Date post: | 11-Mar-2016 |
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S T E FA N O BON A C C I
In copertina:Fronte: Autoritratto con trappola (opera censurata), 2006Retro: Matrice, 2007
Crediti fotograficiBarbara Castellani (pag.4)Carlo Cantini (pag.7-56-57)Micaela Battistoni (pag.46)Luigi Vai (pag.36)Michael Shaw (pag.73)Sergei Sviatchenko (pag.28-29-63-74-75)Stefano Bonacci (tutte le altre)
RingraziamentiVictoria valavanisGiuliano MacchiaMoreno OraziFranco TroianiLiana CoràMuseo Pecci PratoVittoria MazzoniMichele Castrini
Progetto grafico e impaginazioneStefano Bonacci
StampaTipografia
ISBN
© Stefano BonacciPer i testi e le immagini gli autori
www.stefanobonacci.com
6 Lo spazio, lo sguardo, la naturaAldo Iori
31 Uscire da Piero. Solo l’emozione resisteGianluca Poldi
49 Spazi della cattedrale interioreConversazione tra Bruno Corà e Stefano Bonacci
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5
Lo sguardo, lo spazio e la natura
Una formazione inquieta e curiosa
Lo sguardo posto sulle pagine di un libro rinnova oggi i lega-
mi con gli eventi visivi vissuti. Questi giacciono nella memoria
dell’osservatore privilegiato e si riaccendono allorquando
qualcosa di nuovo è donato e si aggiunge all’esperienza della
visione. Dopo anni di osservazione è sempre più necessario
ripercorrere i tempi, soffermarsi sui particolari e analizzare i
nessi e le evocazioni che determinano le ragioni di un percor-
so. Così ciò che sembrava mancante appare più completo e
ciò che si giudicava intuitivo acquista la forza di una precisa
volontà.
Da poco più di un decennio Stefano Bonacci propone opere
che spaziano in ampi settori dell’arte contemporanea con
un’inusuale determinazione e costanza. Già negli anni della
formazione accademica perugina le sue scelte formali appa-
rivano indicative della volontà di voler costruire un percorso,
operando delle scelte che aprissero nuove formulazioni e rin-
novassero possibilità. Nella prima metà dei Novanta ciò pare-
va, come in parte anche oggi, non poter aprire prospettive a
un giovane che non praticasse con maestria una facile legge-
rezza di pensiero e un disinvolto uso di mezzi tecnici amma-
lianti e necessariamente omologanti tout court di una qualità.
La presenza in accademia a Perugia di docenti intenzionati a
focalizzare, sui quesiti piuttosto che sulle immediate risposte,
l’attenzione di studenti che si affacciavano al giacimento cul-
turale della storia dell’arte (Bruno Corà) o alle questioni della
pittura (Antonio Gatto prima e Sauro Cardinali poi) diviene una
buona occasione di crescita per un folto gruppo di giovani tra
i quali vi è Stefano Bonacci. Il luogo di formazione fornisce
possibilità di confronto con artisti ospiti, con altri docenti par-
ticolarmente attenti e con altri colleghi più esperti. In città
alcune associazioni culturali e gallerie tengono alto il livello del
Aldo Iori
dibattito e propongono un rapporto ‘vis à vis’ con l’arte con-
temporanea. I giovani che iniziano a cimentarsi in gruppo o
singolarmente, anche con caparbietà, presunzione e autono-
mia, sembra vogliano verificare la possibilità di elaborazione e
progressione di ciò che con curiosità osservano, studiano e di
cui sono testimoni. In questo clima Stefano Bonacci acquisi-
sce pronta coscienza che per la sua formazione sono neces-
sari ampi respiri di pensieri differenti e costanti evasioni dal
territorio umbro. In quest’ottica sono comprensibili la scelta di
un corso presso la Fondazione Ratti di Como con l’artista
Allan Kaprow , l’apprendistato presso lo studio degli artisti
Remo Salvadori e Renato Ranaldi, la borsa di studio in Gran
Bretagna presso l’artista Chris Sacker e i rapporti personali
cercati nell’ambiente artistico non solo italiano.
Le prime esperienze espositive sono realizzate sulla soglia del
diploma sia in ambito accademico che autonomo; le opere
sembrano trovare luogo di autoconvocazione in studi fotogra-
fici, castelli abbandonati e librerie antiquarie. Le occasioni di
partecipare rispondendo a specifici inviti a mostre, che pren-
dono in esame le tendenze della nuova giovane arte, non
mancano fino al 2000 quando la sua presenza a Futurama
presso il Centro per l’Arte Contemporanea di Prato segna un
impegnativo confronto, in un’importante sede istituzionale,
con un foltissimo gruppo di colleghi. La giovane realtà artisti-
ca italiana appare in quell’esposizione variegata, interessante
per le proposte ma a volte troppo tendente al clamore e nel
complesso anche molto lontana dalla linea di pensiero che
Bonacci sta cercando di affinare attraverso la pratica di meto-
dologie rigorose seppur apparentemente disparate con un’at-
tenzione poliedrica nei riguardi delle forme, dei materiali e dei
linguaggi.
Gli anni seguenti, seppur caratterizzati ancora da una parsi-
monia di esposizioni personali, segnano tuttavia la generosità
di partecipazioni a confronti pubblici e del farsi promotore,
con altri giovani colleghi in Umbria, di situazioni associative
che con continuità propongano idee e occasioni di crescita.
Da un primo sguardo d’insieme alla produzione artistica di
6
7
Senza titolo, 2000
Bonacci appare evidente il suo interesse a operare su diffe-
renti livelli che, seppur a volte distinti, nella maggior parte dei
casi risultano continuamente intersecati l’uno con l’altro. La
natura è oggetto di specifica attenzione ed essa viene intesa
sia come fenomeno che elemento portato alla visione; il pen-
siero speculativo di riferimento investe le problematiche che
riguardano l’artificialità, il rigore metodologico, l’uso della
geometria e della proporzionalità di derivazione classico-rina-
scimentale. L’elaborazione e l’uso di tecniche disparate sono
adottate secondo le procedure d’intervento scelte a seconda
8
Forme del tempo, .2004 >
della specificità dell’opera, dalle più tradizionali all’uso della
luce del neon o all’elaborazione informatica. Infine, la questio-
ne del rapporto tra l’opera e lo spazio-tempo, nel quale viene
collocata e nel quale trova confronto con lo sguardo dell’os-
servatore, viene intesa ancora aperta e oggetto di riflessione.
La considerazione di questi fattori induce l’artista ad un
modus operandi generatore di un percorso che se a una
superficiale visione può apparire come una rimproverabile
incoerenza stilistica, diviene nel tempo elemento di forza, di
rinnovamento e di libertà. Egli è indotto così a mantenere vivi
più livelli di profondità del lavoro nel suo insieme, poiché la
linearità stilistica, intesa tout court come facile riconoscibilità
iconografica e linguistica, potrebbe essere invece nel suo
caso fuorviante e generare perdita anziché arricchimento.
Una questione naturale
Fin dai primi lavori si nota l’interesse di Bonacci a confrontar-
si con ciò che è altro da sé e che egli individua negli elemen-
ti naturali che trova, seleziona e modifica. Egli tende a osser-
vare la natura cercando di trovare in essa l’armonia che l’arte
di ogni tempo ha tradotto in opere e che il pensiero razionale
ha individuato e studiato. L’arte diviene così strumento primo
per l’osservazione e la definizione di un rapporto che condu-
ca, all’edificazione dell’opera. Questa, dopo l’alchemico per-
corso di trasformazione della materia, risulta sostenuta
anch’essa da parallele regole e processualità. Il controllo
intellettuale è rigoroso quanto talvolta empatico. L’artista,
come parte esso stesso del mondo, osserva ed è spinto
necessariamente al fare avendo come fine non l’utile funzio-
nalità meccanica né la curiosità esplorativa ma la costituzione
di un dono che contenga in sé l’immagine del pensiero sul
mondo.
Con queste premesse Stefano Bonacci inizia la sua azione di
verifica del mondo e la sua conseguente produzione di opere.
L’analisi e la raccolta catalogatoria, alla maniera di Karl
Blossfeldt, segnano il suo stupore di fronte alla continua con-
ferma di un’identità tra la forma pensata da parte dell’artista e
la forma ritrovata nel mondo vegetale e minerale. Questo pen-
siero determina opere che vanno dalla creazione nel 1995 di
un microcosmo adagiato sul tavolo anatomico della mostra
WAR al dispiegarsi nel 2005, nella mostra a Trebisonda a
Perugia, di una copiosa serie di elaborazioni formali: due
eventi lontani nel tempo ma che segnano la maturazione di un
medesimo approccio metodologico del fare artistico alla con-
dizione della natura.
Nel primo caso gli oggetti, legni, ossi, pietre, vengono ‘rettifica-
ti’, con l’intervento di fasciature o parziali ricoperture e
aggiunta di protesi che pare abbiano sia lo scopo di sottoline-
arne l’interna regola sia di creare nuovi meccanismi per la
visione. Il peso degli oggetti naturali viene calibrato e le misu-
re rilevate e il loro contatto con materiali propri di un universo
scultoreo e meccanico viene a esaltare la loro presenza.
Forme del tempo (Cerchio), 2004
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Sono corpi accuditi ed accompagnati allo sguardo con un’in-
tensità che tende a riportarli a un rapporto armonico perduto
nel loro distacco dall’universo naturale dal quale provengono.
Il richiamo a Marcel Duchamp e al suo ready made è imme-
diato (e non l’unico nell’opera di Bonacci) e su di esso si inne-
sta la volontà di un andare oltre attraverso una processualità
non evidente. Ciò che viene mostrato è solo il risultato posto
all’interno di un nuovo consesso nel quale tutte le opere si
mostrano congiuntamente le une alle altre come appunto in
un gruppo familiare. La volontà è naturalmente quella di ricon-
durre a una centralità sia dell’artefice, che svela, sia dell’osser-
vatore scientifico, che campiona ciò che ha tra le mani, lo stu-
dia, lo modifica e in questo ne rende evidenti le regole. In que-
sti gruppi risulta evidente una caratteristica delle singole opere:
l’artista la definisce come ‘vocazione all’anonimato’. Ognuna di
esse è affermativa indubbiamente di una propria presenza ma
non in quanto unicum, piuttosto quale exemplum di una molte-
plice serie di opere possibili: come ‘quella’ foglia è nella sua
bellezza indicativa della bellezza di altre molteplici foglie.
Nelle mostre più recenti egli sperimenta, con esperto control-
lo tecnico, il dilagare del colore sulla superficie di gesso, sul
foglio o sulla tela fino a raggiungere un’immagine interrotta in
un momento sospeso che rivela un’elevata tensione verso
l’idea di perfezione possibile.
Egli, anche in questi casi, presenta i risultati non singolarmen-
te ma in gruppi che nel 2004, sia a Perugia che nel castello di
San Terenzo, ricompongono la forma tonda alla quale essi
stessi nel loro singolo tendono.
Il caso è nelle cose naturali ed è spesso dettato da regole
complesse di cui si possono solo osservare i risultati.
La reiterazione dell’esperimento presuppone la conoscenza
tecnica che sovrintende la sua elaborazione per controllare o
indirizzare gli eventi. Elaborata la regola, essa viene applicata
nelle sue infinite possibilità di variazione dettate dal rapporto
tra l’apparente caso (la regola nascosta) e il controllo intellet-
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tivo; il loro potere evocativo è indotto sia nella singola pittura
sia nella soluzione aggregativa adottata. Ciò che ne risulta, sia
nel ciclo diWAR che nelle Forme nel tempo, è un nuovo corpo
quadridimensionale nel quale, come sottolineato nella recen-
te titolazione, il tempo è presente. Un tempo dell’osservazio-
ne, della meditazione sull’evento e dello sguardo al quale è
consegnato. Nature morte indubbiamente contrassegnate da
una condizione esemplare che le distacca dal mondo fisico di
appartenenza per consegnarle a una possibile metafisica più
morandiana che dechirichiana.
Il rapporto uomo natura è spesso richiamato: come nella cita-
zione del Cantico delle creature di San Francesco impressa
nell’installazione permanente Fonte a Marcellano. La sorgen-
te è luogo di vita che determina la citazione ma anche la
nascita di una forma geometrica assoluta, il cerchio nero
suprematista, non oggettivo, che richiama le profondità ine-
splorate della tenebra del pozzo.
La natura è anche oggetto e luogo da osservare da una posi-
zione privilegiata, come evento paesaggistico (caro all’arte
umbra) con il quale l’artista, e parimenti l’osservatore, deve
spesso confrontarsi. Questo aspetto è spesso annunciato
nelle opere che evocano il rapporto tra il luogo di partenza e
di arrivo dello sguardo. L’artista quando è chiamato a realiz-
zare opere in siti naturali cerca un immediato rapporto con la
natura presente che viene chiamata in causa nella sua duali-
tà uomo/natura, artificiale/naturale, terra/cielo. In queste
opere è considerata la presenza di un orizzonte e il rispec-
chiarsi della natura nell’opera stessa: nel 1998 in un castello
diroccato sul lago Trasimeno ciò avviene con Antenna in cui il
rapporto con il cosmo è richiamato da un’iconografia ripresa
dall’arte (Bruegel); nel 2000 in un orto botanico in Ortogonale,
una scala a pioli (su uno di essi è legata una pietra) evoca
l’ascendere al sacro ma anche l’iconografia della deposizione
(Rosso Fiorentino): in Ponte a San Casciano dei Bagni nel
2004 realizza un impossibile trampolino specchiante attraver-
so il quale l’osservatore è invitato a traguardare il dolce dise-
gno delle colline sull’orizzonte; in Open a Stamford una soglia
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specchiante si immerge nel verde di un giardino inglese.
Sempre più l’opera in contatto diretto con lo spazio naturale
perde la propria materialità e diviene invisibile assorbita all’in-
terno dell’immagine del paesaggio.
La definizione dell’opera parte da un problema visivo, dalla
necessità di rendere evidente il suo momento epifanico e,
mediante l’analisi degli elementi posti in gioco e la conside-
razione della presenza di uno sguardo critico, trova di volta in
volta risoluzione calibrando la forma finale nel momento spe-
cifico e nella situazione spaziale dettati dalla presenza della
natura.
Il momento è estrapolato da una sua condizione progressiva
e reso istante sospeso in una situazione spaziale che è luogo
di verifica di nuovi rapporti proporzionali assoluti.
De possibile proporzione
L’interesse per la natura lo conduce da subito a verificare
anche le forme che appartengono all’universo antropometrico.
Una testa, Head del 1997, è collocabile a metà strada tra un
manichino metafisico e un idealizzato primitivismo; essa viene
contrassegnata da cerchi concentrici che segnano la propa-
gazione centrifuga di onde ‘telluriche’ celebrali e contempora-
neamente pongono una questione di misurazione e propor-
zione. Essa genera, fino a tempi recenti, studi applicativi con-
dotti direttamente sulla propria persona come primo oggetto
di osservazione. Nei molteplici Studi (1997-2005) il proprio
volto, la propria mano, la propria testa diventano luogo di veri-
fica di quella proporzionalità pierfrancescana studiata e ritro-
vata negli elementi fossili, nei cristalli, negli organismi mono-
cellulari.
I primi lavori del 1995-99 segnano la volontà di porre in con-
tatto elementi dissimili accostabili mediante la messa in opera
di attenzioni alla preziosità sia degli elementi naturali che degli
interventi manuali. Il processo elaborativo della propria imma-
gine invece è impostato in modo più accentuato sulla consa-Piccoli studi di testa,1999
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pevole impossibilità sia a raggiungere un finale perfetto com-
pimento sia della reale inanità del compito assegnatosi di un
esercizio quotidiano su forme che dipendono solo parzial-
mente dalla volontà dell’artista e che mimano la casistica spe-
rimentale in ambito naturalistico. Il volto e la mano segnano
una temporalità del momento dettata da una realtà contingen-
te che la postura studiata, come in posizioni meditative e gin-
niche, non riesce del tutto a cancellare. Ancora esemplifica-
zioni di una possibile progressione infinita.
La costante presenza della geometria nel lavoro di Stefano
Bonacci deriva indubbiamente dallo studio dell’arte rinasci-
mentale e dall’osservazione che essa permane come fonte
inesauribile anche in molti esempi contemporanei a lui cari
(Burri, Nuvolo, Paolini, Fortuna, Sacker). Essi sono stati effet-
tuati in primis nell’accademia di Perugia nel cui corridoio d’in-
gresso di San Francesco al Prato campeggiano quattro stelle
di Sol LeWitt di un minimalismo formale e cromatico che
rimanda all’esperienza dell’arte italiana del Quattrocento ed in
particolare a Luca Pacioli.
La geometria, rilevata nelle forme naturali offerte dal mondo
esterno, permane salda e porta verso un deciso distacco dal
reale a favore di una ricerca di forme che tendano ad una defi-
nizione ideale. Poliedri, piramidi, forme circolari e cubiche
Purificazioni, 2002
14
Il Ponte, 2004
15
appaiono nel costituendo universo formale di Bonacci a
segnare momenti espositivi particolari.
Essi, riprendendo la definizione presente in De Divina
Proportione sono considerati nella duplice forma piena e
vacua. Il pieno non solo quando è forma poliedrica
(Geometrie calde, 1998) o piramidale (Dialogo, 2002) ma
anche quando è sagoma ombratile nera che si accampa sul
volto a ricercare purezze suprematiste (Piccoli studi di testa,
1999). Già 25ore (1997) presentava un volume nel quale la
semplice forma organica era risultante dall’incontro tra l’idea
e la sua lunga realizzazione manuale. In essa era lasciato uno
spiraglio a indicare lo spazio interno non più segreto di que-
Colui che osserva, 2004
18
sto bozzolo/cipresso appeso.
I solidi geometrici divengono vacui nella costituzione di forme
che paiono cercare la leggerezza, quale quella dei fiocchi di
neve, adattandosi non più alla forma del volto, ma vivendo
una loro condizione assoluta. Essi sono posati in luoghi ester-
ni come ad esempio sul pavimento di un edificio sacro a
Ravenna nel 1997, sul prato di un giardino a Parma nel 1998
o a segnare il ritmo di un loggiato a Camerino nel 2000.
Il solido diviene pretesto di una definizione armonica dello
spazio e costituisce un esempio di una proliferazione la cui
veridicità è giustificata dal pensiero che la sostiene e non più
dalla sua reiterazione infinita. L’attenzione è posta al risultato
che scaturisce sempre dal rigoroso metodo conoscitivo del
mondo e al materiale che ne evidenzia la costruzione e la per-
fezione formale.
Il pensiero scientifico sperimentale riaffiora in molti lavori di
questo genere: come nelle ampolle di vetro dal sapore labo-
ratoriale utilizzate in L’oro dei Varano nel 2000, nel quale
divengono basi per arcate filiformi che incorniciano il paesag-
gio; oppure in Purificazioni del 2002 dove l’artificio definisce
la forma che risulta compiuta ma sempre reiterabile in suc-
cessive modificazioni.
Anche nella installazione 299.792.458 kms nel Senko Studio
in Danimarca (2005) la fascinazione della scienza è sempre in
agguato nel richiamo al pensiero einsteiniano o a quello di
Olaf Roemer.
La formula scientifica E = mc2 descrive un fenomeno che
appartiene al mondo naturale e Bonacci interviene sostituen-
do al segno di uguaglianza un elemento derivato dalla storia
dell’arte che ci parla dell’idea di bellezza. Ancora una volta
l’osservazione e la trasformazione del naturale in regola e pro-
porzione universale.
Da luce delle cose a emanazione pittorica
L’installazione danese è la rielaborazione di un’opera presen-
tata precedentemente a Cipro modificata nella trasformazio-
19
L’oro dei Varano, 2000
ne della formula della relatività da segno bianco su muro nero
a scrittura in neon. In modo tautologico, in questo caso viene
ribadita l’attenzione che l’artista ha verso il fenomeno della
luce che da molti anni è presente nelle sue opere. La scelta di
materiali metallici fortemente luminosi per la loro lucidità e
possibilità riflettente è fin dai primi anni indicativa di un inte-
resse a fornire all’opera questa ulteriore possibilità. In Samurai
nel 2000 le due scale poste a contrasto tra pavimento e sof-
fitto e bloccate da una stretta legatura in ferro si accendeva-
no di luce nella presenza di una lunga barra di ottone posta a
contrasto tra di esse. Nell’installazione permanente Fonte a
Marcellano in Umbria nel 2003 la luce si rifrange sul metallo
rivelando la laude francescana in contrasto con il disco cen-
21
< Ecce ancilla domini(esterno), 2004
trale di profondo nero assorbente. Nelle opere già citate, di
San Casciano e di Stamford o nel precedente Domus Aurea
del 2000, lo specchio diviene luogo nel quale la luce solare si
riflette, come anche sui piani dei liquidi inseriti in molti altri
lavori. La presenza delle superfici specchianti genera conside-
razioni sulla rifrazione, sulla simmetria, sul ribaltamento che
conducono Bonacci a rappresentare il mondo alla rovescia
(Düsseldorf ) o a elaborare successivi sdoppiamenti che rendo-
no intelleggibile la scritta in Corpus Domini del 2005 realizzato
con petali multicolori in occasione di un’infiorata popolare.
Il ricordo e il ripensare alle opere di Fontana, Flavin, Nannucci
e Merz, ma anche dell’amico Vittorio Messina, induce l’artista
a considerare la luce come elemento linguisticamente auto-
nomo. Barre di neon, rettilinee, o che segnano la vibrazione di
un segno, prima bianche e poi di colorazione rossa, proiezio-
ni luminose sulle pareti, sulle architetture, sui corpi di danza-
tori o su oggetti vengono inseriti all’interno dell’opera quali
elementi costitutivi della stessa. Un elemento del poliedro di
Prato è realizzato in neon rosso e la notte illumina la facciata
del museo rendendosi evidente. In Cosmos a Perugia nel
2001 il neon diviene evocazione dell’energia di un fulmine che
traversa due forme perfette e in Flumini a Spoleto nel 2004 il
richiamo all’evento naturale del famoso quadro di Giorgione è
immediato e decisamente voluto.
In esperienze particolari che paiono isolate e circoscritte, la
luce è proiezione di forme e disegni sulle architetture o su fon-
dali scenografici in occasioni teatrali. La luce attraversa
l’oscurità e la forma è sempre un’elaborazione di geometrie
perfette che si ribaltano, proliferano e si autoconsumano.
L’artista piuttosto che all’effetto stupefacente e scenografico
è maggiormente interessato a porre attenzione alla luce quale
elemento che evidenzia l’epifania dell’immagine, che genera
una condizione pittorica. Questo appare chiaramente quando
la luce bianca è modificata nella colorazione rossa. L’artista
parla di “colore per riscaldare l’opera”. La luce da emanazio-
ne degli oggetti aumenta fino a invadere tutto il luogo della
22
Ecce ancilla domini >(interno), 2004 .
Ecce Ancilla Domini, 2004
visione. Il neon è nascosto sotto o dietro le cose: il piccolo
letto di REM del 2004 sembra emanare esso stesso la luce
che invade la stanza miniaturizzata, così il tavolo presente in
Giardino segreto a Spoleto nel 2002 o l’uomo posto a testa in
giù al Parkhaus a Düsseldorf del 2004.
Lo spazio-tempo e il movimento assente
Le opere più prettamente geometriche come il gruppo delle
Stelle segnando un razionale allontanamento dall’organicità
naturale presentano un sostanziale ‘raffreddamento intellettua-
le’ dell’opera assieme ad una loro vocazione più scultorea piut-
tosto che pittorica. Altre opere, anche contemporanee a que-
ste, presentano invece un interesse maggiore a dare una con-
notazione ‘calda’ intesa in senso quindi più pittorico. La volon-
tà a un avvicinamento alla pittura lo induce a una riflessione su
questa in relazione allo spazio che viene coinvolto.
L’artista è interessato non solo che l’opera sia costituita da un
singolo oggetto, o da un’aggregazione che si presenti alla visio-
ne, ma anche all’ambiente nel quale l’opera viene collocata.
La tendenza a creare luoghi nei quali la visione delle compo-
sizioni delle opere investa prepotentemente l’osservatore è
condizione sempre più ricercata. La realizzazione nel 2002, su
di una parete della galleria Aletheia, della piramide nera
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Dialogo, intorno alla quale il visitatore è costretto a deambulare,
lo inducono ad una profonda riflessione sui meccanismi della
visione e sulle posizioni di chi osserva e di cosa è osservato.
In due opere successive egli realizza due vere e proprie came-
re ottiche. A Spoleto nel 2002 in occasione dell’esposizione
collettiva De Mentis Hortis costrisce un ambiente chiuso visi-
bile solo attraverso un foro. L’osservatore è invitato a posizio-
narsi e guardare l’opera da un unico punto di vista da cui è
visibile un tavolo sul quale è posta un’ampolla e sul muro
appare la proiezione luminosa di una costruzione geometrica.
Un neon rosso sottostante il tavolo e non visibile ‘scalda’ il
fluido e tutta la stanza. A Düsseldorf nel 2004 nella mostra
personale Colui che osserva una feritoia mostra l’ambiente
espositivo completamente oscurato. Un alter ego dell’artista
è posto rovesciato e di spalle di fronte all’osservatore, una
linea bianca luminosa di orizzonte è proiettata sul muro e
passa virtualmente attraverso la linea degli occhi del manichi-
no: da esso emana una luce rossa che illumina l’ambiente.
Esternamente un video riproduce il volto di un uomo,
anch’esso rovesciato e virato in rosso. In questi due casi la
condizione di posizione esterna è ribaltata a posizione interna
al meccanismo del guardare. La luce diviene densità pittorica
che investe tutto lo spazio.
La densità dello spazio leonardesco qui si traduce in richiamo
ancora una volta al fenomeno luminoso come evento osser-
vabile scientificamente. La luce conquista lo spazio e appare
come elemento liquido nel quale gli oggetti proposti alla visio-
ne sono immersi. In un successivo lavoro realizzato nella
biblioteca di Cascia l’osservatore è esso stesso immerso in
tale densità. Lo studiolo rinascimentale, dalle forme perfette,
diviene luogo effettivo e tangibile nel quale la speculazione si
esercita e dove è presente la sapienza dei libri antichi che
rivestono le pareti. Il tempo è metafisico, sospeso in una
pneumaticità assoluta , accogliente e protettiva.
Ancora in un altro lavoro, Ecce Ancilla Domini, realizzato a
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Stella, 1998
Spello, il tubo del neon rosso attraversa la finestra spanden-
do la densità cromatica dalla stanza interna alla strada ribal-
tando anche qui le condizioni di una ‘normalità’ della visione
in considerazioni di tipo fenomenico e metafisico. Nell’invito
della mostra, che rielabora un’annunciazione di Van Eyck, il
raggio traversa orizzontalmente la composizione partendo
dalle labbra dell’angelo annunciante e giungendo agli occhi
della vergine e viceversa.
La condizione spazio-temporale che Stefano Bonacci evoca è
antitetica a quella della tradizione futurista. La stessa velocità della
luce richiamata a Viborg è data come pensiero scientifico, non
visualizzabile e non percepibile nel movimento degli ioni del neon
che percorrono le lettere e i numeri della formula di Einstein.
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Ceci n’est pas un fin
Nelle opere di Stefano Bonacci tutto appare posto in gioco
sempre più in un campo di confine tra ciò che ancora consi-
deriamo scultura e pittura, in un luogo dove le regole sono
forse più ferree e precise che altrove, per cui non sono possi-
bili fughe e facili scarti laterali. La condizione dell’arte esige
oggi più che mai nette prese di posizione per affermare anco-
ra una sua possibilità a fornire vitali quesiti e possibili rispo-
ste. Il riferirsi di Stefano Bonacci alla natura, alla condizione
della visione e della costruzione proporzionale dello spazio,
l’attenzione ai materiali e alla loro lavorazione lo pone in una
continuamente rinnovata condizione di privilegiato artefice di
sapienti alchimie visive. L’artista in questi anni sta definendo
un universo particolare di opere che continuamente ruotano
intorno a nodi e riflessioni alle quali di volta in volta è data
possibile definizione; la questione è il luogo d’interesse e non
le risposte a possibili quesiti. Non appare il fine, o la fine, a cui
i lavori tendono, in quanto non necessario, poiché se esiste
una soluzione essa è interna all’opera stessa e per questo mai
interamente scrutabile. E in questo sta l’inedita ricerca dell’ar-
tista che così si inserisce in un momento speculativo del
mondo artistico contemporaneo nel quale, lungi dal definire
l’arte per l’arte, l’opera è collocata in una condizione storica.
Le differenti soluzioni poste da Bonacci con le sue opere sono
ancora una volta momenti qualificanti di un pensiero umani-
stico alla continua ricerca della definizione della bellezza. La
storia naturalmente viene intesa non come attenzione ad
un’attualità facilmente obsolescente ma come condizione
etica dell’artista in un tempo presente. Egli si deve fare carico
della propria responsabilità a fornire continuamente visioni
possibili ed occasioni speculative allo sguardo critico dell’os-
servatore che seppur momentaneamente soddisfatto, ma mai
pago, attende ulteriori opere.
(vicino alla torre degli Sciri verso il rosso a ponente, 2006)
27
Matrice, 2007
299792,458 km/s, 2005 >
30
Studio di testa, 2000
31
Uscire da Piero. Solo l’emozione resiste
Piero è folgorante non tanto e solo nella perfezione formale,
ma nell’emozione che la sua opera suscita per quella poten-
za del gesto, anche minimo come nella Madonna del parto di
Monterchi, reso assoluto nel rigore luminoso e geometrico.
Uscire da Piero significa passare di lì. Attraversare luce e
misura – e la luce della misura – di Piero della Francesca per
entrare in una intima relazione tra rigore della geometria e
mutevolezza del paesaggio, anche biologico, rigore del gesto
pur umanissimo e umanità di sguardi pur nel tessuto matema-
tizzato di linee di fuga, punti di distanza, stereometrie. E tene-
re viva, nell’attraversamento dell’arte, nel lasciare alle spalle
come si fa per la propria madre venendo al mondo, quella
capacità emozionale che fa sintesi nell’occhio. Sintesi di
forme irregolari e regolari, anche sintesi di differenti metodi e
approcci; per non dire del tenere insieme in tutto questo il
mutare di se stessi, il crescere, lo sviluppare sensibilità e
attenzioni, passioni o distrazioni nuove, e tenere vive alcune
delle cose che ci si fanno incontro nel caso o nel destino –
poco importa – durante il percorso. Il processo del rendere
coesa la frammentarietà del reale, del rendere in una sintesi
coerente il molteplice, opportunamente classificato, interpre-
tato, mondato o perfino emendato.
Cohaerere impossibile, diciamolo subito, almeno in apparen-
za, tanto è difficile la sintesi nella contingenza e prossimità
degli opposti. E vita, lavoro di una vita.
Trovare una misura significativa, un tema forte su cui lavora-
re, su cui mettersi in moto, passando da quell’arte, dai vertici
filosofici di un Umanesimo così eclettico nelle sue passioni e
nel folle presumere di poter tenere tutto unito in un sistema,
ecco l’incipit di Stefano Bonacci. Al centro di tutto, motore di
tutto, l’occhio. La forma che l’occhio ci dà del reale.
Gianluca Poldi
32
Incipit favorito dall’adesione dell’Umanesimo italiano alla
prassi prospettica, dove prospettiva è possibilità di un cosmo
ordinato, elemento di unificazione delle forme, specchiatura
aritmetico-geometrica del reale mirante a offrire allo sguardo
una maggiore coerenza al di là della albertiana finestra da cui
si vede il mondo.
La prospettiva: fortissimo legame tra scienza – matematica e
ottica – e poesia – intesa come sguardo e storia. Discipline nel
Quattrocento e Cinquecento sapientemente ancora non
separate, parti comuni del tessuto dell’uomo.
Scriveva infatti Leon Battista Alberti: “La prima cosa nel dipin-
gere una superficie, io vi disegno un quadrangolo di angoli
retti grande quanto a me piace, il quale mi serve per un’aper-
ta finestra dalla quale si abbia a vedere l’istoria”1. Non è tanto
illusione dello spazio, come vorrà essere più tardi, non è tanto
e solo meraviglia visiva, sfondamento di spazi, teatro per gli
occhi e per i sensi, è primariamente collocazione dell’uomo
nel mondo, solido ancoraggio delle figure, dei gesti, degli
eventi, costruzione di un tutto che con la matematica innerva
le arti e il cosmo.
Tanto da poter affermare che non esiste storia – uomo – senza
spazio, e non è spazio senza piramide visiva, che dalle cose
ha vertice nell’occhio.
Anche la matematica galileiana (e per certi aspetti anche quel-
la assai più complessa, newtoniana) che si prova a regger
l’universo ha parte delle sue radici qui, nell’aver riconosciuto,
come già i greci, come il medioevo di Dante, che la geometria
è cardine, almeno descrittivo, delle forme del visibile e dei
suoi fenomeni. Nel Codice Atlantico Leonardo cita la
Perspectiva Communis di John Peckham (XIII secolo), notan-
do il sommo ruolo che ha la prospettiva nell’unire la certezza
della speculazione dimostrativa propria delle matematiche al
diletto contemplativo del vedere, a gloria della natura: “Intra li
studi delle naturali considerationi la luce diletta di più i con-
templanti; in tralle cose grandi delle matematiche la certezza
della dimostratione innalza più preclaramente l’ingegni delli
1 L.B.Alberti, Trattati della pittura e della statua. Milano 1804, pag.28.
33
2008
34
investiganti; la prospectiva adunque è da essere preposta a
tutte le tradizioni e discipline umane, ne ’l campo della quale
la linia radiosa complicata dà e modi delle dimostrationi, in
nella quale si truova la gloria non tanto della matematica
quanto della fisica, ornata co’ fiori dell’una e dell’altra”2.
L’incipit di Bonacci si mette nel solco, tra l’altro, del percorso
di grossa parte dell’arte del Novecento, a partire dall’assunto
cézanniano di una natura tutta coni, cilindri, sfere, fino alla
fedeltà visiva così forte del Giacometti post surrealista che lo
porterà a distorcere – per fedeltà alla visione – figure e forme
La casa del pittore, 1998
2 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, foglio 203r-d.
35
in un controcanto che è inevitabilmente anche esistenziale.
La misura è vicinanza e lontananza insieme. L’occhio deve
muoversi punto a punto per riprodurre nel dettaglio tutta la
forma che ha di fronte, deve ripercorrere i tratti di una linea
per figurarsi correttamente la linea. Infatti allontanarsi non
garantisce comunque di poter contenere in un solo sguardo,
ossia in una posizione fissa della pupilla, l’insieme, al massi-
mo un dettaglio di dimensioni minime.
L’occhio misura muovendosi, e muovendosi avanti e indietro,
puntando e distogliendo lo sguardo, tornando via via anche ai
medesimi temi, riponendovi la mente, proseguendo lo scavo,
dissodando. Apertamente.
L’occhio sintetizzato nella forma di Iride (1998) ha per pupilla
un vasetto rivestito di foglia d’oro, ricetto di luce ed esso stes-
so luce, forte come un’icona perché piccola pupa: possibilità
di fare abitare l’immagine, la forma del mondo, sulla retina di
chi con quell’occhio osserva. Vaso e casa. Concavità che
pare convessa. Intorno, una matassa di filo metallico che
s’approssima alla forma circolare, limitare dell’iride, confine
tra un interno e un esterno, e moto vorticoso, e segnale di un
orbitare intorno al cuore dell’occhio. Per analogia con que-
st’opera, è quasi un occhio ad essere segnato sulla sommità
della scultura Head, di un anno precedente. Centro concentri-
co irradiante come un’antenna.
La Casa del pittore (1998) si regge su elementi visivi. Sulla
vista. I dodici (3x4) cubi che come pilastri la sorreggono ai
quattro vertici inferiori portano sulle loro sei facce immagini di
opere dell’artista, che possono essere variamente disposte,
ricombinate, come termini di una grammatica, e termini di
continuo confronto. Su quelle basi viene la casa, la stessa di
Domus aurea (1997), senza pareti, completamente attraversa-
bile, solo indicati gli spigoli, la cornice d’una porta, il tetto, una
sorta di mensola interna o principio di piano intermedio.
Lavoro originario, nasce insieme alla Stella, e delle stelle in
metallo – in tubi d’ottone tenuti insieme dalla tensione del filo
Iride, 1998
Head, 1998
36
Dialogo, 2002
37
di ferro interno, strutture autoportanti quindi, particolare non
secondario – non ha né la tecnica costruttiva né l’aspetto, ma
ne ribadisce la forma aperta eppure solida. La casa è concet-
to nelle menti, alimentata dalla vista, dall’aperto dei sensi.
Luogo interiore, però aperto. Il contorno di porta, indicazione
di soglia, del lavoro specchiante Open (2005) è ancora ele-
mento di casa e – mutatis mutandis – della stella, cioè regola-
rità impiantata nel paesaggio, nella natura di un parco e quin-
di nell’artificio in cui uomo e naturale si incontrano, dettando
reciproche regole. Il rivestimento di specchi riflette il contesto
e per certi versi misura, confronta, geometria e natura, nella
grande casa dell’uomo, sopra il suolo. Era specchiante, e con
cornice dorata, anche la finestra pure detta Domus aurea del
2000, inserita dentro una vera casa. Il nesso tiene e si raffor-
za: il Ponte 2004, è piantato dentro una architettura, di cui
moltiplica frammenti sui gradini a specchio, inducendo quindi
lo sguardo a uscire verso il paesaggio di San Casciano dei
Bagni e, insieme, facendo entrare colline e cielo dentro il
costruito.
Il nucleo tematico della soglia è presente con forza nel lavoro
di Bonacci, e fa tutt’uno con quello della vista, che è di fatto
soglia come e forse più di ogni altro senso. E’ un tema spes-
so presente nelle installazioni ambientali con luce al neon,
nelle quali è stabilito un diaframma tra due spazi (interno ed
esterno) dell’opera, piuttosto che tra osservatore e oggetto
osservato. Si tratta rispettivamente dell’ambiente di un edifi-
cio connesso realmente o idealmente con un esterno (Ecce
Ancilla Domini, 2005; Croce di Cortona, 2003), e di quella
sorta di camere ottiche (Giardino segreto, 2002; Colui che
osserva, 2004) che vincolano il punto di vista sull’interno-
opera, ricordando in parte gli studi sulla corretta restituzione
del reale compiuti da Brunelleschi, da Dürer, da Canaletto e
da molti altri fino alla camera stenopeica, alla camera oscura
e alla fotografia. Il diaframma con fenditura di questi ultimi
due lavori, in particolare, distingue due luoghi e due identità,
quella dello spettatore da quella dell’artista, creando tuttavia
38
una forte intimità tra loro, facendo penetrare l’osservatore
dentro un mondo dai connotati misteriosi, ma caratterizzato
da alto rigore geometrico e spaziale. Mondo colorato di un
rosso quasi da camera oscura, luogo in cui si sviluppano e
portano a luce nuove immagini.
La straordinaria scultura Studio di testa del 2000 prosegue
con efficacia emozionale la ricerca intrapresa in tali termini
almeno tre anni prima con gli studi bidimensionali su suppor-
to fotografico. La ricopertura dipinta a maglia triangolare della
testa – calco di quella dell’artista modellato in gesso e dipin-
to – costruisce un reticolo che è una preliminare mappatura
del volto, e questo viene trattato come un paesaggio da resti-
tuire con la sua (tri)dimensionalità, secondo modalità a livello
visivo analoghe a quelle adoperate dalla moderna cartografia.
La memoria corre agli studi di teste di Piero della Francesca,
mappate con numeri in modo da consentire la corretta resti-
tuzione matematica in prospettiva, ma c’è ben altro. Il volto
inteso quale paesaggio è soglia potente in cui la geometria, in
origine misurazione della terra, diventa misurazione della
testa, della sede del pensiero, e quindi anche misurazione di
sé, del sé. E ancora, è soglia tra razionale e organico.
Il pensiero misurante e a sua volta misurato, proprio dell’es-
sere umano, incardina una delle opere summa di Bonacci, del
1999, il cui titolo Ulisse è chiaro omaggio all’uomo esplorato-
re, sempre in moto ‘verso casa’. Installazione in cui i diversi
elementi – già opere in sé – dialogano come in una sacra con-
versazione intorno all’incorniciato ovale dello Studio di testa
contenuto nella scatola aperta. Quasi un kit da viaggio, vali-
getta di strumenti dell’artista, di colui che dipinge il mondo
rivelandone rapporti su cui raccogliere lo sguardo e il senso:
accanto al chilogrammo-peso dorato un’asta piena ricorda la
misura delle distanze e la profondità, come in certi dipinti
metafisici di De Chirico e Carrà, quindi un cubo e una boccet-
ta di liquido, altra potenziale unità di misura di grandezza,
a reggere un ottaedro sormontato da una piramide equilatera,
Studio di testa, 2000
Piero della Francesca,Studio proporsionaledi testa
39
Ulisse, 1999
Scriptorium, 2003 >
42
a lato di una sorta di riga specchiante che misura invece a suo
modo lo spazio intorno, riflettendolo. Ma, ci ricorda l’artista
nei Senza titolo che riportano la celebre equivalenza einstei-
niana tra energia e massa (E=mc2) sostituendo al simbolo di
uguale un piccolo torso di Afrodite, la vera misura è quella
della bellezza – classica, in questo caso – dell’armonia, che
diventa metro e metodo di paragone.
Homo mensura rerum. In pulchritudine.
E’ evidente come la scienza, meglio forse l’imago scientiae,
occupi nell’immaginario di Bonacci un luogo poetico fonda-
mentale. Non si tratta tuttavia di un atteggiamento propria-
mente scientifico nel senso tecnico del termine, quanto sem-
mai di fascinazione: egli non studia testi scientifici né si occu-
pa di processi e risultati di quella che tradizionalmente chia-
miamo scienza, nonostante ne resti affascinato tanto da gio-
care con alcuni elementi del suo linguaggio. Più semplice-
mente e naturalmente per uno sguardo artistico, alcune
immagini del mondo scientifico che egli incontra gli sedimen-
tano nelle retine, come vi venissero fotografate. Non si tratta
cioè quasi mai di un approfondimento matematico o fisico,
ma di una acquisizione duplice: da un lato l’intuizione del
potere evocativo dell’immagine scientifica, connesso al suo
rigore formale, alla sua densità-concentrazione di senso e al
suo ruolo di rappresentazione del mondo, dall’altro la convin-
zione che il mondo non venga dalla scienza spiegato bensì
dispiegato, descritto ponendone in chiaro alcuni meccanismi,
giustificando gli effetti delle interazioni secondo un sistema
interpretativo basato su dati numerici, su quantità misurabili.
Rispetto al dato “scientifico” e alle sue interpretazioni, l’arte
non può proporre altri teoremi, può invece lavorare col proprio
linguaggio poetico per mettere in risonanza, tutt’al più aprire
piste nel senso, comunque sempre offrire forme all’occhio,
alla chimica emozionale – informulabile – dei sensi.
Offrire forme. Forme estremamente potenti, evocative, ricche
43
di nessi, liberanti dal mondo a favore di una misura interiore.
L’artista coglie la frequenza che rende l’opera risonante per
l’occhio che la contempla, o risonanti le sue parti nel tutto del-
l’opera.
Non esistono solo connessioni tra lavori legate alla forma,
siglate da elementi che talora ritornano. Esiste anche un ritmo
comune che accompagna i lavori. Ritmo proprio dell’occhio
affinato che misura, ed esprime una comune matrice nell’or-
ganizzare la forma dell’opera e lo spazio. Ritmo che precisa,
interpreta, scandisce lo spazio. Tempi Neri (2005). E la stessa
nera piramide di Dialogo (2002), che è pure piramide visiva
impossibile, altro da sé come termine di confronto.
Fertilità. Ubi amor
Scriptorium, 2003
La multiformità del percorso di Stefano Bonacci, in termini di
varietà di esiti prodotti in pochi anni, fa continuamente del-
l’occhio di chi osserva luogo della scoperta, senza che possa
facilmente appoggiarsi alla sicurezza che danno le piccole
variazioni su un tema, che pure esistono. (E nel periodo in cui
il successo nel mondo dell’arte pare soprattutto segnato dal
rendere il proprio lavoro ben riconoscibile, ed eventualmente
minimale, qui si sceglie un profilo radicalmente diverso).
La distanza formale di alcuni suoi lavori ha almeno una sca-
turigine fondamentale: una polarità che una foto di Dialogo
esemplifica, nel porre fronte a fronte artista e rigore geometri-
co del solido. Distanza è termine appropriato, perché esisto-
Grande forma, 2004
44
no almeno due poli, e due poli in costante dialogo, quel dia-
logare incessante che Bonacci mantiene vivo per tenerli insie-
me senza forzature, nella serie di atti immateriali e materiali
che costituiscono la creazione. Il polo dello spiritus geometri-
cus, da una parte, dominato dalla regolarità, dal rigore modula-
re, dall’altra quello dello spiritus naturalis, che riflette sulla natu-
ra, nel suo duplice aspetto delle forme regolari e irregolari.
Tra i due poli la tangenza fortissima è ovviamente nelle forme
più regolari che la natura presenta, sia del mondo inanimato
che di quello biologico, e vediamo con evidenza per esempio
nei cristalli, in fenomeni autoorganizzativi, nelle celle di conve-
zione, nelle lamine saponate, in microrganismi come le diato-
mee, nell’accrescimento di alcune muffe o funghi, fin nella
crescita di alcune piante, e animali, o per altri versi nella rela-
tiva regolarità su vasta scala di corpi celesti.
Per non dire delle leggi della fisica, dal micro al macrocosmo.
Dove la scommessa del dialogo è maggiore, per difetto di
somiglianza, per l’ampia lontananza, per la difformità eviden-
te alla vista di fenomeni, di esistenze, che pure vivono abitual-
mente nel nostro campo visivo, è tra il luogo della geometria,
ideale outopos strutturale, e il mondo della natura irregolare.
Mondo naturale che sa essere irregolare e fantasioso come
nelle Forme del tempo (2004), pur riproposte, ricomposte, in
profili regolari.
Irregolarità che innerva a tutti i livelli l’espressione umana. E
irregolare è il moto della mente, la prassi creativa nei suoi
spunti, nessi, attività. Perché non regolare è il moto dell’oc-
chio che cattura il procedere della luce riflessa dalle cose per
formarsi il mondo, il suo paesaggio. Irregolare è la prassi
costruttiva delle mani, sia il modellare nella creta come in Eros
(2001-2004) o nella cera come in Frattale (2001), sia tendere
un filo e attorcigliarlo per garantire la stabilità della regolaris-
sima Stella (1998) o dei Diamanti (2000), piuttosto che la
forma a nido di 25 ore (1997).
Aver visitato lo studio di Bonacci, nel corso degli anni, per-
suade sull’importanza fondamentale che riveste per lui la spe-
rimentazione di materie e (conseguentemente, ci pare) di
45
46
forme, dice di un enorme gioco del costruire – e del suo com-
plementare smontare – che è generalmente relegato all’infan-
zia e che invece fa parte strutturale della sua attività. Tanto
che spesso disfa le proprie opere, reimpiegandone parti in
altri lavori, ben sapendo che continua la loro esistenza nello
spazio di un altrove: il ricordo, la fotografia, la possibilità di
rifarle.
Curiosissima questa attitudine, che è anzitutto capacità di
incantarsi, come può avvenire nella magistrale fucina del
mago Alexander Calder tanto quanto negli studi di alcuni
inventori, o nei laboratori dove si maneggian le scienze.
Ci soccorre l’etimo latino di inventare: invenire, ossia trovare,
25 ore, 1997
47
venire incontro, e più addentro.
E, in questo, incontrando il molteplice e vario essere delle
affascinanti forme del mondo, permane il distillare. Distillare
forme come metodo operativo dentro questa polarità, misura,
modus vivendi.
Distillare. ibi oculos
Non pare esistano aspetti narrativi nel lavoro di Stefano
Bonacci, eppure esiste una costante attenzione autobiografi-
ca, posta verso i termini della propria prassi artistica e verso
la comprensione del suo specifico modo di mettersi in relazio-
ne con il mondo attraverso la vista, il tatto e il fare. Non solo,
nelle opere più marcatamente ambientali, in cui più elementi
sono in gioco, si ha a volte l’impressione di trovarsi di fronte
a un discorso interrotto, in cui l’immagine si fa quasi allegoria,
per quanto mai si abbia finora evidenza di un racconto: l’im-
magine è semplicemente folgorante come una epifania.
E’ questo il caso delle installazioni compiute tra 2002 e 2005,
da Giardino segreto a Colui che osserva, a Scriptorium, a
Ecce Ancilla Domini, a Croce di Cortona, eseguita nella Rocca
di Girifalco, sopra la città. In esse è come esser giunti sul
luogo d’un avvenimento che, pur ricco di implicazioni, di
nessi, ci resta misterioso, nel complesso inattingibile. Sempre
assenti i personaggi, le figure, lasciando a noi di occupare lo
spazio circostante, in compagnia della luce.
Si tratta di opere in cui sempre compare un elemento lineare,
luminoso, che è linea d’orizzonte, è metro e, nel solo caso di
Ecce Ancilla Domini, è linea di congiunzione di un esterno e di
un interno, cenno a un’incarnazione che inspiegabilmente,
misteriosamente, si attua nella quotidiana umiltà di una casa.
Molti sono gli indizi che questi lavori – eccettuando Colui che
osserva, che in specie ci indica il ruolo di camera ottica rive-
stito da questi spazi – possano essere attraversamenti di
altrettanti temi della storia sacra già luogo privilegiato di
espressione per generazioni di pittori. Dalla scena
dell’Annunciazione cui evidentemente si allude fin dal titolo in
Ecce Ancilla Domini, all’altare-sepolcro con il vasetto dell’un-
guento in Giardino segreto, col tavolo reso mirabilmente
sospeso dalla luce e col cristallo-stella non completato che
sfonda coi suoi profili di luce la parete di fondo, alla Croce di
Cortona, fortissimo richiamo alla scena della deposizione, con
l’audace invenzione della scala quale lignum crucis e del pro-
lungarsi della scalinata verso la finestra-oltremondo, con
duplice soglia di luce. La scala che anche in precedenza era
adoperata come misura, distanza, coniugazione di punti, di
due luoghi, qui fatta coincidere con il simbolo più alto del
mistero del Cristo finisce anche per ricordare, con ulteriore
risonanza propria di un simbolo, l’episodio del sogno di
Giacobbe, della scala angelica.
Infine, lo Scriptorium, come l’intimo spazio del San Girolamo
di Colantonio a Capodimonte o quello di Antonello da
Messina, oltre la soglia, con le parole di luce della Sibilla
Porrina che preannuncia la nascita di Santa Rita da Cascia
che incidono la coperta d’un libro. Contrappunto ad Ulisse, in
dialogo con Ulisse.
*
(Roma-Barcellona-Firenze, marzo 2006)
Croce di Cortona, 2003 >
49
50
Giardino segreto, 2002
51
Spazi della cattedrale interiore
conversazione tra Bruno Corà e Stefano Bonacci
Bruno Corà - Il ricordo che ho del tuo lavoro, il più lontano,
quello iniziale, è proprio legato all’esito degli studi.
Quell’opera che a metà degli anni Novanta eravamo stati invi-
tati a esaminare, come prova finale di tesi all’Accademia di
Belle Arti di Perugia, era composta di vari elementi nei quali
ponevi attenzione al rivestimento degli oggetti naturali, attra-
verso l’uso di stagno, piombo e legature in filo di ferro, di una
parte di essi. Quindi una natura morta, ma una natura morta
che subito metteva in evidenza l’aspetto, quasi perverso, di
volerla tutta rivestire molto tenacemente e integralmente.
Questo dato colpì un po’ tutti, me e i colleghi, e notammo che
quei lavori in cui era presente quella particolare attitudine al
rivestire facevano famiglia con un’altra serie dove c’era la pre-
senza di parti anatomiche, ossa animali, rami e pietre lavora-
te, quindi un vero e proprio repertorio di cose che portava in
evidenza l’aspetto del rivestimento. Non so se si possa parla-
re dell’atto di proteggere.
Stefano Bonacci - Evidentemente per me era un atto di prote-
zione della materia che si traduceva in questi rivestimenti, ma
anche un atto di conoscenza, quasi una meditazione sulla
natura delle cose e allo stesso tempo un atto d’amore, che in
ogni caso produceva un nuovo corpo. D’altra parte inserivo
anche degli oggetti meccanici come innestati nell’opera, che
trasformavano in qualche modo questi elementi naturali in una
sorta di macchine prive di funzione…
BC - Quindi c’era una relazione tra le parti e il tutto dell’orga-
nismo, dalla natura verso la tecnica e la tecnologia… anche
quella semplice dell’operare, del fare.
SB - Si. Operavo in maniera quasi chirurgica su questi ele-
menti naturali che io sceglievo anche per la loro forma. Il risul-
tato di tale esperienza fu mostrato in un’installazione che rea-
lizzai nel ’95 a Perugia nella mostra intitolata WAR.
52
BC - Ecco si, questo è il ricordo più “antico” che ho del tuo
lavoro.
SB - In seguito l’interesse verso la natura mi ha portato a rea-
lizzare opere in luoghi aperti e a inserire gli oggetti direttamen-
te nel paesaggio. Realizzando queste installazioni osservo
sempre una regola armonica interiore, mediante la quale la
forma del paesaggio viene ad essere continuamente verificata
dalla presenza dell’opera. Nel caso dell’Orto Botanico a
Perugia ad esempio, ho scelto di realizzare una scala di legno
lunga sei metri, che uscendo verticalmente dal terreno prose-
guiva idealmente all’infinito.
BC - Quindi, era un elemento di congiunzione tra la terra e il
cielo, l’axis mundi, e poi la scala assume la funzione di un
ponte nell’opera Ponte del 1997 … ecco allora ti domando:
questo modo di attraversare lo spazio, presente almeno in
alcuni lavori di Pascali o Ranaldi e Bagnoli, per te che senso
aveva? Il ponte, continuamente evocato nella storia dell’arte
(Die Brucke) e più recentemente nell’affermazione di Pistoletto
“congiungiamo le culture”, per te invece che senso aveva?
SB - Quest’opera Ponte del 1997 rappresenta per me il pas-
Samurai, 2001Ortogonale, 2000
53
saggio nello spazio di un’esistenza che, proveniente dal cielo,
si avvicina alla terra sfiorandola per poi tornare al cielo, men-
tre la sua forma é data dal proprio peso ed è il risultato della
forza di gravità. In un’altra opera invece, che s’intitola Samurai
del 2001, ho utilizzato due scale legandole con del filo di ferro,
creando una tensione tale per cui le scale si autosostengono
verticalmente in una compressione tra soffitto e pavimento.
L’elemento del ponte in ogni caso ritorna anche in lavori suc-
cessivi come nel Ponte che tu hai visto, nel 2005 a San
Casciano dei Bagni.
BC - In quell’occasione avevi realizzato una sorta di scala
ponte fatta di specchi …
SB - Un trampolino sul paesaggio.
Ponte, 1997
54
BC - Ma è certamente un elemento di attraversamento spa-
ziale, con tutte le sue declinazioni.
SB - Sì, un oggetto che mi interessa perché congiunge, mette
in comunicazione.
BC - Noto però uno spostamento rispetto a quello che prima
avevamo definito salvaguardia, intenzione di custodia…
SB - Sicuramente. All’inizio ho cercato un rapporto “fisico”
con la materia e con la natura, un rapporto che fosse diretto,
tattile se vuoi, con l’intenzione di proteggerla, di fasciarla, di
rivestirla. In seguito è subentrata un’osservazione che possia-
mo definire più distaccata, per cui alcuni oggetti che ho rea-
lizzato sono stati concepiti per verificare direttamente la forma
del paesaggio. Entrano in contatto con la natura attraverso il
loro dialogo formale con ciò che li circonda. In alcune mie
opere il paesaggio entra a far parte del lavoro attraverso la
riflessione, specchiandosi; in altre invece ciò avviene perché
l’opera è attraversabile dallo sguardo, come nel caso delle
stereometrie per cui ciò che è dietro l’opera diviene parte del-
l’opera o viene segnata dall’opera stessa.
BC - Un’altra cosa che mi ha colpito è l’uso delle stereome-
trie che mi sembra mettano in evidenza il corpo, inteso come
elemento dotato di misura, in tutti i sensi; da quello che può
essere il rapporto tra le dita della mano e il resto del
corpo, o anche la presenza di coordinate assiali in una
figura geometrica sovrapposta al tuo volto, come pote-
vano essere i solidi che citavi.
SB - Si, si tratta sempre di corpi, ma corpi asciugati e idealiz-
zati.
BC - Nel De Divina Proportione di Luca Pacioli vi sono, trac-
ciati dalla mano di Leonardo, volumi geometrici nell’osserva-
zione di corpo plenuum e vacuum. Mi piacerebbe che tu mi
parlassi di questo rapporto col corpo che tu investi in più casi,
come nelle mani (Disegni), oppure nel tracciato sul tuo volto,
55
con l’uso di figure geometriche piane perfette come il cerchio,
il quadrato, il pentagono. Come nasce questo rapporto ste-
reometrico col corpo?
SB - Essenzialmente nasce da una riflessione interiore sul-
l’idea di forma, sulla possibilità di realizzare, di poter far nasce-
re una forma che può essere nel tempo stabile, una forma uni-
versale che non sia intaccabile dalle contingenze storiche, una
forma capace di viaggiare nel tempo senza corrompersi, ma
contemporaneamente che sia in qualche maniera anonima.
È una riflessione sul limite della forma, in senso armonico.
Romantico geometrico, 2006
Senza Titolo , 2000
BC – Dunque una forte tensione d’idealità della forma.
SB - Posso dire che per me ha lo stesso valore dell’icona
medievale.
BC - Ci sono artisti che ritengono che la forma abbia una
valenza centrale nell’opera, altri ritengono che la forma sia un
punto conclusivo, altri ancora invece ritengono il consegui-
mento della forma un dato etico di partenza. Tu che rapporto
hai invece con questo aspetto della creazione, la forma per te
che cosa è?
SB - Per me la forma è ciò che si offre alla vista, quindi è ciò
che veramente si ottiene come risultato da ogni azione e da
ogni pensiero; però quello che si mostra alla fine è la forma
stessa e non il processo che porta alla sua realizzazione.
BC - Perché tu non consideri importante questo processo?
SB - La caratteristica implicita dell’arte visiva è di comunicare
attraverso il linguaggio delle forme, senza dover appoggiarsi a
teorie o parole, in tal caso perderebbe la sua forza che sta pro-
prio nel comunicare in diretta, alla velocità della luce. Il pro-
cesso come tutto ciò che porta all’opera è per me in ogni caso
molto importante.
BC - Certo… l’arte visiva è testimoniata dalla forma… Ma
alcuni artisti hanno prediletto la processualità al di sopra del-
l’esito finale della forma. Negli anni Settanta, soprattutto nel-
l’arte concettuale questo aspetto era molto forte; poi invece si
è tornati in alcuni casi a osservare la centralità della forma, la
prioritaria importanza della forma finale, e addirittura alcuni
artisti cancellano anche l’idea del lavoro, come se volessero
che l’opera alla fine non possedesse alcun tipo di calligrafia,
fosse venuta dal cielo, con una volontà determinata di cancel-
lare la processualità che porta alla forma; all’opposto, altri
pensano che sia molto importante rendere evidente il proces-
so che ha condotto a quella forma.
Ricordo di un’altro episodio legato all’uso di una forma pira-
Geometrie Calde , 1998
58
midale. Il lavoro realizzato a Perugia nel 2001 che tu hai chia-
mato Dialogo. Questo lavoro mi ha fatto pensare al cono della
visione, la proiezione della visione stessa, invece quale vole-
va essere la tua intenzione?
SB - Il titolo nasceva da una risposta a una mostra preceden-
te di un amico artista, Gabriele Serio, che aveva esposto nello
stesso spazio una targa in ottone con la scritta Silenzio.
BC - Internamente aveva un pretesto.
SB - Si, questo era stato il pretesto iniziale, ma tutto si è poi
sviluppato osservando lo spazio. Volevo inserire una forma
che dialogasse con gli archi presenti nell’ambiente e ho indi-
viduato il triangolo. E’ stata proprio una questione formale.
In seguito l’opera si è rivelata una piramide visiva.
BC - A proposito di geometrie solide o piane che siano, a un
certo punto si può notare una ripetuta visitazione della forma
stellare nei vari episodi che vanno da Ravenna a Parma a
Perugia… La costruzione di questi solidi stellari mediante
tubolari a suo tempo mi ha suscitato interesse, prima ancora
dell’opera che presentasti al Museo Pecci, che non era una
stella ma una costruzione icosaedrica; questa tua attitudine
mi aveva sempre incuriosito perché al Parc Lullin di Ginevra
nel 1985 Marco Bagnoli - anche per stabilire delle relazioni
ancorché anche inesistenti - aveva realizzato il lavoro Tenda,
Magnete e Campo che aveva proprio la forma di una specie
di icosaedro dentro al quale si inseriva un’asta rossa, un chia-
ro riferimento all’elemento della banda monocroma da lui
spesso usata per segnare la primitiva originaria frequenza. Dal
punto di vista puramente morfologico mi sembrava che le due
opere avessero una condivisione ideale della figura. Invece
questa volumetria, riferita ai solidi perfetti platonici, che valo-
re ha avuto per te?
SB - Come ho già detto, il suo valore sta nell’idealità e nell’ar-
monia. Peraltro questo sistema costruttivo permette sviluppi
infiniti, ma non è questo che mi interessa.
59
BC - Perché in tutto questo lavoro c’è dietro un elemento che
pulsa, una tensione verso la dimensione del classico?
SB - Perché di fronte ai classici riesco ad emozionarmi.
Davanti alla pittura classica, soprattutto quella del primo rina-
scimento, o di fronte alle sculture ellenistiche, spesso mi emo-
ziono. Riconosco una forma che risuona in me come familia-
re, a volte più che nelle opere moderne o contemporanee.
BC - Quindi l’inclinazione al classico, che si avverte e si sente
in vari passaggi del tuo lavoro, appare scontrarsi con una fili-
Disegno, 2003
60
grana che attraversa quasi tutta l’arte della seconda parte del
XX secolo e soprattutto del XXI oramai, cioè l’indeterminazio-
ne. Ovvero l’impossibilità a poter raggiungere l’organicità dei
corpi sapendo che sono gia intimamente minacciati da una
quantità di agenti esterni che non consentono di pensare
all’integrità, all’idealità, alla purezza, ecc.. Quindi l’ideale clas-
sico dovrebbe essersi “dissolto” nella nostra sensibilità con-
temporanea e invece sembra anche di no, perché se tu scrivi
E = mc2 sostituendo il segno di uguale con il corpo di un
modello classico, annetti alla bellezza un grande peso.
SB - Quest’opera, che ho realizzato per la prima volta a Cipro
Lettera, 2003
61
poi a Bari nel 2002 e recentemente al Senko Studio in
Danimarca, mette a confronto due modelli di bellezza.
BC – E come ti rapporti a questo attacco all’integrità che c’è
intorno a noi, all’idea stessa che ci possa essere ancora un’in-
tegrità, una consequenzialità, una determinazione?
SB - Si tratta di prendere una posizione e mantenerla a lungo
anche se non viene immediatamente condivisa.
BC - C’è un disorientamento che sembrerebbe essere l’attua-
le Zeitgeist, un sentimento di oggi che alcuni pensano sia
conseguente a scelte successive che ognuno di noi ha fatto.
Il tempo ha da qualche parte dei registri che sono abbastan-
za solidi. Se tu pensi alla giornata di un monaco buddista non
c’è confusione, quindi la confusione appartiene a un determi-
nato ambito dell’inquietudine delle società laiche.
Mi interessa sapere come pensi il tuo lavoro rispetto a tutto ciò.
SB - Quello che noi vediamo è sicuramente una piccolissima
parte di ciò che in realtà esiste e l’arte ha probabilmente oggi
il compito di indagare e svelare tali mondi.
Per fare questo possiamo benissimo agire dall’esterno.
BC - L’arte è qualcosa che sta fuori..
SB - Sì, per me sì. L’arte che mi piace fare, resta fuori e comu-
nica altro da quello che ci viene proposto dalla cultura cosid-
detta di massa. Non è una fuga. Per me è proprio una neces-
sità restare in questa dimensione.
BC - Alcuni artisti invece vanno ‘in diretta’, offrono la realtà
tale e quale, come sinonimo d’arte a tutti i livelli. È il caso di
alcuni tuoi coetanei, mentre altri, non della tua generazione,
usano l’arte come veicolo di presentazione della materia e
non come rappresentazione simbolica. Mario Merz usa le
fascine di legno, presenta del materiale direttamente tratto dal
reale ma non per questo è meno sognatore, meno poeta; tra-
mite l’uso della serie di Fibonacci ha un rapporto scientifico
ma anche di tipo visionario con la natura e con la realtà...62
SB - Certamente questo è un momento che m’interessa… la
possibilità di mostrare un altro mondo.
BC - La tua posizione però appare più distaccata dal reale,
come hai affermato poco fa; ritengo sia interessante come
posizione in sé e sto osservando in questo momento che non
è l’unica quella tua; anche in altri artisti della tua generazione
è netta la distanza dal reale.
SB - Una distanza che è anche una distanza propria del punto
di vista se vuoi. Una distanza che possiamo notare nel rinasci-
mento italiano che, osservavando il mondo attraverso un foro
ci ha condotti a quello che oggi abbiamo e sappiamo. Intendo
affrontare il mondo attraverso una distanza necessaria. Non è
detto che uno debba immergersi completamente nel reale.
Senza titolo, 2005
63
BC - No, questo assolutamente no. Un altro elemento che si
evidenzia dopo il periodo d’esordio, chiamiamolo così, del
lavoro, è l’impiego della luce. L’osservo in più circostanze e in
più lavori: la luce al neon riscrive la famosa formula di Einstein
nell’opera 299.792,458 Km/s, come emanazione sotto il pic-
colo letto di REM; in Cosmos, in Giardino segreto realizzato a
Spoleto nel 2002, in Croce di Cortona, in Colui che osserva e
in questo piccolo studiolo intitolato Scriptorium che ricorda il
San Girolamo nello studio nelle versioni di Dürer o di Antonello
da Messina. Insomma l’uso della luce diviene frequente:
anche nell’annunciazione di Ecce ancilla domini che tu rico-
struisci nella traiettoria dalle labbra all’occhio. Parliamo allora
di questa luce come materiale, come aspetto che si coniuga
alla velocità, alla dinamica. Mario Merz scriveva sempre i
numeri della serie di Fibonacci in neon con un trattino finale
perché diceva che i numeri vanno di corsa, c’era sempre nei
suoi lavori l’allungamento del numero, una specie di coda. A
lui piaceva mettere questi numeri con la coda, tu invece come
usi la luce e i neon?
SB - In alcune installazioni la luce funziona da filtro, fornisce
carattere allo spazio avvolgendolo in un’atmosfera che lo tra-
sforma immediatamente in pittura. Utilizzando la luce colorata
o la luce posta dietro l’oggetto ho operato sempre per ridefi-
nire lo spazio.
BC - Il colore come elemento fautore della spazialità?
SB - Il colore come costruttore e veicolo di un possibile qua-
dro, di una possibile pittura spaziale. Lo spazio diventa un
luogo “altro” da quello vissuto quotidianamente. Osservando lo
spazio invaso da una luce colorata si entra nella dimensione
pittorica molto più facilmente. Ho anche utilizzato la luce nel
senso del calore, per “scaldare” le strutture che a me appari-
vano troppo fredde, come nell’opera esposta al Museo Pecci
di Prato. Lì ho sostituito uno degli elementi modulari con un
neon rosso: la notte illuminava sia il corpo della scultura che
l’edificio del museo. Questo creava anche un’atmosfera, uno
spazio, un mondo, un’energia che avvolgeva il corpo stesso.< Open, 2005
65
C’è poi anche una riflessione sul fatto che la luce sia il mezzo
attraverso il quale la forma si fa immagine.
BC - Il problema della luce tuttavia, con altri esiti, è presente
anche in tutte le opere che hanno una struttura specchiante:
la porta Open, la scala Ponte. Naturalmente lo specchio è vei-
colo di riflessione della luce, oltre che dei corpi. La presenza
della luce è fondamentale, qui però essa assume una valenza
diversa: luce come sprofondamento.
SB - Si, certamente gli specchi trasformano la realtà in pura
luce. Sappiamo e intuiamo che il soggetto osservato non è la
realtà ma il suo riflesso. Lo specchio ci da la misura della
inconsistenza del mondo. C’è una leggerezza nei lavori con gli
specchi per cui ogni corpo perde peso e ci appare etereo.
Forme del tempo, 2004
66
BC - Questo è molto vero e si può notare in molti casi che l’ar-
te ci propone.
Mi riferisco non solo all’esperienza dei quadri specchianti di
Michelangelo Pistoletto ma alla più recente Cabanne éclatée
aux quatres salles realizzata a Villa Celle da Daniel Buren,
un’architettura in mezzo allo spazio che aveva proprio come
esito questo alleggerimento, sfondamento, annullamento
quasi fisico dei muri che venivano azzerati dal rivestimento
specchiante. Nel lavoro Open che tu hai fatto nel 2005 c’è di
nuovo lo Zeitgeist, che lega e coniuga anche il lavoro degli
artisti tra loro in un determinato momento. Esisterà pure una
ragione che spinge a questo alleggerimento, alla volontà di
perdita del corpo, della fisicità?
SB – Probabilmente si. Nel mio caso riguarda comunque il
rapporto con l’armonia che implica leggerezza.
Forme del tempo (Ovale), 2004
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68
Objet dans la forêt , 2008
BC - Un altro aspetto interessante del lavoro, presente nel-
l’esperienza del Castello di San Terenzo a Lerici, è quello della
composizione di forme attraverso una molteplicità di elemen-
ti; ognuno di questi elementi, definiamoli atomi o molecole, ha
una compiutezza perché è un piccolo universo, dove tu lavo-
ri molto sulla superficie liscia, sei interessato alla morfologia
tondeggiante e all’assorbimento del colore dentro la materia.
A proposito di questo lavoro, una delle prime formulazioni che
hanno avuto questo carattere è stata quella di Tony Cragg
ottenuta con la raccolta di analoghi materiali del medesimo
colore, aggregati insieme per comporre una figura. Qual è la
diversità che tu ti senti di poter affermare oggi rispetto a quel
tipo di bricolage ottenuto nel caso di Cragg, trovando delle
cose belle e pronte, quindi realizzando ready made assistiti,
mentre qui invece è tutto fatto da te?
SB - Si, e con un processo molto lento. Ho chiamato que-
st’opera Forme del tempo perché esse contengono e mostra-
no il tempo della propria crescita e possono assumere infinite
variazioni. Credo tuttavia che la differenza con le composizio-
ni di Cragg risieda soprattutto nella possibilità che le mie
forme offrono, di proseguire con lo sguardo all’infinito, allon-
tanandosi e avvicinandosi fino ad entrare nel microcosmo
della materia che continua comunque a rivelare mondi sempre
diversi.
Questo non avviene in Cragg dove lo sguardo si ferma al nudo
oggetto.
BC - Un sistema cosmico dove tutti i mondi si attraggono e
compongono in questa forma ideale, bilobata, che alla fine è
un organismo pittorico e anche plastico.
SB - Sì anche plastico perché mette in gioco lo spazio della
visione
BC - Finora abbiamo parlato di molti lavori, a volte apparen-
temente distanti tra loro ma che esistono in una forte relazio-
ne l’un con l’altro.
69
SB - Io ritengo, nonostante come tu dici le loro apparenti
distanze formali, che essi siano in ogni caso delle basi, dei
pilastri sui quali poter costruire poi …
BC - Ecco, costruire cosa?
SB - Una cattedrale ideale, che non sarà mai finita e che occu-
pa uno spazio completamente interiore.
BC - Uno spazio verso l’armonia?
SB - Si, penso che tutti questi lavori costituiscano una base.
Però ognuno di essi naturalmente è…
BC - Unico?
SB - Finito. Ognuno ha una sua funzione, una sua ragione.
BC - Questo tuo modo di lavorare ti pone un problema di coe-
renza formale all’interno di una ricerca più ampia che può
anche essere incoerente, naturalmente dal punto di vista mor-
fologico?
SB - Si, il problema della coerenza formale affiora come
dubbio, ma viene continuamente…
BC - Scalzato dalla circostanza che ti induce il lavoro?
SB - Scalzato dall’esigenza dell’opera, che non vuole essere
fatta se non in quella forma: spesso è l’opera stessa che ti
spinge a modificare il tuo progetto iniziale.
La forma in sé, nella sua ragione d’essere, è già coerente.
BC - Talvolta, nella mente di un artista c’è un progetto, un
disegno. Ecco. Tu ne hai uno?
SB - No. Io non riesco a vedere alcun progetto preciso, ma se
esiste potremmo chiamarlo scoperta.
70
BC - Per questo che tu definisci come scoperta, per questa
sorta di progetto, che cosa ritieni sia importante e necessa-
rio? Guardi per esempio spesso all’opera di qualcuno che ti
ha preceduto o di tuoi coetanei?
SB - No. In questo momento cerco di guardare solamente a
ciò che ho fatto.
BC - Rifletti su quello che hai fatto. C’è invece stato un
momento in cui hai guardato qualcosa?
SB - Spesso. Soprattutto nei primi anni di studio
all’Accademia. E’ stato un passaggio obbligato. Non potevo
intraprendere un sentiero senza conoscere le strade principa-
li. Non si può fare a meno di osservare, ne ignorare quello che
ci accade intorno, ma poi tutto deve depositare lentamente in
attesa di una rivelazione.
Disegno, 2003
71
BC - C’è più interesse verso l’attualità del tuo tempo oppure
verso la storia?
SB - C’è sempre un doppio sguardo rivolto alla storia
dell’arte da una parte e all’attualità dall’altra.
BC – Mi era sembrato che tu avessi una curiosità nei miei
confronti, volevi sapere qualcosa da me?
SB - Sì, ma nelle tue domande ho già trovato le risposte.
(Conversazione registrata in Umbria nel mese di febbraio 2006)
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Stadera, 2006
7Senza titolo, 2000ottone, plexiglass, tubo al neoncm 300x300x450Museo Pecci, Prato
9Forme del tempo (particolare), 2004gommalacca e pigmenti su gessodimensioni variabili
10Forme del tempo (Cerchio), 2004gommalacca e pigmenti su gessodiametro cm 120Castello di San Terenzo, Lerici
12/13Piccoli studi di testa, 1998Stampa digitale su cartacm 20x20Collezione privata
14Purificazioni, 2002vetro, acqua, ottone, ferro20x65x42 cm
15Il Ponte, 2004legno e specchicm 65x120x600San Casciano dei Bagni, (SI)
16/17Colui che osserva, 2004materiali varidimensioni variabiliParkhaus, Dusseldorf
19L’oro dei Varano, 2000vetro, acqua, ottonedimensioni variabiliRocca Varano, Camerino
20-23Ecce Ancilla Domini2004materiali vari e neon rossodimensioni variabiliWunderkammern, Spello
22Ecce Ancilla Domini, 2004elaborazione grafica dell’Annunciazionedi Jan Van Eyckdal Polittico dell’Agnello mistico, 1426-32Cattedrale di San Bavo, Ghent
25Stella, 1998Ottonecm 300x300x300
25Matrice, 2007, (opera permanente)Ottone, neon e cavi elettricicm 250x250x250Palazzo Comunale, Spoleto
28/29299.792,458 km/s, 2005materiali variveduta della mostraSenko Studio, Viborg, Denmark
30Studio di testa, 2000cm 120x140fotografia in bianco e nero
33ena che pente, , 2008cm 450x450x40neon, ferro, vetro cattedrale
34La casa del pittore, 1998legno, fotografie e ferrocm 100x60x110
35 (sopra)Iride, 1997terracotta dorata e ferrocm 60x60x15
35 (sotto)Head (la testa rubata), 1998legno e ottonecm 18x20x35
36Dialogo, 2002tempera su legnocm 120x180x250Aletheia, Perugia
38 (sopra)Studio di testa, 2002tempera su gessocm 25x18x40
38 (sotto)Piero della Francescadal De Prospectiva pingendi,proiezione sul quadro dei puntiindividuati su una testadi profilo non inclinata.
39Ulisse, 1999materiali varidimensioni variabiliStudio Bibliografico Ulisse, Perugia
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Note alle immagini
40/41Scriptorium, 2003proiezione, libri, tubo al neondimensioni ambienteBiblioteca Comunale, Cascia
43Scriptorium, 2003 (particolare)Biblioteca Comunale, Cascia
44Grande forma, 2004pigmenti, gommalacca su telacm 200x300San Terenzo, Lerici
4625 ore, 1997ferro, piombocm 70x70x200
49Croce di Cortona, 2001scala in legno, neon rosso, plexiglasscm 200x250x20Rocca di Girifalco, Cortona
50Giardino Segreto, 2003legno, vetro, acqua, neon, proiezionedimensioni variabiliGalleria Civica d’Arte Moderna, Spoleto
52 (sinistra)Ortogonale, 2000legno, porfidocm 40x10x600Orto botanico, Perugia
52 (destra)Samurai, 2001legno, ferro, ottonecm 300x280x15
53Ponte, 1997ottonedimensioni variabili
55Romanticogeometrico, 2006ferrocm 200x200x200Collezione privata
56/57Senza titolo, 2000ottone, plexiglass, tubo al neoncm 300x300x450Museo Pecci, Prato
58Geometrie calde, 1998legno, cera d’api, pigmenticm 70x100x70
60Disegno, 2003proiezione di lucedimensioni variabili
61Lettera, 2003proiezione di lucedimensioni variabili
63Senza titolo, 2005neon, gesso, pvc adesivo su murocm 180x400x20Senko Studio, Viborg, Denmark
64Open, 2005specchi su legnocm 120x100x220Burghley Sculpture Garden,Stamford
66Forme del tempo, 2004gesso, pigmenti e gommalaccacm 400x200Trebisonda, Perugia
67Forme del tempo (Ovale), 2004gesso, pigmenti e gommalaccacm 220x120San Terenzo, Lerici
68Objet dans la forêt , 2008Ferro smaltatocm 400x300x200Burghley Sculpture Garden,Stamford
71Disegno, 2004Inchiostro bianco su fotografiacm 20x20
73Stadera, 2006gesso grafitato, ferrocm 85x40x100Museo della Scultura, Carrara
74/75299.792,458 km/s, 2005materiali variveduta della mostraSenko Studio, Viborg, Denmark
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Esposizioni
2008Parkhaus, Kunsthalle, Düsseldorf (D)Migrazioni d'arte contemporanea, Rain Gallery, Fabrica 798, PechinoXV Quadriennale di Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma
2007Matrice, (opera permanente), Palazzo Comunale, SpoletoTerra di Maestri, Villa Fidelia, Spello
2006Premio del Golfo, Camec, La SpeziaXII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, Museo della Scultura, Carrara1:1 (con Chris Sacker), galleria Formentini, MilanoForms of time (personale), Stamford Arts Centre, Stamford, (UK)
2005299.792,5 Km/s, (personale), Senko Studio, Viborg, (DK)Sculptors Drawing, Burghley Sculpture Garden, Stamford (UK)
2004Colui che osserva, (personale), Parkhaus im Malkastenpark, Düsseldorf (D)Luoghi d'osservazione, (con Klaus Munch), Lerici (Sp)Tracce di civiltà, S.Casciano dei Bagni (Si)
2003Linea Umbra 01, Flash Art Museum, Trevi (Pg)VerSanti Sibillini, Biblioteca comunale, Cascia (Pg)Al di là del visibile, Rocca Medicea, Cortona (Ar)
2002Dialogo, (personale), Spazio espositivo Aletheia, PerugiaNext Art, 20 musei scelgono l'arte di domani, sala Murat, BariDe mentis hortis, Galleria Civica d'Arte Moderna, SpoletoEterno ritorno, (personale), En Lefko, Nicosia , Cipro
2001Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterraneo, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, SarajevoCosmos (personale), Rocca Paolina, PerugiaNumero zero, Centro Arti Contemporanee Trebisonda, Perugia
2000Futurama, Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci, PratoPremio del Golfo, La Spezia
1998Visiting Artist 1997/98, The Dean Clough Galleries, Halifax (UK)Action Imageante 9, Santa Maria delle Croci, RavennaTracce di un seminario, Galleria Viafarini, MilanoMostra di fine corso, Fondazione Ratti, Como
19951995 WAR (personale), Atelier, Perugia
78
79
Bibliografia
La Quadriennale 2008, testi di C. Bertola, L. Canova, B. Corà, D. Lancioni, C. Spadoni, Marsilio, Venezia, 2008Liberolibrodartistalibero, IV edizione, edizioni Viaindustriae, Spoleto, 2008Terra di Maestri, Artisti umbri del 900 VI. 1981-2000, Provincia di Perugia, EFFE editore, Perugia, 2007Generazioni/Rigenerazioni, Premio del Golfo 2006, testi di B. Corà, V. Conti, R. Gavarro, A. Iori, M. Meneguzzo,M. Panzera, O. Scotto di Vettimo, Gli Ori, Prato, 2006XII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, testi di B. Corà e M. Panzera, Logos, Modena, 2006Hevenly Bodies, testo di M. Shaw, Burgley Sculpture Garden, Stamford, 2006Forms of time, testo di A. Iori, Stamford Arts Centre, Stamford, 2006La Notte Bianca, Trebisonda, La Fratta, Iride, Comune di Perugia, 200511 artisti di una collezione, testi di M. Duranti, C.A. Bucci, Filippofettucciariarte, Perugia, 2005Sculptors Drawing, testi di M. Shaw, Burgley Sculpture Garden, Stamford, 2005299792.458 km/s, testo di G. Poldi, Senko Studio, Viborg, Danimarca, 2005Contrafforti, testo di E. Corrao, Superficie 8, Perugia, 2005Bos'art, testi di O. Spatola, Centro Studi Colletti, Oristano, 2005Luoghi d'osservazione 3, testi di A. Iori e P. Thea, Comune di Lerici, 2004Linea Umbra 01, testi di M. Coccia, V. Tessitore, G. Politi, Milano, 2003Next Art, 20 musei scelgono l'arte di domani, testi di L. Pratesi, P. Marino, L. Semerari, Laterza, Bari, 2003Futurama, testi di B. Corà, M. Meneguzzo, R. Gavarro, M. Panzera, G. Iovane, Gli Ori, Prato, 2000Premio del Golfo, testo di G. Castagnoli, M. Melley, Silvana, Milano, 2000Atelier, testo di A. Iori, Gramma, Perugia, 2000Action Imageante 9, testi di M. Panzera e P. Cavellini, Nuovi Strumenti, Brescia, 1998Corso Superiore di Arti Visive / Kaprow, testi di A. Vettese, A. Daneri, G. Di Pietrantonio, Skira, Milano, 1997
finito di stamparenel mese di giugno 2008
Stefano Bonacci (Perugia,1971) si diploma in pittura pressol'Accademia di Belle Arti di Perugia nel 1995. Nel 1997 frequen-ta il Corso Superiore di Arte Visiva della Fondazione Ratti conAllan Kaprow. Nel 1998 collabora con l'Halifax School ofIntegrated Arts e con l'Henry Moore Studio di Halifax. Si dedicain questo periodo allo studio dei rapporti tra geometria e natura,realizzando opere e installazioni in musei, parchi e edifici storici.Nelle realizzazioni più recenti appare un costante interesse per ilrapporto spaziale e le iterazioni tra le forme e l'ambiente natura-le, rivelando un particolare interesse verso la proporzionalità e learmonie di derivazione classica. Dal 1999 svolge attività didocenza presso l'Accademia di Belle Arti di Perugia.
Bruno Corà nella sua carriera di critico e storico dell’arte, haricoperto ruoli direttivi in numerose istituzioni culturali ed esposi-tive in Italia e all'estero e ha ricevuto molteplici incarichi per laprogettazione scientifica di nuove realtà museali. Ha coordinatol’attività degli Incontri Internazionali d'Arte di Roma fino alla finedegli anni Ottanta e diretto il Centro per l'Arte ContemporaneaLuigi Pecci di Prato (1995-2002) e il Centro di Arte Moderna eContemporanea di La Spezia (2004-2007). Dal 2005 è membrodel Consiglio di Amministrazione e del Comitato esecutivo dellaFondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri e dal 2008 diretto-re del Museo d'Arte e Coordinatore del Polo culturale della Cittàdi Lugano. Ha insegnato all'Accademia di Belle Arti di Perugia (dicui è Accademico d'Onore), all'Università degli Studi di Cassinoe attualmente è docente presso l’Università degli Studi diFirenze.
Aldo Iori (Crema, 1954) conduce studi e ricerche di architetturae di storia dell’arte antica e contemporanea e attualmente èdocente di Storia dell’Arte presso l’Accademia “Pietro Vannucci”a Perugia. Interessato ai raporti spaziali dell’opera, e tra questae il luogo, è curatore di mostre collettive e personali di numerosiartisti, si occupa di convegni e progetti europei e collabora conmusei e istituzioni internazionali. Vive e lavora a Roma e Perugia.
Gianluca Poldi nasce a Milano nel 1971 e trascorre un'infanziaserena segnata dalle estati tra i boschi trentini. Dopo la laurea infisica continua a occuparsi di poesia e di analisi scientifichededicate alle opere di interesse artistico-culturale. Attualmentelavora per l'Università degli Studi di Bergamo.