come ritardo.

13. Vasari.

Per Vasari, l’unica possibilità per un artista nato ededucato in provincia e quella di venire a contatto con ilcentro: solo cosí potrà entrare nel gioco dell’innovazio-ne e del progresso. La vocazione egemonica che erastata propria di Firenze fin dalla fine del Duecento verràassunta dal secondo decennio del Cinquecento, daRoma. E a Roma, spinti da una specie di inarrestabiletropismo, tendono artisti di ogni parte d’Italia che sisono resi magari vagamente conto di quello che c’è nel-l’aria. Cosí il Parmigianino, che

venuto in desiderio di veder Roma, come quello che era insull’acquistare e sentiva molto lodar l’opere de’ maestri

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buoni, e particolarmente quelle di Raffaello e di Michela-gnolo, disse l’animo e disiderio suoi ai vecchi zii55.

Cosí Niccolò Soggi, che:

... sentendo che a Roma si facevano gran cose, si partí diFirenze, pensando acquistare nell’arte e dovere anco avan-zare qualche cosa...56.

O ancora Pierino da Vinci, il quale

... adunque, mentre che cosí si portava, piú volte e dadiverse persone aveva udito ragionare delle cose di Romaappartenenti all’arte e celebrarle, come sempre da ognunosi fa, onde in lui s’era un grande desiderio acceso di veder-le, sperando d’averne a cavare profitto, non solamentevedendo l’opere degli antichi, ma quelle di Michelagnolo,e lui stesso allora vivo e dimorante in Roma57.

Ciò vale anche per Giovanni da Udine, che, mentre eraa Venezia con Giorgione «a imparare l’arte del disegno»,

sentí tanto lodare le cose di Michelangelo e Raffaello, chesi risolvé di andare a Roma ad ogni modo58.

O per Battista Franco che

... avendo nella sua prima fanciullezza atteso al disegno,come colui che tendeva alla perfezione di quell’arte, se neandò di venti anni a Roma; dove, poiché per alcun tempocon molto studio ebbe atteso al disegno, e vedute le manie-re di diversi, si risolvé non volere altre cose studiare né cer-care d’imitare, che i disegni, pitture e sculture di Michela-gnolo59.

Di fronte alle rivelazioni romane, artisti già affermati

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ripudiano la loro prima educazione e ricominciano dacapo. Anche questo, dell’artista già celebre che ridi-venta discepolo una volta scoperta la buona maniera, èun topos ricorrente in Vasari: un esempio celebre è quel-lo di Raffaello che veduto il cartone della Battaglia diCascina di Michelangelo fece ciò che

un altro che si fusse perso d’animo, parendogli avere insi-no allora gettato via il tempo, non arebbe mai fatto, ancorche di bellissimo ingegno...

e cioè

smorbatosi e levatosi da dosso quella maniera di Pietro perapprender quella di Michelagnolo, piena di difficultà in tuttele parti, diventò quasi, di maestro, nuovo discepolo, e si sforzòcon incredibile studio di fare, essendo già uomo, in pochi mesiquello che arebbe avuto bisogno di quella tenera età che meglioapprende ogni cosa, e dello spazio di molti anni60.

Il medesimo topos, con espressioni analoghe quali«smorbarsi» di una precedente educazione, o «di mae-stro divenir discepolo», si ritrova nella vita del Garofa-lo che, giunto a Roma

... restò quasi disperato non che stupito nel vedere la gra-zia e la vivezza che avevano le pitture di Raffaello, e laprofondità del disegno di Michelagnolo. Onde malediva lemaniere di Lombardia, e quella che avea con tanto studioe stento imparato in Mantoa; e volentieri, se avesse potu-to, se ne sarebbe smorbato. Ma poiché altro non si poteva,si risolvé a voler disimparare, e, dopo la perdita di tantianni, di maestro divenire discepolo61.

Il maledire le maniere di Lombardia evoca le«bestemmie di Lombardia» con cui si chiude il Dialogo

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della lingua di Machiavelli, a testimonianza di una con-cezione altrettanto monocentrica – tanto piú palesequando si consideri che la vita del Garofalo era nelleintenzioni del Vasari destinata a fare

brievemente un raccolto di tutti i migliori e piú eccellentipittori, scultori ed architetti che sono stati a’ tempi nostriin Lombardia...82.

Né il caso è isolato perché, parlando col Vasari, Giro-lamo da Carpi

... si dolse piú volte d’aver consumato la sua giovanezza edi migliori anni in Ferrara e Bologna e non in Roma, o altroluogo dove averebbe fatto senza dubbio molto maggioreacquisto63.

A Roma dunque si arriva da Parma, da Firenze, daVenezia, da Mantova o da Ferrara, e chi, avendola cono-sciuta, è costretto ad abbandonarla, ne soffre profonda-mente, come Polidoro da Caravaggio che a Messina...

sempre ardeva di desiderio di rivedere quella Roma, la qualedi continuo strugge coloro che stati ci sono molti anni, nel pro-vare gli altri paesi64.

o come il Garofalo a Ferrara che

nel fare delle quali opere ricordandosi alcuna volta d’averelasciato Roma, ne sentiva dolore estremo, ed era risoluto perogni modo di tornarvi65.

L’immagine della provincia è quanto di piú lontanosi possa immaginare da quella, prestigiosa e stimolante,del centro. Un caso estremo è quello della Calabria,patria di Marco Cardisco, di cui il Vasari scrive:

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Ma se quando noi veggiamo in qualche provincia nasce-re un frutto che usato non sia a nascerci ce ne maraviglia-mo; tanto piú d’uno ingegno buono possiamo rallegrarci,quando lo troviamo in un paese dove non nascano uominidi simile professione66.

Non sempre la provincia è questa plaga desolata dovela pianta degli artisti non alligna: ma quando anche vene siano, sarà bene che non vi restino a lungo perchéessa manca di esempi, di emulazione, di concorrenza,vale a dire di alcuni degli elementi fondamentali per losviluppo dell’innovazione. Arezzo, patria del Vasari, sitrova in tali condizioni. Per Giovan Antonio Lappoli èquesto un

luogo ove non poteva anco da per sé imparare, ancor cheavesse l’inclinazione della natura67;

né diversamente il Montorsoli considera Perugia, oveil soggiornare non gli è di alcun ausilio («non facevaper lui e non imparava»), o Daniele Ricciarelli, Vol-terra, dove si avvede

... non aver [...] concorrenza che lo spignesse a cercar di sali-re a miglior grado, e non essere in quella città opere né anti-che né moderne dalle quali potesse molto imparare68.

Non solo Arezzo, Perugia o Volterra: anche Siena èconsiderata una provincia poco stimolante agli occhi delVasari, che racconta come Sodoma

... non trovando concorrenza per un pezzo in quella cittàvi lavorasse solo: il che se bene gli fu di qualche utile, glifu alla fine di danno; perciocché quasi addormentandosinon istudiò mai69.

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Dello stesso avviso è il Beccafumi che, sempre secon-do Vasari,

... non aveva maggior disiderio che d’imparare e conosce-va in Siena perder tempo70.

e cosí saranno Bologna e Ferrara, nel caso del Vignolao in quello, già citato, di Girolamo da Carpi.

Si tratta di casi in cui l’artista – a detta del Vasari –avrebbe quasi sempre preso coscienza della situazione.Altrove egli si limita a notare che l’artefice di cui parla,se avesse avuto la possibilità di uscire dalla sua provin-cia, avrebbe fatto cose straordinarie (impossibili appun-to per chi rimanga in periferia). Cosí a proposito diLuca de’ Longhi che

se fusse uscito di Ravenna [...] sarebbe riuscito rarissimo71.

o di un gruppo di scultori lombardi il cui limite è addi-rittura di aver lavorato a Milano:

... Ma se in quel luogo fusse lo studio di quest’arti, che èin Roma e in Firenze, arebbono fatto e farebbono tuttaviaquesti valentuomini cose stupende72.

Particolarmente duro da ammettere per il Vasari è ilcaso di chi deliberatamente non si muove, come Coladell’Amatrice, provinciale volontario:

... il quale senza curarsi di veder Roma o mutar paese, sistette sempre in Ascoli,

mentre

costui non arebbe fatto se non ragionevolmente, se egliavesse la sua arte esercitata in luoghi, dove la concorrenza

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e l’emulazione l’avesse fatto attendere con piú studio allapittura, ed esercitare il bello ingegno, di cui si vede che erastato dalla natura dotato73.

Del resto la sfida costituita dalle opere dei grandi nonconduce automaticamente all’emulazione. In certi casil’artista «sfidato» si tira indietro perché non si sentecapace di tanto. Cosí il Franciabigio che

non volle mai uscir di Firenze; perché avendo vedute alcu-ne opere di Raffaello da Urbino, e parendogli non esser paria tanto uomo né a molti altri di grandissimo nome, non sivolle metter a paragone di artisti cosí eccellenti e rarissimi74.

O Morto da Feltre, che avrebbe avuto in animo diabbandonare le grottesche che erano la sua specialità perdarsi alla figura:

E poiché era venuto in questo desiderio, sentendo iromori che in tale arte avevano Lionardo e Michelagnolo perli loro cartoni fatto in Fiorenza, subito si mise per andare aFiorenza; e vedute l’opere, non gli parve poter fare il mede-simo miglioramento che nella prima professione aveva fatto:là onde egli ritornò a lavorare alle sue grottesche75.

Altri non rinuncia, ma rimanda il confronto, comePierino da Vinci che

andò dunque in compagnia di alcuni amici suoi, e vedutaRoma e tutto quello che egli desiderava, se ne tornò aFirenze; considerato giudiziosamente, che le cose di Romaerano ancora per lui troppo profonde, e volevano esserevedute e immitate non cosí ne’ principj, ma dopo maggiornotizia dell’arte76.

La emulazione tra gli artisti e gli stimoli che possono

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venire dalle attese del pubblico sono, secondo il Vasari,molle fondamentali del progresso artistico. Ora, la man-canza di termini di confronto e la facile soddisfazione delpubblico fanno sí che gli artisti in provincia siano menostimolati. È quello che accade a Donatello a Padova:

... essendo per miracolo quivi tenuto e da ogni intelligentelodato, si deliberò di voler tornare a Fiorenza, dicendo che,se piú stato vi fosse, tutto quello che sapeva dimenticato siavrebbe, essendovi tanto lodato da ognuno; e che volentierinella sua patria tornava per esser poi colà di continuo bia-simato, il quale biasimo gli dava cagione di studio, e con-seguentemente di gloria maggiore77.

Donatello – secondo il Vasari – sapeva che a Padovagli mancava lo stimolo della critica; altri lo ignoravano,come il Sodoma a Siena che non trovando concorrenzavi si addormentava, o come gli emiliani Bartolomeo daBagnacavallo, Amico Aspertini, Girolamo da Cotigno-la e Innocenzo da Imola, che

... non attesero all’ingegnose particolarità dell’arte come sidebbe. Ma perché in Bologna in que’ tempi non erano pit-tori che sapessero piú di loro, erano tenuti da chi governa-va e dai popoli di quella città, i migliori maestri d’Italia78.

Né differente è la sorte di Marco Cardisco a Napoli:

Peroché non avendo emulazione né contrasto degli arte-fici nella pittura, fu da que’ signori sempre adorato, e dellecose sue si fece con bonissimi pagamenti sodisfare79.

La funzione svolta dai committenti è quindi strategi-camente decisiva. E della committenza napoletana il Vasa-ri dà, nella vita di Polidoro, un’immagine ben piú negati-va di quella or ora citata. Polidoro, arrivato a Napoli,

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essendo quei gentiluomini poco curiosi delle cose eccellen-ti di pittura, fu per morirvi di fame80,

per cui

... veggendo poco stimata la sua virtú, deliberò partire dacoloro che piú conto tenevano d’un cavallo che saltasse, chedi chi facesse con le mani le figure dipinte parer vive81.

Quello di Napoli è presentato come un caso limite, maanche la Roma quattrocentesca, con i suoi cospicui inve-stimenti artistici, appare a Vasari espressione di un gustoarretrato e periferico:

Se papa Eugenio IV, quando deliberò fare di bronzo laporta di san Piero in Roma, avesse fatto diligenza in cer-care d’avere uomini eccellenti per quel lavoro; siccome neitempi suoi arebbe agevolmente potuto fare, essendo viviFilippo di Ser Brunellesco, Donatello e altri artefici rari;non sarebbe stata condotta quell’opera in cosí sciaguratamaniera, come ella si vede ne’ tempi nostri. Ma forse inter-venne a lui come molte volte suole avvenire a una buonaparte dei principi che o non s’intendono dell’opere, o neprendono pochissimo diletto. Ma se considerassono diquanta importanza sia il fare stima delle persone eccellen-ti nelle cose pubbliche per la fama che se ne lascia, nonsarebbono certo cosí trascurati né essi né i loro ministri;perciocché chi s’impaccia con artefici vili e inetti, dà pocavita all’opere e alla fama: senza che si fa ingiuria al pubblicoe al secolo in che si è nato, credendosi risolutamente da chivien poi, che se in quell’età si fossero trovati migliori mae-stri, quel principe si sarebbe piuttosto di quelli servito, chedegl’inetti e plebei82.

Lo stigma del provincialismo appare particolarmen-te evidente in un papa come Sisto IV, bersaglio tradi-

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zionale della polemica politica e culturale fiorentina.Secondo il Vasari, il pontefice, preferendo CosimoRosselli a Botticelli, al Ghirlandaio, a Signorelli, alPerugino, avrebbe mostrato la propria incompetenzadando prova di preferire i colori vistosi e costosi diCosimo alle ingegnose invenzioni degli altri:

perciocché que’ colori, siccome si era Cosimo imaginato,a un tratto cosí abbagliarono gli occhi del papa, che nonmolto si intendeva di simili cose, ancoraché se ne dilet-tasse assai, che giudicò Cosimo avere molto meglio chetutti gli altri operato. E cosí fattogli dare il premio,comandò agli altri che tutti coprissero le loro pitture deimigliori azzurri che si trovassero e le toccassino d’oro,acciocché fussero simili a quelle di Cosimo nel colorito enell’esser ricche. Laonde i poveri pittori, disperati d’ave-re a soddisfare alla poca intelligenza del Padre Santo, sidiedero a guastare quanto avevano fatto di buono83.

Per intendere il sapore del passo, sarà opportunorichiamare un altro aneddoto, che il Vasari inserí nellavita di Michelangelo a proposito del Menighella,

pittore dozzinale e goffo di Valdarno, che era persona pia-cevolissima, il quale veniva talvolta a Michelagnolo, che glifacessi un disegno di san Rocco o di santo Antonio per dipi-gnere a’ contadini. Michelagnolo, che era difficile a lavo-rare per i re, si metteva giú lassando stare ogni lavoro, e glifaceva disegni semplici accomodati alla maniera e volontàcome diceva Menighella: e fra l’altro gli fece fare un model-lo d’un Crocifisso, che era bellissimo, sopra il quale vi feceun cavo, e ne formava di cartone e d’altre mesture, ed incontado gli andava vendendo, che Michelagnolo crepavadalle risa; massime che gl’intraveniva di bei casi: come conun villano il quale gli fece dipignere san Francesco, e dispia-ciutogli che il Menighella gli aveva fatto la veste bigia, che

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l’arebbe voluta di piú bel colore, il Menighella gli fece indosso un piviale di broccato, e lo contentò84.

Il passo ha un evidente valore di topos, anche se l’e-sistenza storica del Menighella è accertata. Ma questonon c’interessa, qui. Importa piuttosto notare che agliocchi del Vasari i gusti della clientela contadina delMenighella, che ordina quadri con i santi tipici delladevozione rurale (san Rocco, sant’Antonio, san France-sco) e ama i colori squillanti e vistosi, coincidono con lepredilezioni di un papa come Sisto IV, di cultura e for-mazione fratesca, legato a un ambiente attardato – perVasari, s’intende – come quello della Roma quattrocen-tesca. Periferia sociale e periferia geografica ancora unavolta si sovrappongono.

14. Fine del policentrismo e nascita della «terza maniera».

Un’operazione radicale, dunque, quella compiuta daVasari. Una situazione come quella che era venuta allo-ra emergendo in Toscana – uno stato assoluto su baseregionale, caratterizzato dalla subordinazione e spolia-zione dei vari centri a vantaggio della capitale – venivaproiettata nel passato: il ruolo di Siena o di Pisa venivasminuito, quello di Pistoia, Volterra o Lucca cancellato,Arezzo si salvava per carità di patria. Ma questa proie-zione del presente sul passato, o se si vuole questo ade-guamento (che era poi uno schiacciamento) del passatosul presente non era, come abbiamo visto, limitato allaToscana. A distanza di qualche decennio Vasari tiravale somme di un processo che all’inizio del Cinquecentoaveva provocato una duplice cesura, politica e artistica,nella storia della penisola, riducendo drasticamente ilpolicentrismo precedente a vantaggio di pochi centri ingrado di conservare una certa autonomia. Gli anni del

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primo Cinquecento che, come si ricorderà, vedono lasubitanea periferizzazione del Perugino, costretto alasciare Firenze dalle polemiche dei «nuovi artefici»,sono anni decisivi, in cui sta nascendo e già imponen-dosi un nuovo paradigma, «la terza maniera che noi –scrive il Vasari – vogliamo chiamare moderna»: quelladi Leonardo, Giorgione, del «graziosissimo Raffaelloda Urbino» e del «divino Michelagnolo Buonarroti»che «fra i morti e’ vivi porta la palma, e trascende ericuopre tutti». La «terribile» varietà e la ricchezzadella «terza maniera» fa apparire d’un tratto antiquataquella «bellezza nuova e piú viva» che avevan comin-ciato a usare il Francia bolognese e il Perugino, e dimo-stra «lo errore» di coloro che «nel vederla corsero comematti [...] parendo loro che e’ non si potesse giammai farmeglio»85.

È proprio l’imporsi di quella «terza maniera» adaccompagnare un processo di ristrutturazione della geo-grafia artistica italiana – processo che il Vasari registrae contribuisce ad accentuare proiettandolo nel passato.

15. Un caso esemplare: l’Umbria.

Seguiamo questa vicenda attraverso un caso esem-plare, quello dell’Umbria. Centri come Perugia, Gubbio,Foligno, Todi, Assisi, Montefalco, Spoleto, Orvieto,che tra il Duecento e il Quattrocento avevano avuto unaproduzione artistica complessa e diversificata, sono statia lungo vittime dell’ottica centralizzatrice di Vasari, alpunto che solo da qualche decennio la pittura umbraanteriore al Perugino è diventata oggetto di analisi spe-cifiche86. Ma nel corso del Cinquecento questo panora-ma cosí vario tende sempre piú all’uniformità e alla ripe-tizione. L’innovazione sembra diventare privilegio ecaratteristica di pochi centri maggiori.

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Un elemento significativo di questa situazione è lafedeltà a una formula. Si veda la fortuna di un quadrocome l’Incoronazione della Vergine di Domenico Ghir-landaio. Dipinta nel 1486 per gli Osservanti di SanGirolamo presso Narni, essa venne imitata piú volteper espressa volontà dei committenti: nell’Incoronazio-ne della Vergine della chiesa dei Riformati di Montesan-to in Todi, che lo Spagna si era impegnato a fare «pic-tam de auro cum coloribus et aliis rebus ad speciem etsimilitudinem tabulae factae in Ecc. Sancti Jeronymi deNarnia», e che fu terminata nel 1511; nell’Incoronazio-ne dipinta dal medesimo Spagna per i francescani diTrevi, e in quella confezionata da Jacopo Siculo nel1541 per la chiesa dell’Annunciata presso Norcia87.

Un altro fenomeno caratteristico è il costituirsi didinastie locali, particolarmente avvertibile a partire dallaseconda metà del Quattrocento. Il meccanismo sembrapiú o meno questo. All’inizio c’è la costituzione di unabottega familiare in cui lavorano padre e figli. I prodottidi questa bottega sono dapprima abbastanza aggiorna-ti, e si appoggiano a formule e schemi recenti che cono-scono un grande successo. Il capo della bottega puòavere una esperienza abbastanza larga dovuta a viaggi,a una formazione fuori del paese o all’alunnato pressoun pittore forestiero attivo nel luogo. Cosí il soggiornoa Norcia di Niccolò da Siena ha potuto influenzare ilsorgere degli Sparapane o di Domenico da Leonessa88.La dinastia degli Sparapane comincia la sua carrieradipingendo sull’iconostasi della chiesa di San Salvatorea Campi (presso Norcia) la Madonna col Bambino, santie storie della vita di Cristo lasciandovi data e paternità:«Questo laurero a pinto Johani de Sparapane et Anto-nio suo figliolo da Norscia 1464». In seguito, l’utilizza-zione dei cartoni e del repertorio formale del capomae-stro diviene il consueto modus operandi della bottega,secondo una procedura che poteva assicurare la soprav-

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vivenza di certi schemi addirittura per generazioni. Èappunto il caso degli Sparapane di Norcia o degli Ange-lucci di Mevale89. Via via che passa il tempo cresce loiato tra la ripetizione di modi e formule, divenuti ormaiarcaici, e la produzione dei grandi centri. Queste dina-stie erano impiegate da singoli committenti per dipintivotivi, da confraternite o anche da comunità paesane;poteva avvenire che all’ombra di un santuario o di unluogo di pellegrinaggio si stabilisse una dinastia di arti-sti, come quella dei Lederwasch che a Tamsweg nel Sali-sburghese furono di padre in figlio addetti alla produ-zione artistica per lo splendido Santuario di San Leo-nardo, e la cui casa, attigua alla chiesa, si visita ancora.

In un primo tempo questa proliferante pittura peri-ferica, legata a una committenza socialmente omogenea,non presenta ancora i caratteri nettamente ritardatariche assumerà in seguito, quando il solco tra centro eperiferia si sarà allargato. Essa mostra anzi una piúvasta propensione e disponibilità agli investimenti arti-stici da parte di gruppi sociali che fino ad allora si eranoscarsamente impegnati in questo senso. Varrebbe lapena di tracciare una mappa delle decorazioni eseguitenel corso del Quattrocento, con chiari intenti edifican-ti, per chiese od oratori campestri: per limitarsi a qual-che caso piemontese tra i molti, si pensi a Domenicodella Marca d’Ancona che affresca l’abside della chiesadi Santa Maria di Spinariano presso Ciriè90, a Giaco-mino da Ivrea, attivo in Canavese e nella Valle d’Aostaintorno alla metà del secolo91, a Giovanni Massucco chelavora nel Monregalese92. L’installarsi in provincia diartisti come Domenico della Marca d’Ancona, prove-nienti da località remote, magari altrettanto periferiche,si accentua nel corso del Cinquecento: Jacopo Santoridi Giuliana, presso Palermo, meglio conosciuto comeJacopo Siculo93, opera tra Umbria e Sabina; sempre inSabina sono attivi, nella prima metà del secolo, i vero-

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nesi Lorenzo e Bartolomeo Torresani; in Basilicata,nello stesso periodo, troviamo Simone da Firenze94.Parallelamente, pittori rinomati vengono sospinti o riso-spinti dal centro in periferia, perché incapaci di regge-re il passo delle proposte dei «nuovi artefici» e del con-seguente mutamento del gusto e delle attese del pub-blico. A parte il caso già ricordato del Perugino che daFirenze deve riparare al Montone e alla Fratta, abbia-mo il percorso non dissimile di Signorelli, o, preceden-temente, quello di Antonio da Viterbo che, dopo averlavorato a Roma a imprese importanti come gli affreschidi Santa Francesca Romana, viene risospinto nell’agroviterbese dall’attività dei pittori umbri e fiorentini chia-mati da Sisto IV, riducendosi a dipingere a Corchiano95.

16. Riflusso e ritardo in periferia.

I fenomeni che abbiamo elencato, e cioè: a) la costi-tuzione di dinastie locali con il conseguente perpetuar-si, attraverso l’uso di cartoni e disegni, di certi schemi;b) lo stabilirsi in periferia di artisti di lontana prove-nienza che non si erano imposti né nei rispettivi paesidi origine, né nei centri artistici piú importanti; c) ilrifluire in periferia di artisti già celebri messi in crisi daimutamenti stilistici in atto, configurano un processo diperiferizzazione che relega molte regioni italiane in unacondizione di subalternità culturale destinata a prolun-garsi nel corso dei secoli successivi. L’affermarsi dellostato assoluto a base regionale, il soffocamento delleautonomie locali e l’accentuata stratificazione gerarchi-ca della società hanno avuto conseguenze importanti sulpiano artistico.

Data l’assenza di indagini quantitative su scala regio-nale e la grande scarsità, rispetto al periodo preceden-te, di indagini sugli artisti «provinciali», ci rifaremo

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all’eccellente volume Ricerche in Umbria96, che analizzai risultati di una vasta inchiesta sulla pittura del Seicentoe Settecento in un’area dell’Umbria meridionale. Cer-cheremo di riassumere gli elementi significativi cheemergono da essa e che ci sembrano avere un valore aldi là dell’ambito locale.

a) Nel Sei e Settecento la regione è ormai parte inte-grante dello Stato della Chiesa: di conseguenza laprovincia tende ad adeguarsi alla metropoli da cuidipende, ricevendone gli impulsi attraverso lecommittenze di un certo numero di personaggilegati in diversi modi alla capitale. Occorre peròfar attenzione a non considerare l’area provincia-le come un ampliamento puro e semplice dellasituazione dominante nel centro di influenza. Èpossibile infatti trovare accanto a presenze scon-tate delle testimonianze rare ed estravaganti;

b) il processo di rifeudalizzazione ha importanti con-seguenze all’interno della regione, per quantoriguarda sia il mutamento dei committenti, sia itipi di richieste. La domanda di opere d’arte siaddensa nella città e si dirada nel contado (salvoeccezioni e casi particolari). Essa tuttavia conti-nua dove esistono aree di piccola proprietà oforme associative di proprietà collettiva, mentrecessa nella zona di latifondo;

c) le opere inviate in periferia dagli artisti del cen-tro hanno un gusto piú severamente liturgico diquelle che i medesimi artisti approntano per lametropoli;

d) mentre nel Seicento c’è una relativa capacità dellaprovincia di reagire all’incontro con la culturametropolitana, o sintonizzandosi o elaborandovarianti, nel Settecento avviene che «le pale giun-gono da Roma in provincia come un prodotto spe-

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cializzato e privo ormai di concorrenza, talora finoa mobiliare con “pezzi” perfettamente affiatati l’in-tera batteria di altari di una chiesa o a trasformarele navate in gallerie della coeva pittura romana»97.

Su questa immagine di dipendenza resa incondiziona-ta e irreversibile dalla divisione del lavoro e dei ruoliall’interno dello stato potrà arrestarsi la riflessione sulla«periferia come ritardo». A questo stadio non è piú il pro-blema del ritardo a configurarsi, quanto quello della domi-nazione simbolica su cui avremo modo di ritornare.

17. Ritardo periferico o ritardo di metodo?

Ma se non tutti i ritardi sono periferici, come mostrail caso del Perugino cacciato dal centro verso la perife-ria, non tutte le periferie sono ritardatarie. Supporre ilcontrario significherebbe far propria una visione unili-neare della storia della produzione artistica che da unlato crede possibile identificare una linea di progresso(comunque motivata dal punto di vista ideologico) edall’altra taccia automaticamente di ritardo ogni solu-zione diversa da quella proposta dal centro innovatore.In tal modo si finisce per cercare nell’arte della perife-ria quegli elementi, quei canoni, quei valori che sonostati stabiliti basandosi per l’appunto sui caratteri delleopere prodotte al centro. Nel caso poi che si riconoscal’esistenza di canoni diversi, essi vengono esaminatiesclusivamente in base al paradigma dominante, con unprocedimento che porta facilmente a giudizi di deca-denza, di corruzione, di caduta di qualità, di rozzezzaecc. Questo è stato il caso per esempio della pitturabolognese o della pittura umbra del Trecento, ridotteper molto tempo al rango di rozze e mediocri imitazio-ni dell’arte fiorentina o senese.

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Scriveva nel 1855 Jacob Burckhardt:

Apparentemente indipendenti [da Giotto] rimasero sologli inabili. Tra i settentrionali, i bolognesi dovettero esse-re nel modo piú assoluto e totalmente esclusi dall’influen-za della scuola fiorentina. Ma la loro attività e abilità pit-torica nel xiv secolo è spaventosamente maldestra e insi-gnificante. Il piú antico di essi, Vitale, un contemporaneodi Giotto, in un quadro della Pinacoteca di Bologna(Madonna in trono con due angeli del 1320) è almeno dolcee aggraziato alla maniera senese, cosí che ci si ricorda diDuccio. Gli altri, per metà giotteschi, per la maggior partesono cosí scarsi nelle loro opere su tavola, che a Firenze diloro non sarebbe il caso di far parola. E lo stesso modo diprocedere, la stessa assenza di talento rimane il contrasse-gno della scuola fin oltre la metà del xv secolo98.

E Bernhard Berenson nel 19o8 a proposito della pit-tura umbra prima del Perugino: «Nelli was and remainsan idiot»99. Lo stesso Berenson intitolava nel 1918 unsaggio dedicato all’orvietano Cola Petruccioli A Sieneselittle Master in New York and elsewhere il che, comenotava R. Longhi,

dice abbastanza sia sul basso grado assegnato all’artista, siasulla sua supposta incondizionata sudditanza alla scuolasenese. Era allora infatti in gran voga l’ossessiva esaltazio-ne per i prodotti senesi di tutto il Trecento e la istantaneasubordinazione a essi di tutto ciò che in qualche modo li ras-somigliasse. [...]. Una specifica cultura pittorica orvietananella seconda metà del Trecento sembrava inammissibile:che dico, impensabile. Eppure essa era esistita100.

Identificare senz’altro la periferia col ritardo signifi-ca, in definitiva, rassegnarsi a scrivere eternamente lastoria dal punto di vista del vincitore di turno.

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18. Periferia come scarto.

Persino Giorgio Vasari, elaboratore e sostenitore diun modello storiografico monocentrico, ammette la pos-sibilità di una elaborazione autonoma da parte dellaperiferia. La sfida dell’emulazione può essere in certecircostanze determinante per attingere grandi risultati.È sotto il segno dell’emulazione che si compie la for-mazione del Mantegna:

la concorrenza ancora di Marco Zoppo bolognese, e diDario da Trevisi, e di Niccolò Pizzolo padoano, discepolidel suo adottivo padre e maestro, gli fu di non piccoloaiuto e stimolo all’imparare101.

Similmente l’affermazione artistica di Galasso èvista come una sorta di risposta municipale al succes-so in Ferrara di un pittore «stranio» come Piero dellaFrancesca:

Quando in una città, dove non sono eccellenti artefici,vengono forestieri a fare opere, sempre si desta l’ingegno aqualcuno che si sforza di poi, con l’apprendere quella mede-sim’arte, far sí che nella sua città non abbiano più a veni-re gli strani per abbellirla da quivi innanzi e portarne lefacultà; le quali si ingegna di meritare egli con la virtú e diacquistarsi quelle ricchezze che troppo gli parsono belle ne’forestieri. Il che chiaramente fu manifesto in Galasso fer-rarese: il quale veggendo Pietro dal Borgo a San Sepolcrorimunerato da quel duca dell’opere e delle cose che lavorò,e oltre a ciò onoratamente trattenuto in Ferrara; fu per taleesempio incitato, dopo la perdita di quello, di darsi alla pit-tura talmente, che in Ferrara acquistò fama di buono edeccellente maestro102.

La presenza di una forte emulazione può addirittura

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permettere di modificare la situazione subalterna diun’area provinciale. Avviene infatti che

... cominciando un solo molti si mettono a far concorrenzadi quello; e tanto si affaticano, senza veder Roma, Fioren-za, o altri luoghi pieni di notabili pitture, per emulazionel’un dell’altro, che si veggiono da loro uscir opere maravi-gliose. Le quali cose si veggiono essere avvenute nel Friuliparticularmente, dove sono stati a’ tempi nostri (il che nonsi era veduto in que’ paesi per molti secoli) infiniti pittorieccellenti, mediante un cosí fatto principio103.

In qualche rara occasione «mediante un cosí fattoprincipio» possono dunque nascere «opere meraviglio-se», «senza veder Roma, Fiorenza». Nel seguito deldiscorso il Vasari finisce però per smorzare i giudizi deltutto positivi dati nel proemio e per limitare a piú ripre-se (rispetto a Tiziano, al Beccafumi ecc.) l’opera delPordenone. Quella specie di miracolo che aveva per-messo la nascita fuori dal centro di «opere maraviglio-se» non si spingerà fino a fare della periferia un luogoalternativo al centro; nel sistema vasariano non c’è spa-zio per soluzioni di questo tipo.

Di fatto è questo un caso che si è puntualmente e apiù riprese presentato; oltre che luogo di ritardo la peri-feria ha potuto essere sede di elaborazioni alternative.

Questa affermazione richiede un breve chiarimentoterminologico: diverso e alternativo non sono sinonimi;non tutte le variazioni sono definibili come alternative,come scarti. Utilizziamo quest’ultimo termine nella par-ticolare accezione di «spostamento laterale improvvisorispetto a una traiettoria data» che si usa per esempioparlando di certi movimenti dei cavalli: lo scarto è,insomma, una specie di «mossa del cavallo», e l’uso diquesto termine consente di evitare espressioni connota-te negativamente quali «deviazione» o simili. Nell’am-

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bito dei fatti artistici si può intendere per «traiettoriadata» la lingua artistica corrente.

Formule come «lingua» o «linguaggio artistico» sonoentrate talmente nell’uso che la loro natura metaforica siè pressoché cancellata. Di fatto l’analogia tra lingua insenso proprio e lingua artistica è tutt’altro che pacifica,e per di piú zoppicante104. Se nonostante tutto ci servi-remo di termini come codice e lingua, lo faremo con laconsapevolezza di introdurre metafore che, piú che risol-vere un problema, lo pongono. Nonostante tutto ciò cheè stato autorevolmente scritto sulla «grammatica» del lin-guaggio artistico, non siamo attualmente in grado didistinguere in maniera rigorosa tra «variazioni» e «scar-ti», tra prestiti lessicali e strutture sintattiche. Ció checonta tuttavia è che una distinzione del genere, anche sediversamente formulata, era presente a un pubblico diintenditori in una data situazione storica. Questo inten-deva infatti il Vasari quando, a proposito del Pontormo,scriveva:

Né creda niuno che Jacopo sia da biasimare, perché egliimitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciocché questonon è errore, e l’hanno fatto e fanno continuamente moltipittori: ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca inogni cosa, ne’ panni, nell’aria delle teste e l’attitudini; il chedoveva fuggire, e servirsi solo dell’invenzioni, avendo egliinteramente con grazia e bellezza, la maniera moderna105.

Per Vasari la contrapposizione tra «maniera» e «inven-zioni» è netta: la «maniera moderna» è perfettamentein grado di assimilare le invenzioni dei tedeschi. L’er-rore del Pontormo, nell’ottica normativa del Vasari, èstato di abbandonare le forme tipiche della «manieramoderna», per assumere la «maniera stietta tedesca». Anoi le «invenzioni», cioè le composizioni, possono appa-rire elementi piú profondi e caratterizzanti di uno stile

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che non i panni, l’aria delle teste o delle attitudini. Maquesto, qui, poco importa. L’essenziale è che il Vasaridistinguesse tra elementi che potevano essere impune-mente mutuati e altri che non potevano esserlo senza farsaltare il quadro di riferimento.

Nel caso del Pontormo si trattò dunque di un vero eproprio «scarto». Non fu, come è noto, un fenomenoisolato. In uno scorcio fulminante Roberto Longhi acco-stò al «manierismo» del Genga, del Beccafumi, delRosso e del Pontormo, l’opera dell’Aspertini,

vero nodo di comunicazione spirituale fra quei moti del cen-tro e quelli affini del nord d’Italia; altrettanto importanteinsomma per intendere la improvvisa diserzione dal «classi-cismo cromatico» di Giorgione e di Tiziano giovane da partedi un gruppo di veneti e soprattutto friulani bresciani vicen-tini trentini e cremonesi nel corso del secondo decennio106.

I protagonisti di questa guerriglia anticlassica opera-no in situazioni eccentriche, o si servono di armi impor-tate da una cultura periferica come quella tedesca. Talealmeno essa appariva al Vasari, che notava sarcastica-mente:

... sono le cere di tutti que’ soldati fatti alla tedesca con ariestravaganti, ch’elle muovono a compassione chi le miradella semplicità di quell’uomo, che cercò con tanta pacien-za e fatica di sapere quello che dagli altri si fugge e si cercadi perdere, per lasciar quella maniera che di bontà avanza-va tutte l’altre, e piaceva ad ognuno infinitamente. Or nonsapeva il Puntormo che i Tedeschi e Fiaminghi vengono inqueste parti per imparare la maniera italiana, che egli contanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?107.

Né si trattava solo di pregiudizio italocentrico delVasari, come mostra l’atteggiamento del Dürer verso

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la cultura figurativa italiana, durante i suoi viaggi aVenezia.

Nel caso del Pontormo la scelta in direzione perife-rica si accompagna, come emerge dal suo Diario oltre chedai racconti del Vasari, a una vera e propria autoesclu-sione materiale dal consorzio degli amici e colleghi pit-tori. In altre situazioni ci troviamo di fronte a casi di unaperiferizzazione subita e patita, oppure deliberatamen-te accettata. Ma il problema non si esaurisce nei casi diresistenza individuale che, di fronte a un centro che nonlascia spazio alla diversità, riescono a trovare sbocco, oanche solo una possibilità di sopravvivenza, nell’areaperiferica. Esso va visto in termini piú vasti, fino acomprendere i casi in cui lo «scarto», l’alternativa, l’op-posizione rispetto a certi modelli siano atteggiamentiprevalenti in un’intera area.

19. La resistenza al modello.

Nella ricostruzione della Cattedrale di Chartres,distrutta da un incendio nel giugno 1194, un ignotomaestro utilizzò soluzioni nettamente innovatrici, uni-ficando e standardizzando i supporti, riducendo al mas-simo la tridimensionalità delle pareti con l’eliminazionedei matronei e l’attenuazione di ogni accenno allaprofondità, creando insomma un modello di schermobidimensionale che aprí la strada verso quell’involucrodiafano destinato ad avere eccezionali applicazioninell’Île de France nel corso del Duecento. Ma un certonumero di architetti, operosi tra la Borgogna, il bacinolemanico e la valle del Rodano, non accettarono questasoluzione e ne proposero altre, o piuttosto (se trascu-riamo le differenze contingenti), un’altra. Di fronte aquesta situazione gli storici dell’architettura continua-rono per generazioni a parlare di ritardo; solo in tempi

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relativamente recenti ci si accorse che non di ritardo sitrattava, ma piuttosto di coerente resistenza108.

È evidente che resistenza e ritardo sono fenomeniben diversi, attivo l’uno, passivo e subordinato l’altro.La soluzione degli oppositori a Chartres non era d’al-tronde meramente legata a modelli piú antichi: si trat-tava piuttosto dell’elaborazione, estremamente origina-le, di una sorta di seconda parete leggera e traforataposta dinanzi all’altra, che consentiva un recupero per-cettivo degli effetti della parete tridimensionale. Difronte all’innovazione chartriana questa proposta alter-nativa tentava di conservare, trasformandoli, elementiche la nuova soluzione invece eliminava. Grazie allacentralità che l’Île de France venne ad assumere sulpiano politico, economico e culturale, fu il modello diChartres a prevalere.

20. Modello e nuovo paradigma.

Ora se ritorniamo in Italia, e precisamente a Firen-ze agli inizi del Trecento, ci troviamo di fronte a solu-zioni di resistenza, di proposte alternative, e finalmen-te di periferizzazione delle alternative, che possonoavere qualche punto in comune con il caso della resi-stenza a Chartres.

Le soluzioni impostate da Giotto in campo pittoricoavevano avuto un valore anche piú dirompente di quel-le avanzate dal maestro di Chartres. Con Giotto infat-ti era sorto a Firenze un nuovo paradigma che avevabruscamente alterato la situazione, relegando di colpo aimargini della galassia artistica chi a esso non aderiva.

Usiamo l’espressione «nuovo paradigma» mutuando-ne l’accezione dalla storiografia della scienza109 per indi-care l’emergere di un linguaggio non solo nuovo, ma tal-mente prestigioso da imporsi come normativo e tale da

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esercitare un’azione inibitoria su coloro che, per unaragione o per l’altra, ne sono esclusi. Una efficace descri-zione dell’azione che un nuovo paradigma può avere èdata da Vasari quando parla dell’effetto sconcertanteche le opere romane della «terza maniera» ebbero sucoloro che per la prima volta le vedevano:

... chi muta paese o luogo, pare che muti natura, virtú,costumi, ed abito di persona, intanto che talora non parequel medesimo, ma un altro, e tutto stordito e stupefatto.Il che poté intervenire al Rosso nell’aria di Roma, e per lestupende cose che egli vi vide di architettura e scultura, eper le pitture e statue di Michelagnolo, che forse lo cava-rono di sé: le quali cose fecero anco fuggire, senza lasciarloro alcuna cosa operare in Roma, Fra Bartolomeo di SanMarco e Andrea del Sarto110.

La prima conseguenza che ebbe a Firenze e in Tosca-na sugli inizi del Trecento l’imporsi del paradigma giot-tesco fu quella di periferizzare un buon numero di arti-sti e, addirittura, di antichi centri111. In un primo tempocoesistette tuttavia a Firenze, assieme a Giotto e ai giot-teschi di piú stretta osservanza, un gruppo di pittori ete-rodossi che, pur accettando alcuni elementi basilari delleproposte di Giotto – il che li salvò dal rischio di unaimmediata periferizzazione – divergevano su alcunipunti dal nuovo paradigma e, per esempio, tentavano diportare avanti le esperienze espressive che erano statedi Cimabue. Questa dissidenza fu dapprima tollerata;ma presto le cose cambiarono, come mostra con evi-denza la situazione fiorentina intorno al 1340-50 se lasi confronta con quella attorno al 1310-1320.

Verso il 1340-5o dopo la morte di Giotto la sua visio-ne continuava a condizionare talmente i pittori fioren-tini allora operanti in città, che l’ortodossia giottescanon solo dominava, ma respingeva qualsiasi alternativa

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alla sua linea. Dai primi del secolo agli anni ’20 la pit-tura fiorentina invece presenta uno spettacolo tutt’altroche unitario e accanto ai giotteschi di stretta osservan-za («Maestro della santa Cecilia», Pacino di Bonaguida,Jacopo del Casentino) c’erano casi di aperta dissidenzaportati avanti da maestri («Maestro di Figline», Lippodi Benivieni, Buffalmacco, «Maestro del Codice di sanGiorgio», ecc.) che tentavano un’apertura verso i modipiú apertamente gotici o un recupero delle antiche ten-denze espressive e patetiche112.

Si tratta di un episodio di «resistenza a Giotto» daparte di un gruppo di pittori che, pur ritenendo certiaspetti fondamentali della lezione giottesca, non solonon intendono rinunciare alla ricerca espressiva dellafine del Duecento, ma ne sostengono l’attualità. È quin-di chiaro che non si tratta di ritardo o di attaccamentoa un modello superato, quanto di una proposta alterna-tiva che intende mostrare quali sviluppi si possano trar-re da certe premesse di cui si scorge tutta la fecondità.Per certi aspetti la situazione si potrebbe paragonare aquella degli architetti che operano nel senso della «resi-stenza a Chartres» e che proclamano l’attualità di unsistema derivato dal «muro spesso» anglonormanno113.

Quando in un centro si impone un sistema di formee di schemi che riceve l’appoggio di un potente gruppodi committenti e che pertanto finisce col determinare ledomande e le attese del pubblico, i «diversi» debbonopiegarsi o espatriare verso situazioni culturali menodeterminanti. È proprio quando le tendenze «irregola-ri» vengono meno a Firenze che cessano le notizie sul-l’attività di Buffalmacco nella città e cominciano le men-zioni di questo pittore in altri centri114. Buffalmacco, cherappresenta una linea «scartante» rispetto a quella diGiotto, sarà dunque costretto nel corso del terzo decen-nio del Trecento a lasciare il centro piú prestigioso perlavorare ad Arezzo, Pisa, Bologna; analogamente una

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fronda espressionistica potrà trovare accoglienza e svi-luppo a Pistoia115. Va ricordato a questo punto il quadrogeografico di questa vicenda, una

... Italia municipale, non regionale, che è esistita per seco-li, indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvatica-mente paga di sé, per potersi chiudere nel suo guscio, matroppo anche per accettare una docile subordinazione poli-tica o letteraria alla regione o alla nazione116.

Politica, letteraria o artistica; quest’ultima produzio-ne è infatti una componente importante dell’identitàmunicipale cosí gelosamente custodita. La periferia chefornisce all’eventuale «scarto» una base territoriale nonè mai una periferia amorfa o indifferenziata, al contrario.

21. L’alternativa di Avignone.

Tra questi pittori di fronda uno, il Maestro del Codi-ce di san Giorgio, dovette cercare un punto d’appoggioad Avignone117. Parlare di Avignone, nel Trecento sededella corte papale, come di una periferia, è evidente-mente un assurdo e un controsenso. Tuttavia occorreràintendersi sul significato dei termini: se la rilevanza eco-nomica, politica, religiosa subitamente assunta dalla cittàprovenzale è indiscutibile, per un certo tempo essa rima-se, dal punto di vista dell’arte, di chi se la pigliava. Perla pittura si trattò di italiani, senesi o fiorentini comeSimone Martini o il Maestro del Codice di san Giorgio:ma l’assenza di una tradizione in qualche modo vinco-lante favorí lo svolgersi di una pittura assai lontana daicanoni e dagli schemi abituali nei maggiori centri italia-ni. L’eccezionale fortuna e il personalissimo linguaggiodi un artista viterbese, in qualche modo eccentrico e dinascita e di cultura, come Matteo Giovannetti, pittore

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dei papi per oltre un ventennio, può trovare cosí unaspiegazione. Alcune soluzioni da lui proposte non sareb-bero certamente state accettate là dove fosse stata ope-rante una forte tradizione. Ne è una conferma il fattoche gli «scarti» di Matteo Giovannetti, i quali ebberoottima accoglienza nella nuova capitale papale e un rile-vante impatto europeo118, siano stati in seguito occulta-ti da una tradizione storiografica sorta e sviluppatasi aFirenze, portata ad accettare e a celebrare norme e cano-ni diversi e piú ortodossi. Il nome stesso del pittoreviterbese disparve fino alla fine dell’Ottocento e, anchequando fu ritrovato negli archivi vaticani, le opere delGiovannetti non mancarono di suscitare profonde dif-fidenze119.

In effetti alla luce delle consuetudini artistiche diFirenze e di Siena le soluzioni avignonesi rappresenta-no delle varianti sostanziali; la simmetria, l’equilibrio,la coerenza delle figurazioni, l’impaginazione dellescene, le arie e i volti dei personaggi, subiscono modifi-cazioni sensibili, addirittura distorsioni destinate adiventare però, come ormai generalmente si ammette,un punto di partenza per la pittura del gotico interna-zionale.

Questi «scarti», che fornivano alla pittura europeaun’apertura verso l’avvenire, sono stati possibili ad Avi-gnone per diverse ragioni, e in primo luogo per il muta-re dei committenti e del pubblico. Intorno al 1340-50 lafisionomia della corte papale è profondamente trasfor-mata rispetto agli inizi del secolo. Il papa e la maggio-ranza dei cardinali provengono dalla Francia meridio-nale, il pubblico che ha accesso al palazzo è quanto maieterogeneo; gli artisti stessi operano in condizioni diver-se da quelle allora consuete in Italia. Le équipes che lavo-rano sotto la direzione di Matteo Giovannetti com-prendono toscani di varia origine (senesi, lucchesi, are-tini, fiorentini), viterbesi, parmensi, piemontesi, pro-

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venzali, lionesi, inglesi, tedeschi120. La rete dei riferi-menti disponibili, infine, include esempi gotici di mae-stri della Francia del Nord o d’Inghilterra, e una cultu-ra figurativa occitanica, in grave declino dopo la guerracontro gli albigesi, ma pur sempre esistente. Tutti que-sti elementi fanno di Avignone in quegli anni un caso di«doppia periferia» artistica: nel tramonto della culturaoccitanica i punti di riferimento sono la pittura dell’Ita-lia centrale e il disegno gotico del Nord.

22. Le regioni di frontiera.

Non si tratta di un fenomeno isolato. In diversimomenti le regioni di frontiera italiane si sono trovatein situazioni analoghe: e la condizione di «doppia peri-feria» propria a queste marche di confine poté addirit-tura stimolare la nascita di aree-cerniera, luogo d’incon-tro di culture diverse e punto di partenza di esperienzeoriginali. Era stato questo il caso del Piemonte alpino nelprimo Quattrocento, ai tempi del ducato di AmedeoVIII, quando, grazie all’incrociarsi di artisti di diversaorigine culturale (Italia, Borgogna, alto Reno) quest’areadivenne un haut lieu del gotico internazionale.

Per molti centri e regioni italiane, da RoccaforteMondoví a Ripacandida in Basilicata, il linguaggiotardo-gotico rappresentò un ultimo momento di inte-grazione, di omogeneità, di partecipazione su un piededi parità alla produzione artistica. Ciò che venne doponon ebbe, per molto tempo, un’autorevolezza parago-nabile: solo quella che Vasari chiama la «maniera moder-na», la cui accettazione o meno segnò una prima lineadi discriminazione tra centri e periferie, diede luogo aun nuovo paradigma che mise definitivamente fuorigioco l’antico. Le prime formulazioni rinascimentaliavevano invece coesistito, senza effetti paralizzanti, con

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quelle tardo-gotiche121. Ma proprio l’allargamento delfossato tra centro e periferia all’interno della penisolarese possibile il costituirsi dell’Italia come centro arti-stico rispetto a una periferia europea.

Ancora una volta nel Piemonte occidentale si mani-festa un altro caso di «scarto» che trae profitto dallasituazione di «doppia periferia» della regione. È quellodi Defendente Ferrari che rielabora, in forme che avran-no una notevole eco nell’area alpina122, elementi di diver-sa origine, provenzali, fiamminghi, renani, lombardi,proponendo modelli significativamente distanti dai para-digmi che stavano ormai diffondendosi in tutt’Italia.Questa distanza non è dovuta all’ignoranza o all’infor-mazione tardiva sugli avvenimenti artistici fiorentini oromani. Opere di Raffaello, come la Madonna d’Orléans(ora a Chantilly) avevano circolato in Piemonte: il ducaCarlo II che la possedeva ne aveva addirittura fatta ese-guire nel 1507 una copia (perduta) da Martino Span-zotti; le copie superstiti, fatte da Defendente o da Gio-venone, mostrano a sufficienza la diffusione del proto-tipo. Piú tardi, ma prima del 1564, una copia del Giu-dizio di Michelangelo sarà dipinta sulle mura dellaMadonna dei Boschi di Boves123. Il cammino di appa-rente rigoticizzazione seguito da Defendente non è dun-que il prodotto di un ritardo periferico, ma piuttosto diuno scarto deliberato, nella cui scelta ha un peso indi-scutibile il carattere devozionale di gran parte della suaproduzione. Ma proprio su questo piano si rivela l’in-treccio di arcaismo e novità che cosí spesso caratterizzala faticosa elaborazione delle alternative periferiche. L’i-scrizione che accompagna il Commiato del Cristo dallaMadre suona infatti:

Tu che conte(m)pla del viso lo perspicace et acuto pote-re nel deifi | co simulacro del sacrato intuito destina el vivoradio et ne la | mente sigilla quanto in ver de la dilecta matre

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pare che con summa hu | militate la inefabile sapientia cle-mentissimamente si exhibischa et | con quale gratia la mater-na compassione al coresponder si monstra | con affanato cor-doglio (resultante et maiore) per la memoria | del paratosuplicio che nel cuore fixamente | inpresso teneva conside-rato bene124.

Ciò che viene proposto al riguardante non è dunquela reazione immediata e quasi fisiologica di fronte all’im-magine sacra, ma una proiezione ben piú complessa.L’antivedente memoria di Maria, che scorge nel futuroil supplizio del figlio, viene additata come modello allamemoria del riguardante. Le «istruzioni per l’uso», for-mulate in una lingua ricca di latinismi, invitano un pub-blico verosimilmente clericale a leggere compiutamentele implicazioni psicologiche dell’immagine.

Puntualmente la devozione neogotica di DefendenteFerrari lo porterà a fiancheggiare le ricerche di talunimanieristi125. Di fatto réculer pour mieux sauter sembraessere un elemento ricorrente nell’elaborazione delloscarto periferico. Convergono in questo senso da unlato, le attese del pubblico e dei committenti, dall’altrola volontà di aggirare una situazione senza uscita imboc-cando vie lontane nel tempo e nello spazio.

23. L’esilio del Lotto.

Si dànno anche casi in cui la ricerca di un’alternati-va si traduce fisicamente nell’esilio. Prendiamo l’esem-pio canonico di Lorenzo Lotto. Quasi tutta la sua vitatrascorse fuor di Venezia, e fuor di Venezia si trova lamaggior parte dei suoi dipinti: a Treviso, a Bergamo enelle valli bergamasche, nelle città, nei borghi e neipaesi posti lungo le coste e su per i colli delle Marche,da Ancona a Recanati, a Fermo, a Jesi, a Cingoli, a

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Monte San Giusto, a Loreto, dove il pittore morì riti-rato in convento.

Certo, Bergamo attorno al 1515 non poteva esserconsiderata una periferia. L’attività in loco di Loren-zo Lotto andrà considerata semmai parte della pene-trazione della cultura figurativa veneta in una cittàche fino a pochi anni prima aveva visto lavorare Bra-mante, Filarete, Amadeo. D’altra parte a Veneziaverso quest’epoca, come già a Firenze negli anni1310-20, non si era ancora imposto un unico paradig-ma. Su questo sfondo va vista la decorazione dellaCappella Suardi a Trescore, nelle valli bergamasche(1524)126. Qui moduli iconografici arcaizzanti (il Cristo-vite o la sequenza narrativa in cui, come in un SacroMonte, la vicenda si svolge in tante stazioni, palazzi,logge, prosceni) vengono sottoposti a un’audace riela-borazione naturalistica. Dalle dita di Cristo si dipar-tono i tralci che inquadrano martiri, confessori, pro-feti, padri della Chiesa. I due piani della rappresenta-zione, quello storico (le scene della vita e del martiriodelle sante) e quello metastorico (la vigna di Cristovanamente assaltata dagli eretici) sono sovrapposti,entrambi prospetticamente inquadrati, ma radical-mente distinti nelle proporzioni. Ancora una volta laproposta alternativa presuppone un uso spregiudicatodi elementi decisamente arcaici di cui vengono viste lepotenzialità innovatrici.

A Venezia tutto questo non sarebbe stato, evidente-mente, possibile; ma anche un’opera come la pala deiCarmini che non presentava effetti cosí sconcertantiappariva a Ludovico Dolce «di queste cattive tinte [...]assai notabile esempio». Giudizio sprezzante che segui-va, quasi come un’esemplificazione, il ragionamentomesso in bocca all’Aretino in cui si insisteva sulle con-venzioni da rispettare nell’uso dei colori:

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È vero che queste tinte si debbono variare, et aver pari-mente considerazione ai sessi, alle età et alle condizioni. Aisessi ché altro colore generalmente conviene alle carni d’unagiovane et altro ancora d’un giovane; all’età, ché altro sirichiede a un vecchio et altro pure a un giovene; et alle con-dizioni, ché non ricerca a un contadino quello che appar-tiene a un gentiluomo127.

La reazione negativa di un ambiente di committentie di critici orientati verso Tiziano è testimoniata dallascarsità delle opere fatte – a intervalli di lunghi anni –per Venezia. La piú straordinaria è la paletta di SanZanipolo, dipinta per un convento amico presso il qualeaveva a lungo soggiornato, mentre, come scrive il Lanzi,che pur aveva apprezzato «i nuovi partiti di tavola» incui il Lotto era stato «de’ primi e de’ più ingegnosi»,

la sua declinazione si può conoscere fin dal 1546, epocascritta nel quadro di San Jacopo dell’Orio128.

Quest’opera fu eseguita durante l’ultimo soggiornodel Lotto a Venezia. Aveva lasciato Treviso dove, dice-va, «non guadagnava da spesarmi», e cercava di soprav-vivere adeguandosi al gusto e ai modelli di Tiziano, ren-dendoli piú spogli e devoti.

Chiusa questa parentesi, e lasciata definitivamenteVenezia per le Marche, Lotto ritroverà a Loreto, lonta-no dai modelli incombenti, la libertà espressiva che faràapparire cosí moderna l’incompiuta Presentazione diGesú al Tempio129.

Dopo Bergamo sono dunque le Marche a concedereal Lotto uno spazio per la sua pittura. Una regione tra-dizionalmente legata a Venezia, almeno nella fasciaadriatica, per cui i pittori veneziani avevano lavorato findal Trecento, ma che nel corso del Cinquecento perdegradatamente la sua importanza politica ed economica.

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Ciò significa che gli esempi piú moderni del Lotto tro-veranno qui un luogo di libertà, non di avvenire e chela sua linea non avrà continuatori né propagandisti, senon in qualche episodio locale e molto limitato130.

24. Urbino e Barocci.

Qualche anno dopo la morte del Lotto, FedericoBarocci lasciava nel pieno del successo Roma per ripa-rare precocemente e precipitosamente in patria, in unaUrbino declinante. A farlo fuggire sarebbe stata, nellaversione dei biografi, la malattia, seguita a un tentativodi avvelenamento. Non si può escludere che dietro que-sto gesto ci fossero motivazioni piú complesse131: certoè che la fuga fu definitiva. Per decenni il Barocci, crea-tore di sacre immagini ammirate da san Filippo Neri,vegliardo dispeptico ricercato da duchi e cardinali,instancabile disegnatore attento al naturale, pittoreintellettuale che cercava nell’accordo musicale il model-lo di quello cromatico, continuò ossessivamente a inse-rire nei suoi quadri l’immagine di Urbino posta a raffi-gurare quella «città di Gerusalemme in veduta» accom-pagnata dal «magnificentissimo palagio» del duca a sug-gello delle piú diverse scene evangeliche.

Questa scelta a favore di una città destinata a un’or-mai prossima emarginazione parve al Bellori una vera epropria diserzione:

Dirò di piú quello che parrà incredibile a raccontarsi: nédentro, né fuori d’Italia si ritrovava pittore alcuno, nonessendo gran tempo che Pietro Paolo Rubens il primoriportò fuori d’Italia i colori, e Federico Barocci, che avreb-be potuto ristorare e dar soccorso all’arte, languiva in Urbi-no, non le prestò aiuto alcuno132.

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L’esule periferico assume questa volta le vesti del sal-vatore mancato. In uno spirito forse non dissimile si èsupposto che un’affermazione di Lotto in patria avrebbeavviato «l’arte veneziana (e forse non l’arte soltanto) [...]in direzione del Rembrandt e non del Tintoretto»133.

25. Il Seicento e il Settecento.

Nel Seicento gli scarti periferici assumono formemeno drammatiche e vistose. Con l’avanzare dellaristrutturazione politica ed economica la situazionetende a stabilizzarsi, ribadendo lo iato che si è aperto nelsecolo precedente tra centro e periferia. Ridotti gran-demente il numero e l’autonomia degli antichi centrimunicipali, si vengono a imporre codici differenziati,validi gli uni per la metropoli, gli altri per la provincia.Cosí in una periferia sottomessa e rassegnata le possibi-lità dello scarto diminuiscono di molto134. E tuttavia leopere abruzzesi del Tanzio, quelle marchigiane del Gen-tileschi, il ritorno del Bassetti a Verona, di NiccolòMusso a Casale Monferrato e, fra tutti memorabile,quello dello stesso Tanzio – che allora scarta decisa-mente rispetto al Morazzone e al contesto lombardo –in Valsesia, sono da leggersi in questa chiave. Un qua-dro come l’«ex voto proletario» di Tanzio con i conta-dini di Camasco stretti attorno al «Divvo Rocho inAdversis Intercessori», riprende la tradizione degli sten-dardi processionali, fin da quello del Foppa a Orzinuo-vi, indicando con chiarezza come il vecchio fondo devo-zionale della provincia potesse divenire un riparo per inaturalisti della diaspora romana. Si tratta di una resi-stenza destinata a prolungarsi nel tempo.

Il piú bel ritratto di gruppo del Settecento italiano,I canonici di Lu di Pier Francesco Guala, è immersonella penombra di una chiesa monferrina, l’armata dei

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gueux del Ceruti cresce sui muri delle ville del Brescia-no. Esiste in provincia, almeno in una certa provinciadisposta agli investimenti simbolici, una committenzarelativamente indipendente nelle scelte dai dettamidella metropoli.

La ripresa della tradizione municipale costituisce unodei fatti centrali della cultura settecentesca. Di questorinnovato fervore di ricerca le Lettere Pittoriche raccol-te dal Bottari, quindi aumentate e ripubblicate dalTicozzi, forniscono piú di un esempio. «A Cento – scri-ve l’Algarotti a un suo corrispondente veneziano – io viso ben io dire che avreste trovato dove puntare il vostroocchialino»135. Luigi Crespi, che incoraggia la pubblica-zione di descrizioni e guide locali, biasima le descrizio-ni dell’Italia allora piú diffuse per non aver nominatoVolterra, Cortona o Pescia, e lamenta l’assenza di scrit-ti sulle città delle Romagne:

Così fosse stato fatto delle pitture di tante città dellaRomagna che i molti valenti professori che vi fiorirono, nonrimarrebbero tutt’ora in buona parte incogniti, e le tantebelle operazioni loro non sarebbero o state disperse, o tut-tavia neglette con danno notabile delle rispettive città, de’professori e delle famiglie, ma sarebbero state, e tuttorasarebbero, nella dovuta stima conservate, ammirate, e da’viaggiatori visitate!

Ha ella, per esempio, cognizione d’un certo CristofanoLanconello? di un Gio. Batista Bertuccio? d’un Palmeg-giani?136.

Per il Crespi

tutto ciò che in qualche maniera può illustrare una città,deve sempre manifestarsi, per eternare al possibile la memo-ria di chi ne fu il promotore o il produttore [...]. Che se ciòè pur vero di qualunque cosa virtuosa in generale [...] quan-

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to piú si verificherà trattandosi delle tre arti nobilissime, dipittura, scultura ed architettura, mercè le quali sole, puòdirsi che distinguonsi le città che vengono esse visitate dadotti viaggiatori [...] e benché professate, per lo piú, da arte-fici di oscuro e talvolta vile lignaggio, pur mercè di loro,stima ed onore distinto da tutto il mondo eglino riscuoto-no e ricevono?137.

Nello stesso senso si esprimono il Ratti e tanti altricorrispondenti. Motivo ricorrente di questi discorsi èl’esaltazione delle arti, che, «benché professate, per lopiú, da artefici di oscuro e talvolta vile lignaggio», attrag-gono sulle città l’attenzione di «dotti viaggiatori», «prin-cipi intelligenti», «eruditi e studiosi», «dotti scrittori».

La ricostruzione storica della gloria delle piccolepatrie, siano esse Cento, Faenza, Forlí o Pescia, Corto-na, Volterra, avviene negli stessi anni in cui si ricerca-no le antiche tradizioni, preromane138 o medievali. Sem-brava dunque aprirsi un nuovo spazio per la periferia:ma questo non doveva avvenire che per certe aree piúprospere. In gran parte d’Italia la situazione non con-cederà alcun recupero139.

26. Centro e periferia, persuasione e dominazione.

Non è certo una novità affermare che le immaginipossano essere strumenti di persuasione e di domina-zione, nel rapporto, mai pacifico, tra centro e periferia.Talora, ove si tratterà di mettere in valore l’effige delsovrano e delle sue insegne, sarà un impiego diretto: ebasti ricordare come Bonifacio VIII abbia utilizzato efatto utilizzare il proprio simulacro per sancire, daOrvieto a Bologna ad Anagni, il dominio della Chiesa eil proprio personale potere; come la statua equestre diAzzone Visconti sovrastasse sudditi e fedeli dal sommo

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dell’altar maggiore di San Giovanni in Conca; come learmi sulle porte delle città venissero dipinte e cancella-te secondo il mutare di signoria, o come gli apparati perle entrate trionfali sancissero il potere e la magnanimitàdel signore. Molto frequentemente l’uso delle immagi-ni può essere piú indiretto, entrando in un discorso poli-tico piú generale: e anche qui gli esempi non mancano,dalle imprese dei longobardi dipinte nel Palazzo di Teo-dolinda a Monza, ai padri della Chiesa che Martino Ifece dipingere sui muri di Santa Maria Antiqua dopo ilConcilio laterano del 649 per combattere l’eresia mono-telita appoggiata da Costantinopoli, fino alle scene delRisorgimento dipinte da Cesare Maccari, Amos Cassio-li e compagnia nella sala Vittorio Emanuele del PalazzoPubblico di Siena, o a episodi ancor piú prossimi a noidi cui la produzione artistica del periodo fascista ci pro-pone gran numero di esempi.

In altri casi si tratterà di decifrare gli scontri politi-ci attraverso le cicatrici delle immagini, chiarendo comeun certo stile e certe formule di rappresentazione pos-sano essere state imposte. La Ruthwell Cross o i capi-telli di Santo Domingo de Silos hanno rivelato l’esi-stenza di autentiche battaglie simboliche in cui, nelcorso del Medioevo, un nuovo stile, appoggiato daun’autorità politica e religiosa, veniva imposto, controla resistenza di una cultura autoctona140.

L’adozione coatta di modelli stilistici e iconograficiprovenienti dal centro, l’elaborazione al centro di codi-ci stilistici differenziati validi gli uni per la metropoli,gli altri per la periferia, il sacco dei beni simbolici delpaese sottomesso, il flusso dei migliori talenti dalla peri-feria verso il centro e quello, in senso inverso, dal cen-tro verso la periferia di prodotti ad alto potenziale sim-bolico, sono forme ed episodi in cui si manifestano imodi di dominazione. Nell’impossibilità di trattarnediffusamente in modo organico si procederà attraverso

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una sorta di enumerazione tipologica che permetta diesemplificare casi e problemi.

27. La dominazione simbolica.

Per identificare alcuni aspetti significativi del rap-porto di dominazione simbolica si potranno seguire, par-titamente, le posizioni di alcuni elementi che compon-gono il campo artistico: le opere, gli artisti, i commit-tenti, il pubblico. Di tutti questi il pubblico fa figura dielemento immobile nel continuo spostamento degli altritre, ma è al tempo stesso il meno studiato, e perciò il piúinafferrabile; la nostra indagine sarà dunque condotta dipreferenza sugli altri, e, prima di tutto, sulle opere.

Possiamo distinguere qui varie situazioni che vanno dalmomento assolutamente negativo della distruzione,autentico grado zero nella scala, all’invio dal centro versola periferia di opere di altissimo livello, passando attra-verso fasi diverse.

Non staremo a insistere su quello che abbiamo chia-mato il grado zero; grosso modo le distruzioni dovute alconflitto centro-periferia possono essere di due tipi, odiscendenti direttamente dalla volontà di eliminare letestimonianze della cultura dell’area sottomessa, o piúindirettamente causate dal poco conto in cui vengonotenuti nelle città suddite i prodotti della propria anticacultura. Sono esempio del primo caso le distruzioni delleantiche «delizie» ducali poste fuori delle mura di Fer-rara dopo la devoluzione degli stati estensi alla SantaSede: radicale cancellazione delle testimonianze archi-tettoniche dell’antico potere giustificata da uno storicoferrarese col fatto che

il dispendio inutile che avrebbe sostenuto la Camera perconservarle, e le fortificazioni delle mura naturalmente

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opposte a simili delicatezze, non permettevan loro piú lungadurata141;

dell’altro i lamenti sulla situazione del patrimonio arti-stico delle città di provincia, tanto frequentementedocumentati nelle Lettere Pittoriche.

Discorso piú lungo merita la razzia dei beni simbolici.Da Carlo Magno che porta da Ravenna ad Aquisgrana lastatua equestre del cosiddetto Teodorico, alle requisizio-ni estese in tutta Europa per la costituzione del MuséeNapoléon142 a quelle hitleriane in vista della creazione delsupermuseo di Linz143, la storia di queste romanzesche eavventurose rapine è largamente divulgata. Biblioteche(come la Palatina di Heidelberg sottratta dopo la batta-glia della Montagna Bianca dal duca di Baviera all’Elet-tore palatino e donata quindi al papa, come segno di vit-toria sui protestanti e di reverente sottomissione) raccol-te d’arte, statue equestri, pale d’altare, ritratti, scultureabbandonano i loro luoghi di origine per essere trasferitinelle capitali di cui occorre incrementare il primato sim-bolico144. Il fatto si produce puntualmente nel corso delprocesso di periferizzazione di molte regioni italiane dopola ristrutturazione cinquecentesca. Un caso esemplare è,ancora una volta, quello di Ferrara, al momento dell’e-stinzione della dinastia estense, e della devoluzione dellostato alla Santa Sede. Scrive il Lanzi, evocando le conse-guenze artistiche di questi avvenimenti:

Il cangiamento del governo fu a tempo di ClementeVIII pontefice massimo, nel cui ingresso solenne operaro-no per le pubbliche feste lo Scarsellino ed il Mona, scelticome i pennelli piú abili a far molto in poco tempo. Furo-no di poi impiegati vari pittori, e specialmente il Bambinie il Croma, a copiar varie tavole scelte della città, che lacorte di Roma volle trasferite nella capitale; lasciandone aFerrara le copie e agl’istorici ferraresi i lamenti145.

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Tra i «lamenti» degli storici ferraresi gioverà ricor-dare quello di Antonio Frizzi146:

Disgustoso a’ nostri cittadini riuscí il vedere l’A. 1617spogliate le Chiese di molti de’ migliori quadri loro, di manode’ Dossi, dell’Ortolano, del Garofalo, del Carpi, del Tizia-no, di Gio. Bellino, del Mantegna e d’altri piú insigni pit-tori nazionali e forestieri, e sostituire a essi copie, stimabi-li però, del Bononi, dello Scarsellino, del Bambini, delNaselli e d’altri. Chi e dove li trasportasse non ci vien detto,ma sappiamo che di simili preziosi nostri monumenti, e dimanoscritti, e d’anticaglie andaron molti, in diversi tempi,ad arricchirne la capitale.

Girolamo Baruffaldi testimonia di queste spoliazio-ni, scrivendo la vita di Giacomo Bambini, uno degli arti-sti impiegati a copiare i quadri rapinati:

Nel tempo della devoluzione di questa città al governoecclesiastico, cioè l’anno 1598, era egli uno de’ professoriche in Ferrara operassero, e perciò come tale fu impiegatoa ricopiare varie preziose pitture di maestri eccellenti perpoterne mandare a Roma gli originali desiderati dalla cortePontificia che qui trovavasi. Di due certamente io possodarne sicuro conto, e sono la tavola dell’Ascensione di Cri-sto in s. Maria in Vado, e l’altro di s. Margherita nella chie-sa della Consolazione. Quest’era dell’Ortolano, e l’altra diBenvenuto da Garofalo147.

Valga quello di Ferrara come modello di una situa-zione che si potrebbe suffragare con altri casi. Nonmolto dissimili per esempio furono le conseguenze delladevoluzione alla Chiesa dei beni dei Della Rovere148.Una ricerca di questi momenti negativi della storia arti-stica italiana sarebbe ricca di insegnamenti sulle vicen-de del rapporto centro-periferia; né andrebbero dimen-

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ticate in questo contesto le colossali dispersioni di opered’arte di cui l’Italia è stata oggetto negli ultimi cento-cinquant’anni.

28. La dinamica delle opere.

Di diverso tipo e grado può rivelarsi anche l’invio diopere dal centro. Anche qui potremo distinguere vari casi.

Prendiamo per esempio quello di Massa Marittimanel corso del Trecento. Le opere importate da Sienafurono qui uno strumento di penetrazione della culturasenese prima del definitivo asservimento della città,avvenuto nel 1336. I primi decenni del Trecento sonointeramente dominati dalle importanti commissioni arti-stiche affidate ad artisti senesi: nel 1316 i signori Novedel Consiglio di Massa fanno pressioni sull’Operaio del-l’Opera di San Cerbone perché venga portata a compi-mento la grande ancona per l’altar maggiore della Cat-tedrale, ispirata al modello della Maestà di Duccio e cer-tamente eseguita nell’atelier del grande artista senese.Nel 1324, come indica un’iscrizione, l’Arca di san Cer-bone, capolavoro della scultura gotica italiana, commis-sionata da Perucius, Operaio della Cattedrale, fu ter-minata dal maestro Goro di Gregorio, «de Senis»; qual-che anno dopo, ma forse ancor prima della conquistasenese, viene eseguita la Maestà di Ambrogio Lorenzet-ti, già in Sant’Agostino, ora in Palazzo Comunale.

Opere tra le piú significative dell’arte senese vengo-no dunque eseguite per la ricca città mineraria di MassaMarittima, che appare totalmente dominata da Sienaprima ancora che questa ne assuma il controllo politicoe che Agnolo di Ventura ne suggelli la conquista con ilnuovo apparato di fortificazioni. Diversamente da altricentri, come Volterra e San Gimignano, l’opulentaMassa Marittima, pur nell’ampiezza delle commissioni,

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non conobbe mai una tradizione artistica autonoma esubí un’egemonia culturale esterna imposta a colpi diopere di eccezionale qualità, che anticipavano il domi-nio politico. Se ci rifacciamo ai criteri di entrata in quelclub dei centri artistici italiani che abbiamo ipotizzato,sarà significativo il fatto che i vescovi di Populonia fini-scano per trovare a Massa una sede stabile solo agliinizi del xii secolo, come accade a Grosseto (anch’essadestinata a essere totalmente dominata dalla produzio-ne artistica senese) dove i vescovi di Roselle si trasferi-scono definitivamente solo nel 1138.

Prendiamo un altro caso di invio di opere semprerimanendo nel Trecento e sempre in area senese. Si trat-ta questa volta non di una città importante e ricca comeMassa, ma di quello che è oggi un umile paesetto, Roc-calbegna sulle falde dell’Amiata. La chiesa parrocchialeconserva tre tavole di Ambrogio Lorenzetti di grandequalità e questo ha indotto a interrogarsi sulle circo-stanze che indussero uno dei massimi artisti del tempoa creare un’opera di tale importanza per un borgo cosíremoto149. La risposta sta probabilmente nel valore chei senesi attribuivano al piccolo centro minerario, postoalle frontiere meridionali dello Stato, che avevano acqui-stato e rifondato alla fine del Duecento150. Il caso di que-ste tavole va dunque visto in rapporto con la creazionedi una città nuova e con lo sforzo – che si concreta innumerose agevolazioni – di farvi confluire dei cittadinisenesi, rispetto ai quali i prestigiosi dipinti di uno deisommi artisti di Siena dovevano funzionare come stru-menti di identificazione e di aggregazione. Tutto ciò vacollegato alla moltiplicazione di opere e commissioniartistiche, avvenuta nel corso del Trecento nelle città enei borghi della Maremma meridionale, da Grosseto aPaganico, nella zona cioè di recente espansione senese.

In altri casi l’invio di opere rivela e ribadisce unostato di dipendenza culturale che può coincidere con una

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dipendenza economica o politica. Nella chiesa parroc-chiale di Calvi in Corsica un grande polittico che ornal’altar maggiore è firmato da Giovanni Barbagelata, «deJanua» (un repertorio dei casi in cui il luogo d’originesegue nella firma il nome dell’artista, confrontato con iluoghi di destinazione delle opere potrebbe fornire indi-cazioni assai utili). I documenti ci informano che il polit-tico fu commissionato da due cittadini di Calvi, che lovollero eseguito a somiglianza di quello dipinto da Gio-vanni Mazone nel 1465 per Santa Maria di Castello diGenova151. Significativo è il prestigio esercitato dall’o-pera piú antica (un caso analogo a quello delle copie fattesul modello del quadro del Ghirlandaio a Narni di cuisi è parlato) e il fatto che il prototipo sia genovese e chedella commissione venga incaricato un pittore genove-se. In questo momento l’isola è politicamente ed eco-nomicamente dominata da Genova, ma la subordina-zione culturale può durare anche quando si interrompequella politica. Di ciò testimoniano in Sardegna gli inviidi opere pisane (sculture, polittici, campane)152 che con-tinuarono anche quando l’isola fu stabilmente nelle manidegli Aragonesi, ma non ancora lambita da quella cir-colazione mediterranea «gotico - ispano - napoletana» dicui conserva significativi documenti153. Questo ancoradocumentano le opere pisane o genovesi frequenti inSicilia nel corso del Trecento, cosí come quelle venetedel Tre e Quattrocento nelle Puglie.

29. La dinamica degli artisti

Parallelamente alle opere, ma talvolta, come vedre-mo, in senso opposto, possono muoversi gli artisti.Occorrerà tuttavia distinguere le situazioni. L’esten-dersi del dominio veneto non sembra per esempio avercondotto a una sottomissione culturale generalizzata.

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Potremo utilizzare per la pittura negli stati di terrafer-ma della Serenissima quanto è stato detto a propositodella persistenza a Verona nel Settecento di una cultu-ra letteraria locale:

È una tradizione letteraria municipale che quattro seco-li di dominazione veneziana non riescono a ridurre confor-me né tanto meno succube a quella della capitale Venezia[...]. Ho detto che quattro secoli di dominazione veneziananon riescono a piegare Verona, ma sia ben chiaro che nonci fu mai, da parte di Venezia, il proposito di piegare...154.

Questo non significa che dal Cadore, dalle rive delBrenta o dell’Adige non affluissero artisti a Venezia, mapiuttosto che non vennero distrutte, al contrario, lecondizioni di un’attività locale.

In altri casi invece rimarranno in loco pittori di mode-sta levatura, che potranno trovare lavoro nelle commis-sioni di un pubblico non elevato. Un pittore corso comeMaestro Antonio di Simone di Calvi firmerà nel 1505un polittico per la chiesa di Cassano (presso Calvi)155,mentre come abbiamo visto per la parrocchiale di Calviil polittico dell’altar maggiore era richiesto a Genova.Talvolta, mentre maestri locali attendono a certe pro-duzioni tipiche – quale per esempio la pittura di soffit-ti – le opere su tavola giungono da lontano. È un casoche si presenta a Palermo nel Trecento quando «MastruSimuni pinturi di Curigluni», «Mastru Chicu pinturi diNaro» o «Mastru Darenu» palermitano dipingono il sof-fitto dello Steri, mentre Bartolomeo da Camogli o Nic-colò da Voltri da Genova, Jacopo di Nicola, TurinoVanni e tanti altri da Pisa inviano tavole e polittici perchiese e oratori156.

Situazione tipica degli artisti delle aree periferichesarà quella di essere attirati dal centro politicamente ege-mone. È questo il caso di Niccolò di Lombarduccio di

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Vico, uno dei maggiori artisti attivi in Liguria nel Quat-trocento, che era originario della Corsica e per questoappunto conosciuto come Niccolò Corso; o ancora delgeniale maestro Tuccio d’Andria «de Apulia» che dipin-ge nel 1487 un trittico per la Cattedrale di Savona conlo sposalizio di santa Caterina (i rapporti con il Medi-terraneo occidentale furono probabilmente facilitati dal-l’origine provenzale dei signori di Andria, i Del Balzo);di altri artisti pugliesi come Reginaldo Piramo di Mono-poli che illustra manoscritti a Napoli e a Venezia157; ditanti calabresi, come il miniatore Cola Rapicano, l’ar-chitetto Francesco Mormando, il pittore Marco Cardi-sco, piú tardi, fra Sei e Settecento, di Mattia Preti o diFrancesco Cozza158; di siciliani come il messinese Ago-stino, detto Sarrino a Genova nel 1400, o Pavanino daPalermo nella seconda metà del secolo nel Salernita-no159. Questo per non parlare dei due piú celebri emi-granti siciliani, Antonello da Messina e Francesco Juvar-ra. In questi due ultimi casi Venezia alla fine del Quat-trocento e Torino agli inizi del Settecento fornisconodelle basi da cui i modelli proposti potranno avere unadiffusione italiana o addirittura europea.

Altre circostanze possono spingere gli artisti a pren-dere la fuga in direzione opposta a quella del centro poli-tico: è quanto accade, per esempio, a Pisa dopo la con-quista fiorentina. Diversamente da quanto era avvenu-to nei centri di terraferma occupati da Venezia, una granparte dei pittori pisani lascia la città e ripara a Genova.Il loro numero è tanto rilevante che un’assemblea del-l’arte dei pittori genovesi nel 1415 – dove su venti par-tecipanti tre sono genovesi e ben nove pisani – decidedi modificare lo statuto della corporazione per favorirei maestri forestieri che vengono a lavorare nella città160.

Un altro esempio da prendere in considerazione inquesta tipologia sommaria, sarà quello degli artisti chedal centro si spostano verso aree che piú che periferiche

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potrebbero chiamarsi subordinate. Lasciando da parte ilcaso dei senesi che non solo mandano opere ma anchevanno a lavorare nel corso del Trecento a Massa, a SanGimignano, a Paganico ecc., degli esempi su vasta scalavengono dall’attività dei veneziani nelle città di terra-ferma tra Quattro e Cinquecento e dall’autentico rushdei pittori lombardi in Liguria dopo che Genova si eraposta sotto la protezione viscontea nel 1421. Si tratteràin quest’ultimo caso di assicurarsi le migliori commis-sioni – e posizioni – in un centro che è economicamen-te un gigante, ma culturalmente (e politicamente in que-sto momento) un nano. Del resto il caso di Genova nelTre e nel Quattrocento è anomalo rispetto alla fisiono-mia di centri artistici quali Firenze, Siena o Venezia: conle massicce e ripetute penetrazioni di artisti stranieri,pisani, piemontesi, lombardi, configura un caso di cen-tro-relais dove si raccolgono e da cui vengono trasmes-se e amplificate esperienze diverse.

3o. La dinamica dei committenti.

Restano i committenti. Anche qui nella casistica sipropone, come nel caso delle opere, un grado zero, quel-lo del totale esautoramento di un gruppo di committenti.Cosí avverrà a Casale Monferrato, quando GuglielmoGonzaga succede all’antica dinastia dei Paleologi e segnacon la sua politica la liquidazione di certi gruppi socialicittadini e di una tradizione pittorica che a essi si appog-giava, tradizione che riprenderà poi, ma in direzioneaffatto diversa161. Casi simili potranno presentarsi aUrbino162 e in altri centri italiani.

Un diverso caso sarà quello dei committenti, prove-nienti da un centro importante, che lasciano tracce delloro passaggio in periferia. Sono vescovi, luogotenenti,governatori, abati commendatarii che si compiacciono di

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commissionare per la loro temporanea sede opere cherivelino la loro origine, i loro viaggi, la loro elevata posi-zione sociale e culturale. I frutti di questo zelo mecena-tesco cadranno un po’ come meteore, fuor d’ogni con-testo e d’ogni svolgimento o attesa locali. Sarà questo ilcaso del ferrarese Philos Roverella che torna dal Conci-lio di Trento nel 1545 alla sua diocesi di Ascoli Picenoportandosi dietro uno degli artisti piú in vista della cortedel principe-vescovo di Trento: il friulano MarcelloFogolino, cui chiede di decorare con scene bibliche ilproprio palazzo vescovile163. Non diverso – per la suaextracontestualità – sarà il caso di chi, nativo di un’a-rea periferica, assurga a grandi onori in una capitale,come avviene a tanti prelati, medici, burocrati, giuristinel corso del Sei e del Settecento. Può accadere checostui si preoccupi di inviare al paese natio una o piúopere che testimonino del suo amor patrio, del suo gustoavvertito, della sua riuscita sociale. Avviene cosí cherisiedendo a Cento come governatore intorno al 1636-37uno spoletino, alto funzionario papale, frequenti assi-duamente lo studio del Guercino, ne acquisti le opere,ne faccia anche dono a una confraternita della suapatria164.

Vi sono ancora altre situazioni: quella per esempio dicommittenti periferici che attraverso le loro scelte testi-moniano di una subordinazione culturale nei confrontidel centro. Un esempio tipico in questo senso, ed estre-mamente sintomatico per strutture di tipo feudale comequella della Calabria, è quello della committenza deiSangineto, signori di Altomonte165. Filippo di Sangine-to trovandosi nel 1326 a traversare la Toscana al segui-to di Carlo di Calabria, ordina il San Ladislao di Simo-ne Martini e un polittico di Bernardo Daddi. Piú tardiun membro della stessa famiglia, situandosi questa voltaa rimorchio delle scelte di Ladislao di Durazzo, ordineràa Napoli un polittico con storie della Passione all’ano-

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nimo maestro detto di Antonio e Onofrio Penna. Neidue casi le scelte dei Sangineto seguono quelle degliAngioini di Napoli, nei due casi le opere commissiona-te vengono a raccogliersi nella chiesa di Altomonte, sededel potere feudale dove si ha una grande concentrazio-ne di simboli culturali rispetto al deserto del territoriocircostante. La disparità nella distribuzione dei beni ela loro eterogeneità denunciano una situazione non soloperiferica ma addirittura coloniale, che si ripeterà a Teg-giano, il feudo dei Sanseverino che ai confini della Cam-pania domina il Vallo di Diano, o a Galatina nel Salen-to dove Raimondello Orsini del Balzo e sua moglieMaria d’Enghien fondano e fanno decorare dalle piúdiverse équipes di pittori la chiesa-santuario di SantaCaterina166.

Questa subordinazione culturale verso il centro sipuò manifestare anche in committenti che appartengo-no ad altri gruppi sociali. Assai significativo è quantoavviene in una ristretta zona della montagna di Norciadove si incontra una singolare concentrazione di quadrifiorentini tardo-gotici o rinascimentali, da Giovanni delBiondo a Neri di Bicci, a Piero di Cosimo, a FilippinoLippi. Tali presenze fitte e singolari, che finiscono percomporsi in un contesto abbastanza omogeneo, si spie-gano con il rapporto, prolungato nel tempo, tra un grup-po di paesi di questa zona appenninica e Firenze, dovei montanari umbri erano tradizionalmente impiegaticome facchini alla dogana167. I rapporti economici tra ipaesi di emigrazione periferici, e il luogo di lavoro cen-trale, hanno dato luogo a una forma di sudditanza cul-turale.

Un ultimo esempio verrà dalla Puglia, dove i centridella costa adriatica sono segnati dalla concentrazione diopere venete che vanno dal Tre al Cinquecento (sosti-tuite poi dalla penetrazione di opere napoletane), cheaccompagnano la presenza militare, politica, commer-

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ciale di Venezia168. Ad acquistare opere venete sonospesso ordini religiosi: il polittico di Jacobello di Bono-mo del Museo di Lecce proviene dalla chiesa delle mona-che benedettine di San Giovanni Evangelista di Lecce;il San Pietro martire di Giovanni Bellini della Pinacote-ca di Bari, dalla chiesa domenicana di Monopoli; Savol-do e Pordenone dipingono quadri per la chiesa france-scana di Terlizzi. Ma il prestigio di Venezia è grande intutti i gruppi sociali: e mentre Muzio Sforza, un lette-rato di Monopoli, dedica un poema al Tintoretto, Loren-zo Lotto riceve, il 16 giugno 1542, Alouise Catalanomercante di Barletta, inviatogli da «li homine di Juve-nazo» a ordinare un trittico per la loro chiesa di SanFelice169.

31. La Chiesa dopo Trento.

La ristrutturazione centralizzatrice e burocratica degliStati territoriali e la riorganizzazione della Chiesa dopoil Concilio tridentino implicano, nel corso del Cinque-cento, nuove forme di dominazione del centro sulla peri-feria che si manifestano in un accresciuto processo ditipologizzazione e di codificazione delle immagini170 edelle architetture: processo che è sollecitato, ma nellostesso tempo rivelato dal crescere della letteratura trat-tatistica. In un periodo piú prossimo a noi, nella Ger-mania guglielmina, un preciso regolamento imponevache nei centri di meno di cinquantamila abitanti gli uffi-ci postali fossero in stile «Rinascimento tedesco», men-tre le grandi città di piú di centomila abitanti dovevanoavere uffici postali romanici171. Ora, se la minuta casisticadei trattati della Controriforma non prevedeva un ricor-so differenziato agli stili storici, essa tendeva però acostruire una tipologia gerarchica distinguendo e pre-scrivendo soluzioni e registri particolari a seconda che la

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chiesa fosse cattedrale, collegiata, parrocchiale, succur-sale o monastica, e l’oratorio fosse o no destinato allacelebrazione della messa. D’altra parte la costituzione diluoghi deputati di formazione come le accademie, il cuisistema si impone nel Settecento, ha un suo rilevantepeso specifico nell’assicurare un preciso controllo cultu-rale. Tuttavia la codificazione della tipologia e la cen-tralizzazione dell’insegnamento avranno anche effettiopposti a quelli di una meccanica estensione di una sortadi conformismo periferico, facilitando la circolazione diesperienze internazionali e la conoscenza di un piú vastorepertorio. Ne offre un esempio l’opera di Bernardo Vit-tone, una delle piú grandi e geniali figure del Settecen-to europeo, che, pur lavorando quasi esclusivamentenella provincia piemontese, intento essenzialmente allacostruzione di pievi di paesi e di oratori campestri, pro-pone soluzioni innovatrici che dialogano con le piú avan-zate esperienze europee.

Attraverso i mutamenti che si verificano nella forma-zione degli artisti e nella circolazione delle informazio-ni, il Settecento assiste a profonde modificazioni dellestrutture culturali, del loro funzionamento e addiritturadel loro quadro di riferimento geografico. L’inserirsidella provincia piemontese nella problematica architet-tonica dell’area alpina europea ne è un segno tangibile:ma questa favorevole situazione non è generalizzabile.

Il 14 settembre 1755 un architetto periferico, certoLorenzo Daretti, scrive da Ancona al Vanvitelli per chie-dergli l’autorizzazione a continuare la costruzione dellachiesa degli Agostiniani, e cosí umilmente si presenta:

Dopo il ritorno in questa città d’Ancona mia patria distudi debolmente fatti sulla architettura, avendo occasionedi fare debolmente diverse picole fabriche, le quali annoincontrato qualche sorte di compatimento...

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Risponde superbamente da Napoli l’architetto delcentro:

Incognito si rende a me il Suo nome, come ella stessa dice,e molto piú incognita mi si rende la sua capacità nell’Archi-tettura, mentre quando io venni in Ancona, niuno ve neritrovai, anzi né pure nella Provincia. In questa città peròritrovai un gran numero di desiderosi di apprendere questafacoltà al mio studio; ma poi riconoscendone le difficoltà conpiú sano consiglio stimarono meglio seguitare il comodo, l’o-zio e li divertimenti compresi, che darmi l’incomodo di sof-frirli in casa mia a studiare; né d’allora a questa parte ho avutogiammai notizia, che niuno siasi approfittato in questa diffi-cilissima scienza, che tutte le altre scienze raccoglie172.

32. I conti con l’Europa.

Se nel Settecento l’arte e la cultura italiane avevanoconosciuto una larga circolazione europea, una voltamorti Piranesi e Canova nessun artista italiano vide piú,per molto tempo, la sua opera assurgere in Europa alrango di modello. Il momento successivo fu quello diuna lunga eclissi, che del resto già da tempo si annun-ciava. Con la metà del Seicento si era chiusa un’età plu-risecolare. Per una simbolica coincidenza lo stesso anno(1665) in cui Poussin muore a Roma vede a Parigi il fal-limento del progetto di Bernini per il Louvre. La crisiprofondissima della società italiana, e piú ancora ladebolezza della corte romana nel quadro complessivodelle potenze europee impediscono ormai che un para-digma artistico complessivo si imponga a partire dallapenisola come era avvenuto in un passato non troppolontano, quando tale era il prestigio artistico ed extrar-tistico di Roma, capitale della cristianità (e sia pure diuna cristianità cattolica di nome ma non di fatto) da assi-

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curare il successo mondiale dei due paradigmi che qui sierano, in conflitto, sviluppati. Fu questo il caso prima,di Raffaello e di Michelangelo, piú tardi dei Carracci edi Caravaggio: il paradigma apparentemente vittoriosoe la sua alternativa. Ciò non si ripete piú: potrannoemergere tutt’al piú codici settoriali come quello dei«Vedutisti», legato alla posizione privilegiata che l’Ita-lia aveva nel grand tour. Una riprova del perdurare diquesta situazione è data dalle vicende del paradigmaneoclassico. Se le sue radici erano italiane, solo in partei suoi protagonisti possono dirsi tali. Si ebbe anzi laparadossale situazione di artisti stranieri operanti aRoma abbastanza isolati dalla vita artistica locale delpresente, e intenti piuttosto a cercare nei monumenti delpassato le chiavi di un nuovo avvenire. Qui l’anglosviz-zero Füssli elabora le premesse del suo stile visionario,qui studiano e lavorano inglesi come Barry o Runci-man, svedesi come Sergel, danesi come Abildgaard e poiThorvaldsen, americani come Benjamin West, svizzericome Abraham-Louis Ducros, francesi come Jacques-Louis David. È a Roma che viene dipinto e per la primavolta esposto al pubblico (1784) il manifesto della nuovapittura, il Giuramento degli Orazi di David: ma qui, mal-grado la curiosità suscitata, l’opera non ha che scarserisonanze. Roma non è piú, in questo momento, il cen-tro propulsore che era stata nel passato, né la si può defi-nire un centro relais: piuttosto, una sorta di centro fan-tasmatico dove si concentrano i desideri, le attese e iprogetti di tanti artisti stranieri. Appena un mese primadella presa della Bastiglia, David non si rassegna a unaParigi che gli appare periferica, e, incoraggiandolo arimanere in Italia, confessa all’allievo Wicar:

In questo povero paese sono come un cane buttato inacqua contro la propria volontà, che annaspa per arrivarealla sponda e non annegare173.

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Se per gli stranieri l’Italia è un passato in cui si scor-ge il futuro, il rapporto con l’antichità degli artisti ita-liani di questo periodo è ben lungi dall’essere dramma-tico e dirompente. Dopo la morte di Piranesi, che nellaricognizione delle rovine romane e nelle Carceri avevacreato prototipi di interpretazione sublime e visionariadella colossale grandezza dell’antichità, nessun italianoaveva saputo seguirne la strada. In un certo senso il para-digma neoclassico finirà per guadagnare l’Italia solo dirimbalzo, attraverso l’egemonia politica e militare primaancora che artistica della Francia napoleonica. Neglianni della Restaurazione permangono ancora i differen-ti centri regionali, rinforzati dalla presenza delle acca-demie che avevano dato struttura istituzionale alle diver-se scuole regionali, ma la loro tenuta è assai differen-ziata. Parma o Modena, Lucca o Mantova sono ormaidefinitivamente al rimorchio dei centri maggiori, Vene-zia attraversa una crisi assai profonda che si prolun-gherà per decenni, mentre Milano accanto a quello poli-tico di capitale del Lombardo Veneto rafforza il suoruolo culturale. È a Milano, appunto, che viene a sta-bilirsi il veneziano Francesco Hayez, Nestore impertur-babile che dominerà il paesaggio artistico lombardo findopo l’8o, ricevendo le commissioni dei patrioti lom-bardi, i certificati di buona condotta dell’imperatored’Austria e le onorificenze del regno d’Italia. Torinomantiene i suoi legami privilegiati con la Francia, ma inun clima mortificato e bigotto dove un GioacchinoSerangeli, dopo esser stato allievo di David e aver rice-vuto dalla Convenzione l’incarico di incidere la grandeicona rivoluzionaria del Marat assassinato, finisce perdipingere una Vergine che appare a san Bernardo per l’ab-bazia di Hautecombe, ricostruita da Carlo Felice comemonumento dinastico sabaudo. Grazie alla presenza diimportanti colonie artistiche straniere, Roma, Firenze oNapoli perpetuano rapporti ancora intensi con le cultu-

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re transalpine, ma (analogamente a quanto avviene nellalingua letteraria, come mostra il caso di Carducci) siincontrano serie difficoltà a piegare i linguaggi artistici,dove particolarmente forte è la permanenza di struttu-re del passato, ai nuovi concetti e ai nuovi contenuti. Siassiste nei centri italiani a una sorta di esaurimento deicodici, a un’incapacità di rinnovarli.

In questa situazione di ritardo, di onnipresenti ipo-teche del passato, si apre con l’unificazione politica ilproblema dell’unificazione linguistica dell’arte italiana.Il processo si avvertirà innanzitutto a livello tematicocon il moltiplicarsi e il diffondersi di una comune ico-nografia patriottica che celebra la recente storia italia-na, dalle imprese garibaldine alle guerre di indipenden-za alle imprese coloniali, in cui si trovano impegnati arti-sti di diverse origini culturali e geografiche: lombardi,veneti, toscani, meridionali. Un’altra tematica unitaria,non celebrativa ma critica, fu quella dell’inchiesta socia-le: anche qui artisti di diversa origine si danno a illu-strare le realtà nascoste e oscure del paese, cercando digiungere a una sorta di inchiesta antropologica che pre-senti gli aspetti peculiari, anche i piú oscuri, delle sin-gole culture e regioni. Ma in entrambi i filoni il comu-ne impegno tematico è accompagnato dalla ricerca diuna unificazione anche linguistica, solo parzialmentesoddisfatta dalla diffusa esigenza realistica. Si riaffer-mano i particolarismi locali: da un lato i centri tradi-zionali, come Venezia riemersa dopo una crisi di decen-ni, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli; dall’altro,le regioni dimenticate, come l’Abruzzo di Michetti, chesi presentano per la prima volta alla ribalta.

Si precisano i rapporti con l’Europa: e si tratta, quasiesclusivamente, di rapporti con gli artisti, i critici e imercanti che gravitano attorno ai Salons ufficiali, noncon i gruppi più avanzati e di punta. In un periodo diurti di classe, di tensioni ideologiche, di lotte di para-

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digmi quale fu l’Ottocento questa scelta è particolar-mente grave. Quando l’emergere delle avanguardiesegnerà in Francia la crisi dell’arte dei Salons, moltiartisti, e addirittura molti centri artistici italiani, si tro-veranno completamente emarginati. Un caso esemplareè quello della scuola napoletana che, fiancheggiata eincoraggiata a livello internazionale dai vari Goupil,Fortuny, Meissonier, finisce per sparire dal panoramaartistico europeo. Le tappe di questa vicenda sono note:dai limpidi paesaggi della scuola di Posillipo all’apertu-ra dei Palizzi verso la Francia, dall’ambiguo realismosimbolico di Domenico Morelli alla breve parentesi della«scuola di Resina», per finire con il tocco impastato e ilustrini del Mancini, artista dal grande successo europeo,«occhio acutissimo, ma ineducabile». Non è difficileravvisare le cause degli incidenti di percorso e degli esitifinali di questo progressivo slittamento: un aggiorna-mento su esperienze francesi mal selezionate e maleintese, una perenne tendenza al compromesso tra realtàe idealizzazione, verità e simbolo, una arrendevolezzaalle attese sia di un pubblico europeo di grosse disponi-bilità finanziarie e di gusto facile, sia di mercanti inter-nazionali alla ricerca di virtuosismi tecnici e di sfoggi dimestiere. Il tutto nella cornice del crescente decadereeconomico della città.

Gli equivoci di cui è intessuta questa vicenda sonoriassunti nella biografia di Vincenzo Gemito, in poten-za uno dei grandi scultori europei del suo tempo. Constraordinaria efficacia e immediatezza questi da un latorappresenta una galleria di pescatori, di scugnizzi, di«malatielli», ricercando nel bronzo con virtuosismo glieffetti dei capolavori ellenistici; dall’altro fa il ritrattodi Fortuny, ammira incondizionatamente Meissonier eottiene un gran successo ai Salons. La lunga crisi psico-logica che lo tiene segregato per oltre vent’anni puòessere vista come lo sbocco del divario tra attese e rea-

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lizzazioni, tra doti tecniche eccezionali e mancanza diorizzonti stilistici adeguati. Per evitare di cadere nelbozzettismo Gemito cerca un correttivo nella grandetradizione: ma il suo tentativo disperato di rivaleggiarecon i bronzi ellenistici del Museo di Napoli ha un mar-chio inconfondibile di autosegregazione provinciale. Aun eccezionale livello Gemito esemplifica l’allontanarsidella cultura artistica napoletana dall’Europa moderna.

Roma e Milano divengono in breve i due centri ege-moni: Roma è la sede delle principali istituzioni cultu-rali del regno, a Milano nasce il primo mercato d’arteitaliano che fiancheggia, o addirittura promuove, l’e-sperienza divisionista. Segantini e Pellizza da Volpedosono, verso la fine del secolo, pittori di piglio, livello eproblematica non provinciali, e quanto avvenne traMilano e Roma in questi anni di aspirazioni libertarie esocialiste, di speranze vaste come quelle che premononel lento, imponente avanzare del Quarto Stato, il «gran-de quadro» che chiude la pittura italiana dell’Ottocen-to, ha segno e qualifica europei, piú forse di ciò cheseguirà quando a Milano, attorno al programma di Mari-netti, il movimento futurista si proporrà di ricondurrel’arte italiana nell’ambito delle esperienze piú modernedell’Europa, anzi di porla addirittura alla testa di que-ste. In un certo senso il futurismo, figlio, al pari delfascismo, di una industrializzazione ritardata174, puòessere visto come un caso esemplare di «scarto periferi-co» e ciò può contribuire a spiegare il successo che hariscosso in Europa, specie laddove certe proposte e certiatteggiamenti non erano piú possibili. La sua moderno-latria ottimista e provocatoria era difatti immaginabilesolo in un paese in cui la rivoluzione industriale fosseappena agli inizi175; la sintesi dinamica e dissonante diesperienze europee recenti, magari contraddittorie (dalpointillisme, all’espressionismo, al cubismo), impensabi-le ove queste esperienze avessero conosciuto un organi-

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co svolgimento. Si aggiunga a questo che i futuristi,mentre proponevano una politica e un’azione di gruppo,privilegiavano l’aspetto eroico e demiurgico dell’opera-re artistico, rigettando nell’ombra la moderna proble-matica delle «arti applicate» che pure era stata già daalcuni in Italia correttamente intesa.

L’esaurimento della prima ondata futurista, lo spo-starsi a Roma del centro del movimento, la breve sta-gione della pittura metafisica alterano ancora la geogra-fia dei centri artistici italiani. Il tentativo futurista dicreare un asse Milano-Roma fallisce. I decenni succes-sivi, fino alla caduta del fascismo, vedono il risorgere ditendenze municipali, piú o meno legate alle esperienzeeuropee: dai Sei torinesi al gruppo milanese di Corren-te, dalla scuola romana di via Cavour alle esperienze soli-tarie di Rosai a Firenze, di Morandi a Bologna. Il poli-centrismo italiano si rivelava, ancora una volta, piú fortedi ogni tentativo accentratore.

Policentrismo o poliperiferia? Si potrebbe applicarea questo dilemma un celebre passo di Lewis Carroll:

Se mi parli di «collina», – la interruppe la Regina, –potrei mostrarti colline in confronto alle quali questa potre-sti chiamarla vallata. – No, non potrei, – esclamò Alice [...].Una collina non può essere una vallata. Sarebbe un con-trosenso176.

Di fatto il problema della cultura italiana, non solofigurativa, continua a essere in questo periodo quello delrapporto con l’Europa. Questa Europa ha una capitale,Parigi: ma si tratta di una capitale in larga misura fanta-smatica, isolata da una storiografia non meno settaria diquella vasariana.

Ma fare i conti con l’Europa significa, per l’Italia,fare i conti col proprio passato. Con una tradizione cosíprestigiosa irrimediabilmente alle spalle, è impossibile

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non sentirsi periferici. L’uscire dalla periferia presup-pone quindi il fare i conti con la tradizione, col museo.E qui emergono le due proposte piú radicali, quella deifuturisti e quella di De Chirico: bruciare il museo oallontanarlo in una luce ironica e sublime.

1 Cfr. y. lacoste, Géographie du sous-développement, e partico-larmente l’Avertissement critique et autocritique de la troisième édition,Paris 1976.

2 Il recente e positivo moltiplicarsi delle indagini sul territorio, testi-moniato dalle campagne per il rilevamento dei beni artistici e culturalidell’Appennino emiliano promosse dalla Soprintendenza di Bologna, dalrilevamento dell’Appennino pistoiese da parte della Soprintendenza diFirenze, dalle ricerche sulla pittura del Sei e Settecento in Umbria a curadi una équipe della facoltà di Magistero di Roma, e da numerose mostrequali Arte in Calabria (Cosenza 1976), Arte a Gaeta (Gaeta 1976), Opered’arte a Vercelli e nella sua provincia (Vercelli 1976), Valle di Susa. Artee storia dall’xi al xviii secolo (Torino 1977), potrà permettere in avve-nire indagini piú precise sui rapporti tra centro e periferia. È mancatatuttavia in Italia per molto tempo una riflessione e una discussione suimetodi, i limiti e le possibilità della geografia artistica, quale si svolgein Germania da oltre un cinquantennio. Su ciò si veda: k. gerstenberg,Ideen zu einer Kunstgeographie Europas, Leipzig 1922; d. frey, DieEntwicklung nationaler Stile in der mittelalterlichen Kunst des Abendlan-des, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Gei-stesgeschichte», xvi, 1938, pp. 1-74; p. frankl, Das System der Kun-stwissensehaft, Brünn-Leipzig 1938, pp. 893-939; h. lehmann, Zur Pro-blematik der Abgrenzung von Kunstlandschaften dargestellt am Beispiel derPo Ebene, in «Erdkunde», xv, 1961, pp. 249-64; r. hausherr, Ueber-legungen zum Stand der Kunstgeographie, in «Rheinische Vierteljahr-sblätter», xxx, 1965, pp. 351-72; d. frey, Geschichte und Probleme derKultur und Kunstgeographie, in «Archaeologia Geographica», iv, 1965,pp. 90-105; gli interventi di r. hausherr, g. von der osten, p. piepere altri, in Der Mittelrhein als Kunstlandschaft, in «Kunst in Hessen undam Mittelrhein», 1969, Beiheft 9, pp. 38 sgg.; r. hausherr, Kunst-geographie – Aufgaben, Grenzen, Möglichkeiten, in «Rheinische Vier-teljahrsblätter», xxxiv, 1970, pp. 158-71 e il catalogo dell’esposizioneKunst um 1400 am Mittelrbein, Frankfurt 1975, in cui i problemi dellageografia artistica sono visti in rapporto alle situazioni sociali e politi-che, anziché stemperati in una mitica e unitaria Kunstlandschaft.

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3 k. clark, Provincialism, «The English Association PresidentialAddress», London 1962, p. 3.

4 Grande la fortuna della coppia centro/periferia nelle scienzesociali, analizzata sia da chi, come e. shils (Center and Periphery. Essaysin Macrosociology, Chicago 1975) ha dato la preferenza a una sorta ditopografia del consenso, sia da chi (e se ne veda una rassegna in n.mckenzie, Centre and Periphery: The Marriage of Two Minds, in «ActaSociologica», xx, 1, 1977, pp. 55 sgg.) ha invece messo l’accento sullaconflittualità. d. chirot, in uno studio recente su una società periferi-ca, la Valacchia (Social Change in a Peripherical Society. The Creation ofa Balkan Economy, New York 1976) ha d’altra parte rimesso in discus-sione l’applicabilità del modello basato sulla sequenza di fasi economi-che comunemente ammessa per le società periferiche. In questo sensoil problema potrebbe essere posto anche per la storia dell’arte.

5 l. lanzi, Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle artifin presso al fine del xviii secolo, a cura di M. Capucci, 3 voll., Firen-ze 1968-74, I, 5-7 (tranne in caso di indicazione diversa, le citazionidal Lanzi saranno d’ora in poi riferite senz’altro a questa edizione,indicata come segue: lanzi, piú il numero del volume e quello dellapagina).

6 id., La storia pittorica della Italia inferiore o sia delle scuole fio-rentina senese romana napolitana compendiata e ridotta a metodo..., Firen-ze 1792, pp. 9 e 37.

7 Su questa edizione, apparsa a Bassano, si basa l’edizione criticacit. di M. Capucci.

8 Cfr. g. p. bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni,a cura di E. Borea, Torino 1976, p. 330.

9 Cfr. g. mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Maruc-chi, Roma 1956, I, pp. 108 e seguenti.

10 Cfr. g. g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di Lettere sulla Scultu-ra, Pittura ed Architettura, VI, Milano 1822, p. 65; b. cellini, La Vita,a cura di G. Davico Bonino, Torino 1973, pp. 469-70.

11 lanzi, I, 20.12 Cfr. u. segrè, Luigi Lanzi e le sue opere, Assisi 1904, p. 179;

lanzi, III, 469.13 lanzi, I, 455.14 Ibid., 259.15 Ibid., 26o. 16 Ibid.17 Ibid., 261.18 Ibid., III, 235.19 Ibid., II, 185-86. 20 Ibid., I, 43.21 Ibid., II, 185.

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22 Ibid., 94.23 Ibid., 105-6.24 Ibid., I, 403. E si vedano anche le osservazioni su Piacenza, in

cui si dichiara che la mancanza di scuole locali è positiva per una cittàsecondaria (II, 254).

25 Ibid., 4.26 Ibid., 431-32.27 Ibid., 7.28 Questa edizione manca nella bibliografia ragionata a cura di M.

Massi posta in appendice a a. ferguson, Saggio sulla storia della societàcivile, a cura di P. Salvucci, Firenze 1973, che registra (p. 337) tradu-zioni francesi, tedesche e svedesi dell’Essay, ma nessuna italiana.

29 lanzi, I, 283-84.30 Cfr. ferguson, Saggio sopra la storia cit., II, pp. 222 sgg.31 Cfr. lanzi, La storia pittorica della Italia inferiore cit., p. 179.32 id., I, 245.33 j. winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi,

Roma 1783, II, p. 164 n.34 ferguson, Saggio sopra la Storia cit., II, pp. 74-75.35 lanzi, I, 15. Sul concetto di «società civile» vedi la voce di m.

riedel, Gesellschaft, bürgerliche, in Geschichtliche Grundbegriffe, a curadi O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, II, Stuttgart 1975, pp.719-800.

36 lanzi, II, 224.37 lanzi, I, 14o e n. 2. Vedi anche s. settis, Qui multas facies pin-

git cito (Iuven. IX, 146), in «Atene e Roma», n. s., XV, 1970, pp.117-21.

38 lanzi, II, 47-48.39 Ibid., 70, 107, 89-90, 121-22, 168 e 200.40 Cfr. c. dionisotti, Culture regionali e letteratura nazionale in Ita-

lia, in Lettere italiane, XXII, 1970, p. 142.41 Cfr. g. previtali, Teodoro d’Errico e la «questione meridiona-

le», in «Prospettiva», ottobre 1976, n. 3, pp. 17-34; id., recensionea l. g. kalby, Classicismo e maniera nell’Officina meridionale, ivi, gen-naio 1976, n. 4, pp. 51-54; g. previtali, Il Vasari e l’Italia meridio-nale, in Il Vasari storiografo e artista. Atti del Congresso nel IV cente-nario della morte (Arezzo-Firenze, 2-8 settembre 1974), Firenze 1976,pp. 691-99; id., La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame,Torino 1978.

42 Cfr. e. sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Storia d’ItaliaEinaudi, I. I caratteri originali, Torino 1972, pp. 176-77.

43 Per quanto segue, cfr. e. gabba, Urbanizzazione e rinnovamentourbanistici nell’Italia centro-meridionale del i secolo a.C., in Studi classi-ci e orientali, XXI, 1972, pp. 73-112; id., Considerazioni politiche ed eco-

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nomiche sullo sviluppo urbano in Italia nei secoli ii e i a. C., in Helleni-smus im Mittelitalien, a cura di P. Zanker, Abh. d. Ak. d. Wiss. in Göt-tingen, II, Göttingen 1976, pp. 317-26; c. violante, Primo contribu-to a una storia delle istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centrosettentrionaledurante il Medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Miscellanea Histo-riae ecclesiasticae, V (Colloque de Varsovie... sur la cartographie ecc.),Louvain 1974, pp. 169-204.

44 Cfr. g. tibiletti, La romanizzazione della valle padana, in Arte eciviltà romana nell’Italia settentrionale dalla Repubblica alla Tetrarchia,Bologna 1964, I, pp. 27-36.

45 Cfr. l. salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento, Firenze1961, pp. 3-35; e vedi già id., L’unità della storia d’Italia, in «Pan», I,1933-34, pp. 357-72.

46 L’espressione è di E. Sestan (si veda il rinvio bibliografico nelparagrafo successivo).

47 Si vedano in proposito i volumi pubblicati delle Rationes deci-marum.

48 Cfr. e. sestan, La città comunale italiana dei secoli xi-xiii nellesue note caratteristiche rispetto al movimento comunale europeo, in XIe

Congrès International des Sciences Historiques, Rapports, III, Stockholm196o, pp. 75-95, in particolare p. 85.

49 Si veda per esempio quanto avviene a Losanna alla fine del xiisecolo, allorché il canonico Enrico «Albus», agendo a nome del capi-tolo in quanto intendente della fabbrica, licenzia i maestri chiamati dalvescovo Ruggero di Vicopisano: cfr. m. grandjean, La cathédrale deLausanne, Lausanne 1977, pp. 46 sgg.

50 Ma piú spesso da artigiani in strettissimo contatto con il pro-prio pubblico. Cfr. s. ottonelli, L’artigianato ligneo nelle Valli Occi-tane Piemontesi, in «Quaderni storici», 1976, n. 31, pp. 280 sgg.

51 Opere d’arte a Vercelli cit., p. 5.52 Le opere di G. Vasari con nuove annotazioni e commenti di G.

Milanesi, Firenze 19o6, III, 586 sg. (le altre citazioni dalle Vite delVasari saranno d’ora in poi riferite a questa edizione, indicata comesegue: vasari, piú il numero del volume e quello della pagina).

53 «La città di Pisa mi donò a Castel di Castro, mi diresse alla Ver-gine Madre e mi eresse in questo tempio»: d. scano, Storia dell’arte inSardegna dall’xi al xiv secolo, Cagliari-Sassari 1907, pp. 292 sg.

54 c. brandi, La Regia Pinacoteca di Siena, Roma 1933, pp. 135sg. Per la pala del Carmine cfr. id., Ricomposizione e restauro dellaPala del Carmine di Pietro Lorenzetti, in «Bollettino d’Arte», xxxiii,1948, pp. 68 sgg. Un caso interessante di opere divenute rapidamenteobsolete e perciò relegate in periferia è quello delle «armille» dellacoronazione di Federico Barbarossa (oggi al Louvre e a Norimberga)che l’imperatore mandò al Gran Principe Andrej Bogoljubskij a Vla-

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dimir: cfr. a. buehler, Zur Geschichte der deutschen Reichskleinodien,in «Das Münster», n. 27, 1974, pp. 4o8-9.

55 vasari, V, 221.56 Ibid., VI, 18.57 Ibid., 123.58 Ibid., 550.59 Ibid., 571.60 Ibid., IV, 374.61 Ibid., VI, 461.62 Ibid., 457.63 Ibid., 472 sg.64 Ibid., V, 151.65 Ibid., VI, 463.66 Ibid., V, 211. 67 Ibid., VI, 5 sg.68 Ibid., VII, 50.69 Ibid., VI, 38o.70 Ibid., V, 634.71 Ibid., VII, 420.72 Ibid., VI, 517.73 Ibid., V, 214-15. Ma vedi f. zeri, La sortita anticlassica di Cola

dell’Amatrice, in Diari di Lavoro, Bergamo 1971, pp. 74 sgg.74 Ibid., 198.75 Ibid., 203.76 Ibid., VI, 123.77 Ibid., II, 413. 78 Ibid., V, 177. 79 Ibid., 212. 80 Ibid., 150.81 Ibid., 151.82 Ibid., II, 453 sg.83 Ibid., III, 189.84 Ibid., VII, 282.85 Ibid., IV, 11-13.86 Cfr. b. toscano, La fortuna della pittura umbra e il silenzio sui

Primitivi, in «Paragone», xvii, marzo 1966, n. 193, pp. 3 sgg. Senzavoler dare una bibliografia esauriente, che sarebbe assai lunga, deglistudi recenti sulla pittura trecentesca umbra, sarà opportuno ricorda-re che sulla traccia della nuova apertura con cui R. Longhi ha affron-tato il problema della cultura figurativa umbra di quel periodo nel corsofiorentino 1953-54 (cfr. La pittura umbra della prima metà del Trecentoattraverso le dispense redatte da Mina Gregori del corso di Roberto Longhinell’anno 1953-54, in «Paragone», xxiv, luglio-settembre 1973, nn.281-83, pp. 3 sgg.) si sono avuti negli ultimi anni interventi sempre piú

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fitti, particolarmente da parte di M. Boskovits, P. P. Donati, G. Pre-vitali, P. Scarpellini, B. Toscano, C. Volpe, F. Zeri, grazie ai quali lasituazione può essere valutata nella sua grande complessità.

87 c. b. cavalcaselle e j. a. crowe, Storia della pittura in Italia,X, Firenze 19o8, pp. 83 sgg., nota 3 e p. 117 nota i.

88 b. toscano, Bartolomeo di Tommaso e Nicola da Siena, in «Com-mentari», XV, n. s., 1964, pp. 37-51; vedi anche g. chelazzi dini,Lorenzo Vecchietta, Priamo della Quercia, Nicola da Siena, in Jacopo dellaQuercia tra Gotico e Rinascimento, Firenze 1976, pp. 203 sgg. Sul com-porsi di un sistema di formule stilistiche da parte di certi maestri pro-vinciali, sulla loro cristallizzazione e successiva chiusura verso nuoviaggiornamenti, si vedano le osservazioni di F. Zeri a proposito di unanonimo pittore umbro del Quattrocento, il «Maestro di Eggi», in TreArgomenti Umbri, in «Bollettino d’Arte», xlviii, 1963, pp. 40-45.

89 a. morini, Cascia. Chiesa delle Capanne in Collegiacone, in «Ras-segna d’arte», IX, 1909, pp. 173-74; g. sordini, Gli Sparapane da Nor-cia. Nuovi dipinti e nuovi documenti, in «Bollettino d’arte», iv, 1910,pp. 17-28; a. morini e p. pirri, Una sconosciuta dinastia di artisti umbri,in «Arte e Storia», 1911 e 1912; p. pirri, Di una tradizione pittorica inNorcia, ivi, 1914, pp. 321-29; c. verani, Gli affreschi quattrocinque-centeschi nella chiesa di Santa Maria Apparente a Capanne di Colle Gia-cone presso Cascia, in «L’Arte», LXII, 1963, pp. 41-58 e 289-92.

90 a. moretto, Indagine aperta sugli affreschi del Canavese, Saluzzo1973, pp. 9 sgg.

91 a. lange, Notizie sulla vita di Giacomo da Ivrea, in «Bollettinodella Società piemontese di archeologia e di belle arti», xxii, 1968, pp.98-102.

92 Cfr. a. raineri, Antichi affreschi nel Monregalese, Cuneo 1965;g. romano, Documenti figurativi per la storia delle campagne nei secolixi-xvi, in «Quaderni storici», 1976, n. 31, pp. 134 sg. Sui molti ciclitardo-gotici a carattere piú o meno popolareggiante, spesso commis-sionati da comunità rurali o alpestri, confraternite, piccolo e medioclero, localizzati nell’area alpina occidentale, eseguiti per lo piú da mae-stranze itineranti che continuano a servirsi per un lungo periodo deimedesimi schemi, si vedano: m. roques, Les peintures murales duSud-Est de la France, Paris 1961; e. brezzi, Precisazioni sull’opera di Gio-vanni Canavesio. Revisioni critiche, in «Bollettino della Società pie-montese di archeologia e di belle arti», xviii, 1964, pp. 35 sgg.; a. gri-seri, Jacquerio e il realismo gotico in Piemonte, Torino 1965, passim; c.gardet, De la peinture du Moyen Âge en Savoie, II, Annecy 1966; z.birolli, Il formarsi di un dialetto pittorico nella regione ligure-piemonte-se, in «Bollettino della Società piemontese di archeologia e di bellearti», xx, 1966, pp. 115 sgg.; e. rossetti brezzi, Momenti della pittu-ra piemontese, ivi, xxv-xxvi, 1972, pp. 35 sgg.; g. romano e a. f. pari-

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si, catalogo della Mostra del Gotico nel Piemonte centro-occidentale,Torino-Pinerolo 1972; g. romano, voce Giovanni Canavesio, in Dizio-nario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 728 sgg.; Valle diSusa cit.

93 cavalcaselle e crowe, Storia della pittura in Italia cit., X, pp.112 sgg.; l. mortari, Opere d’arte in Sabina dall’xi al xvii secolo, Roma1957.

94 a. rizzi, Un pittore rinascimentale in Lucania, Simone da Firenze,in «Napoli Nobilissima», IX, 1970, pp. 11 sgg.; id., Altre opere luca-ne di Simone da Firenze, in «Antichità viva», XV, 1976, n. i, pp. 11sgg.

95 i. faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 1970, p. 19.96 v. casale, g. falcidia, f. pansecchi e b. toscano, Ricerche in

Umbria, I, Treviso 1976.97 Ibid., p. 44.98 j. burckhardt, Der Cicerone, Basel 1855, p. 78o, riportato nel

Commento antologico alla fortuna critica del Trecento bolognese, in «Para-gone», i, 1950, n. 5, p. 25.

99 b. berenson, The Central Italian Painters of the Renaissance, NewYork - London 1909, p. v; cfr. toscano, La fortuna della pittura umbracit., p. 26, nota 7.

100 r. longhi, Tracciato Orvietano, in «Paragone», xiii, 1962, n.149, p. 4.

101 vasari, III, 386.102 Ibid., 89 sg. 103 Ibid., V, 103 sg.104 Cfr. p. junod, Transparence et Opacité, Lausanne 1976, parti-

colarmente pp. 50-52 e 3o6-7.105 vasari, VI, 270. Sul problema Pontormo-Dürer come è impostato

dal Vasari cfr. w. friedlander, The Anticlassical Style, in Mannerism andAnti-Mannerism in Italian Painting, 2a ed. New York 1957, pp. 3 e 25; k.hermann-fiore, Sui rapporti fra l’opera artistica del Vasari e del Dürer, inIl Vasari storiografo e artista cit., pp. 701-15.

106 r. longhi, Officina ferrarese, in Opere complete di Roberto Lon-ghi, V, Firenze 1956, p. 151.

107 vasari, VI, 267.108 j. bony, The Resistance to Chartres in Early Thirteenth-Century

Architecture, in «The Journal of the British Archaeological Associa-tion», xx-xxi, 1957-58, pp. 35-52.

109 Cfr. t. s. kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Tori-no 1969.

110 vasari, V, 161 sg.111 Cfr. p. p. donati, Per la pittura pistoiese del Trecento, I, in

«Paragone», xxv, 1974, n. 295, p. 5.

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112 l. bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, p.73. Per illuminare questo ambiente di fronda giottesca, cfr. c. volpe,Frammenti di Lippo di Benivieni, in «Paragone», xxiii, 1972, n. 267, pp.3-13 e Ristudiando il Maestro di Figline, ivi, XXIV, 1973, n. 277, pp. 3-23.

113 l. grodecki, Architettura gotica, Milano 1976, pp. 151 sgg. 114 bellosi, Buffalmacco cit.115 donati, Per la pittura pistoiese del Trecento, I cit.; II, in «Para-

gone», xxvii, 1976, n. 321, pp. 3-15.116 dionisotti, Culture regionali cit., p. 137.117 Cfr. l. bellosi, Moda e cronologia. B) Per la pittura del primo

Trecento, in «Prospettiva», ottobre 1977, n. 11, pp. 14 sg.118 Cfr. h. kreuter-eggemann, Das Skizzenbuch des «jaques

Daliwe», München 1964, particolarmente alle pp. 27, 44 e 65.119 A proposito della decorazione della Cappella di San Marziale

nel Palazzo dei Papi scriveva E. Müntz, cui si deve il ritrovamento negliarchivi vaticani del nome di Matteo Giovannetti: «Dal punto di vistadell’armonia del ritmo e dei canoni decorativi è impossibile immaginareun insieme piú urtante, piú sgraziato». Sulla lunga riserva nei confrontidell’opera avignonese del Giovannetti cfr. e. castelnuovo, Un pitto-re italiano alla corte di Avignone, Torino 1961, pp. 54 sg. e 139 sg.

120 Sulle équipes internazionali al lavoro in Avignone cfr. ibid. e pas-sim; e. kane, A document for the fresco technique of Matteo Giovannet-ti in Avignon, in «Studies. An Irish Quarterly Review», inverno 1975.

121 Cfr. quanto osserva R. Longhi a proposito degli affreschi diAndrea Delirio (Primizie di Lorenzo da Viterbo, in «Vita Artistica»,1926) laddove denuncia «quell’antica confusione per cui un “interna-zionalista” poteva essere posto sullo stesso piano di un “rinascimenta-le”, o, con aggravante mentale, esser ritenuto, con pregiudizio evolu-zionistico, passibile, anzi desideroso di volgersi alle forme del Rina-scimento. In verità la divertita “composizione del mondo” degli “inter-nazionali” bastava a se stessa, era una visione figurativa e perciò spi-rituale in sé perfettamente completa, ed incapace, dico aliena dall’a-spirare alla sintesi, alla profonda analogia naturalistica del cosiddettoRinascimento. Andrea Delirio avrebbe potuto vivere cinquant’anniancora, senza che il suo mondo artistico gli dovesse apparire fallace,senza che il desiderio potesse sorgergli, insomma, di tramutarsi inLorenzo da Viterbo» (ora in Opere complete di Roberto Longhi cit., II.Saggi e ricerche, Firenze 1967, I, p. 61).

122 Opere di Defendente o della sua bottega furono anche com-missionate oltralpe: ve ne sono nella Cattedrale di Embrun, nella chie-sa abbaziale di Hautecombe o nella Cattedrale di Saint-Claude nelloJura (per quest’ultimo caso si veda a. chastel e a. m. lecoq, Le Réta-ble de Pierre de la Baume à Saint-Claude, in «Monuments et Mémoires»,Fondation Eugène Piot, lxi, 1977, pp. 165-204).

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123 m. perotti, Il Giudizio michelangiolesco di Madonna dei Boschidi Boves, in «Cuneo provincia granda», agosto 1964, n. 2.

124 Cfr. a. boschetto, La Collezione Roberto Longhi, Firenze 1971,tav. 31.

125 Come si vede particolarmente in talune predelle della chiesa diSan Giovanni ad Avigliana. Cfr. l. mallè, Fucina piemontese: Sodomagiovane, Gaudenzio, Defendente Ferrari, Gerolamo Giovenone, in «Bol-lettino della Società piemontese di archeologia e di belle arti», n. s.,viii-xi, 1954-57, pp. 63-64.

126 f. cortesi bosco, in I Pittori Bergamaschi, I. Il Cinquecento, Ber-gamo 1975, pp. 49 e 56; id., La letteratura religiosa devozionale e l’ico-nografia di alcuni dipinti di L. Lotto, in «Bergomum», lxx, 1976, n. 1-2,pp. 3 sgg.

127 l. dolce, Dialogo della Pittura, in Trattati d’arte del Cinque-cento, a cura di P. Barocchi, I, Bari 196o, p. 181.

128 l. lanzi, II, 53-54.129 Ne scriverà B. Berenson (Lorenzo Lotto, London 1901, p. 236),

evocando Manet e Degas e qualificandola «perhaps the most “modern”picture ever painted by an old Italian master».

130 Ibid., pp. 243 sgg.; g. fabiani, Un mancato allievo di L. Lotto,Simone de Magistris, in «Arte cristiana», xliii, 1955, pp. 159 sg.; p.zampetti, I pittori di Caldirola, relazione al Congresso C.N.R. di Sto-ria dell’Arte, Roma 1978.

131 Cfr. il saggio introduttivo di a. emiliani nel catalogo dellaMostra di Federico Barocci, Bologna 1975, particolarmente pp. xxix sg.

132 bellori, Le vite cit., p. 32.133 r. longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze

1946, p. 18.134 Un intelligente ritratto-tipo del pittore provinciale tra Cinque

e Seicento si troverà nel saggio di b. toscano, Andrea Polinori o la pro-vincia perplessa, in «Arte antica e moderna», 1961, n. 13-16, pp. 300sgg. Sui problemi della selezione culturale quali si presentano a un pit-tore provinciale che venga in contatto con un centro artistico impor-tante si veda, per un periodo precedente, l’analisi condotta da F. Zerisulla pala con la Santa Famiglia, santi e angeli del Conservatorio diSanta Maria degli Angiolini a Firenze, in Eccentrici fiorentini - II, in«Bollettino d’Arte», xlvii, s. IV, 1962, p. 318. Per altre osservazionisu analoghi problemi di acculturazione al principio del Cinquecento siveda id., Una congiunzione tra Firenze e Francia. Il Maestro dei cassoniCampana, in Diari di lavoro 2, Torino 1976, pp. 75 sgg.

135 g. g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scul-tura ed architettura..., VII, Milano 1822, p. 66.

136 Ibid., pp, 94 sg. 137 Ibid., p. 77.

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138 a. momigliano, Ancient History and the Antiquarian, in «Jour-nal of the Warburg and Courtauld Institutes», xiii, 1950, pp. 285 sgg.

139 In Inghilterra la fine del Settecento è il momento del take-offeconomico e culturale della Provincia. Cfr. f. d. klingender, Arte eRivoluzione Industriale, Torino 1972; t. fawcett, The Rise of the Engli-sh Provincial Art, Oxford 1974.

140 m. schapiro, The Religious Meaning of the Ruthwell Cross, in«The Art Bulletin», xxvi, 1944, pp. 232-45; id., From Mozarabic toRomanesque in Silos, ivi, xxi, 1939, pp. 312-74, ora in m. schapiro,Selected Papers. Romanesque Art, New York 1977, pp. 28 sgg.

141 a. frizzi, Memorie per la Storia di Ferrara, V, Ferrata 18o9, p.64; cfr. anche e. riccomini, Il Seicento ferrarese, Milano 1969, p. 10.

142 c. gould, Trophy of Conquest. The Musée Napoléon and theCreation of the Louvre, London 1965.

143 d. roxan e k. wanstall, The Jackdaw of Linz. The Story of Hil-ler’s Art Thefts, London 1964.

144 e. müntz, Les annexions de collections d’art ou de bibliothèqueset leur rôle dans les relations internationales, in «Revue d’Histoire Diplo-matique», viii, 1894, pp. 481-97; ix, 1895, pp. 375-93; x, 1896, pp.481-508; w. treue, Kunstraub. Ueber die Schicksale von Kunstwerkenin Krieg, Revolution und Frieden, Düsseldorf 1957; h. trevor-roper,The Plunder of the Arts in the Seventeenth Century, London 1970.

145 lanzi, III, 169.146 frizzi, Memorie per la storia di Ferrara cit., V, p. 64.147 g. baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, II, Ferrara

1846, p. 27.148 a. emiliani, Gian Francesco Guerrieri da Fossombrone, Urbino

1958, p. 42.149 e. carli, Dipinti senesi del Contado e della Maremma, Milano

1955, pp. 84 sgg.150 w. m. bowsky, The Finance of the Commune of Siena 1287-1355,

Oxford 1970, pp. 25 sgg.151 g. v. castelnovi, Giovanni Barbagelata, in «Bollettino d’Arte»,

xxxvi, 1951, pp. 211-24; f. alizeri, Notizie dei professori del disegnoin Liguria dalle origini al secolo xvi, II, Genova 1870, pp. 189 sgg.

152 c. maltese, Arte in Sardegna dal v al xviii secolo, Roma 1962.153 Cfr. f. zeri, Perché Giovanni da Gaeta e non Giovanni Sagita-

no, in «Paragone», xi, 196o, n. 129, p. 53.154 dionisotti, Culture regionali cit., p. 139. 155 g. moracchini, Trésors oubliés des églises de Corse, Paris 1959,

pp. 22 e 114 sg.156 r. longhi, Frammento Siciliano, in «Paragone», iv, 1953, n. 47,

pp. 3 sgg.; f. bologna, Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermoe la cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo, Palermo 1975.

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Storia dell’arte Einaudi 105

Page 106: Castelnuovo Ginzburg Centro e Periferia

157 m. d’elia, Catalogo della Mostra d’arte in Puglia dal tardo Anti-co al Rococò, Bari 1964.

158 f. bologna, prefazione al catalogo Arte in Calabria, ritrovamen-ti, restauri, recuperi, Cosenza 1976, pp. 6 sg.

159 f. abbate, La pittura in Campania prima di Colantonio, in Sto-ria di Napoli, IV, I, Napoli 1974.

160 f. alizeri, Notizie cit., p. 210.161 g. romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo

in una città padana, Torino 1970.162 Cfr. le osservazioni di emiliani, Gian Francesco Guerrieri da Fos-

sombrone cit. e nell’introduzione al catalogo della Mostra di LudovicoBarocci cit.

163 g. marchini, Un incontro imprevedibile: il Fogolino ad AscoliPiceno, in «Antichità viva», v, 1966, n. 1, pp. 3 sgg.

164 casale-falcidia-pansecchi-toscano, Ricerche in Umbria cit., p. 34.165 f. bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969,

pp. 173, 349; id., Prefazione a Arte in Calabria cit., p. 7.166 a. antonaci, Gli affreschi di Galatina, Milano 1966.167 a. fabbi, Artisti fiorentini sul territorio di Norcia, in «Rivista

d’Arte», xxxiv, 1959, pp. 109-22; id., Preci e la Valle Castoriana, Spo-leto 1963.

168 r. cessi, Venezia, le Puglie e l’Adriatico, in «Archivio Storicodelle Puglie», viii, 1966, fasc. 1-4, pp. 53-59; m. s. calò, La pitturadel Cinquecento e del primo Seicento in terra di Bari, Bari 1969 .

169 p. giannizzi, Una pala dipinta da Lorenzo Lotto per la cattedraledi Giovinazzo, in «Arte e Storia», xii, 1894, p. 91.

170 Cfr. s. marinelli, in La pittura a Verona tra Sei e Settecento, cata-logo della mostra, Verona 1978, p. 35.

171 n. pevsner e altri, Historismus und bildende Kunst, München1967, p. 89.

172 e. rufini, Ricerche sull’attività del Vanvitelli nelle Marche, in«Atti dell’XI Congresso di Storia dell’Architettura. Marche, 6-13 set-tembre 1959», Roma 1965, pp. 466 sg.

173 Lettera di David a Wicar del 14 giugno 1789. Riprodotta in d.e g. wildenstein, Documents complémentaires au catalogue de l’œuvrede Louis David, Paris 1973, pp. 27 sg.

174 g. moore barrington jr, Le origini sociali della dittatura e dellademocrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno,Torino 1966.

175 m. schapiro, Nature of Abstract Art, in «Marxist Quarterly»(New York), I, n. 1, gennaio-marzo 1937.

176 l. carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Spec-chio, Torino 1978, p. 142.

Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società

Storia dell’arte Einaudi 106


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