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Cathedra di Psy Perchè leggere e scrivere oggi 30-1-16 ... · Ecco allora che si deve valorizzare...

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Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo Incontro Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016 Il punto di vista psicologico Emilio Gattico, Silvana Bonanni Perché leggere e scrivere oggi Il punto di vista educativo Adriana Lafranconi Perché leggere e scrivere oggi? Il punto di vista sociologico Martino Doni Per non saper né leggere né scrivere… La traccia per il gruppo di lavoro e una riflessione a partire dall’esperienza Giovanna Fantoli Riflessione del gruppo di lavoro Il gusto della lettura vien leggendo, della scrittura scrivendo. Riflessione di una docente sulla lettura e scrittura Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg
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Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo Incontro

Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016

Il punto di vista psicologico Emilio Gattico, Silvana Bonanni Perché leggere e scrivere oggi Il punto di vista educativo Adriana Lafranconi Perché leggere e scrivere oggi? Il punto di vista sociologico Martino Doni Per non saper né leggere né scrivere… La traccia per il gruppo di lavoro e una riflessione a partire dall’esperienza Giovanna Fantoli Riflessione del gruppo di lavoro Il gusto della lettura vien leggendo, della scrittura scrivendo. Riflessione di una docente sulla lettura e scrittura

Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg

Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo incontro

Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016

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Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo incontro

Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016

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Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy

Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg Dip. Scienze Umane e Sociali

Il punto di vista psicologico

Emilio Gattico, Professore di Psicologia, Università degli Studi di Bergamo. Silvana Bonanni, psicologa, collaboratrice di cattedra Psicologia dell’educazione e dello sviluppo Università degli Studi di Bergamo.

Perché leggere e scrivere oggi

Sarebbe interessante poter formulare un manualetto prezioso in cui indicare minutamente

l’importanza di leggere e scrivere oggi. Non si ignora del resto neppure quanto efficace sia

l’esperienza personale, quella per cui si impara per proprio conto, arricchendo progressivamente un proprio stile da apprezzare e far apprezzare. Forse la soluzione sta proprio nel mezzo che ci invita a sperimentare da soli un insegnamento comunque ricevuto

da chi ha già esperienza nel settore. Proprio rivolgendoci a questi ultimi ci piace ricordare quanto sia stato difficile per tutti noi quell’inizio che ci ha fatto intraprendere un percorso che oggi risulta spesso dimenticato e quanta gratitudine proviamo in cuor nostro verso chi

ha saputo mostraci la strada, senza comunque voler sottovalutare che la vita e’ un costante insegnamento di situazioni sempre nuove che ci pongono spesso a rivedere quella famosa frase:”come ho imparato io…”. Utile sarà condividere informazioni sulle esperienze passate

che daranno la possibilità di comprendere e affinare quelle tecniche che

Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy

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porteranno allo stile personale. Si sa che ogni bambino non può scoprire da solo tutto

l’alfabeto, se questi requisiti non venissero forniti nell’insegnamento probabilmente ognuno avrebbe un alfabeto proprio con conseguenze facilmente desumibili. E se volessimo ancora continuare ad elencare gli esiti di un apprendimento autogestito potremmo facilmente intuire come fermandosi alle prime nozioni non si avrà mai quella certezza e quell’armonia che occorre nel fare “bene” tutte le cose. Ecco allora che si deve valorizzare la figura di chi si occupa di tali insegnamenti, lasciando sempre vivo quell’interesse dettato da amore e

curiosità per il proprio lavoro.

I

Leggere e scrivere su quale supporto. Differenze.

Parlare e scrivere sono primari mezzi di comunicazione, ritenuti dall’uomo indispensabili sin da quando lasciava le sue prime intenzioni di farlo attraverso i disegni eseguiti con gli ossi degli animali sulle pareti di una qualsiasi caverna. Perché mai l’uomo avrebbe ritenuto così necessario, mediante un mezzo alquanto improvvisato e arcaico, dover documentare scene di caccia o di vita quotidiana? Per parlare a se stesso? Per comunicarlo ad altri che avrebbero potuto in seguito utilizzare il suo rifugio? Da dove nasce questa necessità? Perché è stata così impellente e ha superato millenni di vita, modificandosi, e’ vero, nelle tecniche utilizzate, ma mai tramontando? Cosa ha fatto pensare all’uomo che ciò che stava

esprimendo avrebbe potuto avere un significato, un valore, una storia?

Mentre lo faceva, sapeva che sarebbe stato utile a qualcuno o era un suo modo di trascorrere il tempo per ingannarlo e ricordarsi per proprio comodo di imprese che lo avrebbero stimolato a compierne altre di maggior rilievo o evitarle per salvaguardasi? Quante altre domande potremmo porci e ampliare la discussione fino a non finirla mai! In fondo questo è il segreto dell’informazione!

Un mezzo di comunicazione ha sicuramente un'importante influenza sulla diffusione della conoscenza nello spazio e nel tempo, conoscenza, che molto spesso viene purtroppo

sottovalutata, rendendosi così indispensabile e necessario uno studio approfondito delle caratteristiche, per valutare alfine l'influenza che il mezzo di comunicazione esercita nel suo

ambiente culturale. Secondo tali caratteristiche, esso, il mezzo, può essere più adatto alla

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diffusione della conoscenza nello spazio di quanto possa essere nel tempo, in particolar

modo se il mezzo è pesante e durevole e non adatto al trasporto, oppure alla diffusione della conoscenza nello spazio invece che nel tempo, in particolar modo se il mezzo è leggero e

facilmente trasportabile. Non indifferente quindi sarà l'importanza, nei riguardi della

cultura, l’influsso che il mezzo eserciterà sul tempo o sullo spazio.

Se volessimo fare un esempio alquanto importante possiamo pensare alla scrittura

sull'argilla o sulla pietra e capire perché è stata conservata molto più efficacemente di quella sul papiro.

La tendenza della civiltà moderna volge al giornale, alla radio e alla televisione, all’i-phone, all’i-pad,… e tutto ciò fa presumere una

prospettiva di civiltà dominate da mezzi di comunicazione.

Non è una bella prospettiva, considerando la manipolazione

dell’informazione che i mezzi stessi recano, i danni che si ripercuotono sugli organi di senso e sulle strutture cerebrali. Non

possiamo far altro che stare allerta per quanto riguarda le conseguenze di questa tendenza e

forse sperare che la considerazione delle conseguenze di altri mezzi di comunicazione su

altre civiltà ci metta in grado di vedere più chiaramente la tendenza della nostra1.

Studiando a lungo la civiltà egiziana, come tutte a quell’epoca, si e’ compreso come sia stata fortemente influenzata dalle caratteristiche dei corsi d’acqua, in tal caso del Nilo. Attraverso

le periodiche inondazioni si riusciva a programmare un calendario dipendente dalla luna e a lungo andare questo favorì l'instaurazione di una monarchia assoluta. L'idea

dell'immortalità, la mummificazione, la costruzione delle piramidi furono accompagnate da

un considerevole e nuovo sviluppo dell'arte con rappresentazioni pittoriche di riti funerari e

vita quotidiana, comparve così la scrittura. La parola parlata veniva utilizzata per impartire

gli ordini e possedeva efficienza, creativa che in seguito furono portate anche nella parola

scritta. La conoscenza della scrittura permise ai popoli, che stavano ai confini di adottare i

1 Giovanni Reale (filosofo lombardo 1931-2014, emerito studioso della filosofia greca e di quella agostiniana) con il suo saggio "salvare la scuola nell'era digitale" e Tzvetan Todorov (filosofo, semiologo, critico letterario di origini bulgare (nascita 1939) ma formatosi in Francia e dal 1973 cittadino francese) con "la letteratura in pericolo". - Il primo è apprezzabile per il fatto che dichiari come i nuovi strumenti digitali costituiscano il nemico esterno più rilevante per il processo della scrittura e lettura, - Il secondo mostra come già prima della cibernetica la letteratura fosse rosa da un tarlo interno di scomposizione del testo in parti che risultano private del loro senso.

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segni più semplici del sistema egiziano e di abbandonarne le complessità. La scrittura si

sviluppò verso una necessaria fonetica,

L'alfabeto flessibile favorì la crescita del commercio, lo sviluppo delle città, le lingue diverse.

L'alfabeto consonantico fenicio semitico venne adottato dei Greci, che abitavano sulla

sponda settentrionale del Mediterraneo.

I poemi omerici furono l'opera di intere generazioni di declamatori e menestrelli e

riflettevano le richieste delle generazioni di uditori quando venivano recitati. Questa solida tradizione orale piegò l'alfabeto consonantico alle sue necessità e si fece così uso di cinque

delle 24 lettere quali vocali della lingua scritta come strumento rispondente alle necessità anche della tradizione orale.

L'introduzione dell'alfabeto significò un profondo interesse per il suono invece che per la vista ossia per l'orecchio invece che per l'occhio. Gli imperi erano stati costruiti sulla

comunicazione basata sulla vista in antitesi all'organizzazione politica greca che privilegiava la discussione orale.

La poesia di Esiodo ( Ἡσίοδος , VIII-VII

A.C.) era in netto contrasto con quella di Omero

(Ὅμηρος , IX-VIII A.C.). Essa facilitò la

rottura fra l'individuo e la tradizione dei

menestrelli. La necessità di una maggiore sensibilità venne soddisfatta con lo sviluppo della

poesia elegiaca e giambica. Nei poemi omerici, gli

dei divennero divinità antropomorfe. Il

soprannaturale venne sostituito da un profondo interesse per la natura e per la scienza. Si sviluppò un profondo interesse per la geometria e per i rapporti spaziali, interesse, che venne

rafforzato dalla posizione della terra e dalla ricerca di terre da colonizzare. I risultati furono

e purtroppo sono molto evidenti nei danni che fecero seguito ai tentativi di monopolizzare la terra.

Lo sviluppo delle leggi scritte nelle colonie e ad Atene nel settimo secolo minacciò di imporre un pesante carico ai debitori. Solone (Σόλων, 638-558 a.C.), secondo la

tradizione della filosofia ionica, andò alla ricerca di verità universali ed espresse la convinzione che la violazione della giustizia comportasse disordine nella vita della

comunità. L'individuo divenne responsabile delle sue azioni e di conseguenza le radici

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dell'autorità vennero distrutte. Solone volle scoprire il segreto della democrazia, infatti, le riforme di Solone riflettevano la crescente importanza del commercio in antitesi alla terra,

ma anche e soprattutto la loro inadeguatezza, che divenne palese con il sorgere della classe

commerciale e successivamente dei “tiranni” nel VI secolo.

Ma prima di questo, nel IV secolo Platone (Πλάτων, 428/427-

348/347 a.C.) cercò di salvare i resti della cultura greca con lo stile dei dialoghi su Cratilo (Κρατύλος ) il quale, per citare

Aristotele (Ἀριστοτέλης ,, 384/383-322 a.C.), stava a

mezza via fra la prosa e la poesia. Nella settima epistola quest'ultimo scrisse: “nessun uomo intelligente sarà mai tanto coraggioso da dire quelle cose che la sua ragione ha contemplato, specialmente non nella forma che inalterabile e che sembra essere il caso di ciò che è espresso nei simboli scritti”. L'interesse di Aristotele per la scienza era riflesso nella prosa. Ma né

Aristotele né Platone pensarono alla biblioteca come una necessità

per la città Stato. Fu significativo il fatto che la biblioteca fosse fondata da Aristotele nel

335 a.C. e la biblioteca pubblica venisse fondata nel 330 a.C.

La tradizione scritta aveva portato la vitalità della tradizione orale alla fine.2

Il ruolo della tradizione scritta nel fornire la base per l'attività culturale della Grecia ebbe una grande importanza per la storia dell'Occidente direttamente per la storia di Roma.

Verso la metà del I secolo a.C. l'influenza della scrittura divenne piuttosto evidente nella richiesta di codici. Fu introdotta allora la gazzetta ufficiale ed esattamente nel 54 a.C.

La prosa latina, che si era sviluppata in rapporto alle necessità della Repubblica ed in particolare con i discorsi dei fratelli Gracchi (Tiberio Sempronio Gracco, 163-133 A.C.,

Gaio Sempronio Gracco, 154 -121 A.C.) di Marco Porcio Catone (234-149 ca. A.C.) e di

Marco Tullio Cicerone (106-43 A.C.) venne assoggettata anch’essa all'influenza della

scrittura.

Si sviluppò il commercio del libro e si costruirono biblioteche pubbliche e private.

La diffusione della scrittura portò all'interesse per la codificazione della legge. Comparve

l'amministrazione burocratica. Ben presto la Repubblica venne sostituita dall'Impero.

2 Dice a tale proposito Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900): ciascuno, cui è stato

concesso di leggere, a lungo andare rovina non solo la scrittura, ma anche il pensiero.

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Ed in seguito per necessità di burocrazia si arrivò alla divisione dell'Impero fra l'Occidente

latino e l'oriente greco.

La diffusione dell'islamismo interruppe le esportazioni di papiro sia ad oriente che ad

occidente. La sostituzione della pergamena in Occidente coincise all'incirca con la dinastia

carolingia e il declino dei merovingi. Il papiro venne prodotto in un'area limitata e

soddisfece le richieste dell'amministrazione centralizzata, mentre la pergamena, quale

prodotto dell'economia agricola era adatta a un sistema decentralizzato. La scrittura pagana fu trascurata e fu dato rilievo alla scrittura cristiana.

Mai nella storia del mondo una così vasta letteratura fu distrutta così radicalmente.

“Qualsiasi conoscenza che l'uomo abbia acquisito al di fuori della sacra scrittura, se è dannosa è ivi condannata; se è salutare è ivi contenuta”3.

Il bando della cultura secolare diede prevalenza agli studi teologici e confermò il dominio di

Roma.

Il monopolio della conoscenza, imperniato sulla pergamena, diede rilievo alla religione a

scapito della legge.

Carlo Magno (742-814) venne incoronato imperatore, il suo profondo interesse fu quello

per un’efficiente amministrazione e negli sforzi per migliorare le istituzioni educative sotto il

controllo della Chiesa, il suo principale successo fu nell'incoraggiare lo sviluppo di un’efficiente ed uniforme scrittura: il minuscolo.

Questo monopolio del sapere incoraggiò la concorrenza di un nuovo mezzo: la carta, dalla Cina. La scoperta della tecnica di fabbricazione della carta dai tessili fornì un mezzo con cui

i Cinesi, con l'adattamento del pennello per dipingere, alla scrittura, furono in grado di

elaborare un complesso sistema di ideogrammi. L'elaborato sviluppo della scrittura sostenne

la posizione della classe più progredita nell'amministrazione dell'impero. Di conseguenza, un grande divario fra la limitata classe governante la massa del popolo portò alla diffusione

del buddhismo dell'India. L'accesso alle forniture di carta in Cina permise ai buddhisti di

sviluppare su larga scala la stampa, con matrici di legno. Alla diffusione dell'islamismo verso oriente fece seguito l'introduzione della tecnica della produzione della carta. Dopo la

fondazione della capitale a Bagdad la fabbricazione della carta aumentò e divenne la base di

3 Aurelio Agostino d'Ippona (Sant'Agostino), 354-430

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un intenso interesse per la cultura. I Nestoriani4, scomunicati dalla Chiesa, avevano fondato

scuole in cui le opere greche e latine furono tradotte in siriaco. Alla chiusura delle scuole ad Atene da parte di Giustiniano nel 529 d.C., aveva fatto seguito la migrazione degli studiosi

verso la Persia.

La produzione della carta si diffuse da Bagdad all'Occidente. Arrivò in Francia nel XIV

secolo. L’accresciuto uso della carta e l'incremento del commercio favorirono lo sviluppo

delle città e la posizione delle monarchie.

La scrittura gotica usata nei manoscritti e la sua adattabilità alla stampa furono altri fattori

che suscitarono interesse per l'invenzione della stampa unitamente ai suoi numerosi problemi di inchiostro, di produzione, di caratteri uniformi su larga scala e di un torchio ad

operazione rapida.

L'abbondanza di carte in Italia e la divisione politica simile a quella della Germania portò

all'emigrazione degli stampatori verso le città italiane e allo sviluppo dei caratteri Romano Italico. La stampa a Parigi venne ritardata fino al 1469 e in Inghilterra ancora più tardi. I

manoscritti che si erano accumulati attraverso i secoli vennero riprodotti verso la fine del

XV secolo.

4 Dottrina cristologica diffusasi a partire dal sec. IV per opera di Nestorio (381-451) in base alla quale la natura umana e quella divina del Cristo non sarebbero fuse insieme per “unione ipostatica”, cioè ontologica, come sostiene l'ortodossia, bensì per “congiunzione” volontaria, di carattere psicologico-morale, da parte del Verbo divino che si è compiaciuto di essa. Tale affermazione provocò l'accusa rivolta a Nestorio di sostenere l'esistenza in Cristo non solo di “due nature”, quanto piuttosto di “due persone”. Inoltre egli negava alla Vergine l'appellativo di “madre di Dio”, perché ella non aveva generato la divinità, bensì solo l'uomo con cui il Verbo aveva voluto congiungersi, e quindi riteneva in questo senso più corretto l'attributo di “madre di Cristo”. Da ultimo, non riconosceva che il peccato originale fosse insito nella natura umana. Storicamente Nestorio spinse alle estreme conclusioni una concezione cristologica che era già presente nella scuola catechetica di Antiochia di Siria con Diodoro di Tarso (330-392), Teodoro di Mopsuestia (350-428) e Teodoro di Ciro (393-458). Il nestorianesimo fu condannato dal Concilio di Efeso del 431 (III ecumenico) e in quelli di Calcedonia (451) e Costantinopoli (V ecumenico, 553). Se in Occidente i nestoriani furono perseguitati e dispersi, grande diffusione ebbero invece in Oriente, soprattutto nell'Impero persiano, dove la loro Chiesa, indipendente da quella Bizantina dal 424, divenne nestoriana (e lo è ancora oggi) per opera di Narsete (478-574), del patriarca Marabha e di Babhai il Grande. Quivi sorsero grandi centri di cultura e di civiltà che i monaci propagarono per tutta l'Asia: in Arabia, a Ceylon, nel Malabar e in Cina; anche fra Turchi e Mongoli. Decaddero irrimediabilmente nel corso del sec. XIV sotto il dominio musulmano. I nestoriani passati al cattolicesimo, pur mantenendo almeno in parte i vecchi riti, costituiscono la Chiesa caldea. http://www.sapere.it/enciclopedia/nestorian%C3%A9simo.html

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L'interesse principale degli stampatori si volse verso nuovi mercati. Il piccolo libro e

l’opuscolo incominciarono a sostituire i volumi in “folio”. L'attività della stampa inerente alla riforma in Germania andò di pari passo con le misure repressive contro le pubblicazioni

eretiche in Francia.

L'autorità dell'Università di Parigi si ergeva in contrasto con la fiera del libro di Francoforte

e l'affermarsi di Lipsia come centro editoriale. Gli stampatori emigrarono dalla Francia ai

vicini paesi quali la Svizzera e l'Olanda e pubblicarono libri che riprendevano clandestinamente la via della Francia. In Inghilterra l'assolutismo dei Tudor comportò la

soppressione della stampa, ma l'incoraggiamento del Rinascimento e della riforma potenziarono ulteriormente un tale strumento di comunicazione Da qui sino ai nostri giorni il ruolo della stampa è stato sempre più rilevante sino ad assumere un ruolo di struttura primaria per quanto concerne non solo gli strumenti di comunicazione, ma anche in quanto simbolo d’evoluzione e crescita, cui sempre più gli individui erano collegati

II

Alfred Bandura ritiene che la genesi del linguaggio sia da rintracciare nell’imitazione del linguaggio materno da parte del piccolo.

Burrhus Frederic Skinner, 1904-1990, (comportamentista) afferma che l'apprendimento del

linguaggio e’ come qualsiasi altro tipo di apprendimento basato su stimolo e risposta rinforzata.

Brown e Hanlon (1970) osservarono che le madri non correggono gli enunciati errati dei bambini, approvano quelli veri e disapprovano quelli falsi.

Di fronte a queste tre teorie, che potremmo definire, empirico-osservative ha trovato sempre più spazio col passare del tempo una prospettiva di tipo disposizionale. Qui di seguito brevemente riassunte qulle piu’ significative:

- Teoria della natura innata (anche se il termine va impiegato con particolare attenzione) del linguaggio (Noam Chomsky). Il bambino apprende le regole della lingua a cui è esposto, indipendentemente dall'ambiente esterno, mediante il Lad (language acquisition device) e grazie ad una grammatica universale, entrambi innati. L'avere in sé le regole linguistiche viene detta: competenza linguistica di base. Avere la capacità di esprimersi anche grazie

fattori a cognitivi (memoria, comprensione), è esecuzione linguistica.

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- Condizione intermedia: i genitori tendono ad innalzare il livello di competenza, in modo

graduale, facendo ripetere in modo corretto il termine pronunciato in modo errato.

- Rapporto tra pensiero linguaggio: è un tema plurisecolare che in particolare nel basso

medioevo (si pensi a Tommaso d’Aquino, 1225/1226-1274) è attualmente ancor rilevante.

In ambito psicologico è basilare (se pure passibile d’osservazioni critiche) ancor oggi:

- la tesi di Jean Piaget (1896-1980): è lo sviluppo cognitivo che determina il tipo del linguaggio del bambino. Il linguaggio è inizialmente egocentrico e sincretico all'inizio, per passare a quello socializzato occorre lo sviluppo delle strutture del pensiero. Tale sviluppo avviene con l'azione che si interiorizza come operazione intellettuale (capacità simbolica).

A questi è opportuno aggiungere altri contributi. Ad esempio tra questi quelli di:

- Lev Semyonovic Vygotskij (1896-1934) ipotizzò una doppia forma linguistica (linguaggio

egocentrico per se’, linguaggio sociale per gli altri) pensiero e linguaggio sono inizialmente distinti, in seguito si integrano a vicenda mediante lo sviluppo cognitivo e la comunicazione con gli altri grazie ai quali si arricchisce la zona prossimale di sviluppo.

- Jerome Seymour Bruner il bambino acquisisce il linguaggio proprio nella zona prossimale

di sviluppo. Esiste una predisposizione al linguaggio (Lad), ma viene di molto integrata con il LASS (Language Acquisition System), che è un sistema di supporto per l'acquisizione della lingua.

- (Benjamin Whorf e Edward Sapir) la struttura di una lingua agisce sulle rappresentazioni

mentali. Vi è un rapporto diretto tra parole, percezione, pensiero e comportamento. Due lingue molto diverse avranno due rappresentazioni mentali molto diverse e un diverso modo di organizzarsi la vita. La loro teoria è detta teoria del determinismo linguistico. La lingua

non è soltanto uno strumento, ma determina il nostro comportamento.

- Merlin Wilfred Donald a sua volta ritiene che la comunicazione mimica (ad esempio vi

sono molte forme di comunicazione che non richiedono la vocalizzazione e tra queste la comunicazione mimica gestuale porta il cervello ad adattarsi per gestire combinazioni di movimenti) sia un necessario precursore del linguaggio parlato, è l'oggetto della teoria dello psicologo.

III

Al precedente memorandum aggiungiamo alcuni punti fondamentali per il nostro lavoro, consistente di due 2 considerazioni (A,B):

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A) Struttura piramidale della

lingua: fonemi, morfemi, parole, sintagmi, frasi, testi, al cui vertice si colloca il livello di elaborazione del testo.

B) Comprensione dei testi: Si tratta del risultato di numerosi processi: che vanno dalla lettura alla concettualizzazione, dall’integrazione delle informazioni con le conoscenze pregresse alla conservazione in memoria e dipende dall'integrazione e dalla comprensione delle frasi di un testo.

Secondo Walter Kintsch e Teun A. Van Dijk (autori nel 1978 di una prima teoria

riguardante la comprensione psicologica di un discorso, estesa poi in Teun A. van Dijk et Walter Kintsch, Strategies of discourse comprehension, New York, Academic Press, 1983) la comprensione richiede un'elaborazione su due livelli: micro scrittura (che riguarda la coerenza del testo) e macro scrittura (cosa è importante del testo). La microstruttura riguarda le proposizioni analizzate singolarmente e organizzate in una struttura coerente. La macrostruttura: si forma il significato complesso (argomento).

1 - Come si sceglie una lettura

Non vi sono regole date o prestabilite per scegliere una lettura piuttosto che un’altra. Il momento più difficile (e a volte, anche se non necessariamente, più stressante) è quando si trova a dover affrontare la fatidica domanda: ”’E adessso, cosa leggo?”. Per quanto possa sembrare ovvio e banale la risposta potrebbe essere: “non importa cosa, l’importante è leggere!”. Di certo ognuno ha il proprio modo per fare l’importantissima scelta del libro da leggere e tanti sono i fattori che possono influenzare la decisione in proposito: l’umore, il

FONEMI

MORFEMI

PAROLE

SINTAGMI

FRASI

DISCORSO

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tempo atmosferico, il luogo e così via. La scelta del testo legata alle proprie necessità, ma anche desideri, sia un fatto di estrema importanza. A questo bisogna aggiungere -fatto importante- il ruolo che la curiosità assume in questo processo: anche perché, crediamo che si tratti di un processo iterativo. Ovvero il prender coscienza, il persuadersi, che la lettura risponde agli interrogativi che ci si pone, sia la vera molla che dà avvio alla lettura. E che dunque motiva la scelta.

2- Pare che la grande difficoltà dei giorni nostri sia quella della fatica di fare avvicinare gli studenti ad un testo scritto per leggerlo e riprodurlo o crearne uno nuovo con la scrittura. Ecco perché è sorto il bisogno di incontrarci e parlare di perché leggere scrivere oggi.

Del punto 2 ovvero difficoltà nel fare avvicinare gli studenti ad un testo scritto per leggerlo, riprodurlo o crearne uno nuovo vorrei fermare queste idee: la tecnologia dello stimolo, ha aperto un'ampia serie di ricerche, fra le quali quelle sugli indici di leggibilità. Si tratta di metodi e tecniche, che mirano a stabilire i gradi in cui un testo risulta facile, medio bassa, media, medio alta, alta difficoltà per soggetti di una data età, istruzione, cultura, professione, condizioni di salute (fisica e/o mentale). Variabili legate al sesso sembra non rivestano significatività in questo ambito (naturalmente, in senso statistico). L'insegnante deve quindi sapere quale indice di leggibilità risulta, applicandone alcuni di essi, ai possibili brani da scegliere. Deve quindi sapere subito le caratteristiche del brano stimolo da presentare. In questo modo, ancora prima di sottoporre soggetti, a una serie di informazioni statisticamente significative sul livello di difficoltà che troveranno i soggetti quando lo leggeranno cercheranno di comprenderlo. Posso quindi scegliere. Se voglio un brano che risulti facile (ad esempio intenzione di introdurre i soggetti ad approfondire i processi di comprensione, etc.), medio (desidero capire quali livelli di abilità sono stati raggiunti, etc.), difficile (ho necessità di testare i gradi di super apprendimento raggiunti, etc.). Tutti gli indici fanno riferimento ad una serie di parametri, caratteristici del testo. Possono andare dalla loro qualità grafica (come si leggono? Caratteri a stampa, qualità visiva, percettiva adeguata?) Al tipo di parole che contengono (bisillabiche? Trisillabiche o altre?) Alla loro frequenza d'uso (sono parole rare? Frequenti?) Ai loro significati (semplici? Complessi?) Al numero di parole per frase (la media) al numero di frasi del testo, etc. La tecnologia dello stimolo mi aiuta a capire e tenere sotto controllo le caratteristiche di quanto presento ai soggetti e quindi poter prevedere possibili effetti sulle risposte che ottengo. In questo modo, posso favorire i loro apprendimenti. In assenza di una tecnologia dello stimolo, le mie scelte sono casuali, idiosincrasiche, legate alle mie esperienze. Secondo altre prospettive, questo è un fattore inevitabile. Per coloro che lavorano sulle proprietà dello stimolo, le tecnologie dello stimolo, al contrario risulta vitale per sviluppare apprendimenti sui soggetti. Gli esempi possono estendersi in ogni area disciplinare, come abbiamo detto

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3- Altra domanda interessante è quella di chiedersi lo scopo e la finalità della lettura e della scrittura quindi "leggere per e scrivere per".

Leggere "per", scrivere "per":

- istruirsi (spiegando che e meglio che essere ignoranti, motivando).

- curiosità (perché quando si è curiosi si è vivi).

- interesse (coltivare degli interessi accresce il senso di sicurezza e autostima).

- rimanere al passo coi tempi (per essere aggiornati, oggi, rende adeguati, conformati dentro il sistema).

- poter discutere con altri (per sentirsi partecipativi ad una vita sociale di relazione comunque importante, si lega al punto precedente che contempla l'aggiornamento).

- non rimanere soli (leggere significa essere sempre in compagnia di qualcuno o di qualcosa e ci permette di scrivere a qualcuno e qualcosa con cognizione).

- arricchirsi culturalmente (la cultura nasce dal concetto stesso di coltivazione e la coltivazione come si sa deve essere rinnovata altrimenti inaridisce e muore).

- per stimolo (vedere un libro, incuriosirsi del contenuto, trovarlo interessante farne motivo di riflessione da condividere con altri per crescere, per migliorare il proprio punto di vista).

Tutto questo è anche compito dell'insegnamento che deve far appassionare, spiegando l'importanza dei passi suddetti.

4- Come si può concretizzare una lettura fatta a qualcuno o rivolta a qualcuno quindi "leggere a e scrivere a" oppure se fatta in comunità "scrivere con".

- Scrivere "a" e leggere "a"

- occorre provare piacere nello scrivere o nel leggere per considerare indispensabili entrambe queste funzioni altamente cognitive e il piacere può essere quello di scrivere o leggere a qualcuno e questo qualcuno può essere anche se stesso per rileggersi, per fissare un punto da ampliare ( sottinteso che occorra avere capacità di sintesi e attenzione selettiva per focalizzare e centrare obiettivi, per non essere noiosi o ripetitivi).

- per scrivere un'autobiografia cogliendo gli aspetti incisivi di una vita che sia utile non solo a se stessi come spunto di riflessione, ma soprattutto ad altri e non necessariamente componenti del proprio nucleo.

- ad un amico per il piacere di condividere un'emozione, un interesse, un progetto di lavoro, per essere chiari e non fraintesi, per sviluppare argomenti e stimolare al dialogo non necessariamente epistolare.

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- ad un malato o persona sofferente (in carcere, in comunità, ...) per farlo sentire meno solo, sostenuto, seguito...e svolgere un'opera sociale che ci fa sentire di riflesso utili e capaci di sentimenti particolari.

- ad un pubblico (che in tal caso potrebbe essere la classe) per relazionarsi su un argomento, per informare, per divertire, per scambiare, per esporre problematiche da condividere.

- ad una persona particolare alla quale vogliamo rivolgerci con ricercatezza di termini, magari facendo raffronti con letterati che supportino e corroborino il nostro pensiero ( alla base si suppone che si abbia a molto letto!).

- Scrivere o leggere "con"

- altri, che possono essere stati scelti o assegnati per un lavoro di gruppo, che preveda figure alla pari, ma anche una distribuzione di ruolo su scala gerarchica, in entrambi i precedenti casi ci si atterrà alle regole fondamentali della quantità, qualità, relazione e modo (principio di cooperazione, Herbert Paul Grice (1913-1998), 1975).

- calma e ponderatezza, perché si richiede tempo e cura

- urgenza per necessità.

- partecipazione, coinvolgimento, sentimento.

- con indifferenza o distacco freddezza o formalità. Ogni forma comunque di scrittura o lettura richiede un particolare modo di porsi e caratterizza un particolare modo di essere.

5- La lettura (di una scrittura) fatta ad alta voce è un passo per la drammatizzazione. Ci si chiede quanto la teatralità possa aiutare gli alunni ad apprezzare l'attività di leggere e scrivere.

La lettura ha un ruolo decisivo nella formazione culturale di ogni individuo e per qualsiasi soggetto e specificatamente per i bambini in età scolare, sentire leggere l’adulto o l’istitutore lo avvicinano positivamente ai libri. Il bambino che non sa ancora leggere, sfogliando un libro, si concentra all’inizio sulle illustrazioni, poi sulle parti del testo, azzarda la comprensione di una storia attraverso le tracce e gli elementi illustrati o codificati e… “legge “ a modo suo l’intera storia.

Quando poi la lettura è fatta insieme (dapprima tra istitutore e bambini, ma poi anche tra bambini), significa stimolare interesse, piacere, curiosità, desiderio verso le opportunità offerte dal libro e dalla lettura fatta. Si creano in tale modo occasioni di riflessione su “valori” quali: ”amicizia, rispetto, collaborazione, fiducia, e si sviluppano comportamenti sociali adeguati alla lettura e alla narrazione”. Ci si trova insomma nella condizione di vivere la scuola come uno spazio in cui si rappresentano gli argomenti di cui ci si occupa recitandoli, leggendoli, quasi a guisa di una pièce teatrale.

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Ora con teatro scolastico si designa generalmente il teatro fatto a scuola. Benché da parecchi secoli si accennasse a questo problema - basti pensare alla scuola giocosa di Vittorino da

Feltre (1377-1446, che organizzò la scuola secondo una disciplina di uguaglianza per tutti,

di rispetto per l’individualità di ciascuno, di amorevolezza, di espansione gioiosa, di mutua fiducia, di ordine), così come all'oratorio di S. Filippo Neri (1515-1595, che radunò attorno

a sé un gruppo di ragazzi di strada, facendoli divertire, cantando, giocando e prescindendo dalle distinzioni di sesso) - si fa risalire la prima formalizzazione del "teatro scolastico" alla Compagnia di Gesù, fondata Ignazio di Loyola, 1491-1556, a Parigi nel 1534). Grazie a costui fu inserita stabilmente nel curriculum formativo dei suoi istituti volto a preparare, esclusivamente, la classe dirigente, ciò comportò che i Gesuiti, e non si sa sin a che punto senza rendersene conto, fecero sì che il linguaggio teatrale, pensato come mezzo e strumento, fosse sempre più volto ad obiettivi didattici, cognitivi, imitativi e, solo di riflesso, formativi tanto che l'aggettivo "scolastico" finirà per assumere un senso quasi spregiativo. Solo nell'Ottocento il rapporto fra teatro e scuola trova uno spazio rilevante nella pedagogia dei collegi salesiani di don Giovanni Bosco (1815-1888) e in tempi recenti tale rapporto

acquista maggiore consistenza, rivestendosi di una specifica funzione educativo-formativa, col maturare dell'attenzione per i destinatari degli spettacoli: l'infanzia e la gioventù.

Il rapporto dei bambini con il palcoscenico è paragonabile alla scoperta di un luogo magico dove tutto può accadere, prendendo avvio da semplici camminate nello spazio scenico (utili a sviluppare la coordinazione motoria, la scioltezza e l’agilità del movimento), così come a liberare le capacità espressive del corpo. Fino alla creazione del personaggio che può essere sviluppato secondo un processo di imitazione in cui si imita il tal personaggio o la tal situazione, o di identificazione nel quale il bambino si immedesima nel personaggio, vivendone i ritmi e assumendolo secondo la propria sensibilità. Nel primo caso, dopo aver osservato. Non imita, ma diventa. Non fa, ma è. Se il bambino riesce a passare dal livello dell’imitazione esteriore a quello dell’immedesimazione, quando assume un personaggio, egli deve necessariamente sapere non solo chi è, ma dove si trova e cosa sta facendo.

In tal caso la lettura favorisce quei processi di drammatizzazione, che da un punto di vista pedagogico e formativo si risolve in una rappresentazione scenica liberamente interpretata dagli allievi a partire da un testo o da un'esperienza comune, fatto che, espandendone il significato, si rivela di estrema utilità per la comunicazione e la condivisione dei propri stati d’animo e nella manifestazione della propria personalità. Questo presuppone uno specifico allestimento del contesto ed una particolare attenzione attribuita alla componente narrativa. In tal modo durante la lettura la voce assume un ruolo di rilievo del testo e sia chi legge sia chi ascolta diviene grazie alla voce del lettore parte integrante del testo. Tanto più il lettore dà espressione a quanto legge, quanto più “lo vive”, tanto maggiormente colui che ascolta

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entra a far parte del libro, creando dentro di sé le immagini che le parole evocano (drammatizzazione).

6- Inoltre cosa leggere e cosa scrivere scegliendo modi e tempi giusti per realizzare queste due funzioni. Se leggere i classici è ancora attuale. Quale letteratura per l'infanzia. Con quali criteri orientarsi.

Cosa leggere e cosa scrivere: sicuramente vi è un tempo migliore per leggere o per scrivere, ma solitamente lo si fa sempre in ogni occasione sia di necessità che di piacere.

Preferibile ricavarsi un momento della giornata per finalizzare il meglio e raffinare le operazioni suddette e dedicarsi alla cultura del proprio sapere.

Leggere e dunque conoscere i classici è indispensabile e fondamentale, poiché essi rappresentano le basi solide di una visione allargata e spaziante.

Un tempo, quando la scuola era ristretta a poche persone si insegnavano la retorica e l’oratoria. Oggi si ignora perfino cosa esse siano. Nonostante si sia allargato il campo d’accesso all’istruzione, queste materie seppur fondamentali sono comunque sparite. Leggere Quintiliano o Cicerone non significa soltanto allargare la visione dello scibile umano, ma attestare un valore pienamente conservato in un’opera classica che tanto e’ attuale a dispetto di un tempo antitetico per apparenza.

Non c'è da preoccuparsi dunque se considerarli attuali, forse non è neppure da porsi la questione.

E' come porsi la domanda se è importante la mitologia greca!

Ma la letteratura è ampia e offre molti spunti, ottimo sarebbe avere a disposizione una biblioteca scolastica con prestito mensile il cui resoconto diventi un piacere da condividere con altri per estendere con coscienza e responsabilità (supervisionata) le proprie e altrui conoscenze.

Un appuntamento di scelta personale che possa essere valorizzato con l'argomentazione condivisa.

Le letture attuali possono ben alternarsi a quelle classiche per evidenziare gli stili e i contenuti.

Molto graditi i racconti fantastici di Jules Verne (1828-1905) ad esempio o Rudyard Kipling (1865-1936) (capitani coraggiosi) e di Emilio Salgari (1862-1911), mai passati di moda, ma molto trascurati per lasciare spazio a letture di valore discutibile.

7- Sono importanti i diari tenuti dagli studenti e i messaggini che si scambiano? Possono contribuire ad arricchire una scrittura e una lettura? Cosa c'è di diverso fra noi di un'altra generazione e quelli dell'era digitale?

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Tenere un diario ci rende tutti autori di avvenimenti unici, personali e irripetibili. Oltre all’indispensabile aiuto che fornisce alla crescita, poiché scrivere prima e rileggere poi arricchisce sicuramente la consapevolezza di quanto si e’ vissuto, determina la non indifferente capacità o necessità di cambiare. E’ evidente come un diario ci faccia compiere un viaggio dentro noi stessi, divenendo osservatori di ciò che abbiamo fatto e di ciò che potremo fare, permette di valutare gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi, che potrebbero essere modificati per propria successiva convenienze dietro inevitabile riflessione.

Può sicuramente essere utile per fissare le idee, per avere lo spunto di approfondirle, per non perderle, per dare ad esse quella concretezza, che si potrebbe non avere il coraggio di osare, per accrescere le idee partendo da quella che fa da spunto iniziale, per rivivere, ritrovandoli, tutti quegli episodi, che altrimenti fuggirebbero via dai nostri ricordi o verrebbero accantonati, magari per sempre, serve per avere in seguito e rivalutare gli istanti della nostra vita per capire come sono stati vissuti, rivivendone le stesse emozioni, anche se risulteranno attenuate, ma tuttavia emozioni.

E’ un utilissimo metodo per avere memoria, tant’e’ che lo scrivere di per sé e’ già considerato una tecnica di memorizzazione. Un diario può servire per evitare di ripetere gli stessi errori, ma anche per tracciare un percorso oltre che di crescita, anche di successo che può essere incrementato grazie alla rilettura di quelli precedenti già ottenuti. E’ un metodo per mantenere attiva l’attenzione ed imparare ad essere selettivi. Il diario e’ un amico prezioso, al quale poter raccontare ogni cosa, e’ una compagnia, una testimonianza. E’ il luogo ove ci si rifugia, ove si può essere noi stessi, ove ci si ritrova anche dopo essersi persi, e’ la memoria del nostro tempo e può divenirlo per quello degli altri, non a caso ci sono stati diari che sono rimasti famosi nella storia, uno per tutti quello di Anna Frank. Si conserva con gelosia e discrezione in luoghi lontani dagli altri e ci si secca se gli altri ne fanno un uso sempre ritenuto da noi di invadenza e inappropriato. Le caratteristiche del tenere un diario sono in primo luogo quelle di aprirci a noi stessi per conoscerci meglio. Può essere scritto, disegnato, arricchito da immagini e figure appositamente ivi incollate. Può essere colorato, ordinato o disordinato, piccolo o grande, chiuso da un lucchetto o legato da stringhe e nastrini, personalizzato, con la copertina di stoffa o di cartoncino o semplicemente un quadernetto insignificante o che tale potrebbe apparire agli occhi altrui, oggi anche in formato elettronico con tanto di password per accedervi. E’ comunque un pezzo di vita raccontata a noi stessi che ne siamo gli attenti osservatori dopo che ne siamo stati i “forse” distratti artefici.

A volte capita che si senta la necessità di scrivere una lettera:

per chiarire determinate situazioni,

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per fissare meglio alcune idee,

per dichiararsi ad una o più persone,

per rivendicare certe posizioni,

per ribadire un concetto in forma scritta,

per specificare punto per punto e dunque puntualizzare,

per esprimere il proprio amore

o il proprio risentimento,

per lasciare una testimonianza da un carcere, un convitto, un luogo di chiusura

La lettera è sicuramente un’espressione elegante di pensiero, riveste un ruolo ben definito nella storia, venivano trasportate da piccioni addestrati o da validi scudieri, difesa fino alla morte e formulata con cura particolare e con cura particolare affidata a chi potesse recapitarla. Le lettere erano destinate ad amanti, artisti, scienziati, uomini politici, amici, …oggi sono considerate un mezzo di comunicazione superato e riutilizzato soltanto per distinguersi in determinate circostanze. Hanno oggi maggior valore i bigliettini e ancora di più i messaggini che hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione e degli stessi mezzi per effettuarla. Un grandissimo successo mondiale hanno avuto gli “emoticons” che con una semplice faccina esprimono sentimenti di rabbia, felicità, divertimento, disgusto, disapprovazione …e chi più ne ha più ne metta: un’immaginetta che in pochissimi millimetri di spazio racchiude interi mondi di sensazioni e percezioni. Per non parlare se non in pochissime righe del diverso modo di annotare gli appunti sui libri che venivano un tempo fatti a matita in fondo alla pagina con il richiamo di un asterisco e che oggi trovano soluzioni bizzarre e stravaganti del tutto innovative e improntate ad un miglioramento futuro. Ci si potrebbe domandare quale mai fosse il migliore, ma la risposta diventerebbe retorica e per non incappare in una simile controversia potremmo alfine affermare che e’ migliore ciò che all’uso sembra esserlo, cercando di spaziare in una conoscenza alquanto ampia di mezzi a disposizione che non creino confusione, ma migliorino davvero la vita.

8- Se è vero che il silenzio è un alleato per la lettura e la scrittura come convincere oggi i ragazzi a contemplarlo?

Nella società attuale il “silenzio” della riflessione è divenuto e tende a divenire sempre più un momento escluso dalla vita quotidiana quasi a volerne prendere le distanze in quanto ritenuto controproducente. Sembra quasi che chi non si preoccupi di presentarsi o mostrarsi in continuazione abbia dei seri problemi relazionali. Non viene neppure in mente che invece il silenzio come voce interiore possa essere uno spazio dedicato ad esternare un’infinità di passioni ed emozioni che ognuno ha dentro di sé e da considerare come reale strumento per

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poter comunicare. Potremmo quasi dire che il silenzio è l’indispensabile viatico per la comunicazione. La lettura “endofonica” e’ quel processo cognitivo che implica una codifica della lettura che viene svolta mentalmente. Dunque parliamo di lettura silenziosa, mentale, interiore e pare che nel dare tale descrizione sia implicito riferirci a qualcosa di maggiormente concentrato o che comunque richieda concentrazione e dunque silenzio. Sappiamo bene che il suo contrario e’ una lettura definita “esofasica”, fatta ad alta voce che puo’ includere un auto-ascolto, se rivolta a se stessi o un ascolto generalizzato se rivolto ad un uditorio. Per fare un breve cenno storico di come la lettura si sia evoluta nel corso degli anni ricordiamo che essa inizialmente veniva effettuata sempre ad alta voce quasi che non si conoscesse la possibilità di realizzarla in altro modo. E’ solo in tarda epoca infatti (Alto MedioEvo) che cominciò ad affermarsi la lettura mentale e si confermò tale nel corso del Seicento. Il silenzio e’ una fonte preziosa di trasmissione di sentimenti profondi. Nel silenzio si ascolta, si comprende e si legge oltre le parole. Di silenzio si ha bisogno anche per stare con se stessi, per ritrovare ristoro non solo nello spirito, ma anche nel fisico. Il silenzio e’ uno strumento importante in una società che e’ fatta soprattutto di rumore. Non va confuso con l’annientamento, la solitudine, la morte poiché il rumore non e’ di certo la vita. Serve a scoprire noi stessi, a starci bene, ad osservarci. La felicità ci arriva dal nostro interiore, non va dimenticato e cercare le risposte dall’esterno potrebbe creare soltanto confusione. Purtroppo non siamo educati al silenzio e neppure a contemplarne la lettura dell’energia che può esso fornirci. Le parole possono essere una maschera per ingannare la solitudine. Se si vuole però avere una buona comunicazione con gli altri dobbiamo imparare ad utilizzare anche i silenzi. Ed ora una bella poesia di Alda Merini (1931-2009), che ci

sembrata molto significativa per questo argomento :

“Ho bisogno di silenzio

come te che leggi col pensiero

non ad alta voce

il suono della mia stessa voce

adesso sarebbe rumore

non parole ma solo rumore fastidioso

che mi distrae dal pensare.

Ho bisogno di silenzio

esco e per strada le solite persone

che conoscono la mia parlantina

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disorietate dal mio rapido buongiorno

chissà, forse pensano che ho fretta.

Invece ho solo bisogno di silenzio

tanto ho parlato, troppo

è arrivato il tempo di tacere

di raccogliere i pensieri

allegri, tristi, dolci, amari,

ce ne sono tanti dentro ognuno di noi.

Gli amici veri, pochi, uno ?

sanno ascoltare anche il silenzio,

sanno aspettare, capire.

Chi di parole da me ne ha avute tante

e non ne vuole più,

ha bisogno, come me, di silenzio”.

Per concludere, definiamo il silenzio come capacità di astrazione dal mondo, composto da

quattro momenti basilari: 1-lettura; 2-meditazione; 3-esame di ciò che si è letto; 4-suo

ordinamento e rielaborazione con l’intento di verità inizialmente nascoste.

Compito dell’insegnante è mostrare, spiegare come il silenzio sia estremamente importante

per lo sviluppo dello scolaro. L’aiuto del maestro è indispensabile perché il soggetto se

lasciato libero di agire tende a far chiasso e rumore. Egli (lo scolaro) lo fa per affermarsi e

mettere in risalto la sua persona; sarà invece il silenzio che gli permetterà un dì di possedere

gli strumenti atti a realizzare questo progetto.

9- Conoscendo il potere delle immagini (video, film) possono essere esse alleate della lettura e della scrittura?

I bambini iniziano a leggere attraverso le immagini che sono un loro primitivo alfabeto, infatti non a caso le antiche civiltà si erano dapprima espresse attraverso i geroglifici, come già ricordato precedentemente in questo stesso trattato. L’immagine parla, evoca interi vissuti di colui che l’ha così formulata e di chi la sta in quel momento interpretando, racconta la sua e la nostra storia, narra, illustra perfino, ma può, al tempo stesso e per assurdo quasi, anche limitare la fantasia di immaginazione costringendo a ciò che si vede in nell’istante preciso in cui viene visionata, lasciando comunque la possibilità di essere

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modificata a proprio piacimento e secondo personali aspirazioni. Le immagini possono spaventare e proiettare gli individui in situazioni di paura, di allerta, di sospettosità, possono turbare e rimanere incomprese, rimanere a far pensare e riflettere o allietare e armonizzare la propria esistenza. Un’immagine può essere ispirazione, gradevolezza e inventiva. Si possono creare scritture e letture arricchite di immagini che possono essere esplicative e significative. Per certi versi alleate della lettura e delle scrittura, per altri no. Queste sfaccettature poliedriche e momentanee quasi soggettive si ricongiungono agli stati d’animo e rimangono nel loro potere infinito il supporto di attività cognitive mentali. Si può immaginare un film privo di immagini? O un libro di fiabe? Sono dunque indispensabili in alcuni ambiti e di arricchimento per altri. Ogni volta va valutato il tempo e lo spazio che occupano.

10- Valore della prosa e valore della poesia.

Diceva Gianbattista Vico (1668-1744) che “il più sublime lavoro della poesia è alle cose

insensate dare senso e passione, ed è proprietà de' fanciulli di prender cose inanimate tra

mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità

filologico-filosofica ne approva che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono

sublimi poeti.” La storia della poesia certamente precede quello della prosa (non è un caso

che nella storia della letteratura i primi lavori che si siano ritrovati, escludendo epigrafi assai

ristrette, siano di natura poetica. Questo è anche comprensibile in quanto la prosa, ovvero la

“messa in prosa”, presuppone un’arte di elaborazione del pensiero assai più complessa di quella poetica, basata sulla immediata creatività, che può permettersi di prescindere da

alcuni canoni (ovviamente parliamo della poesia naïve e non certo dei capolavori letterari):

da questo punto di vista la citazione di Vico è esemplare.

Di fatto il valore di entrambe queste manifestazioni letterarie è primario in ambito evolutivo e non soltanto perché producono un progressivo impadronimento della lingua (o delle

lingue) parlate, ma anche perché, proprio in virtù, di questo motivo favoriscono l’instaurarsi di un rapporto comunicativo che, da un punto di vista psicologico costituisce il

fondamentale scambio che i soggetti hanno necessariamente tra loro. Parlare con una

persona, ma anche leggere di una persona (o di una cosa), costituisce in questo modo

l’instaurazione di un rapporto costruttivo che non solo occorre che si realizzi tra i soggetti

ma che è necessario ricercare continuamente tra gli individui.

Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo Incontro

Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016

Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy

Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg, Dip. Sicenze Umane e Sociali

Il punto di vista educativo Adriana Lafranconi, pedagogista, collaboratrice CQIA Università degli Studi di Bergamo, già Dirigente Scolastica.

Perché leggere e scrivere oggi?

«La maggior parte dei bambini imparano a leggere, presto o tardi, e l'imparano più o meno bene. Eppure, soltanto una minoranza – benché fortunatamente abbastanza cospicua - adora la lettura e, in seguito, per tutta la vita, ne trae grandi benefici. (....) Nella nostra situazione attuale, la maggior parte degli alunni sanno leggere ma non trovano la lettura di grande utilità, se non per acquisire informazioni specifiche a cui sono interessati o come mezzo per ammazzare il tempo con uno svago banale.»

«Più della metà degli italiani di sei anni e più non legge neppure un libro attualmente durante il tempo libero, mentre è piuttosto consistente la percentuale dei lettori « deboli » o « occasionali ». Questi ultimi si avvicinano di rado ai volumi di letteratura e di saggistica, sollecitati più che altro da stimoli saltuari piuttosto che da una solida motivazione e abitudine.»

L'impressione potrebbe essere quella di trovarsi di fronte a due voci sostanzialmente convergenti sullo stesso problema, quello, appunto, della scarsa consuetudine con la parola

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scritta, la lettura, ma anche - possiamo aggiungere sulla base della nostra osservazione empirica o su dati più sistematici offerti dalla ricerca - la scrittura. Se non fosse, però, che fra i due frammenti intercorrono più di un trententennio e un oceano.1

Dunque, disaffezione alla lettura: un'attualità reiterata, nello spazio e nel tempo.

Questa consapevolezza non ci può certamente liberare dalla preoccupazione che viviamo quando ci confrontiamo con le posizioni occupate dagli studenti italiani nelle classifiche internazionali per quanto riguarda ( anche) la competenza nella madrelingua. Ma da questa stessa consapevolezza può essere opportuno partire per evitare il rischio – possibile - di costruire fra questo problema e « un contesto nel quale, a tutti i livelli e gradi di istruzione, nonché nella vita adulta, si assiste a una generale disaffezione per la lettura e la scrittura, sostituite da mezzi di comunicazione e di svago che utilizzano una ‘logica’ diversa rispetto a quella tradizionale.»2, un nesso esclusivo ed escludente altre concause. In tal caso, infatti, si potrebbe dubitare che a poco possa l'iniziativa del singolo o dei responsabili di istituzioni, scuola in primis, - oppure, se preferiamo, quella del singolo anche contro quella dell'istituzione - nei confronti del potere del digitale.

Anche per questa problematica, alla risposta pedagogica, cui non può appartenere una prospettiva apocalittica, di fatale ineluttabilità, compete l'ambizione dell'apertura al dover essere, della fiducia nel poter essere, alla base dell'idea stessa di educazione e di educabilità, della convinzione che giocare in difesa può essere assai meno produttivo che una corretta azione d'attacco.

« ... che divertimento per noi! Aveva quella speciale abilità di tutti i grandi maestri di far rivivere nella stanza quello di cui ci parlava. In due ore e mezzo arrivavamo ad appassionarci a Langland e al suo Piero l'aratore. Il sabato successivo toccava a Chaucer e imparavamo ad apprezzare anche quello. Persino autori piuttosto difficili come Milton, Dryden e Pope diventavano entusiasmanti quando la signora O'Connor ci parlava delle loro vite e ci leggeva brani delle loro opere. Il risultato, almeno per quanto mi riguarda, fu che già all'età di tredici anni avevo una conoscenza approfondita della grande tradizione letteraria che si era andata affermando in Inghilterra attraverso i secoli. Diventai anche un avido e insaziabile lettore di classici. Cara e dolce signora O'Connor! Forse è valsa la pena andare a quella scuola orribile solo per la gioia di godere dei suoi sabati mattina.»3

1 Le citazioni, in ordine, sono tratte da "B. Bettelheim, K. Zelan, Imparare a leggere. Come affascinare i bambini con le parole, Feltrinelli, Milano, 1982, Trad. A. D'Anna, pagg. 31- 42"; e da "S. Blezza Picherle, Formare lettori, promuovere la lettura, FrancoAngeli, Milano, 2013, pag. 19". 2 Riflessione del gruppo di lavoro IC Boroli Novara, 2 dicembre 2015 3 R. Dahl, Un gioco da ragazzi, Salani Editore, Milano, 2012, Trad. L. Corbetta, pag. 151

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E se, in questo caso, si può pensare a un felice incontro fra la domanda di chi aveva i talenti per essere poi scrittore e sceneggiatore, e l'offerta di un'insegnante, vale per ciascuno di noi adulti la responsabilità di provarci, almeno, a essere dono della parola scritta, per coloro che siamo chiamati ad educare: «... la necessità di far fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercare di coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio – meglio di sé, della propria storia. (…) Sì, noi a scuola leggiamo, e in questo stiamo bene, molto bene. Si rosicchia il tempo qui e là, ci si siede in cerchio e io leggo la storia. E leggo la storia, inevitabilmente a puntate, sussurrando e gridando, emettendo rantolii da moribondo e grida incontenibili di gioia, singhiozzi e risate, balbettando e cantando: infilo la voce nelle innumerevoli pieghe, negli anfratti dei personaggi e degli eventi.

E' un'attività di sconfinata complicità, un'iniziativa appassionata contro la solitudine e contro la noia». 4

La domanda «Perché leggere e scrivere oggi?», con la carica di positiva attesa che in essa si coglie, non chiede certamente di essere banalmente interpretata come sollecitazione alla ricerca di scopi comunicativi in cui e per cui impegnare oggi gli allievi. Se, infatti, sono noti i tentativi, ripetutamente esperiti, di delineare elenchi, ritenuti essenziali, di contesti comunicativi in cui l'allievo dovrebbe fare il proprio apprendistato di lettore e di scrittore, altrettanto chiaro dovrebbe essere che la risposta pedagogica chiama a rifuggire da soluzioni funzionaliste, per porre l'attenzione ai bisogni propri della persona umana, che, pur nel variare delle esigenze comunicative nelle varie età, devono sempre vedere ( anche) nella lettoscrittura un mezzo per il fine della realizzazione personale. Allora, se si vogliono valorizzare le potenzialità di questa domanda, per costruire, con coloro che questa domanda si sono posti, una risposta che possa avere un'eco significativa, è innanzitutto opportuno essere consapevoli che essa ne aggrega diverse altre e sollecita di essere completata, in un gioco di rimandi reciproci, in una costellazione di aspetti.

Possiamo cominciare col chiederci quale sia il soggetto logico di tale questione. Esclusivamente l'allievo – il bambino, anche nella fascia prescolare, il ragazzino, il preadolescente, ciascuno con le proprie responsabilità nei confronti della lettura e della scrittura ... ? O anche, con le responsabilità che in merito gli competono, l'adulto che lo accompagna nell'avventura della crescita: i genitori, gli educatori, gli insegnanti, prima di tutto, ma anche chi, nella pluralità dei contesti non formali o informali diventa per lui, consapevolmente o meno, testimone di un certo modo di porsi nei confronti dell'impiego della parola scritta? « (I bambini) si guardano attorno e imparano, dai loro modelli. E possono imparare che si può ascoltare; che si può parlare; che si può leggere; che si può scrivere; che si possono avere e comunicare

4 G. Pontremoli, Elogio delle azioni spregevoli, L'ancora del mediterraneo, Napoli, 2004, pp. 16 e 43

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sensazioni convincimenti e dubbi; ( ...) L'essenziale è che possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta, e scruta e scruta, e racconta e racconta, e cammina e cammina. E tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e furia, con passione.»5

So di un fortunato preadolescente che, anche in questa sua difficile età, ama rileggere brevi significative narrazioni con cui la nonna, negli anni della sua infanzia, attraverso la parola scritta fermava le conquiste, i capricci, la fatica quotidiana del crescere di questo nipote e dell'emergere della sua identità. Un esempio divergente rispetto alla possibilità di avvalersi di altre forme di registrazione degli anni dell'infanzia e della fanciullezza, ma che probabilmente può concorrere a rafforzare in lui il fascino della sola parola scritta, proprio perché sommessa e discreta rispetto alla realtà plurisensoriale degli altri media. E che potrebbe motivarlo a scrivere di sé e per sé - nella forma del diario, del semplice appunto, probabilmente nella sintassi paratattica che il linguaggio degli attuali media impone, anche dello sfogo che aiuta a riconoscersi, ... – molto più di tanti interventi scolastici con cui si impegnano oggi gli allievi nella scrittura delle varie forme testuali, perché questa esperienza familiare, lungi da intenzionalità di iniziazione alla scrittura, offre una possibilità autentica della conoscenza del mondo e della vita, del suo senso. « … per fare qualsiasi esperienza, c'è sempre bisogno di una specie di dialogo motorio-intellettuale tra principiante che copia ed esperto che fa da modello, tra «maestro» e «apprendista»: non solo vedere, ma anche capire e sentire ciò che fanno gli altri, e perché, e addirittura pre-vederlo prima che lo facciano; e poi farlo pure in proprio per simulazione e imitazione, senza aver avuto bisogno di «istruzioni» esterne per farlo».6

E quale profilo, se passiamo a considerare l'altro soggetto logico della lettura e della scrittura, si deve attribuire al chi - bambino prima ancora di essere allievo - vogliamo vedere avanzare nella consuetudine con la parola scritta, fra curiosità, tentativi, godimento, stanchezza, frustrazione, ripartenza, rinnovato entusiasmo, confronto critico, nuove consapevolezze e competenze? Riconoscere in lui un soggetto attivo - che può autodirigere il proprio apprendimento, che necessita di poter vivere anche nella lettoscrittura scenari di apertura, di sfida, di possibilità di porsi domande di cui cercare risposte – può sostenerci in una pedagogia dell'incontro con la scrittura, da fruire o da creare.

La ricerca psicopedagogica ha da tempo confermato quanto il genitore attento può osservare nel proprio figlio, e cioè che all'esplorazione della parola scritta i piccoli, già durante gli anni della scuola dell'infanzia, si dedicano spontaneamente, in particolare se

5 Ibidem, pag. 23 6 G. Bertagna, Dall'educazione alla pedagogia. Avvio al lessico pedagogico e alla teoria dell'educazione, La

Scuola, Brescia, 2010, pag. 73

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hanno l'opportunità di essere immersi in un bagno linguistico a cui concorrono non solo i libri, ma anche i giornali, i volantini dei supermercati, le stesse parole, pur routinarie, che vedono negli spot televisivi o nei titoli dei videogame, le scritte per la strada, le insegne pubbliche, i messaggi sui cellulari dei fratelli maggiori, le mail che affascinano perché appartengono al mondo dei grandi, ... 7 E, attraverso un processo personale di assimilazione e accomodamento, di confronto con le interpretazioni altrui, di graduale affinamento delle abilità in gioco, si avvicinano progressivamente alla lettura e alla scrittura corrette, sempre con grande attenzione al significato della parola, in un itinerario in cui lo sforzo e la fatica sono sostenuti dal gusto della scoperta personale, dall'autostima che deriva dal sentirsi capace, dal conflitto cognitivo che nasce nell'incontro con un punto di vista diverso dal proprio. Una ricchezza, questa, sui vantaggi della quale anche le neuroscienze molto ci dicono, che chiede di essere valorizzata in famiglia e che nella scuola deve trovare continuità, nella convinzione che i tempi e i modi degli apprendimenti per ogni persona non sono quelli fissati dall'istituzione, bensì quelli dettati dalle sue capacità personali e favoriti da un'esperienza autenticamente promozionale. Si potrebbe qui aprire una finestra sugli approcci omologanti, eterodiretti, che si snodano lungo percorsi paralleli a quelli della conquista personale - senza quindi riuscire a intercettarla - che invece caratterizzano certe esperienze di insegnamento della lingua scritta nelle sue prime fasi. E che possono ritrovarsi anche in seguito, quando la strumentalità di base può darsi sostanzialmente per acquisita, se si dimentica che i ragazzi entrano a scuola avendo già idee anche su come si costruisce e si scrive un testo, e che è proprio partendo dalle loro convinzioni, spesso ricavate dall'incontro con i nuovi media – e che certamente chiedono di essere messe a punto, approfondite, organizzate, corrette, consapevolmente rifiutate -, che può realizzarsi un apprendimento significativo della scrittura, nella valorizzazione del protagonismo dell'allievo. A lui deve essere offerta la possibilità di inciampare in problemi di scrittura - di testi personali, collettivi, di pezzi per il sito web della scuola, per il giornale locale, di pagine per se stesso, per gli amici di penna, ... - nei vincoli sfidanti che vere situazioni di comunicazione gli offrono, che gli permettano di sperimentare la connessione tra forma e significato, dalla cui consapevolezza egli può ricavare stimolo per procedere lungo itinerari, anche faticosi, ma che vale la pena di percorrere perché, proprio attraverso la ricerca di come modellare la forma del proprio pensiero, riesce a fare chiarezza per sè e di sè, a costruire significati prima inesplorati.

Stiamo così transitando verso un'altra delle domande connesse a quella dell'inizio: quali le forme dell'insegnamento per un apprendimento efficace del leggere e dello scrivere? Se il successo nella conquista della parola scritta è saldamente connesso – oltre che all'impegno personale -

7 A. Lafranconi Betti, Scuola in laboratorio. Per una didattica centrata sui bisogni dell'alunno, La Scuola,

Brescia, 2005

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anche all'interesse gratuito, al piacere, alla competenza che l'adulto mostra nei confronti di questo tipo di comunicazione, non è mai troppo presto perché il bambino possa respirare il valore della parola, a partire dalla sua componente ritmico-sonora, nella lettura ad alta voce o nel racconto di qualcuno che gli è accanto. « .. se a un bimbo si nega l'accesso all'immaginazione, non prenderà mai contatto con la realtà. Il bisogno di storie per un bambino non è meno vitale del bisogno di cibo, e si manifesta con lo stesso meccanismo della fame. Raccontami una storia, dice il bambino. Raccontami una storia. Ti prego, papà, raccontami una storia. Allora il padre si siede e racconta una storia a suo figlio. O gli si sdraia accanto nell'oscurità, e tutti e due nel letto del bambino, a comincire a parlare, come se la sua voce fosse la sola cosa rimasta al mondo, raccontando una storia a suo figlio nell'oscurità».8 E se, quando chi ascolta è piccolo, emerge in particolare la valenza affettivo /relazionale di questo incontro, nella globalità della corporeità, col passare degli anni la risorsa della lettura ad alta voce acquista ulteriore forza: è desiderio di lettura autonoma; è apertura a nuovi interessi letterari, che non si potevano volere se prima erano sconosciuti; è apprezzamento - quando qualcuno accompagna nella gestione della complessità semantica o sintattica di un testo - della possibilità di comprendere più di quanto da soli non si riesca - che pure può costituire motivazione alla fatica richiesta dalla necessità di vincere quelle fragilità nelle abilità della lettura che si frappongono al godimento del senso di un'opera - è incontro con la correttezza formale, con la sonorità, con la parola carica di senso, con il fonosimbolismo, con la metafora, con il costrutto originale, ..., che, apprezzati, entrano a far parte del bagaglio personale, in attesa di essere ancor meglio compresi per poter essere poi reimpiegati, anche nella scrittura. «Insomma, c'era un gran guazzabuglio ... » legge una mamma al suo bambino di quattro anni. E il piccolo: «Guazzabuglio ... senti, mamma, guazzabuglio, guazzabuglio, guazzabuglio ... mi piace questa parola». Perché non pensare, allora, a scuola, a spazi significativi di riscrittura, di manipolazione, di rielaborazione, di collage di testi altrui, prima gustati, in cui la comprensione dell'opera di altri diventa tirocinio per riflettere sulla propria visione del mondo, per decentrarsi rispetto ad essa, per ricomprenderla, ..., per inoltrarsi nei percorsi di costruzione della propria identità, del confronto con i valori, ...? Proprio perché siamo consapevoli di come la fruizione digitale - per i tratti dell'azione, dell'esplorazione con spostamenti frequenti, dell'inversione di rotta, della multisensorialità, dell'attenzione distribuita che può portare alla superficialità, ... - si contrapponga alla linearità e alla monosensorialità del cartaceo, sia antitetica rispetto a quella della parola, c'è un ulteriore motivo per offrire da subito l'esperienza dell'incontro con la parola scritta, per evitare che gli stili richiesti dal digitale passino indebitamente e inconsapevolmente al mondo della parola a stampa, col rischio di snaturarlo, di disperderne la qualità.

8 P. Auster, L'invenzione della solitudine, Anabasi, Milano, Trad. It. M. Bocchiola, 1993, pagg. 168-169

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E non è mai troppo tardi per continuare l'esperienza dell'ascoltare una voce che legge per noi, anche senza teatralità, anche senza drammatizzazione, perché non è tanto dalla punteggiatura di eventi con cui oggi si cerca di promuovere la lettura ( l'incontro con l'autore, la costruzione di libri, le gare di lettura, l'evento teatrale, appunto, ...) quanto dall'esperienza quotidiana, capillare, silente, che può venire la riscoperta – se non, addirittura, per certi ragazzi d'oggi – la scoperta del potere e del piacere della sola parola. La scuola, in particolare, dovrebbe scoprire anche il valore della rilettura che, portando a un rinnovato dialogo fra testo e fruitore, sollecita ad andare oltre la superficie, in un approccio euristico che, soprattutto se accompagnato dal confronto fra gli allievi, è fonte di articolata personale comprensione, non solo del messaggio di volta in volta esplorato, ma anche dei modi e delle forme con cui si possono condividere con altri o chiarire a se stessi i significati dell'esperienza. È da esperienze collaborative di questo tipo, molto più che dalla compilazione di schede dei libri letti, che possono prendere avvio quel piacere e quella consapevolezza che da un canto possono portare all'assunzione di un atteggiamento critico verso le opere di narrativa, e dall'altro far apprezzare anche la fatica personale della revisione delle proprie scritture.

Non può essere elusa neppure un'altra domanda: quale la natura delle proposte di lettura? Per chi è abituato a una fruizione multisensoriale, eterodiretta, frenetica, spesso caratterizzata da povertà sintattica e semantica, e nel contempo certamente accattivante, in una realtà caratterizzata da un tempo colonizzato da una pluralità di impegni, c'è necessità di fare ripetute esperienze di un'altra forma di comunicazione e di testo, per arrivare ad assaporare angoli di quiete oggi misconosciuti e il piacere di un tempo autogestito, che restituiscano spazi di libertà personale in un contesto in cui essi si fanno sempre più esigui. Anche per questo, per la possibilità che esso offre di andare oltre modalità percettive immediate, il libro, per riprendere la tesi di A. Nobile,9 non è realtà "da rottamare". E se è vero che che la narrativa contemporanea ha mutuato dai nuovi media l'amplificazione dell'azione sulla riflessione, nonché il ritmo incalzante, la trama scontata, e che i bambini e i ragazzi d'oggi si ritrovano in questo stile, è necessario il coraggio di offrire loro altre proposte, che rifuggano dall'omolgazione con la realtà dell'audiovisuale e dal ripiegamento su un linguaggio opaco, che non rappresenta alcuna sfida per il giovane lettore. «Io so che le parole non capite hanno stimolato la mia fantasia e mi hanno arricchito quanto e forse di più di quelle che mi erano familiari».10 L'adulto non deve temere di chiedere a un bambino o a un ragazzo di leggere, se sa che la pagina che gli offre può essere da lui apprezzata – non solo nel caso della poesia - proprio per la componente estetica, per la qualità artistica, e

9 A. Nobile, Letteratura giovanile, La Scuola, Brescia, 1990; Lettura e formazione umana, La Scuola,

Brescia, 2004; Letteratura giovanile. Da Pinocchio a Peppa Pig, La Scuola, Brescia, 2015 10 B. Pitzorno, Storie delle mie storie, Editore Pratiche, Parma, 1995, pag. 84

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perché aperta, nella forma come nella costruzione del significato, attraverso la presentazione di una molteplicità di punti di vista, di aspetti inediti dell'esperienza, di respiro esistenziale, che parlano alla coscienza. Una scelta oculata nel mondo dell'editoria può venire in aiuto in merito: «Un'altra caratteristica delle nuove scritture per i ragazzi riguarda i 'finali' i quali, anziché condurre ad una risoluzione definitiva, sempre più spesso rimangono 'aperti'. In questi casi lo scrittore non conclude la storia, ma la lascia 'in sospeso', offrendo al lettore la possibilità di immaginare diverse possibili continuazioni. (...) Questa sceltà è dettata da criteri letterari, ma anche dal desiderio di lasciare al giovane lettore tutto lo spazio per farsi autentico protagonista del testo, costruendo il futuro dei personaggi secondo la sua ottica interpretativa. Al bambino e al ragazzo si assegna fino in fondo il ruolo di lettore attivo, poiché egli coopera alla costruzione anche delle prospettive future della storia.»11 E forse proprio dall'esperienza della possibilità dell'interpretazione personale può derivare l'insoddisfazione per altre forme di comunicazione, eterodirette, nel significato ma addirittura anche nella gestione del tempo personale.

A queste condizioni, nel dipanarsi delle risposte alle domande inscritte in quella di partenza, può forse aprirsi una proficua circolarità non solo fra lettura e scrittura, ma anche fra lettura, scrittura e vita. Scrive di sé lo scrittore M. Milani: « ... qualche volta, già avanti negli anni, ho trovato libri che hanno potentemente influito sul mio modo d'essere e sui miei giudizi. E però, molte emozioni che mi hanno commosso, o aiutato o turbato, mi sono venute da trapassate letture dell'adolescenza e anche di quella strana età che la precede e che è così facile da essere dimenticata. Più di una volta, andando a riaprire e magari per caso un libro letto da ragazzo, ho avuto la sorpresa, e talvolta anche lo sconcerto, di scoprire che certe convinzioni, certi modi di pensare che credevo miei, originali, personali, in realtà mi erano venuti da quelle vecchie pagine. (...) Se il destino non mi avesse messo nelle mani quei libri, sarei probabilmente un uomo diverso da quello che sono, migliore o peggiore chi lo sa; e però, scegliendo di leggere, sì, anch'io ho avuto la mia parte nel farmi».12.

11 S. Blezza Picherle, Libri, bambini, ragazzi, V&P Vita e Pensiero, Milano, 2011, pag. 241 12 M. Milani, Cinquant'anni a scrivere avventure, in "S. Blezza Picherle, Raccontare ancora, La scrittura e

l'editoria per ragazzi, V&P Vita e Pensiero, Milano, 2007, pagg. 99-100

Appunti ad uso esclusivamente interno Terzo Incontro

Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi 30 gennaio 2016

Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy

Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg , Dip. Scienze Umane e Sociali

Il punto di vista sociologico Marino Doni, docente, collaboratore di cattedra Sociologia, Università degli Studi di Bergamo.

Per non saper né leggere né scrivere… La conoscenza ristretta non è gioiosa. Ugo di san Vittore Mi piacerebbe convincere un certo numero di persone a riflettere più su come gli strumenti influiscano sulla nostra percezione che su ciò che possiamo fare con essi, a indagare su come gli strumenti modellino la nostra mente, come il loro uso modelli la nostra percezione della realtà ben più di quanto noi si modelli la realtà applicandoli o utilizzandoli. Ivan Illich

1. La fine delle illusioni

La locuzione “per non saper né leggere né scrivere” è usata come figura retorica per ostentare ingenuità e quindi immediatezza nei confronti di un argomento o di un evento di cui si è stati partecipi e per il quale si attesta la propria (tanto più involontaria quanto più

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efficace) fedeltà. Si tratta di un modo di dire che potrebbe essere tradotto in questi termini: “Ho visto il tale, pur non conoscendo né gli antefatti, né le vicissitudini, gli ho detto questo e questo, e avevo ragione!”. I modi di dire, come le favole, i proverbi e in generale i cosiddetti luoghi comuni, hanno una struttura logica e semantica che non bisognerebbe trascurare. Essi infatti, direbbe Italo Calvino, sono “sempre veri”, nella misura in cui non concepiscono la verità come l’adeguazione di un contenuto a uno stato di cose, ma come un rapporto costante con una regolarità contingente. Per esempio: “chi dorme non piglia pesci” è sempre vero, nella misura in cui l’ozio impedisce di cogliere occasioni importanti; dopodiché ciò non vuol dire che non bisogna mai dormire o che l’ozio, di per sé, sia una terrificante abitudine! Lo stesso vale per la locuzione “per non saper né leggere né scrivere”. Essa è sempre vera nella misura in cui l’incapacità di leggere e di scrivere implica una nuditàermeneutica di fronte al dato di realtà; ciò non significa che, quando usiamo questa espressione, ci possiamo permettere il lusso impossibile di dimenticare la nostra capacità di letto-scrittura! Prendiamo per buona questa valenza: il senso comune associa al saper leggere e scrivere un’intelligenza peculiare della realtà. Già Pinocchio lo intuiva, quando immaginava la propria surreale esperienza scolastica (un giorno impara a leggere, il giorno dopo a scrivere, e poi a far di conto…). In questo il senso comune ha ragione da vendere. Se osserviamo il mondo di un bambino in età prescolare, il suo non saper né leggere né scrivere è indice di quella freschezza, di quella innocenza che rendono l’età infantile tanto particolare, diversa da tutte le altre. Il fascino dell’irreversibilità dello sviluppo cognitivo, turbato soltanto da danni neurologici altrettanto irreversibili, accompagna le fasi della crescita, della socializzazione e della scolarizzazione, seguendo tappe importanti, sanzionate finanche sul piano rituale. Si pensi per esempio alla dimensione onirica con la quale l’infanzia è da sempre intrecciata, alle figure degli aiutanti magici che, una volta all’anno almeno, si occupano dei desideri dei bambini, e a come queste stesse figure scompaiano più o meno bruscamente dall’esperienza psico-sociale, non appena le capacità operatorie cognitive lo richiedano: si pensi a Babbo Natale, a Gesù Bambino (dalle mie parti a Santa Lucia), alla fatina o al topino dei denti… L’incapacità di leggere e di scrivere prevede l’accesso alla magia, che invece viene meno (per sempre) quando la struttura logico-sintattica dei nessi causali prende il sopravvento. Il saper leggere e scrivere coincide in qualche modo con la fine della magia e l’inizio di un’avventura nuova, l’ingresso in quella che Hegel chiamava la “prosa del mondo”. Un simile quadro ha il suo fascino e la sua esattezza, tuttavia rischia di idealizzare l’infanzia e in generale la dimensione pre-alfabetica, consegnandole una chiave d’accesso al mondo fantastico e misterioso, selvaggio e incantato. Il fascino del Piccolo Principe non va negato, pena la perdita di ogni pur minima capacità di dialogo con i piccoli, tuttavia non va nemmeno assolutizzato. Occorre forse indagare più da vicino questo delicato passaggio:

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l’impressione è che non ci sia uno stacco così netto, così drammatico. La differenza tra sapere e non sapere, nel caso del leggere e dello scrivere, è una differenza problematica, densa, direbbero i sociologi, e come tale va presa. Nell’assumere tale compito procederemo in questo modo: metteremo in evidenza alcune discontinuità storiche, alcuni eventi chiave che hanno contribuito alla formazione della nostra coscienza contemporanea di attori sociali in grado di leggere e di scrivere, e che in seguito hanno seriamente messo in crisi tale coscienza; vedremo come, al verificarsi di simili svolte storiche, si presentano puntualmente episodi di diffidenza, intolleranza, incomprensione, smarrimento ecc.; daremo un’occhiata a dati importanti che collegano la diffusione della faticosità cognitiva alla situazione socio-economica; sonderemo, per quanto possibile, il rapporto tra l’esperienza di lettura-scrittura e il passare del tempo; cercheremo di rivalutare il significato del verbo immaginare.

2. Discontinuità Per rispondere alla domanda se sia importante imparare a leggere e a scrivere bisogna indagare a fondo la differenza tra chi è capace di farlo e chi non lo è. Questa differenza si struttura su due livelli, estremamente complessi e articolati, che potremmo chiamare filogenetico e ontogenetico. Detto in altri termini: noi non nasciamo già in grado di leggere e scrivere, dobbiamo imparare, e per farlo sviluppiamo più o meno gradatamente determinate abilità che ci consentono di apprendere (livello ontogenetico); d’altra parte il linguaggio e i caratteri che troviamo già pronti per essere letti e scritti, non son spuntati dal nulla, sono anch’essi, a loro volta, esito di un lento e complesso processo di evoluzione storico-sociale e tecnologica (livello filogenetico). I due livelli non vanno confusi (come faceva l’epistemologia romantica con la teoria, affascinante ma fallace, della ricapitolazione), né vanno scissi (come fa lo psicologismo moderno); vanno tenuti in costante tensione. Ma cominciamo a vedere questi passaggi un po’ più da vicino. L’uomo, dicevamo, non nasce già in grado di leggere e scrivere. Lo diventa. Ma questo apprendimento non è né immediato, né “naturale”, né universale e necessario, né, infine, sempre uguale nel tempo. Ci sono delle discontinuità storiche interessanti che occorre rilevare, confrontandole con altrettanti eventi o contesti che ne sono contemporaneamente presupposto e propulsore. X secolo a.C. Nascita della scrittura alfabetica

(Mediterraneo) Sviluppo del commercio e del denaro

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Inizio XI secolo d.C.

Invenzione della lettura mentale (Europa)

Cultura delle scholae

Metà XV secolo Invenzione della stampa (Europa) Scoperta dell’America, Riforma protestante

Fine XIX secolo Scolarizzazione di massa (Europa, Stati Uniti)

Rivoluzioni industriali, questione sociale

Seconda metà del XX secolo

Invenzione e diffusione del Personal Computer (mondo)

1989, globalizzazione

XXI secolo Web 2.0 (mondo) 11/09, flussi migratori

Questa tabella è senz’altro insufficiente e riduttiva, ma ci serve da mappa, e la mappa non è mai il territorio, come diceva Gregory Bateson. Cioè: essa ci fornisce alcuni spunti di riflessione, ma non li esaurisce, anche perché la mappa descrive un fenomeno evolutivo molto particolare: noi stessi. Siamo noi lì dentro, siamo noi gli attori, i protagonisti, il frutto di questi eventi. Bisognerebbe tenerlo presente quando insegniamo queste cose ai nostri alunni o ai nostri figli. Non abbiamo modo di approfondire tutti i passaggi; facciamo soltanto qualche breve incursione. Per esempio il primo: la nascita della scrittura è un evento enigmatico e affascinante, tuttavia qui mi soffermerei sulla scrittura alfabetica, diversa da quella geroglifica o ideografica. Quando si sviluppa una tecnologia nuova, avviene sempre che qualcuno scuota la testa e metta in guardia, soprattutto nei confronti dei giovani. Sentiamo un esempio tanto autorevole da far tremare i polsi: «Chi è serio si guarda bene dallo scriver di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere che, quando si legge lo scritto di qualcuno, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero più profondo, allora sicuramente, non già gli dèi, ma gli uomini gli hanno tolto il senno». A scrivere in una lettera queste impressionanti parole è niente meno che Platone, uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. E il primo, immenso filosofo. Ora, se Platone, proprio lui, diffidava tanto della scrittura, che praticava con somma maestria, la cosa non può lasciarci indifferenti. Passiamo alla lettura mentale: l’atto di leggersi un giornale o un libro accomodati sulla poltrona, mentre magari i figli giocano, è un’invenzione recente. Risale, più o meno, alla prima metà dell’XI secolo, quando Ugo di san Vittore redasse un piccolo manuale a uso dei monaci dell’abbazia parigina dove viveva, che si intitola Didascalicon de studio legendi, che io tradurrei così: manuale sulla dedicazione alla lettura. Seguiamo Ivan Illich, che a questa

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svolta ha dedicato uno studio fondamentale: «Ugo scrisse un trattato sull’arte di leggere a uso di persone che ascoltavano il suono delle righe. Ma egli compose il suo libro alla fine di un’epoca: le persone che nei quattro secoli successivi usarono il suo didascalicon non leggevano più con la lingua e l’orecchio. Si erano formate in altri modi: per loro i segni tracciati sulla pagina erano non tanto stimoli per forme di suono quanto simboli visivi di concetti. La loro istruzione era di tipo “scolastico”, non “monastico”. Non consideravano più il libro come una vigna, un giardino, il territorio per un avventuroso pellegrinaggio. Il libro per loro evocava assai più l’idea di tesoro, miniera, magazzino – era il testo che si esamina». Al tempo di Ugo e della redazione del Didascalicon, intorno al 1140, c’è una svolta: si passa dalla lettura monastica alla lettura scolastica. La lettura monastica, dice Illich, creava un ambiente pubblico uditivo, mentre quella scolastica crea uno spazio bidimensionale in cui c’è un rapporto diretto, individualistico tra l’io e la pagina. E questo avviene perché cominciano a diffondersi appunto nuove tecniche, convenzioni materiali che mutano il rapporto con il libro e la lettura. Vengono introdotti titoli e sottotitoli che strutturano il testo, sommari e indici, parole-chiave, glosse riassuntive che si distaccano dal testo principale, virgolette per riconoscere le citazioni. Tecniche che per noi sono del tutto ovvie, ma che allora permisero la creazione di uno spazio della lettura astratto. «Grazie a queste innovazioni tecniche, la consultazione dei libri, la verifica delle citazioni, e la lettura in silenzio sono divenute pratiche comuni e gli scriptoria hanno cessato di essere luoghi nei quali ciascuno doveva sforzarsi di ascoltare solo la propria voce». È la nascita del testo, distinto dal libro e dalla lettura. Quando a scuola noi parliamo di “libro di testo”, lo possiamo fare grazie a quello che è successo nella cultura materiale e tecnologica dell’Europa del basso Medioevo. Sull’invenzione della stampa a caratteri mobili non mi dilungo, se non per evidenziare una coincidenza tutt’altro che casuale tra essa e la diffusione della Riforma protestante. Lutero e gli altri promotori di quel grandioso movimento religioso e politico che fu la Riforma, auspicavano, tra le altre cose, una prossimità immediata tra il fedele e le Scritture e in generale tra la comunità e le assemblee liturgiche. Questa esigenza di vicinanza implicava necessariamente l’abbandono del latino come lingua sacra e l’adozione dei vernacoli. Grazie all’invenzione di Gutenberg (1455) la versione luterana della Bibbia si diffuse con una rapidità fino ad allora inimmaginabile in tutta l’area germanofona. Il Nuovo Testamento tradotto clandestinamente nel castello di Wartburg da gennaio a settembre del 1522 fu probabilmente il primo long-seller della storia del mercato librario. A un prezzo consono alle tasche di borghesi abbienti (1,5 fiorini) mezza Europa ebbe l’occasione in pochissimo tempo di comprendere finalmente le misteriose parole che i chierici sino ad allora avevano biascicato in una lingua morta (per quanto riguarda il mondo cattolico romano, ci volle il Concilio Vaticano Secondo, più di quattro secoli dopo, ad appianare per lo meno questa differenza).

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Passiamo alla seconda metà del XIX secolo. Un’altra invenzione, anzi una serie di invenzioni tecnologiche straordinarie modificano per sempre l’assetto sociale del globo, e ne trasformano le fattezze, finanche minacciando, come sappiamo bene, il suo equilibrio ecologico. La prima invenzione in realtà risale al secolo precedente, ed è la macchina a vapore applicata al telaio meccanico; la seconda, decisiva, è la turbina per la produzione di energia elettrica. Nel giro di qualche decennio il mondo cambia aspetto. Le foreste e le praterie spariscono, lasciando il posto a metropoli abitate da centinaia di migliaia, se non milioni, di cittadini indaffarati, che si muovono su veicoli a rotaie mandando in pensione (o, ahimè, al macello) cavalli e asini. Motori a vapore e a elettricità muovono macchinari sempre più potenti e sofisticati, che producono merce in quantità sempre più ingente, al punto da doverla immagazzinare… nei grandi magazzini per l’appunto. È in quest’epoca che nasce il centro commerciale, così come nasce la pratica dello shopping, connessa alla possibilità di un rapporto immediato e individualizzato con la merce da acquistare. Il maglione che indosso non me l’ha fatto mia nonna, e non è l’unico che possiedo: è stato confezionato chissà dove ed è stato acquistato in un centro commerciale, l’ho scelto tra centinaia, mi piaceva il colore, la taglia… tutte opzioni che nel mondo rurale antecedente sarebbero state impensabili. Questa trasformazione è vertiginosa. Se andate a vedere i dati del popolamento della città di Chicago, vedrete che nel 1840 c’era un agglomerato di poco più di 4000 persone sulla costa meridionale del lago Michigan; nel giro di dieci anni la popolazione arriva a quasi 30.000 abitanti, nel 1890, quindi in mezzo secolo, Chicago supera il milione di abitanti. È il destino di moltissime metropoli in tutto il mondo. Si chiama urbanizzazione, ed è un fenomeno incredibilmente importante e complesso. Per quel che ci riguarda, l’urbanizzazione crea l’esigenza di sistemare da qualche parte una massa sempre più numerosa e problematica di minorenni disadattati provenienti da chissà quale campagna o paese. Quando oggi noi affrontiamo il problema dell’immigrazione, assaporiamo un assaggio minimo di quel che doveva essere la questione sociale degli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che sono gli anni in cui nascono le scienze umane, nascono i movimenti politici organizzati, nascono i nazionalismi libertari (i moti del ’48, l’unità d’Italia, il comunismo, il sindacalismo, ecc.), nascono, ecco il punto, le scuole. Non che prima non ci fossero, ma ora assumono un ruolo di presidio sociale che prima non avevano: prima la scuola era faccenda da ricchi e aveva come unica vocazione quella di insegnare le arti e i mestieri; ora la scuola funge da contenitore e da controllore, prima ancora che da trasmissione culturale. L’alfabetizzazione è lo strumento principe di contenimento e di controllo delle masse: il Lumpenproletariat va addomesticato e indottrinato, per forgiare cittadini sovrani, nel migliore dei casi, o sudditi ubbidienti, nella maggior parte. Arriviamo a tempi molto più prossimi ai nostri. Il Personal Computer giunge alle nostre porte suppergiù negli anni 80, ma è ancora un elemento accessorio, un po’ bizzarro. Dieci

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anni dopo soppianta definitivamente altri strumenti che parevano irrinunciabili. Sono gli anni della guerra fredda e del muro di Berlino: non è un caso. Non è mai un caso, evidentemente. Il computer è il protagonista delle vicende legate allo spionaggio, nasce – come è noto – per decodificare i messaggi cifrati dei nazisti; esso è, per così dire, geneticamente predisposto al servizio segreto, all’intelligence. Con la caduta del muro di Berlino il PC cede definitivamente l’esclusiva militare e invade le case di milioni di persone, diventa un bisogno, un bene inalienabile, come oggi lo smartphone. Incomincia il dibattito se l’uso di apparecchiature elettroniche non sia lesivo della capacità intellettiva dei giovani; si paventano disegni di legge che limitino l’uso dei videogame ai più piccoli; scoppiano casi mediatici in cui si denunciano atti di violenza o di autolesionismo per emulazione e si diffonde con presa irresistibile il mito del nerd: l’adolescenza si trasforma, trova un canale di comunicazione e di espressione fino ad allora inaccessibile e vi si proietta con inedita efficacia. È quello che ha sempre fatto, ma adesso possiede un supporto tecnologico di indubbia potenza. Nel frattempo nasce la telefonia mobile e la rivoluzione compie il suo giro completo. Oggi il problema non è tanto il computer, che ormai è quasi obsoleto, quanto il social network. Il supporto, con il web 2.0, diventa esso stesso virtuale. In fondo non conta tanto la materialità dello strumento tecnologico con cui si entra in contatto: l’importante è il contatto. Il social network non è soltanto un nuovo modo di comunicare, è una nuova comunicazione. Quindi impone un nuovo linguaggio. La smaterializzazione del supporto si verifica a tutti i livelli, dalla burocrazia (che è sempre la più lenta) all’economia, dall’accumulo dei dati alla condivisione delle immagini, dalla fruizione di musica alla promozione commerciale. I cloud sostituiscono le già poco ingombranti pen-drive, lasciando piuttosto perplessi i professionisti odierni di mezza età, cresciuti con il mito del walkman e dell’audiocassetta che si inceppava e che dovevi riassettare con un centinaio di giri di penna… La perdita del corpo Che cosa hanno in comune queste svolte epocali che in modo, ripetiamo, molto succinto sono state qui sopra elencate? Si potrebbe dedicare un seminario annuale a questo argomento, noi limitiamoci a evidenziare una sola tendenza che unisce come un filo rosso tutti i pezzi di questa lunghissima storia. Questa tendenza ha un nome bizzarro che però vale la pena conoscere: desomatizzazione. La scrittura alfabetica, per la prima volta, toglie dal corpo del segno qualunque riferimento iconico all’oggetto rappresentato: se anche soltanto nell’ebraico antico la lettera beith, antenata dell’attuale beth, che si scrive più o meno così: ב

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rimandava senza troppi sforzi di immaginazione alla “casa” (che in ebraico si dice appunto beith), con l’avvento dell’alfabeto tutto diventa, almeno fino a un certo punto, “convenzionale”. Non c’è nessun rapporto diretto tra la lettera “c” e la parola “casa”, né tantomeno con la casa in cui abito. La parola scritta (e letta) esce dal corpo, va a costruire un corpo a sé, il corpus della pagina. Desomatizzare significa, letteralmente, togliere il corpo. È questo che fa, da sempre, la tecnologia: toglie il corpo nel nesso tra causa ed effetto, libera i muscoli e le ossa dall’onere di intervenire quando si desidera afferrare, cogliere, raggiungere, comprare, uccidere ecc. Se si pensa alla trappola, strumento sopraffino ideato nel Paleolitico superiore, ecco un primo abbozzo di tecnologia concettuale: voglio il cinghiale e lo prendo senza muovere un dito. Lo stesso accade con la lettura e la scrittura: la tecnica toglie progressivamente sempre più corpo, cioè toglie le cose e le sostituisce con rimandi sempre più immateriali, sempre più effimeri. Nel Medioevo la pagina (da pangere, conficcare, detto di filari) diviene il pergolato, vigna, giardino in cui addentrarsi per gustare le delizie del verbo. La pratica monastica della ruminatio è stata per tutta l’età tardo-antica e alto-medievale la principale forma di rapporto con la scrittura e la lettura. Leggere significava leggere ad alta voce, gustare, letteralmente, il miele della parola. Non c’era ancora il “libro”, così come lo intendiamo noi, c’erano i rotoli o le pergamene: la parola era racchiusa in supporti preziosissimi, rari, difficilmente accessibili. Non era scarto, era vera presenza dell’eterno nella storia. Il rapporto che i monaci instauravano con la lettura e la scrittura era liturgico, quindi pubblico (liturgia significa infatti atto pubblico), sociale, immediatamente condiviso. Anche la lettura solitaria presupponeva l’esercizio della voce. Si leggeva con le orecchie più che con gli occhi. La mnemotecnica, che aveva fatto la fortuna degli antichi rapsodi, fu resa obsoleta con la scrittura alfabetica (con grande fastidio di Platone), ma rimase comunque ancorata alla necessità medievale di orientarsi nel pagus come ci si orienta in un vasto parco ricco di suggestioni e di incontri. La tecnologia del libro soppianta quella del monastero: la lettura mentale, garantita dalla presenza di indici, paragrafi, gerarchizzazione alfabetica ecc. rende progressivamente inutile l’esercizio della memoria. Si utilizza il libro come strumento di consultazione, non come viaggio dei sensi. Apro il testo e vado a cercare proprio quello che mi serve, senza dover ripercorrere tutto il cammino, scorro l’indice e salto i paragrafi. Il pergolato si disintegra e nasce il testo di studio. Con la stampa la desomatizzazione assume una dimensione di massa. Il rapporto di immediatezza con Dio che i protestanti rivendicano, in polemica con le pesanti mediazioni del clero romano, si poggia su un supporto agile e disponibile che è il libro stampato. Lo stesso su cui, ancora oggi in gran parte, si basa il sistema scolastico.

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Con l’avvento dei PC e del web la desomatizzazione e l’immediatezza giungono a livelli di impensabile efficacia e rapidità. Mi permetto un piccolo esempio personale, non perché la mia vicenda abbia alcunché di esemplare, ma perché, per ragioni anagrafiche, mi è capitato di vivere, come si dice, “sulla pelle” questo passaggio. Al secondo anno di università, all’inizio degli anni 90, dovevo preparare una tesina per un esame, e la scrissi dapprima a mano, poi la ricopiai su una macchina da scrivere elettronica che possedeva un mio amico. A casa avevamo il PC, ma non lo si usava per scrivere. Mio fratello studiava ingegneria e, come dicevamo allora, ci “smanettava” lui. Io ero l’umanista. Poi arrivò il momento della tesi di laurea. A quel punto mi decisi a usare il PC, ma quando si trattò di presentare l’elaborato in segreteria, dovetti portare il cartaceo e farlo riprodurre in microfilm per l’archivio. Oggi, quando racconto queste cose ai miei studenti, mi guardano come una specie di residuo bellico. “Microfilm”: roba da spy-story della guerra fredda! Come che sia, oggi è sparito tutto questo: niente più carta, niente più micropellicola. Chi si laurea stampa ancora la sua tesi per ragioni sentimentali, ma già in qualche Università è prevista, per lo meno per la laurea breve, una discussione senza supporto cartaceo. La materia passa in secondo piano per poi sparire. Questo è il filo rosso della tecnica. Ed è questo, principalmente, il motivo per cui le giovani generazioni hanno un rapporto così poco limpido con supporti materiali e si trovano invece tanto bene con il virtuale. Non quindi per una sorta di vacuità cognitiva, ma per quello stesso bisogno che genera lo strumento. L’esempio classico è l’alzacristalli elettrico: la tecnologia toglie il maggior numero possibile di mediazioni motorie per raggiungere uno scopo, in questo caso alzare o abbassare il finestrino. La scena tragicomica di Fantozzi che gira la manovella della sua utilitaria oggi è improponibile, perché anche le utilitarie hanno l’alzacristalli elettrico. Se per comunicare con la fidanzata un adolescente di trent’anni fa scriveva lettere appassionate, oggi deve usare Whats App. Ecco dunque il percorso svolto dalla lettura nella sua storia: nell’antichità la lettura è uno strumento per allenare la competenza retorica; nel Medioevo diviene un atto liturgico; con il Rinascimento si diffonde l’idea che ciascuno possa leggere per conto proprio; con la rivoluzione industriale si ha la specializzazione delle professioni, quindi dei linguaggi, nasce la cosiddetta “solidarietà organica”, ciò che legge il filosofo è incomprensibile per l’artigiano e viceversa; con la tecnologia elettronica informatica la parcellizzazione delle relazioni assume dimensioni atomistiche (si pensi al fenomeno dello hikkomori). Il corpo sparisce. Le resistenze della cultura analfabeta In tutto questo discorso è rimasto in disparte un protagonista della vicenda, che è l’analfabeta. Avevamo iniziato riflettendo sul detto “per non saper né leggere né scrivere”, che è un gioco ironico, evidentemente, perché chi lo dice è perfettamente in grado di leggere

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e scrivere. Tuttavia gli analfabeti ci sono, ancora oggi, anche in Italia, e sono pure tanti. Ma analfabeta, come sappiamo, non significa semplicemente colui che non è in grado di leggere e di scrivere, ma, oggi, colui che, pur avendo imparato a leggere e a scrivere, non legge e non scrive mai. È di questo ultimo tipo che intendo occuparmi. Gli analfabeti per miseria, occorre innanzitutto nutrirli e vestirli; quelli ben pasciuti invece fanno problema. La ricostruzione per sommi capi della letto-scrittura ci è servita per comprendere la pastosità, lo spessore storico-culturale che caratterizza l’utilizzo di un supporto o di un altro. Un ulteriore esempio, un po’ dotto, chiedo scusa, ma molto illuminante, potrà chiarire forse di che cosa si parla quando si parla di supporto tecnologico. Nel 1637 il poeta inglese John Milton scrive una poesia, intitolata Lycidas, dedicata all’amico Edward King, morto in un naufragio al largo delle coste irlandesi. Si tratta di una poesia di occasione, come si dice, che però riflette su questioni ben più ampie. «Milton intende denunciare la corruzione che per i puritani imperversa nella Chiesa da cui si stavano per separare», sostiene lo studioso Walter Ong. E come fa, Milton, nella prima metà del XVII secolo, a parlare di un naufragio che non ha visto? Non poteva conoscere i dettagli… Seguiamo ancora Ong: «Questa lacuna, nella sua poesia, è colmata attraverso l’impiego di una serie di topoi che la tradizione retorica aveva forgiato fin dall’epoca classica. La morte di King è presentata con luoghi comuni melodiosamente intonati: egli è “morto prima della sua primavera”, di lui si dice che “fluttua nella sua bara d’acqua” dove non resterà “non rimpianto”. Le ninfe del mare lo rinchiudono pietosamente in una “profondità senza rimorsi”. In un simile ricorso a luoghi comuni, Milton seguiva una pratica poetica comune che, al di là della sapienza accumulata nel passato, avrebbe prodotto un’opera non soltanto profonda, ma anche originale». Il punto è che «in una cultura a basso livello tecnologico, accedere ai fatti, anche in casi di importanza nazionale e internazionale, è estremamente difficile, quasi impossibile se si tengono presenti gli standard del Watergate [oggi potremmo dire: di wikileaks]; per questo Cicerone doveva di continuo arroventare i propri argomenti con il fuoco della passione: O tempora, o mores! E lo faceva bene, come pochi riuscirono a fare dopo di lui». Ora, nel 1876 un altro poeta inglese, Gerard Manley Hopkins, apprende dal Times la notizia di un disastro marittimo impressionante, il naufragio del Deutschland al largo della costa orientale britannica. Ne nasce un celebre poemetto, The wreck of the Deutschland, una delle vette della letteratura moderna. L’opera di Hopkins è intrisa di dettagli, in presa diretta. «Poteva sentire il dolore umano sulla nave che si stava spezzando e disintegrando, simultaneamente alle attività, triviali a confronto, che doveva svolgere, nello stesso tempo in cui molti passeggeri perdevano la vita. (…) In contrasto con Milton, che si era chiesto che cosa stessero facendo le mitologiche ninfe marine mentre King annegava senza il loro aiuto, Hopkins riflette con toni dolenti su quel che lui stesso stava facendo (…) nel momento esatto in cui i passeggeri del Deutschland divenivano “preda dei venti”». La scrittura poetica

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di un autore raffinatissimo come Hopkins fu largamente influenzata dalla tecnologia del telegrafo, molto prima della ben nota scrittura sincronica di Hemingway. La ricchezza di dati esteriori forniti dalle cronache è interiorizzata ed elaborata. Diventa una nuova forma di coscienza. Questo confronto letterario ci serve per due ragioni: la prima è di tipo squisitamente teorico, la seconda invece ha conseguenze pratiche immediate. Innanzitutto il confronto tra Milton e Hopkins ci serve perché il loro oggetto di lavoro è trattato in maniera radicalmente diversa, non soltanto perché si tratta di due persone molto distanti nel tempo, ma anche perché la materia della loro poesia cambia: non è più un elemento storico da far interagire a livello metastorico, ma è la storia stessa che penetra in diretta nella vita quotidiana. La seconda ragione per cui è importante concentrarsi su questo genere di vicende è che il supporto è fondamentale per la comprensione dello stile di comunicazione. Nel configurare la storia della scrittura, abbiamo visto come la desomatizzazione e l’individualizzazione fossero le caratteristiche principali della deriva storica innescata da tremila anni. Hopkins è un esempio sublime di come la tecnologia sia importante per costruire un’interiorità complessa. Ed è proprio a questo proposito che si pone la questione dell’apprendimento della lettura e della scrittura. L’uomo non nasce analfabeta: l’oralità è un mito della scrittura. Da sempre l’uomo scrive con il corpo, traccia segni di varia natura in varie forme. La scrittura alfabetica ha monopolizzato il territorio mentale dell’espressione, per cui si è fatta unica e intollerante nei confronti di tutte le altre forme di scrittura (la danza, per esempio, o la recitazione, il canto, il gioco). Non è questo il contesto per discutere sulle varie scritture, è certo però che la scuola tende a diffidare della tecnologia alternativa a quella a cui è abituata: tende cioè a restare sempre uno o due passi indietro rispetto a come comunica il resto del mondo. Anche in questo caso vale la pena un altro esempio, questa volta molto più ordinario. È noto che la prima penna a sfera fu commercializzata all’inizio degli anni 50 grazie al geniale imprenditore francese Marcel Bich. Chi ha una certa età, tuttavia, ricorderà che a scuola la penna a sfera non era ben vista: la calligrafia richiedeva competenza e abilità manuale nell’uso del pennino, prima, e della penna stilografica poi. Io ho frequentato le elementari nei primi anni 80, quando ormai la penna a sfera era di uso comune; ai miei tempi la tecnologia da tenere lontana era la penna cancellabile. Qualche anno fa mio figlio si trovò nell’elenco del materiale da acquistare per la scuola primaria proprio un kit di penne cancellabili e, guarda un po’, poco oltre si esplicitava in un paragrafo apposito il divieto ineccepibile di usare il telefono cellulare. Che cosa c’entrano Milton e Hopkins con la lentezza della scuola nell’aggiornare la didattica alla tecnologia? C’entrano, perché ci dimostrano come il materiale su cui si impara a leggere e a scrivere sia fondamentale per leggere e scrivere bene. L’impressione è che da qualche anno a questa parte il materiale su cui i nostri ragazzi imparano a leggere e a

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scrivere non sia quello su cui abbiamo imparato noi. Tra noi e loro c’è una distanza simile a quella che c’è tra Hopkins e Milton… La scuola in particolare sembra travolta dalla formazione continua prodotta dai mezzi di comunicazione, soprattutto dallo smartphone, che in questo ultimo periodo è il protagonista della quotidianità di tutti, non soltanto degli alunni. In generale la scuola reagisce alle trasformazioni esterne a essa con un atteggiamento difensivo. È raro che produca un ambito di autonomia. In conclusione proporremo qualche pista possibile, ma nel frattempo soffermiamoci su questa strana creatura, l’analfabeta, e sulle sue resistenze, che talvolta chiamiamo testardaggine, talaltra disturbo specifico, oppure negligenza, distrazione, ecc. Ciò su cui occorre concentrare brevemente l’attenzione è che le resistenze che molti alunni esercitano sulle programmazioni didattiche riguardano la loro frequentazione di un altro genere di scrittura, che non è quello alfabetico, corsivo, analogico e rappresentazionale, bensì è ideografico, immediato, digitale e correlativo. Anche chi inizia quest’anno a frequentare la scuola primaria sa padroneggiare la tecnologia touch. Uno schermo sensibile al tocco non ha niente a che vedere con un foglio su cui scrivere. E i bambini vedono prevalentemente più schermi che fogli. L’essere umano è una creatura mimetica: impara tutto guardandosi attorno, e così fanno anche i piccoli. È chiaro dunque che, nella misura in cui la tecnologia varia con una velocità incomparabilmente maggiore rispetto anche soltanto a vent’anni fa, lo scarto generazionale, che è inevitabile e sacrosanto nell’apprendimento scolastico, si riveli altrettanto incolmabile: la necessaria lentezza con la quale la scuola si aggiorna nei confronti delle innovazioni tecnologiche oggi diviene drammaticamente messa in evidenza; quella che era una risorsa pedagogica indispensabile – la distanza tra il maestro e l’allievo – diviene una lacuna. Tablet e LIM provano a tappare, più o meno efficacemente, qualche falla, ma le voragini sono evidenti. L’epidemia di dislessia che si sta verificando nelle scuole primarie e secondarie ne è un sintomo più che evidente. Chiediamoci: se la coscienza alfabetizzata è quella che interiorizza le distanze e le elabora, è quella capace di profondità e di precisione, di accuratezza, come avrebbe detto Ong, come è fatta la coscienza analfabeta? La risposta è abbastanza semplice, ancorché sconcertante: non ne abbiamo la minima idea. Non sappiamo come agiscano i bambini e i ragazzi che si negano alla lettura e alla scrittura. L’analfabetismo culturale ed emotivo, per esempio quello storico – che talvolta è terrificante – è magari tarpato da una cappa di sentimenti posticci forniti dalla televisione o dal passaparola dei coetanei, ma in generale l’aspetto esteriore dei nuovi analfabeti non ne fa cittadini di serie B, come invece accadeva anche soltanto cinquant’anni fa. Oggi, paradossalmente, a essere declassato è l’individuo alfabetizzato, anzi l’individuo colto. È lui a essere fuori posto, sembra dirci, nemmeno troppo larvatamente, il nuovo analfabeta. Che cosa passa per la testa, come è fatta la forma mentis di chi non ha modo né interesse ad accedere ai sistemi tradizionali del sapere, ai suoi occhi vetusti, noiosi, incomprensibili,

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irreali? Di lui possiamo soltanto dire che resiste: resiste ai nostri tentativi, resiste alle nostre insistenze, resiste persino alla nostra resa. La sua semplice presenza, come direbbero i filosofi, è di per sé fonte di conflitto sociale. Quello che in molti casi è descritto come un problema generazionale (nativi digitali vs immigrati digitali) è in realtà una nuova importante questione sociale, una lotta di classe, per dirla in maniera molto impopolare ma forse efficace. I bambini e i ragazzi resistono in maniera inedita alla didattica tradizionale. La resistenza c’è da sempre ed è il sale della relazione educativa. Guai se gli alunni assumessero sempre senza fiatare qualunque contenuto si trasmettesse loro: non ci sarebbe stata né evoluzione antropologica né sviluppo sociale. La giovanilizzazione è una delle invenzioni più preziose e più raffinate dell’avventura evolutiva umana. Tuttavia in questi ultimi anni la resistenza ha subito una metamorfosi. Si tratta non tanto di una capacità, di un’abilità o di una competenza specifiche, che alcuni maturano e altri no, di cui alcuni dispongono e di cui altri invece faticano a cogliere finanche i profili e i contorni; si tratta di una nuova realtà, a cui la gran parte degli adulti genitori ed educatori non ha accesso, se non in dimensione di clandestinità, e che invece costituisce la vita quotidiana delle generazioni più giovani. Ciò che per noi è reale, per molti ragazzi non lo è, e viceversa. La distinzione generazionale tra chi insegna e chi apprende ha sempre provocato simili discrasie, tuttavia questa è forse la prima volta in cui la realtà che la generazione più anziana cerca di trasmettere a quella più giovane non è più effettuale. Detto in altri termini: da sempre gli alunni hanno la sensazione che ciò che imparano a scuola non serva a un gran che; tuttavia oggi questa sensazione rischia di essere effettivamente giustificata. Da qui la noia, l’apatia, la perplessità con la quale i piccoli e i giovani affrontano i compiti e le consegne. La provocazione e l’ascesi Prima di affrontare il punto decisivo di questo intervento, cioè il “che fare” rivolto alla dimensione problematica dell’apprendimento a leggere e a scrivere, vorrei aprire un inciso che mi pare importante e scarsamente rilevato dai media e dalle politiche più o meno locali. Mi riferisco a un genere di analfabetismo che, secondo me erroneamente, è considerato secondario rispetto alla pervasività della comunicazione elettronica. Si tratta dell’analfabetismo da abbandono. Silenziosamente, senza che se ne faccia una tragedia, migliaia di bambini vivono in condizioni di povertà, lontani da qualunque stimolazione cognitiva, affettiva, socio-relazionale. Non si tratta di un’esagerazione: è sufficiente dare un’occhiata all’ultimo rapporto di Save the Children riferito alla popolazione minore italiana nel 2014: un milione e 45 mila bambini vivono in condizione di povertà assoluta, cioè senza cibo sufficiente, senza abbigliamento adeguato, senza istruzione, senza

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abitazione stabile, senza istruzione, senza supporto statale. Un milione e 45 mila bambini, in Italia. La dispersione scolastica è attorno al 17 % nella media nazionale, con punte del 20 % in Campania, del 24 % in Sardegna e del 25 % in Sicilia. Ecco un breve assaggio di quanto rileva il rapporto: «Gli ultimi test PISA sono stati somministrati nel 2012 a oltre 500 mila alunni di 15 anni in 64 paesi per valutare la capacità di utilizzare le conoscenze e le abilità in matematica e lettura, per risolvere problemi in una varietà di situazioni e per analizzare, interpretare e saper comunicare testi. In Italia, 1 alunno su 4 non raggiunge il livello minimo o sufficiente in matematica e 1 su 5 non raggiunge le competenze minime in lettura. Questi due gruppi in Italia sono più numerosi della media OCSE e soprattutto evidenziano enormi disparità regionali. Un’elevata percentuale di low-achievers indica scarsa efficacia del sistema scolastico e diffusa povertà educativa. L’influenza della condizione socio-economica e culturale della famiglia di provenienza sulle competenze appare evidente: la percentuale degli alunni sotto il livello sufficiente in lettura è significativa tra gli alunni delle famiglie “svantaggiate” e assai più contenuta tra gli alunni in famiglie “avvantaggiate”. Il legame tra condizioni di “svantaggio” socio-economico ereditate e povertà educativa è ancora sensibile ovunque». Chiamato a commentare i dati del rapporto, lo scrittore Paolo Giordano si espresse in questi termini (Corriere della Sera, 19 novembre 2015): «Non occorre eccedere in un bieco determinismo per accettare l’idea che, specie per i bambini e gli adolescenti, l’ambiente, gli stimoli e il livello di benessere siano dirimenti per il futuro. E, in ogni caso, esiste anche il presente a cui guardare, perché se a un individuo è stata corrotta l’infanzia, è inutile pensare che potrà essere risarcito più avanti. L’infanzia non è risarcibile, mai. Uno stato industrializzato può definirsi anche civile soltanto in proporzione a quanto appiano le discrepanze fra le condizioni di partenza delle sue generazioni più giovani. Proprio in questo l’Italia perde terreno drasticamente». La povertà non si vuole vedere ma c’è; c’è un conflitto sociale mascherato da conflitto generazionale, proprio come alla fine degli anni 60 c’era un conflitto generazionale mascherato da conflitto sociale. La lontananza dal leggere e dallo scrivere, che sia dovuta ad assuefazione da social network o a condizioni di miseria sociale, culturale, politica e materiale, o alle due cose insieme, è in ogni caso una provocazione fondamentale che mette in discussione l’intero apparato socio-educativo, scolastico e assistenziale. Dal punto di vista socio-antropologico, la provocazione è sempre l’elemento determinante per far emergere la specificità identitaria del gruppo che si intende studiare. Nel nostro contesto, le resistenze all’apprendimento del leggere e dello scrivere insegnano agli insegnanti per lo meno tre cose: la prima è che gli insegnanti hanno ancora molto da imparare; la seconda è che occorre continuare a studiare; la terza è che bisogna liberare l’azione educativa dall’ossessione performativa, come se a ogni stimolo corrispondesse sempre e soltanto una risposta. Come diceva un grande rabbino del Talmud, «non spetta a te portare a termine il lavoro, ma non sei nemmeno libero di sottrartene».

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Occorre quindi che chi si occupa di scuola impari senza timori o pregiudizi a usare gli strumenti comunicativi dei giovani e dei piccoli, che coltivi la propria formazione e il proprio ruolo senza illudersi di aver esaurito le potenzialità di ampliamento dei propri orizzonti culturali e della propria profondità psichica e spirituale, e infine che stia nella relazione educativa e non al di sopra, cioè si invischi nel rapporto con gli alunni, non si limiti al controllo comportamentistico per cui con un provvedimento, una circolare, un investimento finanziario si pensa di risolvere una svolta epocale. Una delle ossessioni dell’insegnamento è che gli alunni capiscano ciò che leggono. Ma con questa idea non si va molto lontano. L’importante non è capire, ma immaginare. È l’immaginazione che fomenta la curiosità e la motivazione. Certo, l’immaginazione ha subito un abuso spaventoso, dal maggio de l’imagination au pouvoir all’ode di John Lennon, fino alla ribalta sorniona di George Clooney che promette tutto e il contrario di tutto: “Immagina, puoi”. No, l’immaginazione che va promossa non è quella dell’accidiosa rinuncia all’azione ma al contrario: è mobilitazione dei sensi e delle capacità. Proviamo a vedere in che modo si può declinare tutto ciò sul piano pratico. Quando ci si rivolge a persone esperte, a coloro che detengono, come direbbe Jacques Lacan, il “supposto sapere”, al fine di risolvere o quanto meno di alleviare qualche problema, è frequente che tali persone si appellino all’universale legge del disincanto, che più o meno recita così: “Non ho la bacchetta magica, non ci sono ricette per risolvere il vostro problema. Posso dare qualche indicazione, ma la risoluzione esula dalle possibilità umane”. Ecco, credo che a questo punto, invece, occorra fornirla una ricetta. Non sarà una bacchetta magica, ma è comunque un suggerimento molto concreto di intervento, volto a migliorare il rapporto tra i piccoli, i giovani, e la lettura. Lo strutturo come una sorta di regola, l’ascesi della lettura, con la quale chiudo questo mio contributo. Non alimentare il conflitto. Là dove vi è una incompatibilità di competenze, non occorre pretendere che tutto torni come prima. Ci sono eventi più grandi di noi, e questa svolta di cui facciamo parte ne è un esempio. In termini pratici: dimensionare le consegne alle effettive potenzialità degli alunni, non cercare di adattare queste ultime ad aspettative astratte. Passare il tempo. I libri e la lettura nascono come passatempo e come sonnifero. A questo sono chiamati. Per trasmettere il gusto della lettura occorre che si assapori la lettura in tutti i sensi, si assaggi la pasta di cui sono fatti i libri, sin da neonati. Ci sono libri da manipolare, da succhiare, da inzuppare quando si fa il bagnetto, lettere di zucchero da assaggiare, libri di legno da battere sul tavolo o da farci le costruzioni… Si impara a leggere e a scrivere con tutto il corpo. Rispettare la crescita. Ci sono libri adatti a ogni età. Nella prima infanzia è meglio prediligere storie semplici in cui a ogni pagina corrisponda una sequenza narrativa. Meglio

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non moltiplicare i personaggi, non inserire excursus, il modello principe è Cappuccetto Rosso. Soltanto successivamente si possono introdurre elementi di complessità ulteriore e di tinte emotive più accese. Fomentare il mistero. Nella seconda infanzia è meglio leggere le fiabe classiche senza riduzioni o edulcorazioni. Usare i termini difficili come se fossero formule magiche. Ci penseranno i bambini a scoprirne il significato. L’importante non è capire, ma immaginare. Dosare l’ironia. Il mondo adulto è ironico, quello infantile è serissimo. La lettura è un esercizio di magia per i bambini e va tutelato in quanto tale. Non irridere gli errori di lettura, non mortificare i tentativi, non eludere le fatiche; valorizzare invece le prove di creatività e di coraggio, aiutare i piccoli a far tesoro delle proprie scoperte. Non obbligare. La lettura coatta è una non lettura. Ci sono tanti modi per valutare e per insegnare; se si legge per paura di un voto o di un giudizio, si perde qualunque gusto, e difficilmente lo si recupera in futuro. L’uso del diario è consigliabile nella prima adolescenza; ma come si fa a obbligare qualcuno a scrivere un diario? Sarebbe come imporre a una donna di amare il pretendente o a un bambino di giocare… Essere umili. Non disprezzare alcun sapere (nemmeno quello dei social network) né vergognarsi di imparare da chiunque (anche dai bambini o dai ragazzi). Questo significa anche smontare la costruzione gerarchica della didattica. Ogni tanto anche noi abbiamo da imparare qualcosa. È una peculiarità dei nostri tempi, a cui non sempre siamo preparati. Essere tranquilli. O, come invocano gli adolescenti, stare scialli. È impressionante quanto l’appello alla calma sia diffuso tra chi è irrequieto per privilegio d’età. Il che comunque per noi significa, in termini concreti, cercare tempi e spazi per la lettura e la scrittura. Tempi e spazi esteriori e interiori. Fare un po’ silenzio, promuovere la quiete e allontanare le distrazioni. Dosare la richiesta di concentrazione a seconda delle possibilità di ciascuno. Non si può leggere né scrivere in stato di agitazione. Essere essenziali. Non correre dietro al superfluo. Seguire le mode e le tendenze è necessario, ma non deve essere l’unica modalità di esercizio. Lettura e scrittura devono seguire il loro percorso specifico. Occorre educarsi ed educare alla sobrietà. Troppi stimoli riducono la capacità di cogliere i nessi e le costellazioni di senso. Essere stranieri. Tutto il mondo deve diventare terra straniera per chi vuole leggere in modo perfetto. I monaci chiamavano questo atteggiamento contemptus mundi. Oggi noi potremmo dire: non accontentarsi mai, non dare mai niente per scontato, cercare sempre qualcosa d’altro, qualcosa di meglio o di peggio, rischiare. Non attardarti nel solco dei risultati, come cantava René Char. Nota bibliografica M. Ammaniti, D. Stern (a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Roma-Bari 1991.

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Raccolta di saggi di psicologia culturale, molto interessante soprattutto per quanto riguarda la nozione di costruzione narrativa della realtà. Fondamentale in questo senso il saggio di Jerome Bruner.

Cederna, G. (a cura di), Bambini senza. Origini e coordinate delle povertà minorili, Save the Children, Roma 2015, www.atlante.savethechildren.it. Testo che andrebbe adottato in tutte le scuole d’Italia come lettura quotidiana.

M. Doni, L’esatta fantasia. Mente, memoria, narrazione, Medusa, Milano 2009. Mio lavoro di ricerca antropologica sulle matrici culturali e sociali della narrazione tradizionale. Lo cito perché ho usato molto materiale sulla tradizione narrativa mettendo in evidenza come questa capacità sia parte integrante dei rapporti di insegnamento.

G. Harrison, M. Callari Galli, Né leggere né scrivere. La cultura analfabeta: quando l’istruzione diventa violenza e sopraffazione, Meltemi, Roma 1997. Resoconto di un’importante indagine antropologica nel sud Italia. La prima edizione risale agli anni 70, ma è ancora attuale per quanto riguarda l’impianto e il messaggio generale: un’istruzione astratta, dall’alto, non fa che mortificare le intelligenze. Da notare anche la postfazione di Riccardo Massa.

I. Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, tr. A. Serra, D. Barbone, Cortina, Milano 1994. Forse il capolavoro di un grande pensatore. Utilizza un manuale del XII secolo per riflettere sui mutamenti della lettura e della scrittura.

E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, tr. E. Bongioanni, Feltrinelli, Milano 1994. Punto di partenza obbligato per chi intenda affrontare qualunque problema con un atteggiamento aperto alla complessità.

W. Ong, Il sacro oltre lo scandalo. Hopkins, il sé e Dio, tr. M. Doni, Medusa, Milano 2009. Libro molto intrigante, presenta l’opera di un grande poeta attraverso il suo habitat culturale, compreso il progresso tecnologico di cui fu testimone e, a modo suo, cantore.

C. Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Einaudi, Torino 2004. Ricco e avvincente saggio sull’uso sociale della memoria e sui supporti che gli esseri umani escogitano per svilupparla, custodirla e trasmetterla. Particolarmente utile per considerare l’arte figurativa e quella cosiddetta primitiva da una prospettiva insolita, talvolta spiazzante.

C. Sini, Filosofia e scrittura, Laterza, Roma-Bari 1994. Trascrizione di un seminario filosofico molto denso e per certi versi rivoluzionario. Non è di semplicissima lettura, ma ne vale la pena. Tema di fondo è il ruolo della scrittura alfabetica nella formazione della coscienza filosofica e politica occidentale.

Appunti ad uso esclusivamente interno

Terzo Incontro Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Martino Doni, Adriana Lafranconi

30 gennaio 2016

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Perchè leggere e scrivere oggi Cathedra di Psy

Cathedra di Psy, Istituto Boroli Novara; UniBg, Dip. Scienze Umane e Sociali

La traccia del gruppo di lavoro La riflessione di una docente Giovanna Fantoli, docente, collaboratore CQIA Università degli Studi di Bergamo, Coordinatrice del Progetto.

La traccia del gruppo di lavoro Riflessione del gruppo di lavoro

Il gruppo di lavoro si è riunito in data 2 dicembre 2015 per riflettere sul prossimo argomento, oggetto dell’incontro del 30 gennaio 2016: perché leggere e scrivere?

Il tema è di certo di grande importanza in un contesto nel quale, a tutti i livelli e gradi di istruzione, nonché nella vita adulta, si assiste a una generale disaffezione per la lettura e la scrittura, sostituite da mezzi di comunicazione e di svago che utilizzano una ‘logica’ diversa rispetto a quella tradizionale. Il mondo virtuale e cibernetico, si sa, ha stravolto il processo stesso di apprendimento nella sua natura profonda legata allo sviluppo e al manifestarsi del pensiero. In questo senso sono molte le voci di allarme che si levano da parte di pensatori che, a vario titolo - in quanto filosofi, letterati, psicologi, pedagogisti - mettono in guardia circa i rischi delle nuove tecnologie informatiche. Si citano fra gli altri Giovanni Reale con il breve ma significativo saggio Salvare la scuola nell’era digitale e Tzvetan Todorov con La letteratura in pericolo. Il filosofo Reale evidenzia come i nuovi strumenti digitali costituiscano il nemico ‘esterno’ più rilevante per il processo della scrittura e lettura, mentre

Todorov mostra come, già prima dell’avvento della cibernetica, la letteratura e quindi il gusto per la lettura fossero rose da un tarlo interno che nelle forme dello strutturalismo, per esempio, scompone il testo in una serie di parti privandolo del suo senso complessivo.

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Tutto questo si sta verificando sotto gli occhi di docenti e genitori – molti dei quali complici di tale deriva – in senso contrario rispetto a quanto richiesto dall’Europa che fra le competenze di base da maturare nella società della conoscenza richiede proprio la competenza di literacy e orality lungo tutto l’arco della vita in modo da padroneggiare, in primis, la lingua madre.

In quanto docenti, ma alla stessa maniera pensano i genitori intervenuti, ci accorgiamo di una grande fatica che i nostri studenti compiono – e quindi di riflesso della fatica per noi educatori - nell’avvicinarsi al testo scritto per leggerlo, per riprodurlo o per crearne uno nuovo con la scrittura. E infatti le questioni sorte riguardano, da un lato, l’impatto che le nuove tecnologie informatiche hanno sul processo dell’apprendere a leggere e a scrivere, non solo in senso negativo, ma come strumenti per migliorare l’apprendimento; dall’altro, riguardano aspetti più strettamente connessi alla motivazione della lettura e della scrittura. Ci si interroga infatti sulla motivazione (perché leggere e scrivere, appunto), ma anche sugli scopi e sulle finalità della lettura e della scrittura (leggere per; scrivere per), cosa che si può concretizzare di fronte a un tu con il quale si interagisce (leggere a, scrivere a), in modalità comunitarie (leggere e scrivere con). La lettura e la scrittura sono infatti attraversate da una dimensione sociale che fa di esse un veicolo di incremento della propria umanità sia quando si legge a mente e ‘da soli’ sia quando si legge o si scrive con altri e di fronte ad altri. La scrittura e conseguentemente la lettura ad alta voce è già un primo passo per la ‘drammatizzazione’. In questo senso, la teatralità quanto può aiutare gli alunni ad apprezzare l’attività di leggere e scrivere?

C’è poi il grande capitolo dei contenuti e quindi di che cosa leggere e di che cosa scrivere e di quali indicazioni seguire per la scelta di un libro da proporre e, non di meno, la questione dei modi e dei tempi durante i quali e con i quali proporre la lettura. Parafrasando il libro dell’Ecclesiaste c’è un tempo per scrivere e uno per leggere, uno per giocare e uno per essere seri, ecc.?

Forse i classici, pur adattati ai vari gradi di scuola, non sono ancora la cosa migliore? E la letteratura per l’infanzia? Con quali criteri orientarsi? Quale è la preoccupazione che dobbiamo vedere negli autori di questo filone di letteratura. E fra i generi letterari, ce n’è forse uno – o più di uno – che si addice di più alle diverse fasce di età? Pensiamo per esempio alla lettera o al diario per gli adolescenti e, oggi, alla ‘tecnica’ dei messaggini – o su supporto cartaceo i bigliettini - per i quali ci si chiede se essi possono risultare utili, e in che modo, ad affezionare gli studenti alla scrittura e alla lettura, almeno facendo leva sulla necessità di capire che cosa gli altri ci dicono. A partire dalla rivoluzione digitale il problema del supporto della lettura e scrittura diventa rilevante: che sia l’Ipad o la ‘vecchia’

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carta, anche riciclata, non è la stessa cosa. Per le generazioni adulte le annotazioni sui libri presentano un fascino che nessuna ‘freddo’ inserimento di nota a piè pagina o commento a lato del testo potranno mai avere. Ma è così anche per i nativi digitali?

Per certi aspetti, la lettura e la scrittura sono anche una scelta coraggiosa, perché hanno bisogno di condizioni di silenzio e di riflessione sempre più difficili da ottenere e hanno bisogno di ‘rinunciare’ ad altre attività, apparentemente ed effettivamente più gratificanti almeno nell’immediato. Come ‘convincere’ gli studenti che ne vale la pena? Sappiamo tutti il potere che hanno le immagini – e quindi il senso della vista e dell’udito – sulle menti dei bambini e dei giovani. Ebbene esse (le immagini, video, film) sono da considerarsi ‘temibili’ per l’attività della lettura e della scrittura o possono essere alleate?

Infine, rimane il dubbio fra poesia e prosa, fra testo regolato e testo ‘creativo’ e libero da vincoli di ogni sorta. Le diverse letterature sono nate nella forma della oralità e della versificazione perché ritenute più facili. Che cosa è cambiato oggi perché, al contrario di quanto storicamente si è verificato, risulta così difficile capire, memorizzare la poesia e, impresa vana, scrivere in poesia?

Ci rendiamo conto che le questioni affrontate sono tra le più rilevanti nel processo di istruzione e educazione e che esse, ovviamente, non riguardano solo l’insegnamento di lettere, ma sono trasversali rispetto a tutti gli ambiti della conoscenza e del sapere. Quali strumenti la sociologia, la psicologia e la pedagogia ci possono offrire per affrontare al meglio l’apprendimento della lettura e della scrittura così da appassionare i nostri alunni e studenti a tali attività?

Facciamo seguire un elenco grezzo delle questioni come le abbiamo elencate.

Fase 1

Quesiti/richieste per i quali si richiedono indicazioni/risposte già nelle relazioni degli Esperti:

- leggere perché - leggere su quale supporto. Differenze - leggere “a” - leggere “con” - che cosa leggere - come si sceglie una lettura - leggere quando - leggere invece di - leggere e guardare

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- drammatizzare - scrivere “a” - scrivere “con” - scrivere “per” - scrivere come creatività - poesia e prosa - lettera “a” - il diario personale - i messaggini - i bigliettini - scrivere e annotare sui libri Bibliografia per i Docenti e per i Genitori

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La riflessione di una docente Il gusto della lettura vien leggendo, della scrittura scrivendo. Riflessione di una docente sulla lettura e scrittura

Più di una volta mi è capitato di parlare con mamme di bambini di cinque - sei anni che di lì a poco sarebbero entrati nella scuola primaria. I loro figli avevano manifestato il desiderio di imparare a leggere e ci erano effettivamente riusciti in modo per così dire ‘artigianale’ accostando le sillabe delle targhe delle auto: MI – TO - SI – NO – VE – NA, ecc.. La loro motivazione era legata al fatto di possedere la chiave per entrare nel mondo affascinante delle auto e dei camion. Non è difficile pensare che i piccoli possano sentire molto più dei ragazzi grandi l’esigenza di entrare in contatto, tramite la lettura, con ciò che a loro interessa.

Questa osservazione potrebbe trovare conferma nel fatto che l’unico settore dell’editoria che non subisce crisi sia proprio quello dei libri per l’infanzia. Io credo che tale dato significhi un costante interesse da parte dei bambini verso le pagine scritte e disegnate e il loro bisogno di affrancarsi da un ‘mediatore’ di lettura. Il grande scrittore Tolkien era affascinato dalla possibilità di ‘inventare’ un sistema di segni, un codice personale da condividere con gli amici. Proprio tale interesse diverrà la base della lingua degli elfi e delle straordinarie avventure narrate nella sua ‘epica’. Egli dice infatti di avere «cominciato l’invenzione di lingue nella mia prima fanciullezza. Sono un filologo scientifico e i miei interessi erano, e rimangono, in gran parte scientifici. Ma mi interessavano anche i racconti della tradizione (in particolare quelli che parlavano di draghi) e amavo scrivere (non leggere) versi e composizioni metriche. Queste cose hanno cominciato a emergere quando ero ancora uno studente, per la disperazione dei miei tutor, e hanno quasi portato allo stroncamento della mia carriera»1.

Tuttavia, in senso opposto a quanto si è appena detto, si moltiplicano le situazioni – a cui ormai ci stiamo abituando – di piccoli che, in attesa insieme ai genitori, sulle auto, seduti a tavola o in altri contesti, passano il loro tempo con il cellulare ben fornito di video-giochi. In questi casi a loro non servono ‘chiavi’ di ‘decodificazione’ per entrare nelle storie che stanno osservando e ‘muovendo’ con i pulsanti: le immagini infatti sono di per sé comprensibili.

Circa gli effetti che il ‘virtuale’ può provocare sul modo con cui il pensiero procede quando ‘pensa’ non si contano gli studi, le ricerche e i libri dedicati a tale argomento. L’approccio 1 http://www.sulromanzo.it/blog/i-consigli-di-scrittura-di-tolkien consultato il giorno 19 gennaio 2016.

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filosofico può dare, in questo senso, un utile contributo. E qui sorge un primo problema: se la comunità scientifica internazionale e le società che sono più avanti nel processo di informatizzazione stanno facendo passi indietro rispetto a tale direzione mettendo in guardia dai pericoli che si corrono, nella scuola italiana si è invece imboccata la strada ‘informatica’ senza che il processo in corso sia criticamente analizzato. Quasi in tutte le aule scolastiche sono entrati computer, Lim e tablet con il risultato ‘teorico’ di mettere nel cassetto il libro cartaceo. Eppure, di fatto, i miei colleghi e io, che apparteniamo alle vecchie generazioni, pur provando ad adeguarci alle direttive ministeriali in materia, rimaniamo scettici e vediamo che i risultati positivi, per ora solo ipotizzati, sono superati dagli effetti negativi, da quelli più banali, a quelli più importanti e significativi.

Porto un esempio per entrambe le situazioni.

La lettura di un testo, supponiamo un articolo di giornale, su supporto cartaceo permette subito di averne una percezione complessiva: lunghezza, caratteristiche editoriali, organizzazione dei capoversi, paragrafi e capitoli, ecc. sono subito fruibili dal lettore. Non parliamo poi del ‘gusto’ derivato dal contatto con la carta, dal profumo che ha per esempio un libro o un giornale ‘fresco’ di giornata, tutti aspetti sensibili che coinvolgono i nostri sensi e la fisicità del nostro corpo.

Con la Lim si può solo lavorare su sezioni molto parziali, con l’intero sempre sfuggente; oppure nel tentativo di andare avanti e indietro, nell’aprire parti diverse, si perde tanto tempo con il risultato di avere studenti già subito deconcentrati e distratti.

In senso molto più grave, vedo i miei studenti scrivere e leggere solo sui minuscoli display per essere connessi ai loro coetanei sui social network. Addirittura ora, non serve più scrivere: basta parlare e il computer trasforma la voce in testo. Quindi ‘si risparmia’ anche sull’uso delle mani e dell’azione conseguente del digitare. Il risultato è la quasi totale sparizione della sintassi complessa o ipotassi sostituita da frammenti di frasi e abbreviazioni di parole. Di conseguenza poiché il linguaggio con le sue strutture grammaticali sono l’altra faccia del pensiero, tale povertà è sintomo di una malattia più profonda che è appunto la scarsa propensione a pensare. Ed essendo il pensiero – secondo la lezione dei filosofi medioevali – il modo con il quale abbracciamo l’essere e lo conosciamo, a perderci in tutta questa vicenda è l’essere umano nel suo rapporto con la realtà.

La riflessione si è spostata così dai bambini agli studenti più grandi. Io insegno in classi del secondo biennio e quinto anno della scuola secondaria di secondo grado. Per tutti però vale lo stesso principio per il quale non ho trovato smentite in 33 anni di insegnamento, e cioè

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che senza amore per la lettura non si legge, oppure se si legge per ‘dovere’, di tale piacere e gusto dell’anima e del pensiero non rimane nulla.

Per questo, il primo passo da compiere per arrivare ad apprezzare un libro è proporre agli studenti ciò che a loro piace oppure di indirizzarli verso bei libri. Uno dei casi letterari più recenti è rappresentato da Alessandro D’Avenia che con il primo romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue è riuscito a vincere la pigrizia di tanti ragazzi poco inclini, per usare un eufemismo, verso tale attività. Penso inoltre al successo ottenuto dai libri che hanno come protagonista Harry Potter oppure a quelli di Tolkien che sono riusciti a interessare i miei studenti delle generazioni passate e a indurli alla lettura. Del resto io dico loro di iniziare i primi capitoli e di decidere se continuare o meno. La condizione necessaria però è che essi diano credito all’autore e alla persona che ha consigliato il libro.

Per arrivare alla scuola secondaria con il desiderio di leggere occorrerebbe abituarsi, fin da piccoli, a vedere attorno a sé libri e persone che li leggono, meglio se sono mamma e papà. Divenuti grandi sarà sempre possibile trovare il genere letterario adatto a sé. Si aprirà così la possibilità di una occupazione straordinaria poiché attraverso le pagine di un libro prendono forma narrazioni che coinvolgono il lettore e lo proiettano nella dimensione del possibile. Chi scrive ha trascorso l’adolescenza e la giovinezza divorando romanzi: da Jane Austen a Dostoievskij passando per Léon Bloy, Thomas Merton e Bruce Marshall e ritiene che il tempo trascorso così sia stato bene speso.

È opinione comune che proprio l’attività del leggere sia fondamentale per la scrittura. E certamente il nesso fra le due cose è evidente. Tuttavia, per imparare a scrivere e a scrivere bene occorre soprattutto scrivere e aspettare che maturino ragione e cuore. Può essere un aiuto esercitarsi a parlare. In effetti fra scrittura e discorso si stabilisce una sorta di circolo virtuoso nel quale sarebbe difficile individuare che cosa sia causa e che cosa effetto. Le due competenze sono strettamente collegate e il linguaggio, che sia scritto o orale, è un tutt’uno con il pensiero.

Proposte operative

Sulla base di tali riflessioni mi permetto di formulare qualche ‘buona’ pratica che nella mia storia di docente ha sempre dato i suoi frutti.

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1 – Scrivere molto e scrivere insieme agli studenti. Scrivo con loro non perché gli studenti

mi imitino, ma perché comprendano come ragiono e come mi muovo con la scrittura. Del resto, normalmente, se assegno un compito o chiedo loro di esercitarsi in una tipologia testuale, svolgo anch’io quello stesso esercizio.

2 – Leggere/ascoltare belle storie insieme. A questo proposito, qualche giorno fa ho

raccolto lo sfogo di una giovane docente che non riesce a tenere la disciplina nelle classi prime di un istituto tecnico della scuola secondaria di secondo grado dove insegna Italiano e Storia. Mi diceva che gli unici momenti in cui regna il silenzio sono quelli della lettura di brani antologici. Le ho suggerito di fare solo quello per almeno uno o due mesi e non con brani antologici, ma con opere intere o con stralci molto ampi di esse. In tal modo il tempo non sarà buttato via.

3 – Ascoltarsi per.. radio. Sto sperimentando con le mie classi quarte un metodo che si sta

rivelando molto interessante. Invito gli studenti a pensare un breve discorso di qualche minuto che può avere come argomento uno dei contenuti affrontati a scuola oppure un argomento del tutto libero. In una seconda fase, a turno, gli studenti pronunciano quanto hanno pensato, mentre li registro.

Infine, nella terza fase, ascoltiamo i loro discorsi con l’altoparlante, come se si trattasse di una radio. Il risultato è affascinante. Gli studenti hanno riconosciuto in sé e negli altri una serie di aspetti del discorso orale, e quindi poi di quello scritto, che non sospettavano.

4 – Giocare con le parole. La lettura e la scrittura hanno a che fare con l’azione del

nominare le cose. Per questo ritengo importante proporre ‘giochi’ e confronti fra le parole studiandone la loro etimologia che è sempre la fonte di tante considerazioni.

5 – Ascoltare gli autori. Leggere e ascoltare quanto ci dicono i grandi autori sull’origine della loro passione per la scrittura o lettura. Si pensi per esempio allo stesso Tolkien già citato in queste pagine oppure alla scrittrice americana Flannery O’Connor che dedica un libro proprio al mistero della scrittura2.

6 – L’attività più importante rimane sempre una sola: scrivere per avere il gusto della scrittura e leggere per quello della lettura proprio come l’appetito che vien mangiando.

2 Cfr. Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Minimumfax, Roma 2003.


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