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il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
1
IL NARRATORE AUDIOLIBRI PRESENTA
Racconti umoristici di
Anton P. Čechov
01 - Un cognome cavallino
Al maggior generale a riposo Buldeiev avevan preso a dolere i denti. Egli
sciacquava la bocca con acquavite, con cognac, applicava al dente malato della
gruma di tabacco, dell'oppio, della canfora, del petrolio, spalmava la guancia con
iodio, negli orecchi aveva dell'ovatta imbevuta di spirito, ma tutto ciò o non giovava, o
gli provocava la nausea. Alla proposta di estirpare il dente malato il generale aveva
risposto con un rifiuto. Tutti i familiari - la moglie, i bambini, la servitù, perfino lo
sguattero Pet'ka - proponevano ciascuno un suo rimedio. Tra l'altro, anche
l'intendente di Buldeiev, Ivan Jevseic', venne da lui e gli consigliò di curarsi con gli
scongiuri.
«Qui, nel nostro distretto, eccellenza» disse, «un dieci anni fa era in servizio
l'impiegato del dazio Jakov Vassilic'. Nello scongiurare il mal di denti era di prima
qualità. Soleva voltarsi verso la finestra, mormorare qualcosa, sputare, ed era fatto!
Una tal forza gli era stata data... ».
«E dov'è adesso?».
«Dopo che l'hanno licenziato dal dazio, abita a Saratov dalla suocera. Ora non vive
che sui denti. Se a qualcuno un dente si mette a far male, si va da lui, e giova...
Quelli del posto, di Saratov, li cura a casa propria, e quelli che sono di altre città, per
telegrafo. Mandategli, eccellenza, un telegramma, dicendo ch'è così e così... al servo
di Dio Aleksèi dolgono i denti, prego guarire. E il denaro per la cura lo manderete per
posta».
«Insulsaggini! Ciarlataneria!».
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«Ma voi provate, eccellenza. È molto amante della vodka, non vive con la moglie,
ma con una tedesca, bestemmia, ma, si può dire, è un signore miracoloso! ».
«Mandalo, Alioscia» supplicò la generalessa. «Tu, ecco, non credi negli scongiuri,
ma io ho provato su me stessa. Anche se non credi, perché non mandare? Non ti
seccheranno mica le braccia per questo».
«Be', d'accordo» acconsentì Buldeiev. «Qui non solo all'impiegato del dazio, ma
anche al diavolo manderesti un telegramma... Oh! Non ne posso più! Be', dove abita
il tuo impiegato del dazio? Come scrivergli? ».
Il generale sedette davanti alla tavola e prese in mano la penna.
«A Saratov ogni cane lo conosce» disse l'intendente. «Vogliate scrivere,
eccellenza: città di Saratov, dunque... A sua nobiltà il signor Jakov Vassilic'...
Vassilic'...».
«Be'?».
«Vassilic'... Jakov Vassilic'... e di cognome... Ecco che il cognome l'ho
dimenticato!... Vassilic'... Diavolo... Com'è dunque il suo cognome? Poc'anzi, quando
venivo in qua, me ne ricordavo... Permettete... ».
Ivàn Jevseic' levò gli occhi al soffitto e mosse le labbra. Buldeiev e la generalessa
aspettavano impazienti.
«Ebbene? Pensa più svelto!».
«Subito... Vassilic'... A Jakov Vassilic'... Ho dimenticato! È anche un cognome così
semplice... cavallino; si direbbe... Giumentin1? No, non Giumentin. Un momento...
Stallonov forse? No, nemmeno Stallonov. Ricordo ch'è un cognome cavallino; ma
quale, m'è uscito di capo...».
« Puledrov? » .
«Proprio no. Un momento... Giumèntizin... Giumèntikov... Kobeliòv...».
«Questo è già canino2, e non cavallino. Stallòncikov? ».
«No, nemmeno Stallòncikov... Cavallinin... Cavalkòv... Puledrin... È sempre un'altra
cosa!».
«Be', allora come potrò scrivergli? Pensaci!».
«Subito. Cavalkin... Giumentkin...Timonièr3...»
1Questo nome, e a tutti i successivi, per mantenere il sapore della novella, viene data la corrispondente forma italiana, salvo le terminazioni russe, che si conservano. 2 Viene infatti da kobèl, cane (maschio). 3 Timoniere, o cavallo delle stanghe.
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«Timonierkov?» domandò la generalessa.
«Proprio no. Bilancinkin4... No, non è questo! Ho dimenticato! ».
«Allora perché mai, che il diavolo ti porti, ti fai avanti coi tuoi consigli, se hai
dimenticato? andò in collera il generale. «Vattene fuori di qui!».
Ivàn Jevseic' uscì lentamente, e il generale si afferrò la guancia e prese a girare per
le stanze.
«Oh, padri miei!» si lamentava. «Oh, mamma mia! Oh, vedo le stelle!».
L'intendente uscì in giardino e, levati gli occhi al cielo, cercò di rammentare il
cognome dell'impiegato daziario: «Stallòncikov... Stallonkovski... Stallònenko...
No, non è questo! Cavallinski... Cavallevic'... Stallònovic... Giumentianski...».
Dopo un po' di attesa lo chiamarono dai signori. «Te ne sei ricordato?» domandò il
generale.
«Proprio no, eccellenza».
«Forse Corsierski? Cavalnikov? No?».
E nella casa si misero tutti a gara a inventar dei cognomi. Passarono in rassegna
tutte le età, i sessi e le razze dei cavalli, ricordarono la criniera, gli zoccoli, i
finimenti... In casa, in giardino, nella stanza dei servi e in cucina le persone
andavano da un angolo all'altro e, grattandosi la fronte, cercavano il cognome...
L'intendente veniva di continuo chiamato in casa.
« Mandriòv?» gli domandavano. «Zoccolìn? Staillonovski?».
«Proprio no» rispondeva Ivàn Jevseic' e, levati in alto gli occhi, continuava a
pensare ad alta voce: «Destrièrenko... Destrièrcenko... Stallonieiev...
Giumentieiev...».
«Babbo!» si gridava dalla stanza dei bambini. «Troikin! Briglietkin!».
Tutta la casa di campagna fu sottosopra. Il generale impaziente, sfinito, promise di
dare cinque rubli a chi avesse ricordato il vero cognome, e a cercare Ivàn Jevseic'
cominciarono a venire a intere frotte...
«Baiov!» gli dicevano. «Trottatorski! Cavallitski! ».
Ma giunse la sera e il cognome non era ancora stato trovato. E così andarono a
dormire, senza aver mandato il telegramma.
Il generale non dormì tutta notte e andò sempre da un angolo all'altro, gemendo...
Dopo le due del mattino usci di casa e bussò alla finestra dell'intendente. 4 Da bilancino o trapelo (il cavallo di rinforzo).
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«Non è Castronov?» domandò con voce di pianto.
«No, non è Castronov, eccellenza» rispose Ivàn Jevseic' e sospirò come un
colpevole.
«Ma forse non è un cognome cavallino, ma qualche altro!».
«Parola d'onore, eccellenza, è cavallino... Questo anzi lo ricordo benissimo».
«Come sei smemorato, mio caro... Per me adesso quel cognome è più caro, mi
sembra, d'ogni cosa al mondo. Sono sfinito!».
Al mattino il generale mandò nuovamente per il dottore.
«Lo estragga!» si risolse. «Non ho più la forza di sopportare... ».
Arriva il dottore ed estrasse il dente malato. Il dolore si calmò immediatamente, e il
generale tornò tranquillo. Fatta l'opera sua e ricevuto quel che spettava per il lavoro,
il dottore salì sul suo calesse e andò a casa. Fuor del portone in un campo incontra
Ivàn Jevseic'... L'intendente stava sul ciglio della strada e, guardandosi riconcentrato
sotto i piedi, pensava a qualcosa. A giudicar dalle rughe che gli solcavano la fronte e
dall'espressione degli occhi, i suoi pensieri eran tesi, tormentosi.
«Isabellov... Correggionov...» mormorava. «Soggolin... Cavalski...».
«Ivàn Jevseic! » gli si rivolse il dottore. «Non potrei, colombello, comprar da voi un
cinque stai d'avena? I nostri contadini mi vendono l'avena, ma è cattiva assai...».
Ivàn Jevseic' guardò ottusamente il dottore, fece un certo qual bizzarro sorriso e,
senza dir nemmeno una parola in risposta, battendo le mani, corse verso la casa
padronale con tanta rapidità come se lo avesse inseguito un cane arrabbiato.
«Ho trovato, eccellenza! si mise a gridare gioiosamente, con voce alterata,
piombando nello studio del generale. «Ho trovato, che Dio conservi in salute il
dottore! Avenov! Avenov è il cognome dell'impiegato daziario! Avenov, eccellenza!
Mandate un telegramma ad Avenov! ».
«To'! » disse il generale con disprezzo e gli fece le corna sotto il viso. «Non ho più
bisogno del tuo cognome cavallino! To'!».
02 - Il Leone e il Sole
In una delle città situate da questa parte della catena degli Urali si diffuse la voce
che giorni prima era giunto in città e si era fermato all'albergo Giappone il dignitario
persiano Rachat-Chelam. Questa voce non produsse sugli abitanti alcuna
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impressione: era arrivato un persiano, e fosse pure. Il solo sindaco della città, Stepàn
Ivànovic' Kutsin, appreso dal segretario della Giunta l'arrivo dell'orientale, si fece
pensoso e domandò:
«Dove si reca?».
«A Parigi, sembra, o a Londra».
«Uhm!... Dunque un pezzo grosso?».
«Ma il diavolo lo conosce».
Venuto dalla Giunta a casa sua, e pranzato, il sindaco tornò a farsi pensoso, e
questa volta ormai meditò fin proprio a sera. L'arrivo dell'illustre persiano lo aveva
fortemente incuriosito. Gli pareva che il destino stesso gli avesse inviato quel
Rachat-Chelam e che, finalmente, fosse venuto il momento propizio per fare del suo
appassionato, intimo sogno una realtà. Il fatto è che Kutsin aveva due medaglie, la
Stanislao di terza classe, l'insegna della Croce Rossa e l'insegna della «Società di
Salvataggio sulle Acque», e inoltre si era fatto ancora un ciondolo (fucile e chitarra
d'oro, che si incrociavano), e questo ciondolo, infilato all'occhiello della divisa,
somigliava da lontano a qualcosa di speciale e passava benissimo per un segno di
onorificenza. È poi risaputo che, più si han decorazioni e medaglie, più se n'ha
voglia; e il sindaco della città da un pezzo già desiderava ricevere l'ordine del «Leone
e Sole», lo desiderava appassionatamente, pazzamente. Egli sapeva a meraviglia
che per ricevere quest'ordine non necessitava né battersi, né fare un'elargizione a un
asilo, ma ci voleva solo un'occasione propizia. E ora gli pareva che quest'occasione
fosse venuta.
Il giorno dopo, a mezzodì, egli mise tutti i suoi distintivi, la catenella, e si recò al
Giappone. La sorte lo favorì. Quand'egli entrò nella camera dell'illustre persiano,
quest'ultimo era solo e non faceva nulla. Rachat-Chelam, un asiatico colossale dal
lungo naso di beccaccia, gli occhi a fior di testa, e in fez, era seduto sul pavimento e
rovistava nella valigia.
«Prego scusare il disturbo» cominciò Kutsin, sorridendo. «Ho l'onore di
presentarmi: cittadino emerito ereditario e cavalier Stepàn Ivànovic' Kutsin; sindaco
del luogo. Stimo dover mio onorare sotto l'aspetto della vostra persona, per così dire,
il rappresentante d'una potenza a noi amica e vicina.
Il persiano si volse e borbottò qualcosa in pessima lingua francese, che risonò
come il batter di una gamba di legno contro un'asse.
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«I confini della Persia» continuò Kutsin il saluto anticipatamente mandato a
memoria, «si toccano strettamente con le frontiere della nostra vasta patria, e per ciò
le mutue simpatie mi spingono, per così dire, a esprimervi solidarietà».
L'illustre persiano si alzò e tornò a borbottare alcunché in una lingua legnosa.
Kutsin, che non conosceva le lingue, scosse la testa in segno che non capiva.
«Be', come farò a discorrer con lui?» pensò. «Sarebbe bene ora mandar per un
interprete, ma è una faccenda delicata, non si può parlare davanti a testimoni.
L'interprete lo strombazzerebbe poi per tutta la città».
E Kutsin prese a richiamarsi in mente delle parole straniere, quali le conosceva dai
giornali.
«lo sono il sindaco della città...» mormorò. «Cioè il lord-mer5... munizipale6... Vuì?
Comprené7?.
Egli voleva esprimere a parole o in mimica la sua posizione sociale e non sapeva
come farlo. Gli venne in aiuto un quadro con una grossa scritta «La città di Venezia»,
appeso al muro. Egli accennò col dito alla città, poi alla propria testa, e in tal modo, a
suo avviso, si ottenne la frase: «Io sono il sindaco della città». Il persiano non capì
nulla, ma sorrise e disse:
«Biene, musié... beene...».
Mezz'ora dopo il sindaco andava battendo al persiano ora un ginocchio, ora una
spalla, e diceva: «Comprené? Vuì? Come lord-mer e munizipale... vi propongo di
fare un piccolo promenàz8 Cornprené? Un promenàz...».
Kutsin puntò un dito su Venezia e con due dita raffigurò delle gambe in cammino.
Rachat-Chelam, senza levar gli occhi dalle sue medaglie e indovinando, a quanto
pareva, ch'era il personaggio più importante della città, capì la parola promenàz e
scoprì i denti cortesemente.
Quindi i due indossarono il cappotto e usciron dalla camera. Giù, accosto all'uscio
che metteva nel ristorante Giappone, Kutsin pensò che non sarebbe stato male fare
un trattamento al persiano. Si fermò e, indicandogli le tavole, disse:
5 Cioè lord-nzaire, nome dato al capo dell'amministrazione municipale di Londra. 6 Così nel testo. 7 Storpiatura di: Oui? Coniprenez? Sì? Capite? 8 Per prontenade, passeggiata.
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«Secondo l'uso russo, non guasterebbe... piurè, antrecot... sciarnpagn9, eccetera...
Comprené?». L'insigne ospite capì e, dopo breve attesa, i due sedevano nella miglior
saletta del ristorante, bevevano sciampagna e mangiavano.
«Beviamo alla prosperità della Persia!» diceva Kutsin. «Noi russi amiamo i persiani.
Saremo di fede differente, ma i comuni interessi, le reciproche, per così dir,
simpatie... il progresso... i mercati asiatici... le conquiste pacifiche, per così dire...».
L'illustre persiano mangiava e beveva con grande appetito. Egli piantò la forchetta in
un filetto di storione e, scotendo entusiasticamente la testa, disse: «Biene! Bien!».
«Vi piace?» si rallegrò il sindaco. «Bien? Ecco, benissimo». E, rivolto al cameriere,
disse: «Lukà, fa' mandare, caro, a Sua Eccellenza in camera due dorsi di storione,
che sian dei migliori!».
Poi il sindaco della città e il dignitario persiano andarono a visitare il giardino
zoologico. Gli abitanti videro come il loro Stepàn Ivànovic', rosso dallo sciampagna,
allegro, molto soddisfatto, guidava il persiano per le vie principali e per il bazar,
mostrandogli le cose singolari della città, e lo conduceva anche in torre di vedetta.
Fra l'altro, gli abitanti videro com'egli si fermò presso il cancello di pietra con leoni e
additò al persiano dapprima un leone, poi, in alto, il sole, accennò a sé in petto, poi di
nuovo il leone e il sole, e il persiano prese a scuotere il capo, come in segno di
assenso, e, sorridendo, mise in mostra i suoi denti bianchi. A sera i due sedevano
all'albergo Londra e ascoltavano le arpiste, e dove furon la notte, non si sa.
Il giorno dopo, di mattina, il sindaco era in Giunta; gl'impiegati, evidentemente,
qualcosa già sapevano e indovinavano, poiché il segretario gli si accostò e disse,
sorridendo beffardo:
«I persiani hanno tale uso: se da voi viene un ospite illustre, dovete di propria mano
sgozzar per lui un montone».
E dopo breve attesa, recapitarono un plico, ricevuto per posta. Il sindaco dissigillò e
vi scorse una caricatura. Vi era disegnato Rachat-Chelam, e davanti a lui stava
ginocchioni lo stesso sindaco della città che, tendendogli le braccia, diceva:
Tra due reami d'amistade in segno,
Di Russia, dico, e d'Iran la nazione,
E in vostr'onore, ambasciator preclaro, 9 Cioè purée, entrecôte... champagne, passata, costata... sciampagna.
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Me stesso scannerei come un montone.
Scusatemi però: sono un somaro.
Il sindaco provò un senso spiacevole, simile a risucchio alla bocca dello stomaco,
ma non per lungo tempo. A mezzogiorno era già di nuovo dall'illustre persiano, di
nuovo gli faceva gli onori e, mostrandogli le cose notevoli della città, di nuovo lo
conduceva al cancello di pietra e di nuovo accennava ora il leone, ora il sole, ora il
proprio petto. Pranzarono al Giappone; dopo pranzo, coi sigari tra i denti, tutt'e due
rossi, beati, risalirono in torre, e il sindaco, evidentemente desiderando offrire
all'ospite uno spettacolo raro, gridò dall'alto alla sentinella, che passeggiava di sotto:
«Suona l'allarme!».
Ma allarme non ne seguì, giacché i pompieri in quel momento erano al bagno.
Cenarono al Londra, e dopo cena il persiano partì... Accompagnandolo, Stepàn
Ivànovic' scambiò tre baci con lui, all'uso russo, e versò perfino qualche lacrima. E
quando il treno si mosse, gridò:
«Salutate per noi la Persia. Ditele che noi l'amiamo!».
Passarono un anno e quattro mesi. Vi era un forte gelo, un trentacinque gradi sotto
zero, e spirava un vento tagliente. Stepàn Ivànovic' camminava per la via, con la
pelliccia aperta sul petto, ed era stizzito che nessuno s'imbattesse in lui e vedesse
sul suo petto il «Leone e Sole». Camminò così fino a sera, con la pelliccia aperta,
intirizzì ben bene, e la notte si girò sempre da un fianco sull'altro, senza potere in
alcun modo prender sonno. Si sentiva l'anima oppressa, dentro un bruciore, e il
cuore gli batteva inquieto: aveva voglia ora di ricevere l'ordine serbo del «Takovo».
Ne aveva una voglia appassionata, tormentosa.
03 - Lieto fine
Dal capotreno Stic'kin, in uno dei suoi giorni di franchigia, sedeva Liubòv
Grigòrievna, posata, fine signora sulla quarantina, che si occupava di matrimoni, e di
molti altri affari dei quali è uso parlare solo a bassa voce. Stic'kin, un po' turbato, ma
serio, positivo e austero, camminava per la stanza, fumando un sigaro, e diceva:
«Lietissimo di far conoscenza. Semiòn Ivànovic' vi ha raccomandata sotto
quest'aspetto, che voi potete aiutarmi in una faccenda delicata, importantissima,
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riguardante la felicità della mia vita. Io, Liubòv Grigòrievna, ho ormai cinquantadue
anni, cioè un'età in cui moltissimi hanno già figli grandi. Ho un impiego solido.
Sebbene non abbia un gran patrimonio, posso mantenere presso di me la creatura
amata e i figli. Vi dirò, fra di noi, che, oltre lo stipendio, ho altresì denari in banca, che
ho risparmiato in conseguenza del mio tenor di vita. Sono un uomo, io, positivo e
sobrio, meno una vita giudiziosa e conforme, talché posso pormi d'esempio a molti.
Ma una sola cosa mi manca: un mio proprio focolare domestico, la compagna della
vita, e conduco la mia esistenza come un qualsiasi ungherese nomade, da luogo a
luogo, senza soddisfazione alcuna, e senza nessuno con cui consigliarmi, e,
ammalandomi, non ho chi mi dia nemmeno un po' d'acqua, eccetera. Inoltre, Liubòv
Grigòrievna, l'ammogliato ha sempre più peso nella società che uno scapolo. Io sono
un uomo della classe istruita, con denari, ma a guardarmi da un certo punto di vista,
chi sono io? Un senzafamiglia, tal quale come un qualsiasi prete cattolico. E perciò
desidererei moltissimo unirmi coi vincoli d'Igumenèo10, cioè contrarre legittimo
matrimonio con qualche degna persona».
«È una buona cosa!» sospirò la mediatrice.
«Sono un uomo solitario, io, e in questa città non conosco nessuno. Dove andrò e a
chi mi rivolgerò, se per me tutti sono sconosciuti? Ecco perché Semiòn Ivànovic' mi
consigliò di rivolgermi a una persona che è specialista in questo ramo, e nel trattare
della felicità della gente ci ha la sua professione. E perciò vivissimamente pregovi,
Liubòv Grigòrievna, di dare con la vostra assistenza assetto al mio destino. Voi in
città conoscete tutte le ragazze da marito e vi è facile sistemarmi».
«Questo si può...».
«Bevete, prego umilissimamente...».
Con gesto abituale la mediatrice portò il bicchierino alla bocca e lo vuotò, senza
fare una smorfia. «Questo si può» ripeté. «E quale ragazza, Nikòlài Nikolaic', vi
garberebbe?».
«A me? Quella che il destino manderà».
«È questa, certo, cosa del destino, ma ognuno ha pure i suoi gusti. Una ama le
brune, un altro le bionde».
«Vedete, Liubòv Grigòrievna...» disse Stic'kin, sospirando con gravità. «Io sono un
uomo positivo e di carattere. Per me la bellezza e, in generale, l'apparenza ha una 10 Invece d'Imeneo, facendo così derivare la parola da igumeno, il superiore del monastero ortodosso.
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parte secondaria, perché, lo sapete voi stessa, la bellezza non si beve, e da una
moglie bella si hanno moltissimi fastidi. Io suppongo che in una donna l'importante
non sia il di fuori, ma quel che si trova dentro; cioè che abbia un'anima e tutte le
qualità. Bevete, vi prego umilissimamente. È certo quanto mai piacevole se la moglie
sarà pienotta della persona, ma questo per la reciproca fortuna non è cosa
essenziale; l'importante è l'intelligenza. Propriamente parlando, nella donna non ci
vuol neppure l'intelligenza, poiché a causa dell'intelligenza ella avrà un gran concetto
di sé e vagheggerà svariati ideali. Senza istruzione oggidì non si può, questo è certo,
ma vi è istruzione e istruzione. Fa piacere se la moglie parla francese e tedesco, e
canta diverse arie, fa molto piacere; ma che costrutto se n'ha, se non sa attaccarti,
mettiamo, un bottone? Io sono della classe istruita; col principe Kanitelin, posso dire,
sono tal quale come ora con voi; ma ho un carattere semplice. A me occorre una
ragazza piuttosto semplice. Più importante di tutto poi è che lei mi rispetti e senta
ch'io l'ho resa felice».
«È cosa nota».
«Be', ora, circa il sostantivo11... Ricca non mi occorre. lo non mi permetterò la
bassezza di sposare il denaro. Desidero che non sia io a mangiare il pane della
moglie, ma lei il mio, e che lo senta. Ma non mi occorre nemmeno una povera.
Anche se sono un uomo agiato, anche se mi sposo non per interesse, ma per amore,
non posso però prendere una povera, perché, lo sapete voi stessa, ora tutto è
rincarato e ci saranno dei figli».
«La si può trovare anche con dote» disse la mediatrice.
«Bevete, prego umilissimamente...».
Tacquero per un cinque minuti. La mediatrice sospirò, guardò in tralice il capotreno
e domandò: «Be', e così, bàtiuska... come scapolo, non ti ci vuol nulla? C'è della
buona merce. Una francese, e ve ne sarà un'altra greca. Di molto valore».
Il capotreno pensò un poco e disse:
«No, vi ringrazio. Vedendo da parte vostra così buona disposizione, permettete ora
di domandare: quanto prenderete per le vostre premure circa la fidanzata?».
«Non mi occorre molto. Darete un biglietto da venticinque e la stoffa per un vestito,
come usa, e grazie... E per la dote separatamente, quest'è un altro conto».
11 Il capotreno vuol dire: il sostanziale.
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Stic'kin incrociò le braccia sul petto e si mise a pensare in silenzio. Dopo aver
pensato, sospirò e disse:
«È caro...».
«E non è punto caro, Nikolài Nikolaic'! Prima, quando nozze ce n'eran molte, si
soleva prendere anche meno; ma al tempo d'oggi, quali sono i nostri guadagni? Se in
un mese grasso buscherai due biglietti da venticinque, sia ringraziato Iddio. E allora,
bàtiuska, non è sulle nozze che ci arricchiamo».
Stic'kin guardò dubbioso la mediatrice e alzò le spalle.
«Uhm! Ma forse che due biglietti da venticinque son poca cosa?» domandò.
«Certo, son poca cosa! Nei tempi andati accadeva che più di cento ne
guadagnassimo».
«Uhm!... Io non mi aspettavo punto che con simili affari si potesse guadagnare una
tal somma. Cinquanta rubli! Non ogni uomo riceve tanto! Bevete, prego
umilissimamente...».
La mediatrice bevve e non fece una smorfia. Stic'kin la sbirciò da capo a piedi e
disse: «Cinquanta rubli. Sono dunque seicento rubli all'anno... Bevete, prego
umilissimamente... Con simili dividendi, sapete, Liubòv Grigòrievna, non vi sarà
difficile trovare a voi stessa un buon partito».
«A me?» rise la mediatrice. «Io son vecchia».
«Nient'affatto... E ci avete anche una tal complessione, e un viso pienotto, bianco, e
tutto il resto». La mediatrice restò confusa. Stic'kin pure si confuse e sedette accanto
a lei.
«Voi potete ancora piacere moltissimo» disse. «Se vi capiterà un marito positivo,
serio, economo, col suo stipendio e col vostro guadagno potrete perfino piacergli
assai e vivrete a cuore a cuore...».
«Dio sa ciò che andate dicendo, Nikolài Nikolaic'...».
«Che cosa? Io nulla».
Seguì un silenzio. Stic'kin cominciò a soffiarsi il naso rumorosamente, e la
mediatrice si fece tutta rossa e, guardandolo vergognosa, domandò:
«E voi quanto ricevete, Nikolài Nikolaic'?».
«Io? Settantacinque rubli, gratificazioni a parte. Inoltre, abbiamo il reddito delle
steariche e delle lepri».
«Vi occupate di caccia?».
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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«No, lepri da noi vengono chiamati i viaggiatori senza biglietto».
Trascorse ancora un minuto in silenzio. Stic'kin si alzò e in agitazione prese a
camminare per la stanza.
«A me non occorre una consorte giovane» disse. «Io sono un uomo maturo e mi ci
vuole una che sia... d'un genere come sarebbe il vostro... seria e posata... e d'una
complessione del vostro genere».
«Ih, Dio sa ciò che state dicendo...» ridacchiò la mediatrice, coprendosi col
fazzoletto il viso porporino.
«Che c'è qui da pensare a lungo? Voi mi andate a genio e mi convenite con le
vostre qualità. Io sono un uomo positivo, sobrio, e, se vi piaccio, allora... che c'è di
meglio? Permettete di farvi la proposta!». La mediatrice versò qualche lacrima, rise
e, in segno di consenso, toccò il bicchiere con Stic'kin. «Be'» disse il felice capotreno,
«ora permettete di spiegarvi quale condotta e modo di vivere io desidero da voi... Io
sono un uomo austero, posato, positivo, intendo tutto nobilmente, e desidero che mia
moglie sia del pari austera e capisca che per lei io sono un benefattore e il primo
degli uomini.
Egli sedette e, dato un profondo sospiro, prese ad esporre alla promessa sposa le
sue vedute sulla vita di famiglia e sui doveri della moglie.
04 - La lota
Mattino estivo. Nell'aria c'è silenzio; solo una cavalletta stride ogni tanto sulla riva e
in qualche posto timidamente brontola un aquilotto. Nel cielo stanno immobili delle
nubi piumose, simili a neve sparpagliata... Vicino al bagno in costruzione, sotto le
verdi fronde di un salcio, si dibatte nell'acqua il carpentiere Gherassim, un contadino
alto, scarno, dalla testa rossa ricciuta e il viso irto di peli. Egli sbuffa, riprende fiato e,
strizzando fortemente gli occhi, si sforza di tirar fuori qualcosa di sotto le radici del
salcio. La sua faccia è coperta di sudore. A una tesa da Gherassim, nell'acqua fino
alla gola, sta il carpentiere Liubìm, un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e
gli occhietti stretti, da cinese. Entrambi, Gherassim come Liubìm, sono in camicia e
mutande. Sono illividiti dal freddo, perché ormai da più d'un'ora stanno nell'acqua...
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«Ma tu perché tasti sempre con la mano?» grida il gobbo Liubìm, tremando come
nella febbre. «Testa di cavolo che sei! Tu tienla, tienla, se no scapperà, la maledetta!
Tienla, dico!».
«Non scapperà... Dove dovrebbe scappare? S'è cacciata sotto le radici...» dice
Gherassim con voce arrochita, sorda di basso, che viene non dalla laringe, ma dal
profondo del ventre. «È viscida, questa diavola, e non si sa per che cosa
acchiapparla».
«Tu chiappala per le branchie, per le branchie!».
«Non si vedon le branchie... Aspetta, l'ho acchiappata per qualche cosa... Per il
labbro l'ho acchiappata. Morde, questa diavola!».
«Non tirarla per il labbro, non tirarla: la lascerai andare! Per le branchie
acchiappala, per le branchie acchiappala! Di nuovo s'è messo a tastar con la mano!
Ma che contadino senza cervello, perdonami, Regina dei Cieli! Chiappala!».
«Chiappala» lo contraffà Gherassim. «Che comandante s'è trovato!... Dovresti
venire e acchiapparla tu stesso, diavolo gobbo... Perché stai lì?».
«Io l'avrei acchiappata, se fosse stato possibile... O che, con la mia bassa
corporatura, si può stare in piedi sotto la riva? Lì è profondo!».
«Non fa nulla che sia profondo... Tu a nuoto...». Il gobbo agita le braccia, nuota
verso Gherassim e si aggrappa ai rami. Ma al primo tentativo di mettersi in piedi, va
con la testa sott'acqua e manda fuori delle bolle d'aria.
«Lo dicevo ch'è profondo!» egli dice, rotando con ira il bianco degli occhi. «Monto
sul collo a te, eh?».
«E tu sali sopra una radice... Di radici ce n'è molte, come una scala...».
Il gobbo tasta col tallone una radice e, aggrappatosi saldamente ad alcuni rami ad
un tempo, ci sale sopra... Equilibratosi bene e consolidatosi nella nuova posizione, si
curva e, cercando di non ingerire acqua, comincia con la mano destra a frugare tra le
radici. Imbrogliandosi nelle erbe acquatiche, scivolando sul musco che riveste le
radici, la sua mano incontra le chele pungenti d'un gambero.
«Ci mancavi ancora tu qui, diavolo!» dice Liubìm e con rabbia scaglia il gambero
sulla riva.
Infine la sua mano trova a tastoni il braccio di Gherassim e, calando giù lungo
quello, arriva a qualcosa di lubrico, di freddo.
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«E-eccola...» sorride Liubìm. «È gro-ossa, la diavola... Allarga un po' le dita, io
subito... per le branchie... Aspetta, non urtarmi col gomito... io subito la... subito...
lascia solo che l'afferri... S'è cacciata lontano sotto la radice, questa diavola, non c'è
nemmeno dove aggrapparsi... Non si può arrivare alla testa... Si tocca soltanto la
pancia... Ammazzami sul collo una zanzara: mi punge! Io subito la... subito... lascia
solo che l'afferri... S'è cacciata di fianco, spingila, spingila! punzecchiala col dito!».
Il gobbo, gonfiate le guance, trattenuto il respiro, sgrana gli occhi e, a quanto pare,
già insinua le dita «sotto le branchie», ma a questo punto i rami a cui si abbranca la
sua mano sinistra si spezzano, ed egli, perduto l'equilibrio, capitombola nell'acqua!
Come spaventati, corron via dalla riva dei cerchi ondeggianti e nel punto della caduta
vengon su delle bolle. Il gobbo viene a galla a nuoto e, sbuffando, si afferra al rami.
«Affogherai ancora, diavolo, toccherà rispondere per te! ...» dice rauco Gherassim.
«Esci fuori, su, e vattene alla malora! Io stesso la tirerò via!».
Cominciano gl'improperi... E il sole brucia, brucia. Le ombre si fanno più brevi e
rientrano in se stesse, come le corna della lumaca... L'erba alta, scaldata dal sole,
comincia a emanare un odore denso, stucchevolmente dolciastro. Ben presto è
mezzogiorno, ma Gherassim e Liubìm tuttora si dibattono sotto il salcio. La voce
rauca di basso e quella tenorile infreddolita, stridula, rompono senza posa il silenzio
della giornata estiva.
«Tirala per le branchie, tirala! Aspetta, io la spingerò fuori! Ma dove ficchi il tuo
pugnaccio? Tu fa' col dito e non col pugno, grinta! Vieni di fianco! Da sinistra vieni,
da sinistra, ché a destra c'è una buca'! Servirai di cena al lupo mannaro! Tira per il
labbro! ».
Si sente lo schioccar d'una frusta... Per la riva in pendio si trascina pigramente
all'abbeveratoio un armento, cacciato avanti dal pastore Jefìm. Il pastore, un vecchio
decrepito con un occhio solo e la bocca storta, cammina a capo chino e si guarda
sotto i piedi. Per prime s'avvicinano all'acqua le pecore, dopo di esse i cavalli, dopo i
cavalli le vacche.
«Spingila un poco dal basso!» egli ode la voce di Liubìm. «Ficcaci un dito! Ma, sei
sordo, dia-vo-lo, o che? Poh! » .
«Ma chi è, fratelli?» grida Jefìm.
«Una lota! Non c'è verso di, tirarla fuori! Sotto una radice s'è cacciata! Vieni di
fianco! Vieni, vieni! ». Jefìm per un minuto strizza il suo occhio sui pescatori, poi si
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toglie i lapti12, getta giù dalle spalle un sacchetto e si leva la camicia. Di togliersi le
mutande non ha pazienza, segnatosi, bilanciando le braccia magre, scure, entra in
mutande nell'acqua... Per una cinquantina di passi procede sul fondo melmoso, ma
poi si butta a nuoto.
«Aspettate, ragazzi! » grida. «Aspettate! Non tiratela fuori a casaccio, la lascerete
scappare. Bisogna saper fare! ... ».
Jefìm si unisce ai carpentieri, e tutt'e tre, urtandosi l'un l'altro coi gomiti e coi
ginocchi, sbuffando e imprecando, si pigiano nello stesso punto...
Il gobbo Liubìm inghiotte acqua e l'aria echeggia di una tosse aspra, convulsa.
«Dov'è il pastore?» si sente un grido dalla riva. «Jefi-ìm! Pastore! Dove sei?
L'armento è entrato in giardino! Caccialo, caccialo dal giardino! Caccialo! Ma dov'è
dunque, il vecchio brigante?
Si odono voci maschili, poi una femminile... Di dietro il cancello del giardino
padronale si mostra il padrone Andréi Andreic' in veste da casa di seta persiana e
con un giornale in mano... Egli guarda interrogativamente dalla parte delle grida che
giungono dal fiume, e poi trotterella rapido verso il bagno...
«Che c'è qui? Chi bercia?» domanda severamente, avendo scorto attraverso i rami
del salcio le tre teste bagnate dei pescatori. «Perché vi affannate qui?».
«Un pe... un pesce acchiappiamo...» balbetta Jefìm, senz'alzare il capo.
«Te lo darò io il pesce! L'armento è entrato in giardino, e lui: un pesce!... Ma
quando sarà finito il bagno, diavoli? Son due giorni che lavorate, e dov'è il vostro
lavoro?».
«Sa... sarà finito...» gracchia Gherassim. «L'estate è lunga, farai ancora in tempo,
signoria, a lavarti... Brrr... In nessun modo qui possiamo venir a capo d'una lota... S'è
cacciata sotto una radice ed è come in una tana: non va né su né giù...».
«Una lota?» domanda il padrone e i suoi occhi si fanno lustri. «Allora tiratela fuori
alla svelta!».
«Poi ci darai un mezzo rubletto... Ti serviremo da amici se... Una lota enorme, che
la tua mercantessa... Vale, signoria, un mezzo rublo... per le fatiche... Non
brancicarla, Liubìm, non brancicarla, se no la farai morire! Spingi dal basso! Tira un
po' la radice all'insù, brav'uomo... come ti chiami? All'insù, e non all'ingiù, diavolo!
Non agitate le gambe!». 12 Calzature fatte con corteccia di betulla.
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Passano cinque minuti, dieci... Il padrone non ne può più dall'impazienza.
«Vassili» grida, voltandosi verso la casa padronale. «Vaska! Chiamatemi Vassili!».
Accorre il cocchiere Vassili. Sta masticando qualcosa e respira pesantemente.
«Scendi in acqua» gli ordina il padrone, «aiutali a tirar fuori la lota... Non posson
tirar fuori una lota!».
Vassili si spoglia rapidamente e scende in acqua. «Io subito...» borbotta. «Dov'è la
lota? Io subito... Faremo questo in un batter d'occhio! E tu dovresti andartene, Jefìm!
Qui vecchio, non hai da mischiarti negli affari altrui! Che lota c'è qui? Io subito...
Eccola! Lasciate andar le mani!».
«E perché: lasciate andare le mani? Lo sappiamo anche noi: lasciate andar le mani!
E tu tirala fuori! ».
«Ma è forse così che la tirerai fuori? Bisogna prenderla per la testa!».
«E la testa è sotto la radice! È cosa nota, stupido!».
«Be', non ingiuriare, se no ne vola una! Marmaglia!».
«In presenza del signor padrone e simili parole...» balbetta Jefim. «Non la tirerete
fuori, fratelli! Troppo destramente s'è ficcata lì!».
«Aspettate un momento, io subito... » dice il padrone e comincia frettoloso a
svestirsi. «Siete in quattro imbecilli; e non potete tirar fuori la lota! ».
Svestitosi, Andréi Andreic' si lascia freddare un poco ed entra in acqua. Ma anche il
suo intervento non approda a nulla.
«Bisogna tagliar la radice!» conclude infine Liubìm. «Gherassim, va' a prender la
scure! Date qui una scure!».
«Non tagliatevi le dita!» dice il padrone, quando si odono i colpi sott'acqua della
scure contro la radice. «Jefim, vattene di qua! Aspettate, io tirerò fuori la lota... Voi
non...».
La radice è stata tagliata dal disotto. La sforzano un poco, e Andréi Andreic', con
gran piacere sente che le sue dita penetrano sotto le branchie della lota.
«La sto tirando, fratelli! Non affollatevi... state fermi... la sto tirando!».
Alla superficie compare la grossa testa della lota e, dopo di essa, il corpo nero;
lungo un arscìn.
La lota rigira pesantemente la coda e cerca di sfuggire.
«Tu scherzi... Non ce la fai, cara. Ci sei cascata. Ah-ah!».
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Su tutte le facce si effonde un sorriso di miele. Un minuto trascorre in silenziosa
contemplazione. «Una lota coi fiocchi!» balbetta Jefim, grattandosi sotto le clavicole.
«Sarà, penso, una decina di libbre...».
«E già...» consente il padrone. «Il fegato le palpita addirittura. Come spinto dal
didentro. A... ah!». La lota a un tratto inaspettatamente fa con la coda un brusco
movimento all'insù e i pescatori sentono un forte tonfo... Tutti allargano le mani, ma è
troppo tardi: la lota, chi l'ha vista l'ha vista.
05 - Lo specchio curvo (Racconto di Natale)
Io e mia moglie entrammo in salotto. Vi odorava muffa e d'umidità. Milioni di ratti e
di sorci si precipitarono da tutte le parti, quando noi rischiarammo i muri che non
avevan visto la luce durante tutt'un secolo. Quando chiudemmo l'uscio dietro di noi,
soffiò una folata e smosse la carta giacente a mucchi negli angoli. La luce cadde su
questa carta e noi scorgemmo caratteri antichi e figurazioni medioevali. Alle pareti
inverdite dal tempo pendevano ritratti di antenati. Gli antenati guardavano altezzosi,
arcigni, come se volessero dire:
«Frustarti si dovrebbe, fratellino!».
I nostri passi risonavano per tutta la casa. Alla mia tosse rispondeva un'eco, la
stessa eco che un tempo aveva risposto ai miei antenati...
E il vento urlava e gemeva. Nella canna del camino qualcuno piangeva, e in questo
pianto si sentiva la disperazione. Grosse gocce di pioggia picchiavano sulle scure
finestre opache, e il loro picchiare dava angoscia.
«Oh, antenati, antenati!» diss'io, sospirando significativamente. «Se fossi scrittore,
mirando i loro ritratti scriverei un lungo romanzo. Ché ciascuno di questi vegliardi fu
giovane un dì, e ciascuno, o ciascuna, ebbe un romanzo... e che romanzo! Guarda,
per esempio, questa vecchina, mia bisavola. Vedi» domandai a mia moglie, «vedi tu
lo specchio che pende là nell'angolo?».
E additai a mia moglie un grande specchio in bronzea guarnitura nera, appeso in un
angolo accanto al ritratto della mia bisavola.
«Questo specchio possiede proprietà magiche: esso causò la rovina della mia
bisavola. Lo aveva pagato una somma enorme e non se ne separò fin proprio alla
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morte. Vi si guardava i giorni e le notti, senza posa, vi si guardava perfin quando
beveva e mangiava. Nel coricarsi, ogni volta lo metteva con sé in letto e, morendo,
pregò di deporlo con lei nella bara. Non soddisfecero il suo desiderio solo perché lo
specchio non capiva nel feretro».
«Era civetta?» domandò mia moglie. «Supponiamo. Ma non aveva forse altri
specchi? Perché amò talmente proprio questo specchio, e non un altro qualsiasi? E
forse non aveva specchi migliori? No, lì, cara mia, si cela un qualche tremendo
mistero. Non può essere altrimenti. La tradizione dice che nello specchio risiede il
diavolo e che la bisavola aveva un debole per i diavoli. Certo, è un'assurdità, ma è
indubbio che lo specchio in guarnitura di bronzo possiede una forza misteriosa».
Io scossi dallo specchio la polvere, vi guardai e diedi in una risata. Al mio riso
rispose sordamente l'eco. Lo specchio era curvo e contorceva la mia fisionomia da
tutte le parti: il naso venne a trovarsi sulla guancia sinistra, e il mento si sdoppiò e si
cacciò da un lato.
«Strano gusto quello della mia bisavola!» dissi. La moglie si accostò irresoluta allo
specchio, vi guardò dentro ella pure, e subito accadde qualcosa di terribile. Ella
impallidì, tremò in tutte le membra è mandò un grido. Il candeliere le cadde di mano,
rotolò sul pavimento e la candela si spense. Ci avvolsero le tenebre. Subito dopo
intesi la caduta sull'impiantito d'alcunché di pesante: mia moglie si era abbattuta
priva di sensi.
Il vento prese a gemere ancor più lamentosamente, presero a correre i ratti, nelle
carte frusciarono i sorci. I miei capelli si rizzarono e si mossero, quando da una
finestra si staccò l'imposta e volò da basso. Nel vano della finestra si mostrò la luna...
Io afferrai mia moglie, la cinsi e la portai fuori dalla dimora degli avi. Ella rinvenne
solo la sera del giorno dopo.
«Lo specchio! Datemi lo specchio!» disse, riavendosi. «Dov'è lo specchio?».
Tutt'una settimana dipoi ella non bevve, non mangiò, non dormì, e pregava di
continuo che le portassero lo specchio. Singhiozzava, si strappava i capelli in capo,
si agitava, e infine, quando il dottore ebbe dichiarato ch'ella poteva morire di
esaurimento e che il suo stato era in sommo grado pericoloso, io, vincendo il mio
terrore, ridiscesi giù e recai di là lo specchio della bisavola. Vedendolo, ella rise forte
dalla felicità, poi lo afferrò, lo baciò e vi fissò gli occhi.
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Ed ecco, son trascorsi ormai più di dieci anni, e lei tuttora si guarda nello specchio e
non se ne stacca un solo istante.
«Possibile che questa sia io?» bisbiglia, e sul suo viso, insieme col rossore, si
accende un'espressione di beatitudine e d'estasi. «Sì, son io! Tutto mentisce, fuorché
questo specchio! Mentiscono gli uomini, mentisce il marito! Oh, se mi fossi vista
prima, se avessi saputo quale sono realmente, non avrei sposato quest'uomo! Egli
non è degno di me! Ai miei piedi devon giacere i cavalieri più belli, più nobili!...».
Un giorno, stando dietro a mia moglie, guardai inavvertitamente nello specchio, e
scoprii il terribile segreto. Nello specchio scorsi una donna di accecante bellezza,
quale mai ho incontrato nella vita. Era un prodigio della natura, un'armonia di beltà, di
eleganza e d'amore. Ma di che si trattava? Che cos'era accaduto? Perché mia
moglie, brutta, sgraziata, nello specchio pareva così bella? Perché?
Ma perché lo specchio curvo aveva storto il brutto viso di mia moglie in tutti i sensi,
e per tale spostamento dei suoi tratti esso era diventato casualmente bellissimo.
Meno per meno dava più.
E ora noi due, io e mia moglie, stiamo davanti allo specchio e, senza staccarcene
un sol minuto, vi guardiamo dentro: il mio naso monta sulla guancia sinistra, il mento
s'è sdoppiato e spostato da una parte, ma il volto di mia moglie è incantevole, e una
passione furiosa, insensata s'impadronisce di me. «Ah-ah-ah!» sghignazzo io
selvaggiamente.
E mia moglie bisbiglia, in modo appena percettibile: «Come son bella!».
06 - Gli stivali
L'accordatore di pianoforti Murkin, un uomo dal viso giallo, il naso tabaccoso e
l'ovatta negli orecchi, uscì dalla sua stanza nel corridoio e con voce tintinnante gridò:
«Semiòn! Cameriere!».
E guardando la sua faccia spaventata, si poteva pensare che gli fosse cascato
addosso l'intonaco, o che in camera sua avesse visto allora allora uno spettro.
«Di grazia, Semiòn!» prese a gridare, scorgendo il cameriere che accorreva da lui.
«Che è ciò? Io sono un uomo reumatico, infermiccio, e tu mi costringi a uscire
scalzo! Perché non mi dai ancora gli stivali? Dove sono?».
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Semiòn entrò nella camera di Murkin, guardò nel posto dov'egli aveva l'abitudine di
porre gli stivali ripuliti, e si grattò la nuca: gli stivali non c'erano.
«Dove potrebbero essere, i maledetti?» disse Semiòn. «In serata, mi sembra, li pulii
e li misi qui... Uhm!... Ieri, confesso, avevo bevuto un po'... È da supporre che li abbia
messi in un'altra camera. È proprio così, Afanassi Jegoric', in un'altra camera! Stivali
ce n'è molti, e, in cimberli, li distinguerà il diavolo, se tu non hai la testa a segno.
Devo averli messi dalla signora che alloggia qui accanto... dall'attrice...».
«E ora per causa tua ho da andar dalla signora a disturbare! Eccomi per un'inezia a
dover svegliare una brava donna! ».
Sospirando e tossendo, Murkin si accostò all'uscio della camera attigua e bussò
cautamente.
«Chi è?» si sentì di lì a un minuto una voce femminile.
«Sono io!» cominciò con voce querula Murkin, mettendosi nella positura d'un
cavaliere che parla con una signora del gran mondo. «Scusate il disturbo, signora,
ma io sono un uomo malaticcio, reumatico... A me, signora, i dottori hanno ordinato
di tenere i piedi al caldo, tanto più che ora devo andar ad accordare un pianoforte
dalla generalessa Scevelitsin. Non posso mica andarci scalzo».
«Ma voi che volete? Che pianoforte?».
«Non un pianoforte, signora, ma riguardo agli stivali! Quell'ignorante di Semiòn ha
pulito i miei stivali e per sbaglio li ha messi nella vostra stanza. Siate così gentile,
signora, datemi i miei stivali!».
Si udì un fruscio, un salto dal letto e un ciabattare, dopo di che l'uscio si aprì un
poco, e una paffuta manina di donna gettò ai piedi di Murkin un paio di stivali.
L'accordatore ringraziò e si diresse in camera sua.
«È strano...» mormorò, calzando uno stivale. «Si direbbe che non è lo stivale
destro. Ma qui ci son due stivali di sinistra! Son tutt'e due sinistri! Ascolta, Semiòn,
ma questi non sono i miei stivali! I miei stivali sono con tiranti rossi e senza toppe, e
questi son certi cosi rotti, senza tiranti!».
Semiòn sollevò gli stivali, li rigirò più volte davanti ai propri occhi e corrugò la fronte.
«Questi son gli stivali di Pavel Aleksandric'...» borbottò, guardando di sbieco. Egli
era strabico dall'occhio sinistro.
«Che Pavel Aleksandric'?».
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«Un attore... viene qua ogni martedì... Dunque è lui che, invece dei suoi, ha calzato
i vostri... Vuol dire che in camera da lei ho messo le due paia: i suoi e i vostri. Un
bell'impiccio!».
«Allora va' e cambiali! ».
«Salute!» sorrise Semiòn. «Va' e cambiali... E dove ho da prenderlo adesso? È
ormai un'ora ch'è uscito... Va' a cercare il vento nei campi! ».
«Ma dove abita?».
«E chi lo sa? Viene qua ogni martedì, ma dove abiti, noi non si sa. Viene, pernotta,
e aspettalo fino a un altro martedì...».
«Ecco, vedi, porco, quel che hai combinato! Ebbene, che devo fare adesso? È ora
ch'io vada dalla generalessa Scevelitsin, maledetto che sei! I piedi mi si sono
intirizziti!».
«Cambiar di stivali non è cosa lunga. Calzate questi stivali, camminateci fino a sera,
e stasera a teatro... Là domandate dell'attore Blistanov... Se a teatro non volete
andare, toccherà aspettare quell'altro martedì. Solo i martedì viene qua...».
«Ma perché mai ci son qui due stivali sinistri?» domandò l'accordatore, prendendo
con schifiltà gli stivali.
«Come Dio li mandò, così li porta. Per povertà... Dove potrebbe prenderli,
l'attore?... "Ma gli stivali che avete" dico, "Pavel Aleksandric'! È pura vergogna!". E lui
dice: "Taci" dice, "e impallidisci! In questi stessi stivali" dice, "ho fatto le parti di conti
e principi!". Gente bizzarra! Artista, in una parola. S'io fossi governatore, o una
qualche autorità, prenderei tutti questi attori, e via in prigione!».
Gemendo e facendo smorfie senza fine, Murkin calzò a forza sulle proprie gambe i
due stivali sinistri e, zoppicando, si avviò dalla generalessa Scevelitsin. L'intera
giornata andò per la città, accordò pianoforti, e l'intera giornata gli parve che tutto il
mondo guardasse i suoi piedi e ci vedesse su degli stivali con le toppe e i tacchi
storti! Oltre alle torture morali, gli toccò sperimentare anche quelle fisiche: si buscò
un callo.
A sera era in teatro. Davano Barbablù13 Solo prima dell'ultimo atto, e anche ciò
grazie alla protezione d'un conoscente flautista, lo lasciarono passare dietro le
quinte. Entrato nel camerino degli uomini, vi trovò tutto il personale maschile. Gli uni
13 Opera buffa di Offenbach, rappresentata la prima volta in Francia nel 1866, su tema tratto dalla celebre fiaba di Perrault.
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si travestivano, altri si truccavano, i terzi fumavano. Barbablù stava con re Bobêche14
e gli mostrava una rivoltella.
«Comprala!» diceva Barbablù. «L'acquistai io stesso a Kursk d'occasione per otto,
ebbene te la lascerò per sei... Un tiro notevole!».
«Attenzione... È carica!».
«Potrei vedere il signor Blistanov?» domandò l'accordatore, ch'era entrato.
«Son proprio io!» si girò verso di lui Barbablù. «Che cosa desiderate?».
«Scusate, signore, il disturbo» cominciò l'accordatore con voce implorante, «ma,
credete... io sono un uomo malaticcio, reumatico... I dottori mi hanno ordinato di tenere i
piedi caldi...».
«Ma voi, propriamente parlando, che desiderate?».
«Vedete...» continuò l'accordatore, rivolgendosi a Barbablù.
«Già... questa notte voi siete stato nelle camere mobiliate del mercante Buchteiev...
al numero 64?...».
«Via, che ciance sono?» sogghignò re Bobêche. «Al numero 64 ci abita mia
moglie».
«Moglie? Molto piacere...» Murkin sorrise. «Lei proprio, la vostra consorte, mi ha
consegnato personalmente gli stivali del signore... Quando lui» l'accordatore indicò
Blistanov, «fu uscito dalla stanza di lei, io mi accorsi dei miei stivali... dò una voce,
sapete, al cameriere, e il cameriere dice: "Ma io, signore, i vostri stivali li ho messi al
numero attiguo!". Per sbaglio, essendo in stato di ubriachezza, aveva messo al
numero 64 i miei stivali e i vostri» si girò Murkin verso Blistanov, «e voi, lasciando,
ecco, la consorte del signore, avete calzato i miei...».
«Ma voi che cosa andate dicendo?» proferì Blistanov, e si accigliò. «O che siete
venuto qui a far pettegolezzi?».
«Nient'affatto! Dio mi guardi! Non mi avete capito... Di che sto parlando io? Degli
stivali! Avete pernottato, non è vero, al numero 64?».
«Quando?».
«Questa notte».
«E voi mi ci avete visto?».
14 Personaggio comico del teatro francese, dopo essere stato un guitto realmente vissuto a Parigi sotto l'Impero e la Restaurazione e divenuto celebre, il cui vero nome era Antoine Mardelard (o Mandelard).
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«No, non vi ho visto» rispose Murkin, in preda a vivo turbamento, sedendo e
cavandosi rapidamente gli stivali. «Io non vi ho visto, ma, ecco, la consorte di lui
m'ha gettato fuori i vostri stivali... Ciò invece dei miei».
«Ma che diritto avete, egregio signore, di affermare simili cose? Non parlo già di
me, ma voi offendete una donna, e per di più in presenza di suo marito! ».
Dietro le quinte si levò un tremendo baccano. Re Bobêche, il marito offeso, d'un
tratto s'imporporò e a tutta forza picchiò un pugno sulla tavola, talché nel camerino
attiguo due attrici si sentirono male.
«E tu credi?» gli gridava Barbablù «Tu credi a questo mascalzone? Oh! Lo
ammazzo come un cane, vuoi? Lo vuoi? Ne farò una bistecca! Lo frantumerò! ».
E tutti coloro che passeggiavan quella sera nel giardino comunale presso il teatro
estivo narrano ora d'aver visto come prima del quart'atto si precipitò dal teatro per il
viale principale un uomo scalzo dal viso giallo e gli occhi pieni di sgomento. Lo
rincorreva un individuo vestito da Barbablù e con una rivoltella in mano. Quel che
accadde ulteriormente, nessuno vide. Si sa soltanto che Murkin dipoi, dopo aver fatto
conoscenza con Blistanov, per due settimane giacque malato e alle parole: «Io sono
un uomo malaticcio, reumatico», prese ad aggiungere ancora: «Sono un uomo
ferito... ».
07 - Dalla padella nella brace15
Dal maestro di cappella della chiesa cattedrale Griàdussov era seduto l'avvocato
Kaliakin e, rigirando fra le mani un avviso del conciliatore intestato a Griàdussov,
diceva:
«Qualunque cosa diciate, Dossiféi Petrovic', siete in colpa. lo vi stimo, apprezzo la
vostra buona disposizione, ma con tutto ciò debbo con rammarico farvi osservare
che avete torto. Sissignore, torto. Voi avete insultato il mio cliente Dereviaskin... Be',
per che cosa l'avete insultato?».
«Ma chi diavolo l'ha insultato?» si scaldava Griàdussov, un vecchio alto dalla fronte
stretta, poco promettente, e le sopracciglia folte, con una medaglietta di bronzo
all'occhiello. «Gli ho soltanto fatto una predica morale, soltanto! Agl'imbecilli bisogna
insegnare! Se agl'imbecilli non s'insegna, non ti lascian più vivere». 15 In russo: dal fuoco nella fiamma.
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«Ma, Dossiféi Petrovic', voi non gli avete fatto un predicozzo. Voi, com'egli dichiara
nella sua istanza, l'avete pubblicamente segnato a dito, gli avete dato dell'asino, del
farabutto e simile... e una volta avete perfino alzato la mano, come se voleste
recargli offesa con atti».
«Ma come non picchiarlo, se lo merita? Non capisco! ».
«Ma capite dunque che non avete alcun diritto di far ciò! ».
«Io non ho diritto? Be', questo poi, scusate... Andate a raccontarlo a qualcun altro,
ma non infinocchiate me, di grazia. Lui da me, dopo che dal coro vescovile lo
invitarono a spintoni ad andarsene, dieci anni ha servito nel mio coro. Io sono il suo
benefattore, se volete saperlo. Se si arrabbia perché l'ho scacciato dal coro, lui
stesso ne ha colpa. Io l'ho scacciato per via della filosofia. Filosofeggiare può solo
una persona istruita, che ha terminato i corsi, ma se tu sei un imbecille, se sei di
poca intelligenza, stattene in un cantuccio e taci... Taci e ascolta come parlano le
persone intelligenti; lui invece, tanghero, spiava soltanto il destro di metter fuori
qualcosa del genere. Qui c'è prova di canto, o si dice una messa, e lui a parlare di
Bismarck e di non so quali Gladstone. Lo credete, un giornale, la canaglia, faceva
venire! E quante volte l'ho picchiato sui denti a motivo della guerra russo-turca, non
potete figurarvelo! Qui bisogna cantare, e lui s'è chinato verso i tenori, e avanti a
raccontar loro come i nostri han fatto saltare con la dinamite la corazzata turca Liufti-
Dzelil... O che questo è ordine? Certo, fa piacere che nostri abbian vinto, ma da ciò
non segue che non si debba cantare... Anche dopo la messa puoi discorrere. Un
porco, in una parola».
«Dunque voi lo insultavate anche prima?».
«Prima lui nemmeno s'offendeva. Sentiva ch'io facevo ciò per il suo stesso bene, lo
capiva!... Sapeva che i più anziani e i benefattori è peccato contraddirli, ma quando
andò nella polizia come scrivano, be', là fu finita, montò in superbia, smise di capire
"Io" dice, "non sono più un cantore adesso, ma un funzionario. Farò l'esame» dice,
"da registratore di collegio16. "Be', sei un imbecille" dico. "Dovresti" dico, "sciorinare
un po' meno filosofia e soffiarti un po' più spesso il naso, sarebbe meglio che
pensare ai gradi. A te, non i gradi s'addicono, ma la povertà». Non vuol neppure
ascoltare! Ma ecco, prendiamo anche solo questo caso: perché mi ha querelato
16 Il registratore di collegio era il primo, o infimo, grado (il quattordicesimo dall'alto), della vecchia gerarchia burocratica russa.
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davanti al conciliatore? Be', non è razza di beceri? Son seduto nella trattoria di
Samopliuiev e sto bevendo il tè col nostro fabbriciere. Di pubblico un buscherio, non
un sol posto libero... Guardo, e lui è seduto pure lì, tracanna birra coi suoi scrivani. È
così elegante, ha alzato il muso, bercia... agita le mani... Tendo l'orecchio: parla del
colera... Be', con lui che ci volete fare? Filosofeggia! Io, sapete, sto zitto, paziento...
«Chiacchiera» penso, "chiacchiera...". La lingua non ha osso... A un tratto, per
disgrazia, la macchina si mise a sonare... Lui s'intenerì, il becero, s'alzò e disse ai
suoi amici: "Beviamo" dice, "alla prosperità! Io" dice, "sono un figlio della mia patria e
uno slavofilo del mio paese! Espongo il mio unico petto! Venite fuori, nemici, a tu per
tu! Chi non è d'accordo con me, desidero vederlo!". E come picchia il pugno sulla
tavola! Qui non ressi più... M'avvicino a lui e dico delicatamente: "Ascolta, Ossip... Se
tu, porco, non capisci nulla, è meglio che taccia e non discuta. Una persona istruita
può filosofare, ma tu calmati. Tu sei un verme, sei cenere"... Io una parola a lui, lui
dieci a me... E via e via... Io, naturalmente, parlo per il suo bene, e lui per stupidità...
Si offese, ed ecco che reclamò al conciliatore».
«Sì» sospirò Kaliakin. «Male... Per qualche bazzecola il diavolo sa quel ch'è
successo. Voi siete un uomo di famiglia, stimato, e ora questo processo, discussioni,
chiacchiere, la detenzione... È necessario metter termine a questa faccenda, Dossiféi
Petrovic'. Avete una via d'uscita, alla quale consente anche Dereviaskin. Voi verrete
oggi con me alla trattoria di Samopliuiev alle sei, quando si riuniscon là scrivani,
attori e l'altro pubblico davanti a cui l'avete insultato, e vi scuserete con lui. Allora egli
ritirerà la sua istanza. Avete capito? Suppongo che acconsentirete, Dossiféi
Petrovic'... Vi parlo come ad amico... Voi avete insultato Dereviaskin, l'avete
infamato, e soprattutto avete gettato un sospetto sui suoi lodevoli sentimenti e avete
perfino... profanato quei sentimenti. Al nostro tempo, sapete, non si può far così.
Bisogna essere un po' più cauti. Alle vostre parole è stata attribuita una tale
sfumatura - come dirvi? - che al nostro tempo, insomma, non va... Ora son le sei
meno un quarto... Vi fa comodo venir con me?».
Griàdussov crollò il capo, ma quando Kaliakin gli ebbe dipinto a vive tinte la
"sfumatura" ch'era stata attribuita alle sue parole, e le conseguenze che da quella
sfumatura potevan derivare, Griàdussov si prese paura e acconsentì.
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«Voi, badate dunque, scusatevi come fa d'uopo, in piena regola» gl'insegnava
l'avvocato cammin facendo verso la trattoria. «Avvicinatevi a lui, dando del "voi"...
"Scusate... ritiro le mie parole e altrettali cose».
Giunti in trattoria, Griàdussov e Kaliakin vi trovarono tutt'un'accolta di gente. Lì eran
seduti mercanti, attori, pubblici impiegati, scrivani della polizia: in genere, tutta la
"schiuma" che aveva costume di riunirsi nella trattoria la sera a bere il tè e la birra.
Fra gli scrivani era seduto lo stesso Dereviaskin, un giovane d'età indefinita,
sbarbato, con grandi occhi che non battevan ciglio, naso schiacciato e capelli così
ispidi che, a guardarli, veniva voglia di pulirsi gli stivali... Il suo viso era così
felicemente conformato che, una volta datagli un'occhiata, si poteva riconoscer tutto:
ch'era un ubriacone, e cantava da basso, ed era sciocco, ma non tanto da non
considerarsi una persona molto intelligente. Veduto il maestro di cappella che
entrava, egli si sollevò e mosse i baffi come un gatto. L'assemblea, evidentemente
preavvisata che ci sarebbe stata pubblica ammenda, aguzzò gli orecchi.
«Ecco... Il signor Griàdussov è d'accordo!» disse Kaliakin, entrando.
Il maestro di cappella salutò qualcuno, si soffiò il naso rumorosamente, arrossì e
s'accostò a Dereviaskin.
«Scusate...» borbottò, senza guardarlo e ficcando in tasca il fazzoletto. «Davanti a
tutta la compagnia ritiro le mie parole».
«Vi scuso!» disse con voce di basso Dereviaskin e, gettato uno sguardo vittorioso a
tutto il pubblico, sedette. «Io sono soddisfatto! Signor avvocato, vi prego di chiudere
la faccenda!».
«Mi scuso» continuò Griàdussov. «Scusate... Non mi piacciono i dissapori... Vuoi
che ti dia del "voi", e sia, lo farò... Vuoi che ti stimi una persona intelligente, e sia... Ci
sputo su... Io, fratello, non serbo rancore. Che il diavolo t'assista...».
«Ma voi... permettete! Scusatevi, e non ingiuriate, invece!».
«Come? debbo ancora scusarmi? Io mi scuso! Soltanto ecco, se non vi ho dato del
"voi", è stato per dimenticanza. Non devo già mettermi in ginocchio... Mi scuso, e
ringrazio perfino Dio che hai avuto abbastanza senno per troncare questa faccenda.
Io non ho tempo di bighellonare per i tribunali... Non ho mai fatto cause, non ne farò,
e a te non consiglio... a voi cioè...».
«Certo! Non volete bere alla pace di Santo Stefano17?». 17 La pace che mise fine alla guerra russo-turca del 1877
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«Anche bere si può... Solo che tu, fratello, Ossip, sei un porco... Non già che io
t'insulti, ma così... per esempio... Un porco, fratello! Ricordi come ti buttavi ai miei
piedi, quando dal coro vescovile ti cacciarono a spintoni? Eh? E tu osi sporger
querela contro il tuo benefat…? Una grinta sei tu, una grinta! E non hai vergogna?
Signori avventori, non ha vergogna?».
«Permettete! Queste son di nuovo ingiurie!».
«Che ingiurie? Io ti parlo soltanto, ti faccio la morale... Ho fatto pace e lo dico per
l'ultima volta, non penso a ingiuriare... Sarò io ad aver rapporti con te, lupo mannaro,
dopo che hai sporto querela contro il tuo benefattore? Ma vattene al diavolo! Non
desidero nemmeno parlare con te! E se or ora impensatamente t'ho dato del porco,
un porco sei... Invece di pregar Dio in eterno per il tuo benefattore, perché durante
dieci anni t'ha nutrito e t'ha insegnato la musica, tu sporgi una stupida querela e
mandi da me vari diavoli di avvocati».
«Permettete, Dossiféi Petrovic'» s'offese Kaliakin. «Non dei diavoli sono stati da voi,
ma ci son stato io!... Un po' più cauto, vi prego!».
«Ma che io parlo di voi? Venite magari ogni giorno, siate il benvenuto. Mi fa
meraviglia soltanto che voi abbiate terminato i corsi, ricevuto un'istruzione, e invece
di far la morale a questo tacchino, gli tenete la mano. Ma io, al vostro posto, in
carcere lo farei marcire! E poi perché vi arrabbiate? Mi sono pure scusato! Che
dunque v'occorre ancora da me? Non capisco! Signori avventori, siate testimoni, io
mi sono scusato, ma di scusarmi un'altra volta con un imbecille qualunque non ho
intenzione!».
«Siete voi un imbecille!» chiocciò Ossip e, nell'indignazione, si batté il petto.
«Io un imbecille? Io? E tu puoi dirmi questo? ...». Griàdussov s'imporporò e fu preso
dal tremito... «E tu hai osato? Prenditi questo!... E oltre all'averti adesso, farabutto,
dato un ceffone, presenterò anche querela contro di te al conciliatore! Ti insegnerò io
a insultare! Signori, siate testimoni! Signor delegato, perché state lì a guardare?
M'insultano, e voi guardate? Pigliate uno stipendio, e quando s'ha da badare
all'ordine, allora non è affar vostro? Eh? Credete che anche per voi non ci sian
giudici?».
A Griàdussov s'avvicinò il delegato, e cominciò una storia.
Di lì a una settimana Griàdussov stava davanti al giudice conciliatore ed era
processato per ingiurie a Dereviaskin, all'avvocato e al delegato di sezione, a
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quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni. Sul principio non capiva se fosse
querelante o imputato, ma poi, quando il conciliatore lo condannò "cumulativamente"
a due mesi di detenzione, sorrise con amarezza e borbottò:
«M'hanno insultato, e son io che debbo anche star dentro... Fa meraviglia...
Bisogna, signor giudice conciliatore, giudicar secondo la legge, e non sofisticando.
La vostra mammina buon'anima, Varvara Serghéievna, che Dio le accordi il regno
dei cieli, quelli come Ossip ordinava di fustigarli, e voi li proteggete... Che mai ne
verrà? Voi li assolvete, i furfanti, un altro li assolve... Dove andare in tal caso a
reclamare?».
«Dalla sentenza si può appellare nel termine di due settimane... e prego di non
discutere! Potete andare!».
«Certo... Oggidì col solo stipendio non si vive» proferì Griàdussov e ammiccò
significativamente. «Per forza, se si vuol mangiare, si schiaffa l'innocente in
gattabuia.. È così... E non si può far colpa...».
«Che cosa?!».
«Nulla... Dicevo così... a proposito di chapen zi ghevesen18... Voi credete, perché
portate una catena d'oro, che per voi non ci sian giudici? Non datevi pensiero...
Scoprirò gli altarini!».
Si avviò un processo "per oltraggio al giudice"; ma intervenne l'arciprete della
cattedrale, e la faccenda in qualche modo fu soffocata.
Portando la sua causa davanti al collegio dei conciliatori19, Griàdussov era convinto
che non solo lo avrebbero assolto, ma avrebbero perfin messo in carcere Ossip.
Così pensava anche durante la stessa discussione della causa. Stando in piedi
davanti ai giudici, egli tenne un contegno pacifico, riservato, senza dir parole
superflue. Una volta soltanto, quando il presidente lo invitò a sedere, si offese e
disse:
«Forse che nelle leggi è scritto che il maestro di cappella debba sedere a fianco del
suo cantore?». E quando il collegio confermò la sentenza del conciliatore, strizzò gli
occhi...
18 Sforzata trascrizione fonetica russa del tedesco haben Sie gewesen? (è stato lei?), frase usata in modo burlesco, senza speciale significato, o, come qui, a scopo elusivo, per non dare una risposta diretta. 19 Magistratura collegiale che giudicava in grado dì appello le sentenze dei singoli conciliatori.
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«Come? Che cosa?» domandò. «Come volete che l'intenda? Voi a che proposito?
...».
«Il collegio ha confermato la sentenza del giudice conciliatore. Se non siete
soddisfatto, potete ricorrere in cassazione».
«Sissignore. Vi ringraziamo sentitamente, eccellenza, per il pronto e giusto giudizio.
Certo, col solo stipendio non si può vivere, questo lo capisco benissimo, ma scusate,
troveremo anche un tribunale incorruttibile».
Non starò a riferire tutto ciò che Griàdussov spiattellò al collegio... Presentemente è
sotto processo per "oltraggio al collegio" e non vuol ascoltare, quando i conoscenti
cercano di spiegargli che è colpevole... È convinto della sua innocenza e ha fede che
presto o tardi gli diranno grazie per gli abusi da lui scoperti!
«Con quest'imbecille non ci puoi far nulla!» dice il priore della cattedrale, agitando
sfiduciato la mano. «Non capisce!».
08 - Una natura enigmatica
Uno scompartimento di prima classe.
Sul divano, coperto di velluto cremisi, è semisdraiata una graziosa signora. Un
costoso ventaglio a frangia crepita nella sua mano convulsamente serrata; il pince-
nez di continuo cade dal suo bel nasino, la spilla in petto ora sale, ora scende, come
una navicella fra le onde. Ella è agitata... Di fronte a lei sul divanetto siede un
funzionario di governatorato addetto agl'incarichi speciali, un giovane scrittore
principiante, che pubblica nella gazzetta provinciale piccoli racconti o, com'egli
stesso le chiama, novelle di vita mondana... Egli la guarda in viso, la guarda fisso,
con aria d'intenditore. Osserva, studia, afferra quella bizzarra, enigmatica natura, la
comprende, la penetra... L'anima di lei, tutta la sua psicologia, egli l'ha come sul
palmo della mano.
«Oh, io vi comprendo!» dice il funzionario con incarichi speciali, baciandole la mano
presso il braccialetto. «La vostra anima delicata, sensibile, cerca un'uscita dal
labirinto... Sì! È una lotta terribile, mostruosa, ma... non scoraggiatevi! Voi sarete
vincitrice! Sì! ».
«Descrivetemi, Voldemàr!» dice la damina, sorridendo mestamente. «La vita mia è
così piena, così varia, così screziata... Ma soprattutto... io sono infelice! Sono una
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martire stile Dostoievski... Mostrate al mondo la mia anima, Voldemàr, mostrate
questa povera anima! Voi siete uno psicologo. Non è trascorsa un'ora dacché
sediamo nello scompartimento a discorrere, e voi m'avete bell'e capita, tutta, tutta!».
«Parlate! Vi scongiuro, parlate!».
«Ascoltate. Nacqui in una povera famiglia d'impiegati. Mio padre, un brav'uomo,
intelligente, ma... lo spirito del tempo e dell'ambiente... vous comprenez, io non
accuso il mio povero padre. Egli beveva, giocava a carte... prendeva sbruffi... La
mamma, poi... Ma che dire! Il bisogno, la lotta per il pezzo di pane, la
consapevolezza della nullità... Ah, non costringetemi a rammentare! Dovetti io stessa
aprirmi una via... La mostruosa educazione di collegio, la lettura di sciocchi romanzi,
errori di gioventù, primo timido amore... E la lotta con l'ambiente? Una cosa
tremenda! E i dubbi? E i tormenti della incipiente mancanza di fede nella vita, in
sé?... Ah! Voi siete uno scrittore e ci conoscete, noi donne. Voi capirete. Purtroppo,
io fui dotata d'un carattere aperto... Aspettavo la felicità, e quale! Bramavo essere
una persona umana! Sì! Essere una persona umana: in ciò scorgevo la mia felicità!».
«Meravigliosa!» balbetta lo scrittore, baciando la mano presso il braccialetto. «Non
voi bacio, mirabile creatura, ma l'umana sofferenza! Ricordate Raskòlnikov20? Egli
baciava così».
«Oh, Voldemàr! Mi occorreva la fama... il rumore, lo splendore, come ad ogni
(perché atteggiarsi a modesta?) natura non dozzinale. Io anelavo a qualcosa di non
comune... di non femminile! Ed ecco... Ed ecco... capitò sul mio cammino un vecchio
generale ricco... Capitemi, Voldemàr! Era il sacrificio di sé, la rinuncia a se stessa,
capite! Io non potevo agire altrimenti.
Feci ricca la famiglia, presi a viaggiare, a far del bene... E quanto soffersi, come
intollerabili, bassamente triviali furono per me gli amplessi di quel generale, sebbene,
bisogna rendergli giustizia, a suo tempo avesse valorosamente combattuto! Vi furono
momenti... momenti terribili! Ma mi rafforzava il pensiero che il vecchio dall'oggi al
domani sarebbe morto, che avrei preso a vivere come volevo, mi sarei abbandonata
all'uomo amato, sarei stata felice... E io ce l'ho un tal uomo, Voldemàr! Dio vede, ce
l'ho!».
La damina agita più intensamente il ventaglio. Il suo viso assume un'espressione di
pianto. 20 Il protagonista di Delitto e castigo di Dostoievski.
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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«Ma ecco, il vecchio è morto... Egli mi ha lasciato qualcosa, io sono libera come un
uccello. Adesso potrei anche viver felice... Non è vero, Voldemàr? La felicità batte
alla mia finestra. Non c'è che da lasciarla entrare, ma... no! Voldemàr, ascoltate, vi
scongiuro! Adesso potrei anche abbandonarmi all'uomo amato, diventare l'amica,
l'aiuto, la banditrice dei suoi ideali, esser felice... riposare... Ma come tutto è volgare,
nauseante e sciocco a questo mondo! Come tutto è ignobile, Voldemàr! Io sono
infelice, infelice, infelice! Sul mio cammino di nuovo si trova un ostacolo! Di nuovo
sento che la felicità mia è lontana, lontana! Ah, quanti tormenti, se sapeste! Quanti
tormenti!».
«Ma che è? Che cosa s'è messo sul vostro cammino? Vi supplico, parlate!
Ebbene?».
«Un altro vecchio ricco... ».
Il ventaglio spezzato ricopre il bel visetto. Lo scrittore puntella col pugno la sua testa
gravida di pensiero, sospira e, con aria d'intenditore psicologo, si fa meditabondo. La
locomotiva fischia e ansima, si arrossano dal sole al tramonto le tendine dei
finestrini...
09 - Dal diario d'un aiuto contabile
11 maggio 1863. Il nostro sessantenne contabile Glotkin ha bevuto latte con
cognac a cagion della tosse e si è ammalato in quest'occasione di delirium tremens. I
dottori, con la sicumera loro propria, assicurano che domani sarà morto. E così sarò
finalmente contabile! Questo posto mi è stato promesso ormai da un pezzo.
Il segretario Kles'ciòv andrà sotto giudizio per percosse inferte a un postulante che
l'aveva chiamato burocrate. A quanto sembra, è cosa decisa.
Ho preso un decotto contro il catarro di stomaco.
3 agosto 1865. Il contabile Glotkin si è nuovamente ammalato di petto. Ha preso a
tossire e beve latte con cognac. Se morirà, il posto resterà a me. Nutro una
speranza, ma debole, poiché, a quel che pare, il delirium tremens non sempre è
mortale!
Kles'ciòv ha strappato via ad un armeno una cambiale e l'ha stracciata. La cosa
andrà magari a finire in tribunale.
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Una vecchietta (la Gùrievna) diceva ieri ch'io non ho il catarro, ma un'emorroide
interna. Può esser benissimo!
30 giugno 1867. In Arabia, scrivono, c'è il colera. Può darsi che venga in Russia,
e allora si faranno molti posti vacanti. Forse il vecchio Glotkin morirà, e io avrò il
posto di contabile. É ben vitale costui! Vivere così a lungo, secondo me, è perfin
riprovevole.
Che cosa prendere contro il catarro? Non dovrei prendere della santonina?
2 gennaio 1870. Nella corte di Glotkin tutta la notte ha ululato un cane. La mia
cuoca Pelagheia dice che questo è un segno sicuro, e io e lei fino alle due di notte
abbiamo parlato di come, diventato contabile, mi comprerò la pelliccia di procione e
la veste da camera. E magari prenderò moglie. Certo non una ragazza - ciò non si
confà ai miei anni - ma una vedova.
Ieri Kles'ciòv è stato scacciato dal circolo per aver narrato ad alta voce un aneddoto
indecente e aver riso del patriottismo di un membro della Deputazione Commerciale,
Poniuchòv. Quest'ultimo, come si sente dire, sporgerà querela.
Voglio, per il catarro, andare dal dottore Botkin. Dicono che cura bene...
4 giugno 1878. A Vetlianka, scrivono, c'è la peste. La gente cade a mucchi,
scrivono. Glotkin beve in quest'occasione acquavite al pepe. Be', a un vecchio così,
difficilmente l'acquavite al pepe gioverà. Se verrà la peste, sarò contabile di sicuro.
4 giugno 1883. Glotkin è moribondo. Sono stato da lui e in lacrime ho domandato
perdono d'aver atteso con impazienza la sua morte. Ha perdonato fra le lacrime
generosamente e mi ha consigliato di far uso contro il catarro del caffè di ghiande.
E Kles'ciòv di nuovo per poco non è capitato sotto giudizio: aveva impegnato da un
ebreo un pianoforte preso a nolo. E, nonostante tutto ciò, ha già la croce di Stanislao
e il grado di Assessore di Collegio. È sorprendente ciò che si fa in questo mondo!
Zenzero, 2 dramme; galanga, dr. 1/2; vodka forte, dr. 1; sangue dei sette frati, dr. 5;
mischiato il tutto, fare un infuso in una bottiglietta di vodka e prendere contro il
catarro un bicchierino a digiuno.
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Lo stesso anno, 7 giugno. Ieri hanno seppellito Glotkin. Ahimè! Non m'ha giovato
la morte di questo vegliardo! Mi appare in sogno le notti in clamide bianca e mi fa
segno col dito. E, oh sventura, sventura a me, maledetto, il contabile non sono io, ma
Ciàlikov. Non io ho avuto questo posto, ma un giovanotto che ha la protezione di una
zia generalessa. Son perdute tutte le mie speranze!
10 giugno 1886. A Ciàlikov è scappata la moglie. Si accora, il poveretto. Forse dal
dispiacere attenterà ai suoi giorni. Se lo farà, io sarò contabile. Già se ne parla.
Dunque la speranza non è ancora perduta, si può vivere e magari non si è più lontani
dalla pelliccia di procione. In quanto poi al matrimonio, non ne sono alieno. Perché
non sposarsi, se si presenta una buona occasione? Bisogna solo consigliarsi con
qualcuno; è un passo serio.
Kles'ciòv ha scambiato le soprascarpe col Consigliere Segreto Lirmans. Uno
scandalo!
Il guardaportone Paissi ha consigliato contro il catarro di usare il sublimato.
Proverò.
10 - Matrimonio di calcolo (Romanzo in due parti)
Parte prima
In casa della vedova Mimrin, sita nel vicolo Piatisobaci, v'è cena di nozze. A cenare
son ventitré, di cui otto non mangiano nulla, bezzicano col naso e si lagnano di
sentirsi "disturbati". Candele, lampade e un lampadario zoppo, preso a nolo alla
trattoria, ardono così vivamente che uno degli ospiti seduti a tavola, un telegrafista,
strizza gli occhi civettuolo e non fa altro che parlare d'illuminazione elettrica, per dritto
e per traverso. A quest'illuminazione e in generale all'elettricità egli predice un
brillante avvenire, ma nondimeno i commensali lo ascoltano con un certo disdegno.
«L'elettricità...» borbotta il padrino di nozze, guardando ottusamente nel suo piatto.
«Ma, a mio modo di vedere, la luce elettrica non è che una birbonata. Ficcano là un
carboncino e credono di sviare gli occhi! No, fratello, una volta che mi dài la luce,
dammi non un carboncino, ma qualcosa di sostanziale, un qualcosa da accendere,
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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che ci sia da appigliarcisi! Dammi del fuoco, capisci?, del fuoco, ch'è naturale e non
astratto».
«Se vedeste una batteria elettrica di che è composta» dice il telegrafista dandosi
delle arie, «ragionereste altrimenti».
«Né manco voglio vederla. Una birbonata... Gabbano la gente semplice...
Spremono l'ultimo succo. Li conosciamo, costoro... E voi, signor giovanotto (non ho
l'onore di sapere il vostro patronimico), invece di parteggiare per una birberia, fareste
meglio a bere e a versarne agli altri».
«Con voi, babbo, io son pienamente d'accordo» dice con voce rauca di tenore lo
sposo Aplombov, un giovane dal collo lungo e dai capelli ispidi. «A che pro attaccar
discorsi sapienti? Non rifuggo io stesso dal parlare di ogni possibile scoperta in
senso scientifico, ma per queste cose vi son altri momenti! Tu di che avviso sei,
mascèr21?» si rivolge lo sposo alla sposina che gli siede accanto.
La sposa Dàscenka, a cui son scritte in viso tutte le virtù, tranne una: la facoltà di
pensare, si fa di fuoco e risponde:
«Voglion mostrare la loro istruzione e parlan sempre di cose incomprensibili».
«Lodando Dio, abbiam vissuto la nostra vita senza istruzione, ed ecco che, grazie a
Dio, sposiamo la terza figliuola a un brav'uomo» disse dall'altro capo della tavola la
madre di Dàscenka, sospirando e rivolgendosi al telegrafista. «E se noi, a parer
vostro, facciam figura d'ignoranti, perché venite da noi? Dovreste andarvene dalle
vostre persone istruite».
Segue un silenzio. Il telegrafista è confuso. Egli non si aspettava punto che la
conversazione sulla elettricità avrebbe preso una così strana piega. Il silenzio
sopraggiunto ha un carattere ostile, gli sembra sintomo d'uno scontento generale, ed
egli stima necessario giustificarsi.
«Io, Tatiana Petrovna, ho sempre stimato la vostra famiglia» dice, «e se ho parlato
della luce elettrica, ciò non vuole ancora dire che l'abbia fatto per superbia. Ecco,
posso perfino bere... Ho sempre con ogni sentimento augurato a Daria Ivànovna un
buon partito. Ai nostri tempi, Tatiana Petrovna, è difficile sposare un brav'uomo. Oggi
ognuno spia l'occasione di contrarre un matrimonio d'interesse, per il denaro...» .
«Questa è un'allusione!» dice lo sposo, facendosi di porpora e sbattendo gli occhi.
21 Ma chère (mia cara).
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«Non c'è alcun'allusione» afferma il telegrafista, alquanto intimorito... «Io non parlo
dei presenti. L'ho detto così... in generale... Per carità!... Tutti sanno che voi è per
amore... Una dote da nulla...».
«No, non da nulla!» si risente la madre di Dàscenka. «Tu parla, signor mio, ma non
divagare! Oltre che mille rubli, diamo tre mantelli, il letto, ed ecco, tutta questa
mobilia! Vammi a trovare in un altro posto una dote così!».
«Io nulla... Sono effettivamente dei mobili... ma io dico nel senso che, ecco, si
offendono come se avessi alluso...».
«E voi non fate allusioni» dice la madre della sposa. «Noi vi usiamo riguardo per i
vostri genitori e vi abbiamo invitato alle nozze, e voi dite e questo e quello. E se
sapevate che Jegòr Fiòdoric' si sposava per interesse, perché prima siete stato zitto?
Avreste dovuto venire a dirlo da parente: è così e così, s'è strusciato per interesse...
E tu, bàtiuska, fai peccato!» si rivolge d'un tratto la madre della sposina allo sposo,
battendo lacrimosa gli occhi. «Io, forse, l'ho allattata e allevata... l'ho custodita più di
un diamante smeraldino, la figlietta mia, e tu... tu per interesse...».
«E voi avete prestato fede a una calunnia?» chiede Aplombov, levandosi da tavola
e tirandosi nervosamente gli ispidi capelli. «Vi ringrazio umilissimamente! Mersì22 di
tale opinione! E voi, signor Blìncikov» si rivolge al telegrafista, «sebbene mi siate
conoscente, non vi permetterò di combinare simili infamie in casa altrui! Favorite
uscirvene!».
«Come sarebbe a dire?».
«Favorite uscirvene! Vi auguro di essere anche voi un galantuomo come me! In una
parola, favorite uscirvene! ».
«Ma smettila! Basta! » gli amici dello sposo lo fanno sedere. «Be', ne mette conto?
Siedi! Smettila!».
«No, desidero mostrare ch'egli non ha alcun diritto! Io per amore ho contratto
legittimo matrimonio. Perché mai restiate a sedere non capisco! Favorite uscir
fuori!».
«Io, nulla... Io, già...» balbetta lo sbalordito telegrafista, levandosi da tavola. «Non
capisco nemmeno... Va bene, me n'andrò. Solo restituitemi prima i tre rubli che mi
chiedeste in prestito per il panciotto di piccato. Vuoterò, ecco, ancora il bicchiere e...
me ne andrò; soltanto, voi prima pagate il debito». 22 Merci (grazie).
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Lo sposo bisbiglia a lungo coi suoi amici. Quelli gli danno tre rubli in spiccioli, egli li
getta con indignazione al telegrafista, e quest'ultimo, dopo lunghe ricerche del suo
berretto di servizio, saluta e se ne va. Così a volte può finire un'innocente
conversazione sull'elettricità! Ma ecco, termina la cena... Viene la notte. L'autore ben
educato mette alla propria fantasia una solida briglia e getta sugli avvenimenti in
corso il cupo velo del mistero.
L'Aurora dalle rosee dita trova ancora Imeneo al vicolo Piatisobaci, ma ecco che
giunge il grigio mattino e fornisce all'autore ricca materia per la
Parte seconda e ultima
Una grigia mattina d'autunno. Neanche son le otto e al vicolo Piatisobaci v'è un
movimento insolito. Per i marciapiedi corrono agitati guardie e portinai; al portone fan
ressa cuoche intirizzite con un'espressione di estrema perplessità sui visi... Da tutte
le finestre guardano gli abitanti. Dalla finestra aperta della lavanderia, premendosi
tempia a tempia, mento a mento, occhieggiano teste di donne.
«Non è neve, non è... neppur ti ci raccapezzi che sia» si odono voci.
Nell'aria da terra fino ai tetti volteggia un che di bianco, molto simile a neve. Il
selciato è bianco, i lampioni della via, i tetti, le panchine dei portieri presso i portoni,
le spalle e i berretti dei passanti... tutto è bianco.
«Che è successo?» domandano le lavandaie ai portinai che corrono.
Quelli in risposta agitano le mani e corrono oltre... Essi stessi non sanno di che si
tratti. Ma ecco, giunge infine lentamente. un portiere e, discorrendo tra sé, gesticola
con le braccia. Evidentemente è stato sul luogo dell'accaduto e sa tutto. «Che è
successo, caro?» gli domandano le lavandaie dalla finestra.
«Uno screzio» risponde lui. «In casa della Mimrin, che ieri ci furon le nozze, hanno
ingannato lo sposo nei conti. Invece di mille, glien'han dati novecento».
«Be', e lui che ha fatto?».
«È andato in furia. Io, dice, già, dice... Ha scucito nella collera il materasso di piume
e ha buttato il piumino dalla finestra... Ve', quanto piumino! Come neve!».
«Lo conducono! Lo conducono! » si senton delle voci. «Lo conducono!».
Dalla casa della vedova Mimrin avanza un corteo. Dinanzi vengono due guardie
con facce impensierite... Dietro a loro cammina Aplombov in cappotto di tricot e
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cilindro. In viso gli sta scritto: «Sono un galantuomo, ma non permetto che mi si
gabbi! ».
«Ora la giustizia vi farà vedere che uomo son io! » borbotta, voltandosi di continuo.
Lo seguono piangenti Tatiana Petrovna e Dàscenka. La processione è chiusa dal
portiere con un libro e da una torma di ragazzini.
«Di che piangi, sposina?» si rivolgono le lavandaie a Dàscenka.
«Rincresce dello strapunto!» risponde per lei la madre. «Tre pudì23, colombelle! E il
piumino, poi, che era! Peluria schietta; non una pennuccia! Dio ci ha castigati sul
declinar degli anni!».
Il corteo svolta dietro l'angolo, e il vicolo Piatisobaci si placa. Il piumino svolazza
fino a sera.
11 - Il romanzo del contrabbasso
Il musicante Smic'kòv si recava dalla città alla villa del principe Bibulov, dove, in
occasione d'un fidanzamento, «aveva luogo» una serata con musica e danze. Sul
suo dorso posava un enorme contrabbasso in custodia di pelle. Andava Smic'kòv per
la riva del fiume, rotolante le sue fredde acque, anche se non maestosamente, in
guisa però assai poetica.
«Non converrebbe far un bagno?» pensò.
Senza riflettere a lungo, egli si svestì e immerse il corpo nei freschi flutti. Era una
serata splendida. La poetica anima di Smic'kòv prese ad accordarsi in conformità
dell'armonia di ciò ch'era intorno. Ma qual dolce sentimento gli avvolse l'anima,
quando, nuotato un centinaio di passi da un lato, scorse una bella fanciulla seduta
sull'erta ripida a pescar con la lenza. Egli trattenne il fiato e si sentì mancare per un
fiotto di sentimenti di varia natura: ricordi dell'infanzia, nostalgia del passato, amore
che si destava... Dio; e lui che pensava di non esser più in grado d'amare! Dopo che
aveva perduto la fede nell'umanità (sua moglie, ardentemente amata, era fuggita con
un amico di lui, il sonatore di fagotto Sobakin), il suo petto si era colmato d'un senso
di vuoto, ed egli s'era fatto misantropo.
«Che è la vita?», più di una volta s'era fatta la domanda. «Per che cosa viviamo?
La vita è un mito, un sogno... un ventriloquio...». 23 Il pud equivale a poco più di sedici chili.
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Ma stando davanti alla bella addormentata (non era difficile osservare ch'ella
dormiva), egli d'un tratto, contro la sua volontà, sentì in petto alcunché di simile
all'amore. A lungo ristette dinanzi a lei, divorandola con gli occhi...
«Ma basta...» pensò, mandando un profondo sospiro. «Addio, miracolosa visione! È
ormai l'ora per me d'andare al ballo di sua eccellenza... ».
E, dato ancora uno sguardo alla bella, stava già per nuotare indietro, quando nella
sua testa balenò un'idea.
«Bisogna che le lasci un mio ricordo!» pensò. «Le aggancerò qualcosa all'amo.
Sarà una sorpresa da parte d'un ignoto».
Smic'kòv nuotò piano verso la sponda, colse un grosso mazzo di fiori di campo e
acquatici e, legatolo con uno stelo di atrepice, lo attaccò all'amo.
Il mazzo andò a fondo e si tirò dietro il grazioso galleggiante.
La saggezza, le leggi di natura e la condizione sociale del mio eroe esigono che il
romanzo finisca in questo punto, ma - ahimè! -, il fato di un autore è inesorabile: per
circostanze indipendenti dall'autore, il romanzo non finì col mazzo di fiori. A dispetto
del buon senso e della natura delle cose, il povero e oscuro sonatore di
contrabbasso doveva rappresentare nella vita d'una illustre e ricca beltà una parte
importante.
Giunto a nuoto alla riva, Smic'kòv fu sbalordito: egli non scorse i suoi panni. Li
avevan rubati... Ignoti malfattori, mentr'egli contemplava la bella, avevan portato via
tutto, tranne il contrabbasso e il cilindro.
«Maledetti!» esclamò Smic'kòv. «Oh, progenie di arpie! Non tanto mi conturba la
perdita del vestito (ché un vestito è perituro), quanto il pensiero che mi toccherà
andarmene tutto nudo e con ciò mancare contro la pubblica moralità».
Egli sedette sulla custodia del contrabbasso e si diede a cercare una via d'uscita
dalla sua orribile situazione.
«Non posso mica andar nudo dal principe Bibulov! » pensava. «Vi saran delle
dame! E per di più i ladri han rubato coi calzoni anche la colofonia che vi si trovava
dentro! ».
Egli pensò a lungo, tormentosamente, fino ad averne dolor di tempie.
«Ah!» si rammentò infine. «Non lungi dalla riva fra i cespugli v'è un ponticello...
Mentre si farà scuro, potrò starmene sotto quel ponticello, e a sera, al buio,
raggiungerò la prima isba...».
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Fermatosi a questo pensiero, Smic'kòv mise il cilindro, si gettò sul dorso il
contrabbasso e si trascinò fino ai cespugli. Nudo, con lo strumento musicale sul
dorso, egli rammentava qualche mitico semidio dell'antichità.
Adesso, lettore, mentre il mio eroe se ne sta sotto il ponte e si abbandona al suo
cruccio, lasciamolo per qualche tempo e volgiamoci alla fanciulla in atto di pescare.
Che n'è di lei? La bella, svegliatasi e non avendo scorto sull'acqua il galleggiante, si
affrettò a tirare la lenza. La lenza si tese, ma l'uncino e il galleggiante non apparvero
fuori dell'acqua. Il mazzo di Smic'kòv, è evidente, si era ammollito nell'acqua,
gonfiandosi, e s'era appesantito.
«O s'è acchiappato un grosso pesce» pensò la fanciulla, «oppure s'è impigliato
l'amo».
Dopo aver tirato ancora un po' la lenza, la fanciulla concluse che l'uncino s'era
impigliato.
«Che peccato!» pensò. «La sera abboccano così bene! Che fare?».
E senza pensarci a lungo, la bizzarra fanciulla gettò da sé le eteree vesti e immerse
il bellissimo corpo nei flutti fino alle marmoree spalle. Non fu facile liberare l'uncino
dal mazzo, nel quale si era aggrovigliata la lenza, ma pazienza e fatica ebbero il
sopravvento. Di lì a circa un quarto d'ora la bella, raggiante e felice, usciva
dall'acque, tenendo in mano l'uncino.
Ma la sorte maligna la guatava. I malviventi che avevano rubato il vestito di
Smic'kòv, avevano trafugato anche le sue vesti, non lasciandole se non il barattolo
coi vermi.
«Che posso fare?» si mise a piangere. «Forse andare in tal guisa? No, mai! Meglio
la morte! Aspetterò che imbrunisca; allora, al buio, arriverò da zia Agafia e la
manderò a casa a prendere una veste... E intanto andrò a nascondermi sotto il
ponticello». La mia eroina, scegliendo i tratti dove l'erba era più alta e chinandosi,
corse verso il ponticello. Nell'infilarsi sotto il ponte, scorse là un uomo nudo con una
criniera da musicista e il petto villoso, mandò un grido e perdette i sensi.
Smic'kòv pure s'era spaventato. Dapprima scambiò la fanciulla per una naiade.
«Non sarà una sirena fluviale, venuta a sedurmi?» pensò, e questa supposizione lo
lusingò, giacché aveva sempre avuto un alto concetto del suo esteriore. «Se poi non
è una sirena, ma un essere umano, come spiegare questa strana metamorfosi?
Perché è qui, sotto il ponte? E che ha?».
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Mentr'egli risolveva questi quesiti, la bella tornava in sé.
«Non uccidetemi!» mormorò. «Sono la principessina Bibulov. Vi scongiuro! Vi si
darà molto denaro! Or ora stavo sganciando nell'acqua l'uncino, e dei ladri mi hanno
rubato il mio vestito nuovo, gli stivaletti e tutto!».
«Signorina!» rispose Smic'kòv con voce supplice. «Anche a me han del pari rubato
il mio vestito. Inoltre coi calzoni hanno portato via anche la colofonia che v'era
dentro! ».
Tutti coloro che suonano contrabbassi e tromboni per lo più son di poca inventiva;
Smic'kòv invece era una piacevole eccezione.
«Signorina!» diss'egli, dopo aver atteso un poco. «Vi turba, lo vedo, il mio aspetto.
Ma, convenitene, a me non è possibile uscir di qui per le stesse ragioni che a voi.
Ecco che cosa ho ideato: non vi andrebbe di adagiarvi nella custodia del mio
contrabbasso e coprirvi col coperchio? Ciò mi nasconderà alla vostra vista...».
Ciò detto, Smic'kòv cavò fuori dall'astuccio il contrabbasso. Per un minuto gli parve,
cedendo la custodia, di profanar la sacra arte, ma l'esitazione fu di breve durata. La
bella si adagiò nella custodia e si acciambellò, e lui strinse le cinghie e prese ad
allietarsi che la natura lo avesse dotato di tanto ingegno.
«Ora, signorina, voi non mi vedete» disse. «Riposate qui e state tranquilla. Quando
farà buio, vi porterò a casa dei vostri genitori. A prendere il contrabbasso posso
venirci anche dopo».
Al sopraggiungere dell'oscurità Smic'kòv si caricò sulle spalle la custodia con la
bella e si trascinò verso la villa di Bibulov. Il suo piano era questo: da principio
avrebbe raggiunto la prima isba e si sarebbe rifornito di vestiario, poi avrebbe
proseguito... «Non v'è male senza bene» pensava, sollevando la polvere coi piedi
nudi e chinandosi sotto il carico. «Del caloroso interesse che io ho preso alla sorte
della principessina, Bibulov mi compenserà certo generosamente».
«Signorina, state comoda?» domandava poi col tono del cavalier galant che invita a
una quadriglia. «Di grazia, non fate complimenti e disponete della mia custodia come
se foste in casa vostra! ».
D'un tratto al galante Smic'kòv parve che davanti a lui, avvolte nell'oscurità,
camminassero due figure d'uomo. Scrutando più attentamente, si convinse che non
era un'illusione ottica: le figure effettivamente camminavano, anzi recavano in mano
certi fagotti...
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«Non saranno i ladri?» gli balenò in testa. «Portano qualche cosa! Sono
probabilmente i nostri vestiti! ».
Smic'kòv posò la custodia al margine della strada e rincorse le figure.
«Alto là! » gridò. «Alt! Fermi! ».
Le figure si volsero e, accortesi dell'inseguimento, se la diedero a gambe... La
principessina ancora a lungo intese rapidi passi e grida di «alto là!». Infine tutto
tacque.
Smic'kòv si era lasciato trascinare dall'inseguimento e, probabilmente, alla bella
sarebbe toccato giacere ancora a lungo nel campo accosto alla strada, se non era un
fortunato gioco del caso. Accadde che in quel mentre percorressero la stessa strada
per la villa di Bibulov i colleghi di Smic'kòv, il flautista Zuc'kòv e il clarinetto
Razmachaikin. Inciampati nella custodia, i due si guardarono meravigliati e
spalancarono le braccia.
«Il contrabbasso!» disse Zuc'kòv. «Ah, ma questo è il contrabbasso del nostro
Smic'kòv! Ma com'è capitato qui?».
«Probabilmente, qualcosa è accaduto a Smic'kòv» concluse Razmachaikin. «O ha
preso la sbornia, oppure l'hanno derubato... In ogni caso, lasciar qui il contrabbasso
non va. Prendiamolo con noi».
Zuc'kòv si gettò sul dorso la custodia, e i musicanti proseguirono.
«Lo sa il diavolo, che peso è!» brontolò per tutta la strada il flautista. «Per nulla al
mondo acconsentirei a sonare una tal cariatide... Uff!».
Giunti alla villa del conte Bibulov, i sonatori deposero la custodia nel posto riservato
all'orchestra e si diressero al ristoro.
In quel mentre nella villa già accendevano i lampadari e i bracci. Il fidanzato,
consigliere di Corte Lakeic' funzionario bello e simpatico del dicastero delle vie di
comunicazione, stava in mezzo alla sala e, con le mani in tasca, discorreva col conte
Skàlikov. Parlavano di musica.
«Io, conte» diceva Lakeic', «a Napoli conoscevo di persona un violinista che
operava letteralmente prodigi. Voi non crederete! Sul contrabbasso... su un comune
contrabbasso egli cavava trilli così indiavolati da far paura, semplicemente! Sonava i
valzer di Strauss!».
«Finitela, codesto non è possibile...» mise in dubbio il conte.
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«Vi assicuro! Perfin la rapsodia di Liszt eseguiva! Io abitavo con lui nella stessa
camera, anzi, non avendo da fare, appresi da lui a sonare sul contrabbasso la
rapsodia di Liszt».
«La rapsodia di Liszt... Uhm!... voi scherzate...». «Non credete?» fece Lakeic'.
«Allora ve lo proverò subito! Andiamo in orchestra!».
Il fidanzato e il conte si diressero all'orchestra. Accostatisi al contrabbasso, presero
lesti a scioglier le cinghie... e - oh, spavento!
Ma a questo punto, mentre il lettore, dando libero corso alla sua immaginazione,
delinea l'esito della disputa musicale, torniamo a Smic'kòv... Il povero sonatore, non
avendo raggiunto i ladri ed essendo tornato al luogo dove aveva lasciato la custodia,
più non vide il prezioso carico. Perdendosi in congetture, egli fece più volte la strada
su e giù e, non avendo trovato l'astuccio, concluse che egli non aveva imbroccato la
strada giusta...
«È orribile!» pensava, afferrandosi per i capelli e rabbrividendo. «Lei soffocherà
nell'astuccio! Sono un assassino! ».
Fino a mezzanotte in punto Smic'kòv vagò per le strade e cercò l'astuccio, ma alla
fine, stremato di forze, se n'andò sotto il ponticello.
«Cercherò all'alba» stabilì.
Le ricerche all'alba diedero lo stesso risultato, e Smic'kòv risolse di aspettar sotto il
ponte la notte... «La troverò! » mormorava, togliendosi il cilindro e afferrandosi i
capelli. «Dovessi cercare un anno, la troverò! ».
E tuttora i contadini che abitano i luoghi descritti narrano che le notti presso il
ponticello si può vedere un uomo nudo, coperto dai capelli e in cilindro. Ogni tanto da
sotto il ponticello si sente il rantolo d'un contrabbasso.
12 - L'oratore
Un bel mattino seppellivano l'assessore di collegio Kirill Ivànovic' Vavilonov, morto
per due malanni tanto diffusi nella nostra patria: una cattiva moglie e l'alcolismo.
Quando il corteo funebre si mosse dalla chiesa verso il cimitero, un collega del
defunto, certo Poplavski, salì in una carrozzella e galoppò dal suo amico Grigori
Petrovic' Zapoikin, uomo giovane, ma già abbastanza popolare. Zapoikin, com'è noto
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a molti lettori, possiede la rara capacità d'improvvisare discorsi matrimoniali, di
giubileo e funebri. Egli può parlare quando gli garba: tra veglia e sonno, a digiuno,
ubriaco fradicio, con la febbre ardente: il suo discorso scorre liscio, eguale, come
acqua da gronda, e copioso; parole di rimpianto nel suo dizionario oratorio ve n'è
assai più che di scarafaggi in qualsivoglia trattoria. Parla sempre con eloquenza e a
lungo, cosicché a volte, specie a nozze di mercanti, per fermarlo tocca ricorrere
all'aiuto della polizia.
«E io, fratellino, son venuto da te! » cominciò Poplavski, avendolo trovato in casa.
«Vèstiti sull'istante, e andiamo. È morto uno dei nostri, lo spediamo subito all'altro
mondo, così bisogna, fratellino, dire a commiato qualche frottola... In te ogni
speranza. Se fosse morto qualcuno dei piccoli, non staremmo a disturbarti, ma sai, è
un segretario... una colonna della cancelleria, in certo qual modo. Non sta bene un
tal pezzo grosso seppellirlo senza discorso».
«Ah il segretario!» sbadigliò Zapoikin. «È quell'ubriacone?».
«Sì, l'ubriacone. Ci saranno i blinì24, gli antipasti... riceverai i soldi della carrozzella.
Andiamo, anima mia! Metti fuori là, sulla tomba, una qualche concione più
ciceroniana che puoi, e che grazie riceverai! ».
Zapoikin acconsentì volentieri. Egli si scarruffò i capelli, atteggiò il volto a
malinconia e uscì con Poplavski sulla strada.
«Conosco il vostro segretario» disse, salendo in carrozzella. «Scroccone e birba, si
abbia il regno dei cieli, come ce n'è pochi».
«Via, non sta bene, Griscia, insultare i morti».
«Quest'è certo, aut mortuis nihil bene25, ma tuttavia era un mariuolo».
Gli amici raggiunsero il corteo funebre e vi si unirono. Il defunto lo portavan
lentamente, talché fino al cimitero ebbero tempo di dare un tre capatine in trattoria e
di mandar giù per il riposo dell'anima un bicchierino ogni volta.
Al cimitero fu detto il requiem. Suocera, moglie e cognata, lige alla consuetudine,
piansero molto. Quando calarono la bara nella fossa, la moglie gridò: «Lasciatemi
andar da lui!», ma nella fossa dietro al marito non andò, probabilmente essendosi
rammentata della pensione. Dopo aver atteso che tutto si fosse calmato, Zapoikin si
fece avanti, girò gli occhi su tutti e cominciò: 24 Sorta di frittelle tonde e sottili, fatte con pasta semiliquida di frumento, o altri cereali, che si mangiavano in varie occasioni, specialmente nozze e funerali. 25 Storpiatura del latino: nihil de mortuis nisi bene, nulla (dicasi) dei morti, se non in bene.
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«Si ha da credere agli occhi e agli orecchi? Non sono un sogno pauroso questa
bara, questi visi di pianto, gemiti e lamenti? Ahimè, non è un sogno, e la vista non
c'inganna! Colui che, ancor non è molto, noi vedevamo così baldo, così
giovanilmente fresco e puro, che, ancor non è molto, sotto i nostri occhi, a
somiglianza d'infaticabile ape, recava il suo miele alla comune arnia del buon ordine
statale, colui che... quello stesso è ora volto in cenere, in material parvenza. La
morte inesorabile ha posto su di lui la mano irrigidita, mentr'egli, nonostante la sua
avanzata età, era ancor pieno di forze in sboccio e di radiose speranze. Incolmabile
perdita! Chi ce lo sostituirà? Di buoni funzionari ne abbiam molti, ma Prokofi Osipyc'
era unico. Egli sino in fondo all'anima era dedito al suo onesto dovere, non
risparmiava forze, non dormiva le notti, era disinteressato, incorruttibile... Come
disprezzava coloro che cercavano, a danno dei comuni interessi, di corromperlo, che
con gli allettevoli beni della vita tentavano di farlo venir meno al suo dovere! Sì, sotto
i nostri occhi Prokofi Osipyc' distribuiva il suo modesto stipendio ai colleghi più
poveri, e voi stessi avete udito or ora i lamenti delle vedove e degli orfani che
vivevano delle sue donazioni. Dedito al dovere d'ufficio e alle buone opere, egli non
conobbe gioie nella vita e si negò perfino la felicità dell'esistenza familiare; vi è noto
che fino al termine dei giorni suoi egli fu celibe! E chi ce lo sostituirà come camerata?
Come fosse ora, vedo il suo volto raso, intenerito, a noi rivolto con un buon sorriso;
come fosse ora, sento la sua voce dolce, teneramente amichevole. Pace alle ceneri
tue, Prokofi Osipyc'! Riposa, onesto, nobile lavoratore!».
Zapoikin continuò, e gli ascoltatori presero a bisbigliarsi a vicenda. Il discorso
piacque a tutti, spremé alquante lacrime, ma molto in esso parve strano. In primo
luogo rimase incomprensibile perché l'oratore chiamasse il defunto Prokofi Osipyc',
mentre si chiamava Kirill Ivànovic'. Secondariamente, era a tutti noto che il defunto
tutta la vita aveva guerreggiato con la sua legittima moglie, e quindi non poteva dirsi
scapolo; terzo, aveva una folta barba rossiccia, dalla nascita non si era sbarbato, e
perciò riusciva incomprensibile per qual ragione l'oratore avesse detto raso il suo
volto. Gli uditori erano perplessi, si scambiavano occhiate e alzavan le spalle.
«Prokofi Osipyc'!» continuò l'oratore, guardando ispirato nella fossa: «Il tuo viso era
brutto, persin deforme, tu eri arcigno e rude, ma noi tutti sapevamo che sotto codesto
apparente involucro batteva un cuore onesto, amico!».
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Ben presto gli ascoltatori presero ad osservare un che di strano anche nell'oratore
medesimo. Egli fissò gli occhi in un punto, si mosse inquieto e prese egli stesso a
stringersi nelle spalle. D'un tratto ammutolì, spalancò stupito la bocca e si girò verso
Poplavski.
«Senti un po', ma è vivo!» disse, guardando con sgomento.
«Chi è vivo? ».
«Ma Prokofi Osipyc'! Eccolo in piedi accanto al monumento!».
«Lui non era mica morto! È morto Kirìll Ivànovic'! ».
«Ma se tu stesso mi hai detto che vi era mancato il segretario!».
«E KirìlI Ivànovic' era il segretario. Tu, stravagante, hai fatto confusione! Prokofi
Osipyc', è esatto, era prima segretario da noi; ma due anni fa lo passarono capufficio
al secondo reparto».
«Ah, vi capisce il diavolo!».
«Perché ti sei fermato? Continua, ché si è a disagio».
Zapoikin si voltò verso la fossa e con la primitiva eloquenza riprese il discorso
interrotto. Presso un monumento stava effettivamente Prokofi Osipyc', un vecchio
funzionario dalla faccia sbarbata. Egli guardava l'oratore e si accigliava, iroso.
«E come t'è saltato in capo?» ridevano i funzionari, quando con Zapoikin tornavano
dalle esequie. «Hai sotterrato un vivo».
«Male, giovanotto!» brontolava Prokofi Osipyc'. «Il vostro discorso va forse per un
morto, ma riguardo a un vivo, è una canzonatura sola! Per carità, che avete detto?
Disinteressato, incorruttibile, non prende sbruffi! Ma d'un vivo codesto si può dire
solo per canzonatura. E nessuno vi ha pregato, signor mio, di diffondervi sul mio
viso. Brutto, deforme, sia pure, ma perché mettere in piazza la mia fisionomia? È
offensivo! ».
13 - La sirena
Dopo una seduta del collegio dei giudici conciliatori26 di N., i giudici si riunirono in
camera di consiglio, per togliersi le divise, riposarsi un momentino e recarsi a casa a
pranzare. Il presidente del collegio, un gran bell'uomo dalle fedine lanuginose, 26 Autorità giudiziaria collegiale (istituita con le riforme amministrative di Alessandro 11 nel 1864) che giudicava in sede di appello dalle sentenze dei singoli conciliatori.
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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rimasto, in una delle cause dianzi esaminate, di «opinione particolare», stava seduto
davanti alla tavola e si affrettava ad annotare la sua opinione. Il conciliatore
mandamentale Milkin, un giovane dal languido viso malinconico, che passava per un
filosofo, insoddisfatto dell'ambiente, che andasse cercando lo scopo della vita, stava
a una finestra e guardava tristemente nel cortile. Un altro mandamentale e uno degli
onorari se n'eran già andati. Il giudice onorario rimasto, un grassone floscio che
respirava con stento, e il sostituto procuratore, un giovane tedesco dal viso catarrale,
sedevano su un divanetto e aspettavano che il presidente finisse di scrivere, per
andarsene insieme a pranzare. Davanti a loro stava il segretario del collegio Zilin, un
ometto piccino dalle fedine attorno agli orecchi e con un'espressione di dolcezza in
viso. Sorridendo mellifluo e guardando il grassone, egli diceva sottovoce:
«Noi tutti ora vogliamo mangiare, perché ci siamo stancati e son le tre passate; ma
questo, anima mia, Grigori Savvic', non è vero appetito. La vera fame, la fame da
lupo, quando sembra che ti mangeresti il tuo proprio padre, si ha solo dopo il moto
fisico, per esempio dopo una caccia coi cani da corsa, o quando ti fai con cavalli
presi a nolo da privati un centinaio di verste27 senza riprender fiato. Molto pure vuol
dire l'immaginazione. Se, mettiamo, tornate a casa dalla caccia e desiderate
pranzare con appetito, non bisogna mai pensare a cose intellettuali; le cose
intellettuali e dotte scacciano sempre l'appetito. Lo saprete voi stesso, filosofi e dotti
in fatto di mangiare son gli ultimi degli uomini, e peggio di loro, scusate, non
mangiano nemmeno i porci. Rincasando, bisogna sforzarsi a che la testa pensi solo
al caraffino e allo spuntino. Io una volta, strada facendo, chiusi gli occhi e
m'immaginai un porcellino col rafano, tanto che, dall'appetito, mi venne una crisi di
nervi. Be', e quando entrate nel cortile di casa vostra, bisogna che intanto la cucina
odori di un certo che, sapete...».
«Le oche arrosto son maestre in odori» disse il conciliatore onorario, respirando a
fatica.
«Non parlate, anima mia, Grigori Savvic'; l'anatra o la beccaccia possono dare dieci
punti all'oca. Nel profumo dell'oca non c'è soavità e delicatezza. La fragranza più
inebriante è quella della cipollina giovane, quando, sapete, comincia a rosolare e,
capite, sfrigola, la canaglia, per tutta la casa. Be', quando entrate in casa, la tavola
27 La versta corrisponde a poco più di un chilometro.
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già deve essere apparecchiata, e quando vi mettete a sedere, subito il tovagliolo al
collo, e senza fretta stendete la mano al caraffino della vodka.
Ma lei, la piccola nutrice nostra, la versate non in un bicchierino, ma in qualche
antidiluviano boccalino di argento del nonno, o in uno panciutello così, con la scritta:
"Lo bevon pure i monaci", e bevete non tutto d'un fiato, ma prima farete un sospiro, vi
stropiccerete le mani, darete un'occhiata indifferente al soffitto, poi, così,
senz'affrettarvi, la porterete, la vodkuccia dico, alle labbra e... subito in voi, dallo
stomaco per tutto il corpo, faville...».
Il segretario espresse sul suo dolce viso la beatitudine.
«Faville... » ripeté, strizzando gli occhi. «Appena bevuto, subito bisogna far lo
spuntino».
«Sentite» disse il presidente alzando gli occhi sul segretario, «parlate più piano! È il
secondo foglio che sciupo per causa vostra».
«Ah, domando scusa, Piotr Nikolaic'! Parlerò piano» disse il segretario e continuò in
un bisbiglio. «Già, e lo spuntino, anima mia, Grigori Savvic', bisogna pure saperlo
fare. Occorre sapere che cosa mangiare. Il miglior antipasto, se volete saperlo, è
l'aringa. Quando ne avete mangiato un pezzetto con cipollina e mostarda, là per là,
benefattore mio, mentre ancora sentite nel ventre le scintille, mangiate del caviale a
solo, oppure, se volete, col limoncino, poi semplici ravanelli con sale, poi di nuovo
aringa, ma meglio di tutto, benefattore mio, agarici salati, se sminuzzati, come il
caviale, e, capite, con cipolla e olio d'oliva... una ghiottoneria! Ma i fegatini di lasca,
quelli, sono un poema!».
«M... sì ...» convenne il conciliatore onorario, socchiudendo gli occhi. «Per antipasto
son buoni parimente... i funghi bianchi marinati».
«Sì, sì, sì, con la cipolla, sapete, con una foglia di lauro e ogni sorta di spezie.
Scoperchi la casseruola, e ne vien fuori un vapore, un odor di funghi... perfino una
lacrima ci scappa, qualche volta! Ebbene, appena dalla cucina han portato il
pasticcio di pesce, subito, senza indugio, s'ha da bere il secondo».
«Ivàn Guric'!» disse con voce di pianto il presidente. «Per causa vostra ho sciupato
il terzo foglio».
«Lo sa il diavolo, non pensa che al mangiare!» borbottò il filosofo Milkin, facendo
una smorfia sprezzante. «Possibile che, fuori dei funghi e del pasticcio di pesce, non
vi siano altri interessi nella vita?».
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«Già, bere prima del pasticcio di pesce» continuò il segretario piano piano; egli era
ormai così trascinato che, come l'usignolo che canta, non udiva nulla, tranne la
propria voce. «Il pasticcio di pesce dev'essere appetitoso, lo svergognato, in tutta la
sua nudità, perché sia una tentazione. Ci strizzerai su un occhio, ne taglierai un
pezzettone così, e ci moverai sopra le dita, ecco, a questo modo, per la piena dei
sentimenti. Ti metterai a mangiarlo, e ne colerà burro, come lacrime, il ripieno
grosso, succulento, con uova, con frattaglie, con cipolla...».
Il segretario stralunò gli occhi e storse la bocca fin proprio all'orecchio. Il conciliatore
onorario fece un raschio e, figurandosi probabilmente il pasticcio di pesce, mosse le
dita.
«Lo sa il diavolo quel ch'è...» brontolò il conciliatore mandamentale, scostandosi
verso un'altra finestra.
«Due bocconi li hai mangiati, e il terzo l'hai serbato per le s'ci28» continuò il
segretario con ispirazione. «Appena avrete finito col pasticcio di pesce, là per là, per
non spezzare l'appetito, fate portare le s'ci... Le s'ci devono esser calde, bollenti. Ma
meglio di tutto, benefattore mio, un bel borsc'29 di barbabietole alla maniera dei
ciuffi30, con prosciutto e salsicce. In aggiunta si servono panna acida e prezzemolino
fresco con finocchio. Magnifica parimente la minestra di cetrioli salati, trippa e
rognoni teneri; ma se vi piace la zuppa, delle zuppe la meglio è quella di radici e
verdura: carotine, asparagi, cavolfiore e ogni consimile giurisprudenza».
«Sì, è una cosa magnifica...» sospirò il presidente, staccando gli occhi dalla carta;
ma subito si riprese e gemé: «Abbiate timor di Dio! In tal modo prima di sera non
avrò scritto l'opinione particolare! È il quarto foglio che sciupo!».
«Non lo farò più, non lo farò! Ho torto! » si scusò il segretario, e proseguì in un
bisbiglio: «Appena avrete mangiato il borsc' o la zuppa, subito fate servire il pesce,
benefattore mio. Dei pesci mutoli31 il migliore è il coracino arrosto in panna acida;
soltanto, perché non sappia di limo e abbia finezza, bisogna tenerlo vivo nel latte
ventiquattr'ore sane».
«Buono pure lo storioncino acciambellato» disse il conciliatore onorario chiudendo
gli occhi; ma subito dopo, in modo inatteso per tutti, balzò via dal posto, fece un viso 28 Minestra, magra o grassa, di cavoli tritati e inaciditi. 29 Minestra simile alla precedente, ma con aggiunta di pomodori e panna acida, oppure fatta con barbabietole e carne. Entrambe sono piatti nazionali russi. 30 Così i russi del nord chiamavano i piccoli-russi, o ucraini, dal ciuffo che portavano in capo. 31 Si dice in russo: «muto come un pesce senza favella».
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feroce e ruggì dalla parte del presidente: «Piotr Nikolaic', finirete presto? Non posso
aspettare oltre! Non posso! ».
«Lasciatemi finire!».
«Be', allora me ne vado io! Che il diavolo vi porti!». Il grassone agitò la mano,
afferrò il cappello e, senza salutare, corse fuori della stanza. Il segretario sospirò e,
chinatosi all'orecchio del sostituto procuratore, continuò a bassa voce:
«Buona anche la lucioperca o la carpa con sugo di pomodori e funghetti. Ma col
pesce non ci si sazia, Stepan Frantsic', non è un mangiare sostanziale; l'importante
in un pranzo non è il pesce, non le salse, ma l'arrosto. Voi che volatile amate
maggiormente? ».
Il sostituto procuratore fece un viso agro e disse con un sospiro:
«Purtroppo non posso simpatizzare con voi: ho il catarro di stomaco».
«Via, via, signore! Il catarro di stomaco l'hanno inventato i dottori! Questa malattia
proviene soprattutto dal libero pensiero e dall'orgoglio. Voi non badateci. Non avete
voglia di mangiare, poniamo, o avete nausea, e voi non fateci caso e mangiate lo
stesso. Se, mettiamo, serviranno coll'arrosto un palo di beccaccini, e se vi si
aggiungerà un perniciotto, o una coppia di quagliette grassottelle, allora
dimenticherete qualsiasi catarro, parola d'onore di galantuomo. E il tacchino arrosto?
Bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa come una ninfa...».
«Sì, probabilmente è una cosa saporita» ammise il procuratore, sorridendo
tristemente. «Il tacchino, magari, lo mangerei».
«Signore Iddio, e l'anatra? Se si piglia un'anatra giovane, che giusto giusto al primi
geli abbia beccato un po' di ghiaccio, e la si arrostisce in una leccarda con patate, ma
che le patate sian tagliate fino, e abbian preso colore, e che si siano imbevute del
grasso d'anatra, e che...».
Il filosofo Milkin fece un viso feroce e parve voler dire qualcosa, ma d'un tratto
schioccò le labbra, probabilmente raffigurandosi l'anatra arrosto, e, senza dir
neanche una parola, attratto da una forza ignota, afferrò il cappello e corse via.
«Sì, mangerei magari anche dell'anatra» sospirò il sostituto procuratore.
Il presidente si alzò, fece alcuni passi e tornò a sedere.
«Dopo l'arrosto l'uomo è sazio e cade in un dolce offuscamento» continuò il
segretario. «In questo mentre, e il corpo si sente bene, e l'anima s'intenerisce. Per
addolcimento potete bere un tre bicchierini di acquavite aromatica».
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Il presidente raschiò in gola e cancellò con un sol tratto il foglio.
«È il sesto foglio che sciupo» esclamò stizzito. «È mancanza di coscienza,
questa!».
«Scrivete, scrivete, benefattore!» bisbigliò il segretario. «Non lo farò più! Parlerò
piano. Ve lo dico in coscienza, Stepàn Frantsic'» continuò con un sussurro appena
percettibile; «l'acquavite aromatica fatta in casa è meglio di ogni sciampagna. Già
dopo il primo bicchierino l'olfatto si prende tutta l'anima vostra; è un miraggio siffatto,
e vi sembra di essere non già in poltrona a casa vostra, ma da qualche parte in
Australia, su qualche morbidissimo struzzo...».
«Ah, ma andiamocene, Piotr Nikolaic'! » disse il procuratore, movendo impaziente
un piede.
«Sissignore» proseguì il segretario. «Al momento dell'acquavite aromatica è buona
cosa fumare un sigaruccio e mandare in aria dei cerchietti, e nel frattempo vi
vengono in testa certi pensieri fantastici, come di essere generalissimo, o sposato
con la primissima beltà del mondo, e che questa beltà nuoti tutto il giorno davanti alle
vostre finestre in una di quelle vasche coi pesciolini dorati. Ella nuota, e voi a lei:
"Cuoricino, vieni a darmi un bacio!"».
«Piotr Nikolaic'! » gemette il sostituto procuratore.
«Sissignore» continuò il segretario. «Dopo aver fumato, raccogliete le falde della
veste da camera, e via verso il lettuccio! E così vi mettete a giacere sul dorso, con la
pancetta in su, e prendete il giornaluccio in mano. Quando gli occhi si chiudono e
tutto il corpo è pieno di sopore, fa piacere legger di politica: là, guardi, l'Austria ha
fatto un passo falso, laggiù la Francia non è andata a genio a qualcuno, là il papa di
Roma è corso ai ripari: leggi, e fa piacere».
Il presidente si alzò di scatto, sbatté la penna da una parte e con tutt'e due le mani
agguantò il cappello. Il sostituto procuratore, scordato il suo catarro e struggendosi
d'impazienza, balzò su egli pure. «Andiamo!» gridò.
«Piotr Nikolaic,' e l'opinione particolare?» si sgomentò il segretario. «Quando poi,
benefattore, la scriverete? Alle sei dovete pur recarvi in città!».
Il presidente scosse la mano e si precipitò alla porta. Il sostituto procuratore agitò la
mano anche lui e, afferrata la sua busta, scomparve col presidente. Il segretario
sospirò, guardò loro dietro con aria di riprovazione e si mise a ordinare le carte.
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14 - Una calunnia
L'insegnante di calligrafia Serghéi Kapitonic Achineiev dava in sposa la sua figliuola
Natalia all'insegnante di storia e geografia Ivàn Petrovic' Losciadinich. Il trattenimento
nuziale filava liscio come un olio. In sala si cantava, si sonava, si danzava. Per le
stanze, come invasati, correvano avanti e indietro i domestici presi a nolo al circolo,
in marsine nere e cravatte bianche sudice. C'era chiasso e vocìo. L'insegnante di
matematica Taràntulov, il francese Padekuà e il più giovane revisore della corte dei
conti Jegòr Venediktic Mzda, seduti in fila sul divano, affrettandosi e interrompendosi
a vicenda, raccontavano agli ospiti dei casi di seppellimento di vivi ed esprimevano la
loro opinione sullo spiritismo. Tutti e tre non credevano nello spiritismo, ma
ammettevano che in questo mondo ci son molte cose che la mente umana non
penetrerà mai. In un'altra stanza l'insegnante di letteratura Dodonski spiegava agli
ospiti i casi in cui la sentinella ha il diritto di sparare su chi passa. Le conversazioni
erano, come vedete, paurose, ma assai piacevoli. Dal cortile curiosavano alle
finestre delle persone, che, per la loro condizione sociale, non avevano il diritto di
entrar dentro.
A mezzanotte in punto il padron di casa Achineiev andò in cucina a vedere se tutto
fosse pronto per la cena. In cucina dal pavimento al soffitto era sospeso un fumo
costituito dagli effluvi d'oca, d'anatra e numerosi altri. Su due tavole eran distribuiti e
disposti in artistico disordine gli attributi del servizio d'antipasti e aperitivi. Intorno alle
tavole si affaccendava la cuoca Marfa, una donna rossa con doppio ventre serrato
alla cintola.
«Fammi un po' vedere lo storione, màtuska!» disse Achineiev, fregandosi le mani e
leccandosi le labbra. «Ma che odore, che zaffata! Mi mangerei addirittura tutta la
cucina! Su dunque, fa' vedere lo storione!».
Marfa s'avvicinò a un panchetto e cautamente sollevò un foglio di giornale unto.
Sotto questo foglio, in un piatto enorme, riposava un grosso storione in gelatina,
screziato di capperi, olive e carotine. Achineiev guardò lo storione e fece un «ah!». Il
viso gli raggiò, gli occhi si strabuzzarono. Egli si chinò ed emise con le labbra il
suono d'una ruota non lubrificata. Dopo un po' di sosta, schioccò le dita dal piacere e
fece un altro schiocco con le labbra.
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«Oibò! Il suono di un ardente bacio... Con chi ti stai baciando, Marfuscia?» s'udì
una voce dalla stanza attigua, e sull'uscio comparve la testa rapata dell'aiuto dei
sorveglianti di classe, Vankin. «Con chi facevi questo? A-a-ah... molto piacere! Con
Serghéi Kapitonic'! Bel nonno, non c'è che dire! Un téte-à-téte con una «polacca32»
da donna!».
«Io non ho baciato nessuno» si confuse Achineiev, «chi te l'ha detto, stupido? Son
io che... ho schioccato le labbra riguardo... a proposito del piacere... Alla vista del
pesce...».
«Raccontalo ad altri! ».
La faccia di Vankin fece un largo sorriso e scomparve dietro l'uscio. Achineiev
arrossì.
«Il diavolo sa quel che è!» pensò. «Ora andrà, il mascalzone, a far pettegolezzi.
M'infamerà per tutta la città, l'animale...».
Achineiev entrò timidamente in sala e guardò in tralice da un lato: dov'era Vankin?
Vankin era accanto al pianoforte e, piegatosi con bravura, bisbigliava qualcosa alla
cognata dell'ispettore che rideva.
«Di me sta parlando!» pensò Achineiev. «Di me, che possa scoppiare! E quella ci
crede... ci crede! Ride! O Dio mio! No, così non si può lasciar la cosa... no... Bisogna
fare in modo che non gli credano... Parlerò con tutti loro e gli farò far la figura
dell'imbecille pettegolo».
Achineiev si grattò e, senza cessar di confondersi, si avvicinò a Padekuà.
«Dianzi ero in cucina e davo disposizioni riguardo alla cena» diss'egli al francese.
«A voi, lo so, piace il pesce, e io ci ho, bàtenka, un certo storione! Lungo due arscini!
Eh-eh-eh!... Sì, a proposito... già me ne dimenticavo... In cucina poco fa, con quello
storione... un vero aneddoto! Entro poco fa in cucina e voglio osservar le vivande...
Guardo lo storione e dal piacere... per l'odore piccante faccio uno schiocco con le
labbra! Ma in quel momento entra a un tratto quest'imbecille di Vankin e dice... ah-
ahah!... e dice: "O-o-oh... vi baciate qui?". Con Marfa, con la cuoca! Che cosa è
andato a pensare, lo sciocco! Quella donna non né ha grazia né garbo, somiglia a
ogni sorta d'animali, e lui... baciarla! Stravagante!».
«Chi stravagante?» domandò Taràntulov che s'era avvicinato.
32 Sopraveste alla polacca, da uomo o da donna; molto vistosa e marziale, con colletto rigido e alamari.
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«Ma eccolo lì, Vankin! Entro in cucina...». E raccontò di Vankin.
«M'ha fatto ridere lo stravagante! Ma secondo me è più piacevole baciare un can
barbone che Marfa» soggiunse Achineiev, che si voltò a guardare e vide dietro a sé
Mzda.
«Stiamo parlando di Vankin» gli disse. «Uno strambo! Entra in cucina, mi vede al
fianco di Marfa, e avanti a immaginare varie facezie. "Che cosa?" dice, "vi baciate?".
Ubriaco com'è, gli era parso. E io, dico, bacerò piuttosto un tacchino che Marfa. E poi
ho anche moglie, dico, imbecille che sei. M'ha fatto ridere! ».
«Chi vi ha fatto ridere?» domandò il prete insegnante di religione, avvicinatosi ad
Achineiev.
«Vankin. Me ne sto, sapete, in cucina e guardo lo storione... ».
E così via. Di lì a forse mezz'ora tutti gli ospiti già sapevano della storia di Vankin e
dello storione. «Adesso glielo racconti pure!» pensava Achineiev, fregandosi le mani.
«Racconti pure! Lui comincerà a raccontare, e io subito: "Smettila, imbecille, di dir
scempiaggini! Sappiamo già tutto!"». E Achineiev si tranquillizzò al punto che, dalla
gioia, vuotò quattro bicchierini di troppo. Accompagnati dopo cena i giovani sposi
nella loro camera, egli si ritirò e s'addormentò, come un bimbo di nulla colpevole, e il
giorno dopo più non ricordava la faccenda dello storione. Ma, ahimè! L'uomo
propone e Dio dispone. La mala lingua aveva fatto la mala opera sua, e nulla giovò
ad Achineiev la sua astuzia! Dopo una settimana giusta, e precisamente il mercoledì
dopo la terza lezione, mentre Achineiev stava in mezzo alla sala degli insegnanti e
parlava delle viziose tendenze dell'allievo Vissekin, gli si avvicinò il direttore e lo
chiamò in disparte.
«Ecco che c'è, Serghéi Kapitonic'» disse il direttore. «Scusate... Non è affar mio,
ma tuttavia devo farvi capire... È mio dovere... Vedete, corrono voci che voi vivete
con quella... con la cuoca... Non è affar mio, ma... Vivete con lei, baciatevela... fate
quel che volete, soltanto, per favore, non così, pubblicamente! Vi prego! Non
dimenticate che siete un educatore!».
Achineiev si sentì gelare e restò di stucco. Come punto da tutto uno sciame d'api ad
un tempo e come annaffiato con acqua bollente, andò a casa. Andava a casa e gli
pareva che l'intera città lo guardasse, come se fosse spalmato di catrame... A casa lo
attendeva un nuovo guaio.
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«Come va che non ingozzi niente?» gli domandò a pranzo la moglie. «A che cosa ti
sei messo a pensare? Pensi agli amoretti? Senti la mancanza di Marfuska? Tutto mi
è noto, maometto33! Della brava gente mi ha aperto gli occhi! U-u-uh... bbbarbaro!».
E giù un ceffone sulla sua guancia!... Egli s'alzò da tavola e, senza sentirsi la terra
sotto i piedi, senza berretto né pastrano, si trascinò dà Vankin. Lo trovò in casa.
«Sei un farabutto tu!» si rivolse Achineiev a Vankin. «Per che cosa m'hai infangato
davanti a tutto il mondo? Per che cosa m'hai lanciato una calunnia?».
«Che calunnia? Che andate a inventare?».
«E chi ha spettegolato dicendo che ho baciato Marfa? Non sei tu, mi dirai? Non sei
tu, brigante?».
Vankin prese a batter gli occhi e ad ammiccare con tutte le fibre del suo viso frusto,
alzò gli occhi all'immagine e proferì:
«Che Dio mi castighi! Che i miei occhi possano scoppiare e io restare stecchito, se
ho detto anche solo una parola di voi! Che io non abbia più né letto né tetto! Sarebbe
poco il colera!...».
La sincerità di Vankin era fuori di dubbio. Evidentemente, non era stato lui a
spettegolare.
«Ma chi è dunque? Chi?» si diede a pensare Achineiev, passando in rassegna nella
sua memoria tutti i propri conoscenti e battendosi in petto. «Chi dunque?».
«Chi dunque?» domanderemo anche noi al lettore...
15 - Il punto esclamativo (Racconto di Natale)
La notte prima di Natale Jefim Fomìc' Perekladin, segretario di collegio, si coricò
impermalito e persino offeso.
«Spicciati, demonio!» ruggì con ira contro la moglie, allorché questa domandò
perché fosse così accigliato.
Il fatto è ch'egli era appena tornato da una serata dov'erano state dette molte cose
sgradevoli ed offensive per lui. Dapprima s'eran messi a parlare dei vantaggi
dell'istruzione in genere, poi inavvertitamente eran passati al grado culturale dei
33 Il nome di Maometto è divenuto in Russia, nella forma machamèt, appellativo popolare ingiurioso.
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signori impiegati, al qual proposito erano state formulate molte lamentele, rimproveri
e perfin derisioni circa il suo basso livello. E qui, come usa in tutte le brigate russe,
dagli argomenti generali eran passati ai casi personali.
«Prendiamo, per esempio, non fosse che voi, Jefim Fomìc'» si era rivolto a
Perekladin un giovinetto. «Voi occupate un posto decoroso... ma che istruzione avete
ricevuto?».
«Nessuna. Né da noi si esige istruzione» aveva risposto con dolcezza Perekladin.
«Scrivi correttamente, ed ecco tutto...».
«Ma dove mai imparaste a scrivere correttamente?».
«Mi ci abituai... In quarant'anni di servizio ci si può far la mano... Certo sul principio
era difficile, facevo degli sbagli, ma poi mi abituai... e non c'è male...».
«E i segni d'interpunzione?».
«Anche per i segni d'interpunzione non c'è male... Li colloco correttamente».
«Uhm...» si confuse il giovinetto. «Ma l'abitudine è tutt'altra cosa dall'istruzione. Non
basta che i segni d'interpunzione li poniate correttamente... non basta! Bisogna porli
consapevolmente! Voi mettete una virgola e dovete aver coscienza del perché la
mettete... sissignore! E questa vostra ortografia incosciente... di carattere riflesso non
val nemmeno un centesimo. È produzione meccanica e nulla più».
Perekladin aveva taciuto e perfin sorriso mansuetamente (il giovinetto era figlio d'un
consigliere di Stato e aveva diritto lui stesso al grado della decima classe34), ma
adesso, coricandosi, egli s'era fatto tutto sdegno e rabbia.
«Ho servito per quarant'anni» pensava, «e nessuno mai mi ha dato dell'imbecille, e
lì guarda un po' che critici si son trovati! Incoscientemente!... In modo riflesso!
Produzione meccanica... Ah, che il diavolo ti porti! Ma io forse ci capisco anche più di
te, per quanto non sia stato nelle tue università!».
Dopo avere mentalmente riversato sul critico tutte le contumelie a lui note ed
essersi scaldato sotto la coperta, Perekladin cominciò a calmarsi.
«Io so... capisco...» pensava, addormentandosi. «Non metterò i due punti là dove ci
vuole la virgola, dunque son consapevole, capisco. Sì... Proprio così, giovanotto...
Prima bisogna vivere un poco, far servizio un poco, e solo poi giudicare i vecchi...».
Negli occhi chiusi di Perekladin che si stava addormentando, attraverso una massa
di scure nuvole sorridenti, passò a volo come una meteora una virgola infocata. 34 Quello cioè, contando dall'alto, di segretario di collegio.
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Dopo di essa un'altra, una terza, e ben presto tutto lo sfondo buio, illimitato, che si
stendeva davanti alla sua immaginazione si coprì di fitte schiere di virgole volanti...
«Prendiamo magari queste virgole...» pensava Perekladin, sentendo le sue
membra dolcemente intorpidirsi a causa del sonno sopravveniente. «Io le capisco
benissimo... Per ciascuna posso trovare il posto, se vuoi... e... e consapevolmente, e
non a casaccio... Esaminami, e vedrai... Le virgole si mettono in vari posti, dove
occorre, e anche dove non occorre. Quanto più imbrogliata riesce la carta, tante più
virgole ci vogliono. Si mettono davanti a "il quale" e davanti al "che". Se nella carta si
devono enumerare degli impiegati, ciascuno di essi va separato con virgola... Lo
so!».
Le virgole dorate presero a girare e fuggirono in disparte. Al posto loro giunsero a
volo dei punti infocati...
«E il punto si colloca alla fine della carta... Dove è necessario fare una grande
pausa e gettare un'occhiata all'ascoltatore, là pure ci vuole il punto, affinché il
segretario, quando leggerà, non resti senza saliva. In nessun altro posto si mette il
punto...». Tornano a piombar le virgole... Si mescolano coi punti, turbinano, e
Perekladin vede tutta una schiera di punti e virgole e di due punti...
«Conosco anche questi...» egli pensa. «Dove la virgola non basta e il punto è
troppo; là ci vuole il punto e virgola. Davanti al "ma" e al "conseguentemente" metto
sempre il punto e virgola... Ebbene, e i due punti? I due punti si mettono dopo le
parole: "abbiamo stabilito", "abbiamo deciso" ...».
I punti e virgola e i due punti si spensero. Venne la volta dei punti interrogativi.
Questi balzarono fuori dalle nuvole e si misero a ballare il cancan...
«Che rarità: il punto interrogativo! Ma fossero anche mille per tutti troverei il posto.
Si collocan sempre quando c'è da fare una richiesta o, poniamo, informarsi di un
documento... "Dove è stato riportato il residuo delle somme per il tale anno?",
oppure: "Non riterrebbe possibile la direzione di polizia che la detta Ivànova
eccetera?"...».
I punti interrogativi presero ad accennare in segno di approvazione coi loro uncini e
istantaneamente, come a un comando, si allungarono in punti esclamativi...
«Uhm!... Questo segno d'interpunzione nelle lettere si colloca spesso. "Mio egregio
signore!"; oppure: "Eccellenza, padre e benefattore! »... Ma nelle carte, quando?».
I punti interrogativi si allungarono anche più e si fermarono in attesa...
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«Nelle carte si mettono, quando... cioè... questo... come sarebbe? Uhm!... In realtà,
quando mai si mettono nelle carte? Un momento... Dio, fammi ricordare. Uhm!».
Perekladin apri gli occhi e si girò sull'altro fianco. Ma non fece in tempo a richiuder
gli occhi, che sul fondo scuro comparvero nuovamente i punti esclamativi.
«Il diavolo li porti... Quando mai bisogna metterli?» pensò, cercando di scacciare
dalla sua immaginazione i non richiesti ospiti. «Possibile che l'abbia dimenticato? O
l'ho dimenticato, oppure... non ne ho mai messi... ».
Perekladin prese a rammentarsi il contenuto di tutte le carte ch'egli aveva scritto
durante i quarant'anni del suo servizio; ma per quanto pensasse, per quanto
corrugasse la fronte, non trovò nel suo passato nemmeno un punto esclamativo.
«Che disdetta! Ho scritto per quarant'anni e neppure una volta ho collocato un
punto esclamativo... Uhm!... Ma quando dunque si colloca, quel diavolo lungo?».
Di dietro la fila degl'infocati punti esclamativi si mostrò il grugno perfidamente
ridente del giovane critico. Gli stessi punti sorrisero e si fusero in un solo grande
punto esclamativo.
Perekladin scosse il capo e aprì gli occhi.
«Il diavolo sa quel che è...» pensò. «Domani, bisogna alzarsi per il mattutino, e a
me non esce di capo questa diavoleria... Poh! Ma... quando mai si mette? Eccoti
l'abitudine! Ecco come ti sei fatto la mano! In quarant'anni nemmeno un punto
esclamativo! Eh?».
Perekladin si fece il segno di croce e chiuse gli occhi, ma subito li riaprì; sul fondo
scuro stava tuttora il grosso punto esclamativo...
«Poh! A questo modo non ti addormenterai in tutta la notte. Marfuscia! » si rivolse a
sua moglie, che spesso si vantava con lui d'aver terminato i corsi in collegio. «Non
sai tu, anima mia, quando si colloca nelle carte il punto esclamativo?
«E come non saperlo! Non per nulla studiai sette anni in collegio. So a memoria
tutta la grammatica. Questo segno si colloca nelle apostrofi, nelle esclamazioni e
nelle espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri sentimenti».
«Ah, così...» pensò Perekladin. «Entusiasmo, sdegno, gioia, collera e altri
sentimenti...».
Il segretario di collegio si fece pensoso... Per quarant'anni aveva scritto carte, ne
aveva scritto delle migliaia, decine di migliaia, ma non ricordava nemmeno un rigo
che esprimesse entusiasmo, sdegno o qualcosa del genere.
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«E altri sentimenti...» pensava. «Ma forse che nelle carte son necessari i
sentimenti? Può scriverle anche una persona insensibile...».
Il grugno del giovane critico tornò ad affacciarsi di dietro al punto infocato e sorrise
perfidamente. Perekladin si sollevò a sedere sul letto. La testa gli doleva, sulla fronte
gli era spuntato un sudore freddo... In un canto ardeva tenue, carezzevole, il lumino
dell'icona, i mobili avevano una aria festiva, linda, da ogni cosa addirittura spirava
calore e presenza d'una mano femminile, ma il povero impiegatuccio sentiva freddo,
sconforto, come se si fosse ammalato di tifo. Il punto esclamativo non si drizzava più
nei suoi occhi chiusi, ma davanti a lui, nella camera, presso la specchiera della
moglie, egli ammiccava beffardamente...
«Macchina scrivente! Macchina!» sussurrava il fantasma, soffiando sull'impiegato
un freddo secco. «Pezzo di legno insensibile!».
L'impiegato si coprì con la coperta, ma anche sotto la coperta vide il fantasma;
appoggiò il viso alla spalla della moglie, e anche di dietro quella spalla spuntava la
stessa cosa... Tutta la notte si tormentò il povero Perekladin, ma anche di giorno il
fantasma non lo lasciò. Egli lo vedeva dappertutto: negli stivali che infilava, nel
piattino del tè, nella croce di Stanislao...
«E altri sentimenti...» pensava. «È vero che non ci fu mai alcun sentimento... Ora
andrò dai superiori a metter la firma... forse che ciò si fa con sentimento? Così, a
casaccio... Macchina da far gli auguri...».
Quando Perekladin uscì in strada e chiamò una vettura, gli parve che, in luogo della
vettura, gli rotolasse incontro il punto esclamativo.
Giunto nell'anticamera del superiore, invece dello svizzero vide quello stesso
segno... E tutto ciò gli parlava di entusiasmo, di sdegno, di collera... Il portapenne col
pennino aveva pure l'aspetto di un punto esclamativo. Perekladin lo prese, intinse il
pennino nell'inchiostro e firmò:
«Segretario di collegio Jefim Perekladin! ! ! ».
E, collocando questi tre segni, egli provava entusiasmo, indignazione, gioia e
ribolliva di collera. «To' questo! To' questo! » mormorava, premendo sul pennino.
Il segno infocato fu pago e scomparve.
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16 - Il camaleonte
Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di polizia Ociumielov in
cappotto nuovo e con un fagottino in mano. Dietro a lui cammina una guardia dai
capelli rossicci con un setaccio colmo fino all'orlo di uva spina sequestrata. All'ingiro
silenzio... Sulla piazza non un'anima... Le porte aperte delle botteghe e delle bettole
guardano tristemente il mondo creato, come fauci affamate; accanto ad esse non ci
sono neppur mendicanti.
«E così tu mordi, maledetto! » ode a un tratto Ociumielov. «Ragazzi, non, lasciatelo
scappare! Oggidì è proibito mordere! Tienlo! A... ah! ».
Si sente uno strillo canino. Ociumielov guarda da un lato e vede che dal deposito di
legna del mercante Piciughin, saltando su tre zampe e voltandosi indietro, corre via
un cane. Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e panciotto sbottonato.
Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a terra e afferra il cane per le
zampe posteriori. Si sente un secondo guaito e il grido: «Non lasciarlo andare!».
Dalle botteghe si affacciano fisionomie assonnate e ben presto vicino al deposito di
legna, come spuntata di sotterra, si raduna una folla.
«Qualche disordine, pare, signoria!...» dice la guardia.
Ociumielov fa un mezzo giro a sinistra e va verso l'assembramento. Proprio vicino
al portone del deposito vede che sta l'uomo sopra descritto e, levando in alto la mano
destra, mostra alla folla un dito insanguinato. Sulla sua faccia semiebbra par che sia
scritto: «Ora ti stronco furfante!» e anche il dito stesso ha l'aspetto d'un segno di
vittoria. In quest'uomo Ociumielov riconosce l'orefice Chriukin. Al centro della folla,
con le zampe anteriori divaricate e tremante in tutto il corpo, è accovacciato al suolo
l'autore dello scandalo in persona: un cucciolo bianco di levriero dal muso aguzzo e
con una macchia gialla sul dorso. Nei suoi occhi lacrimosi è un'espressione
d'angoscia e di sgomento.
«Che cosa succede qui?» domanda Ociumielov, fendendo la folla. «Perché questo?
Perché mostri il dito?... Chi ha gridato?».
«Io vado, signoria, e non tocco nessuno...» comincia Chriukin, tossendo nella
mano, «sto parlando della legna con Mitri Mitric', e tutt'a un tratto questo vigliacco,
che è che non è, mi morde il dito... Voi mi scuserete, io sono un uomo che lavora... Il
mio è un lavoro minuto. Bisogna che mi indennizzino, perché io con questo dito forse
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per una settimana non farò un movimento... Anche nella legge, signoria, non sta
scritto che da una bestia si debba tollerare... Se ognuno potrà mordere, sarà meglio
neppur vivere al mondo...».
«Uhm!... Bene...» dice Ociumielov severamente, tossendo e movendo i sopraccigli.
«Bene... Di chi è il cane? Io non la lascerò così.. V'insegnerò a lasciar liberi i cani! È
ora di rivolger l'attenzione a simili signori che non vogliono sottostare alle
disposizioni! Quando gli daranno una multa, al mascalzone, imparerà da me che
cosa voglion dire i cani e le altre bestie randagie! Gli farò veder io!... Eldirin» si
rivolge il commissario alla guardia, «cerca di sapere di chi è il cane e stendi il
verbale! E il cane va soppresso. Senza indugio! Di sicuro è arrabbiato. Di chi è il
cane, domando?».
«A quanto pare è del generale Zigalov! » dice qualcuno della folla.
«Del generale Zigalov? Uhm!... toglimi un po' il cappotto, Eldirin... Fa un caldo
terribile! S'ha da supporre che stia per piovere... Una sola cosa non capisco: come
ha potuto morderti?» si rivolge Ociumielov a Chriukin. «Forse che può arrivarti al
dito? È piccolo, e tu guarda li che uomo grande e grosso sei! Tu probabilmente ti sei
graffiato il dito con un chiodino, e poi t'è venuta in testa l'idea di spillar quattrini. Tu,
già... che gente siete si sa! Vi conosco, diavoli! ».
«Lui, signoria, gli ha premuto il sigaro sul naso per divertirsi, e lui, non essendo
stupido, zaff... Un attaccabrighe, signoria!».
«Mentisci, guercio! Non hai visto, e quindi perché mentire? Sua signoria è un
signore intelligente e capisce chi dice bugia e chi parla in coscienza, come davanti a
Dio... E se io mentisco, ne giudichi il conciliatore. Da lui, nella legge è detto... Oggidì
tutti sono uguali... Io stesso ho un fratello nei gendarmi... se volete sapere...».
«Non discutete!».
«No, non è del generale...» osserva significativamente la guardia. «Il generale di
così non ne ha. Lui ha soprattutto dei cani da fermo...».
«Lo sai di sicuro?».
«Di sicuro, signoria...».
«Lo so anch'io. Il generale ha dei cani di prezzo, di razza, e questo lo sa il diavolo
che cos'è! Né pelo né figura... una cosa ignobile, nient'altro... E tenere un simile
cane?!... Ma dove ce l'avete l'intelligenza? Se s'incontrasse un cane simile a
Pietroburgo o a Mosca, sapete che avverrebbe? Là non guarderebbero nella legge,
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ma sul momento: muori! Tu, Chriukin, hai patito un danno e non lasciar questa
faccenda così... È necessario, dare una lezione! È ora...».
«Ma fors'anche è del generale... » pensa ad alta voce la guardia. «Sul muso non ce
l'ha scritto... Giorni fa nel suo cortile ne vidi uno, così».
«Si sa, è del generale!» dice una voce dalla folla. «Uhm!... Mettimi addosso, caro
Eldirin, il cappotto... Tira un po' di vento... Ho dei brividi... Tu lo porterai dal generale
e là domanderai. Dirai che l'ho trovato e mandato io... È di' che non lo lascino andar
sulla strada... Forse è di prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci
vorrà molto a rovinarlo? Il cane è una bestia delicata... E tu, tanghero, abbassa la
mano! Non hai da mettere in mostra il tuo stupido dito! Tu stesso ci hai colpa!...».
«Viene il cuoco del generale, gli domanderemo... Ehi, Prochor! Vieni un po' qua,
caro! Da' un'occhiata al cane... È vostro?».
«Che idea! Di simili da noi non ce ne sono stati mai».
«E qui non c'è da far tante domande» dice Ociumielov. «È un cane randagio! Non
c'è da far lunghi discorsi... Se ho detto ch'è randagio, vuol dire ch'è randagio...
Sopprimerlo, ecco tutto».
«Non è nostro» continua Prochor. «È del fratello del generale, ch'è arrivato l'altro
giorno. Il nostro non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha passione...».
«Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanic'? » domanda Ociumielov, e tutta la
sua faccia s'inonda d'un sorriso d'intenerimento. «Guarda un po', Signore! E io che
non lo sapevo! È venuto in visita per un po' di tempo?».
«In visita...».
«Guarda un po', Signore!... Sentiva la mancanza del fratello... E io nemmeno lo
sapevo! Così questo è il suo cagnolino? Molto piacere... Prendilo... Il cagnuzzo non è
male... È così vispo... Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-ah!... Su via, perché
tremi? Rrr... Rr... Si arrabbia il briccone... è un tal cagnetto...».
Prochor chiama il cane e s'allontana con esso dal deposito di legna... La folla ride
forte di Chriukin. «Arriverò ancora fino a te!» lo minaccia Ociumielov e, chiudendosi
nel cappotto, continua il suo cammino per la piazza del mercato.
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17 - Non c'è fuoco senza fumo35
Con una troica privata, per strade vicinali, osservando il più rigoroso incognito, Piotr
Pàvlovic' Possudin s'affrettava verso la cittaduzza distrettuale di N., dove lo
chiamava una lettera anonima da lui ricevuta.
«Sorprenderli... Come tegola sul capo» pensava egli, nascondendo il suo viso nel
bavero. «Han fatto un mucchio d'infamie, gli sporcaccioni, e trionfano, scommetto, si
immaginano d'aver fatto sparire ogni traccia... Ah-ah!... Immagino il loro sgomento e
la loro meraviglia quando, sul più bello del trionfo, si udrà: "Si faccia venir qui
Tiapkin-Liapkin!". Sì che succederà uno scompiglio! Ah-ah!...».
Dopo aver fantasticato a sazietà, Possudin entrò in discorso col suo guidatore. Da
uomo bramoso di popolarità, innanzi tutto gli domandò di sé:
«E Possudin lo conosci?».
«Come non conoscerlo!» fece un sorrisetto il guidatore. «Lo conosciamo!».
«Ma perché ridi?».
«Che bizzarria! Conosco fin l'ultimo scrivano, e non dovrei conoscere Possudin!
Appunto è stato messo qui perché tutti lo conoscano».
«È così... Ebbene? Com'è, secondo te? Bravo?».
«Non c'è male...» sbadigliò il guidatore. «Un bravo signore, sa il fatto suo... Non
sono ancora due anni che lo mandarono qua, e già ha fatto un mucchio di cose».
«E che ha fatto di tanto speciale?».
«Molto di bene ha fatto, che Dio lo conservi in salute. La ferrovia ci ha procurato,
nel nostro distretto ha mandato via Chochriukòv... Non c'eran limiti per questo
Chochriukòv... Era un briccone, uno scroccone, tutti quelli di prima gli tenevan mano,
ma arrivò Possudin, e Chochriukòv se n'andò al diavolo, come se mai ci fosse stato...
Ecco, fratello! Possudin, fratello, non lo comprerai, no-o! Dagliene magari cento,
magari mille, ma lui non si prenderà un peccato sulla coscienza... No-o!».
«Sia lode a Dio, almeno da questo lato m'hanno capito» pensò Possudin,
esultando. «Ciò è bene».
«Un signore istruito...» continuò il guidatore, «non superbo... I nostri andarono da
lui, a lagnarsi, li trattò come i signori: la mano a tutti: "Voi, sedete"... Così impetuoso,
35 Traduzione libera del titolo russo: «La lesina nel sacco», sottinteso: «non la nasconderai». È questo un proverbio che corrisponde al nostro, con cui l'abbiamo pertanto sostituito nel titolo.
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pronto... Una parola sensata non te la dirà, ma sempre: uff! uff! Che ti vada al passo,
o altrimenti, Dio mio, non c'è verso, ma tira a far tutto di corsa, tutto di corsa! I nostri
non fecero in tempo a dirgli una parola, che lui: "I cavalli!", e difilato qua... Arrivò e
regolò tutto... nemmeno una copeca prese. Quanto meglio del precedente! Certo,
anche il precedente era bravo. Di così bella apparenza, grave, nessuno gridava più
sonoramente di lui in tutta la provincia... Quando veniva, lo si poteva sentire da dieci
verste lontano; ma, se si tratta di rapporti esteriori, o di faccende interne, quello di
adesso quanto è più abile! Quello di adesso di cervello in testa ne ha cento volte di
più... Un sol guaio... È in tutto un brav'uomo, ma c'è una disgrazia: è beone! ».
«Eccoti il contentino! » pensò Possudin.
«Come sai» domandò, «che io... ch'è un beone?».
«Certo, signoria, io personalmente non l'ho mai visto ubriaco, non starò a mentire,
ma la gente lo diceva. Anche la gente ubriaco non l'ha visto, ma sul conto suo corre
tale voce... In pubblico, o dove va in visita, al ballo o in società, non beve mai. A casa
alza il gomito... Si leva al mattino, si frega gli occhi e per prima cosa: della vodka! Il
cameriere gliene porta un bicchiere, e lui ne chiede già un altro... E così tracanna
tutto il giorno. E dimmi di grazia: beve, e non un occhio lo vede! Dunque sa
dominarsi. Quando si metteva a bere il nostro Chochriukòv, non soltanto gli uomini,
ma perfino i cani urlavano. Possudin invece... almeno gli si arrossasse il naso! Si
chiude nel suo studio e lappa... Perché la gente non se n'accorgesse, s'è fatto
adattare nella scrivania un certo cassetto, con una cannuccia. In quel cassetto c'è
sempre della vodka... Si china sulla cannuccia, succhia un poco, ed è ubriaco... In
carrozza pure, nella borsa delle carte...».
«Come lo sanno?» si sbigottì Possudin. «Dio mio, perfin questo è noto! Che
schifezza...».
«E anche per quanto riguarda il sesso femminile, ecco... Un briccone!» il guidatore
si mise a ridere e crollò il capo. «Uno sconcio, e basta! Ne ha una decina di quelle...
girandole... Due gli abitano in casa... Una, quella Nastassia Ivànovna, è da lui come
a dire in luogo di amministratrice, l'altra, come si chiama, diavolo?, Liudmila
Semiònovna, a mo' di scritturale... Più importante di tutte è Nastassia. Ciò che questa
vuole, lui lo fa sempre... Lo fa girare come la volpe la coda. Grandi poteri le furon
dati. E non hanno tanta paura di lui come di lei... Ah-ah!... E una terza girandola abita
in via Kaciàlnaia... Uno scandalo! ».
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«Perfin di nome le conosce» pensò Possudin, arrossendo. «E chi poi le conosce?
Un contadino, un vetturale... che non è neanche mai stato in città!... Che infamia... è
una schifezza... una trivialità!».
«Ma tu come sai tutto questo?» domandò con voce irritata.
«La gente lo diceva... Io stesso non ho visto, ma ho sentito dalla gente. Ma che è
difficile saperlo? A un cameriere o a un cocchiere non taglierai la lingua... E poi,
penso, la stessa Nastassia se ne va per tutti i chiassuoli e si vanta della sua fortuna
di donna. Agli occhi della gente non ci si nasconde... Ecco, ha preso anche il vezzo
questo Possudin di andare in ispezione alla chetichella... Quello di prima, quando
voleva andare in qualche posto, lo faceva sapere un mese avanti, e quando
viaggiava, tanto di quel chiasso, fracasso e scampanio... ce ne preservi il Creatore!
Davanti a lui si galoppava, dietro a lui si galoppava, ai fianchi si galoppava. Giunto
sul posto, faceva una buona dormita, mangiava e beveva a sazietà, e avanti a
sbraitare per le cose di servizio. Sbraitava un poco, pestava un po' i piedi, faceva
un'altra dormita e con lo stesso sistema tornava indietro... Quello di adesso invece,
come sente dire qualcosa, cerca di partire di soppiatto, in fretta, perché nessuno
veda né sappia... È uno spa-as-so! Esce inosservato di casa, in maniera che
gl'impiegati non lo vedano, e via in treno... Arriva alla stazione che gli occorre, e non
già dei cavalli di posta, o qualcosa di meglio, ma un contadino cerca di noleggiare.
S'avviluppa tutto, come una donna, e per tutta la strada borbotta rauco, come un
vecchio cane, perché non riconoscano la sua voce. C'è semplicemente da strapparsi
le budella dal ridere, quando la gente racconta. Viaggia il babbeo e crede che sia
impossibile riconoscerlo. E riconoscerlo, per uno che se n'intende, poh!, è come
sputare una volta!...».
«Ma come fanno a riconoscerlo?».
«È semplice assai. Prima, quando viaggiava alla chetichella il nostro Chochriukòv,
noi lo riconoscevamo dalle sue mani pesanti. Se il passeggero ti picchia sui denti,
vuol dire che quello è Chochriukòv. Ma Possudin lo si può scoprir subito... Un
semplice passeggero si comporta anche semplicemente, ma Possudin non è fatto
per osservare la semplicità. Arriva, mettiamo, a una stazione di posta, e comincia!...
Per lui c'è puzzo, e si soffoca, ed è freddo... A lui servi pure pollastrini, e frutta, e
conserve d'ogni sorta... Così alle stazioni lo sanno: se qualcuno d'inverno chiede
pollastrini e frutta, quello è Possudin. Se qualcuno dice al mastro di posta:
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"Carissimo", e fa correr la gente per varie bazzecole, si può giurare ch'è Possudin. E
non manda l'odore dell'altra gente, e si corica alla sua maniera... Si stende alla
stazione su un divano, intorno a sé spruzza profumi e ordina di porre accanto al
guanciale tre candele. Sta coricato e legge delle carte... Qui poi non solo il mastro di
posta, ma anche un gatto raccapezzerà che uomo è quello».
«È vero, è vero...» pensò Possudin. «E come mai prima non lo sapevo?».
«Ma quello a cui occorre lo riconoscerà anche senza frutta e senza pollastrini. Per
telegrafo tutto è noto... Comunque t'imbacucchi il grugno, comunque ti nasconda, qui
tutti già sanno che vieni. Aspettano... Possudin non è ancora uscito di casa sua, e
qui ormai: favorisci, tutto è pronto! Lui arriva per coglierli sul fatto, mandarli sotto
processo, o sostituire qualcuno, e son loro a farsi beffe di lui. Anche se tu,
eccellenza, dicono, sei arrivato alla chetichella, guarda pure: da noi tutto è pulito!...
Lui si rigira, si rigira, poi se ne va come è venuto... E li loda anche, stringe le mani a
tutti, chiede scusa per il disturbo... Ecco com'è! E tu che cosa credevi? Oh-oh,
signoria! La gente qui è furba, uno più furbo dell'altro!... Fa piacere veder che razza
di diavoli! Sì, ecco, prendiamo anche solo il caso odierno... Me ne vado stamane
senza carico, e dalla stazione mi vola incontro un giudeo, il credenziere. "Dove, va"
domando, "vossignoria giudaica?". E lui dice: "Porto vino e antipasti nella città di N.
Là oggi aspettano Possudin". Furbi, eh? Possudin forse si prepara ancor soltanto a
partire, o s'avviluppa la faccia perché non lo riconoscano. Forse già è in viaggio e
pensa che nessuno sa ch'egli viene, e già per lui, dimmi di grazia, son pronti e vino, e
salmone, e formaggio, e antipasti svariati... Eh? Lui viaggia e pensa: "Va male per
voi, ragazzi!", e i ragazzi se n'infischiano. Venga, pure! Da un pezzo ormai hanno
nascosto tutto!»
«Indietro!» gridò rauco Possudin. «Torna indietro, bbbestione! ».
E il guidatore meravigliato voltò indietro.
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18 - La maschera del riso di Caterina Graziadei
Di che ridete? Di voi stessi ridete!
Gogol': Il Revisore
Il travestimento letterario vanta in Russia una propria genealogia che dal
celebre Koz'ma Prutkov - scudo sonoro che dava protezione a ben tre autori di
brillanti aforismi nella seconda metà dell'Ottocento - giunge vitale al binomio
satirico di Il'f e Petrov nel periodo della Nep. Allo pseudonimo è applicata la
prima legge del comico verbale: l'abbassamento di grado, di stile, ottenuto con la
storpiatura fonetica, lo slittamento semantico, l'accento caricaturale.
Cifrando la propria identità di studente di medicina e poi di medico sotto
altrettante maschere verbali o sciarade in forma di bisticci logici, Čechov firma
«scenette», racconti brevi, a volte didascalie per vignette con «Il fratello di mio
fratello», «Un giovane vegliardo», «L'uomo senza milza», «Ulisse». Più spesso
compare l'anagramma Antoša Čechonte, appena una variazione sul vero nome
del medico di Taganrog che comincia ad affermarsi a Mosca.
Le riviste umoristiche, come già all'epoca di Caterina II i giornali satirici,
esibivano nomi sonanti, bizzarri e allusivi che rinnoveranno ancora negli anni
Venti di questo secolo la tradizione letteraria del comico. Così Anton Čechov, agli
esordi, pubblica su «La libellula», «La sveglia», «Il grillo», fino all'incontro con
Nikolaj Lejkin, direttore del prestigioso periodico di Pietroburgo «Schegge», che
pagherà il giovane collaboratore otto copeche a riga, contro le cinque fino ad
allora percepite, lasciando tuttavia inalterate le regole del «genere»: brevità,
leggerezza, comicità, nessuna allusione politica.
Apprezzati dagli assidui lettori dei supplementi letterari, e soprattutto dei fogli
umoristici che negli anni Ottanta si erano guadagnati un ampio pubblico, i
racconti di Antoša Čechonte cominciarono ad apparire anche ai critici della
letteratura alta come un'opera dotata di coerenza interna, costruita seguendo
precise e riconoscibili leggi.
La «briciola», la scenetta, il racconto umoristico, il racconto lirico, il romanzo-
feuilleton e il vaudeville - ovvero il variegato spettro della bul'varnaja literatura
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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dell'epoca - offrono materiale a Cechov che «tranne il romanzo, la poesia e la
denuncia» dichiarava di aver «sperimentato tutto», «ogni sciocchezza».
«Briciola», facezia, aforisma, dialogo breve, aneddoto rappresentano quasi
un'analogia prosastica dell'epigramma. E i racconti di questo primo periodo
conservano evidente il sigillo originario dell'aneddoto, il suo nucleo paradossale,
la condensazione del tempo, l'intento comico. Quando dagli anni Novanta
prenderà forma il racconto lungo, con la complicazione dell'intreccio e lo sviluppo
dell'analisi psicologica, l'aneddoto vi rimarrà incluso come una «scheggia». Del
resto l'aneddoto è tuttora una delle forme più diffuse di folclore urbano e ad esso
si rifanno i soggetti di molti classici della letteratura russa, dal Conte Nulin alla
Tesoreria di Tambov, dalle Anime morte alle Dodici sedie.
Con sicuro intuito delle leggi della composizione e una rara capacità di
sviluppare l'intreccio (sjužet)36, Čechov scriveva al fratello Aleksandr l'11 aprile
1889: «Si può anche fare a meno della fabula, ma l'intreccio deve essere
nuovo». E la ricerca dei «soggetti» narrativi, lo scambio di spunti, se non
addirittura il loro furto letterario, costituisce un capitolo esilarante e curioso della
letteratura russa. Čechov sembrava dare poca importanza alle storie da scrivere,
era sempre alla ricerca di materiale grezzo, ne chiedeva agli amici, ai letterati:
«Merci per i soggetti. Ah! come mi occorrono! Ho detto tutto quel che avevo da
dire e sono a secco... Altri cinque o sei anni, e non sarò più in grado di produrre
nemmeno un racconto all'anno» dichiarava all'idolo dei feuilletonistes russi Viktor
Bilibin (lettera del 28 febbraio 1886). Parimenti manifesta noncuranza verso il
proprio lavoro letterario e confessa a Dmitrij Grigorovič, che si farà un vanto di
averlo scoperto, - «non ricordo d'aver lavorato più di una giornata a nessun
racconto; e quanto al Cacciatore, che vi è piaciuto, l'ho scritto in una cabina di
bagni. Come i cronisti scrivono i loro trafiletti sugli incendi, così io buttavo giù i
miei racconti: macchinalmente, quasi inconsciamente, senza darmi pensiero né
del lettore, né di me stesso... » (lettera del 28 marzo 1886).
Tra i numerosi autori di bozzetti, scenette, racconti comici, Antoša Čechonte
venne presto riconosciuto come uno fra i più promettenti e il pubblico, così
spesso tacciato di aver gusti volgari, percepì in lui l'innovatore di cui ormai aveva
bisogno.
36 V.B. ŠkIovskij, Una teoria della prosa, De Donato 1966, p. 79.
il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici
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Poiché Čechov insegna la distanza, il gusto letterario, ostenta il tono della
modestia del narratore. Possedeva con le parole di Mirskij «il nobile dono del
paradosso che avvicina l'uomo agli dei», in lui c'erano «spirito, controllo,
grazia»37, mentre i giornali umoristici del tempo esibivano una notevole gamma
di volgarità, cattivo gusto, banalità letteraria, ospitando il più delle volte una
produzione di infimo livello. Accanto alla caricatura, la via più spiccia del riso
elementare, l'umorismo significa invece controllo dei mezzi espressivi, voluto
denudamento del ridicolo che smaschera i difetti, percepiti come infrazione di
una norma, o spirituale o fisica38, che Čehov chiamava «denuncia del costume».
Come avviene per il Witz, esso si vale della complicità di un terzo, in questo caso
il lettore, a cui di frequente Čechov si rivolge, con una mimica che scomparirà
dopo gli anni Novanta39.
Intrecciata all'umorismo, fa la sua comparsa la parodia letteraria, quale
consapevole forma di analisi stilistica che organizza la materia di molti racconti.
Essa dirige soprattutto verso la produzione della letteratura bassa, avidamente
consumata dal vasto pubblico delle riviste umoristiche e dei feuilletons.
Letteratura ai margini, eppure dotata anche essa di proprie regole, interdizioni,
idoli. Prestando fede all'affermazione di Viktor Šklovskij che la letteratura
prolifichi non in linea retta, ma «di sghembo», trasmettendo l'eredità genetica in
diagonale, ovvero «da zio a nipote», la parodia diviene allora un genere
statutario di superamento. Si direbbe che un autore riesca a liberarsi da un
tema, a superarlo, distanziarlo fino a renderlo inattivo, servendosi dello
spostamento parodistico. Così Puškin degrada la statua terrifica del Cavaliere di
bronzo, miniaturizzata nel Galletto d'oro, sostituendo al sovrano-taumaturgo,
all'autocrate Pietro, un pigro, lascivo, vecchio re da burla40, e Dostoevskij si
sbarazza dell'ingombrante eredità del riso gogoliano che riappare alterato nella
sua opera41. Altrettanto (Čechov utilizza il materiale, i clichés della letteratura
contemporanea, distruggendo stereotipi e consuetudini di gusto attraverso un
37 D.S. Mirskij, Storia della letteratura russa, Garzanti 1965, p. 382. 38 Cfr. V. Propp, Comicità e riso, Einaudi 1988, pp. 167-168. 39 Cfr. A. Čudakov, Poetika Čechova, Moskva 1971, pp. 23-31. 40 Cfr. R. Jakobson, La statua niella simbologia di Puškin, in Poetica e poesia, Einaudi 1985, pp. 80-99. 41 Cfr. J. Tynjanov, Dostoevskij e Gogol'. Per una teoria della parodia, in Avanguardia e tradizione, Dedalo 1968, pp. 135-171.
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calcolato impiego della parodia, ottenuta con i minimi pesi dello speziale. Talora
si cimenta nella stilizzazione, che vive come la parodia una doppia vita: dietro il
piano dell'opera s'intravede sempre il piano stilizzato, in Čechov spesso di
ascendenza gogoliana, come per i deliri ossessivi dei piccoli impiegati nel Diario
di un aiuto contabile, Il punto esclamativo o nel Leone e il Sole.
Scorrendo le lettere degli anni Ottanta-Novanta, soprattutto quelle indirizzate ai
famigliari, sembra talora di essere capitati tra le sue migliori righe umoristiche:
soprattutto la provincia, l'odiata, polverosa Taganrog dell'infanzia, deserta come
una Pompei, diviene fondaco inesauribile di vignette esilaranti, personaggi,
notazioni aneddotiche. Colpisce il carattere gogoliano di certi ceffi come quel tal
Pochlebin, «un individuo con le fedine e una testa che pare un ramolaccio con la
coda in su» oppure «quello spermatozoo, quel bacherozzolo poliziesco di Anisin
Vasilevič».
A Gogol' rinvia l'attenzione per la moda, per il dettaglio dell'abbigliamento:
«A.F. Djakontov continua a essere sottile come una viperetta; porta certe
brachettine di calicò e un padellino a guisa di berretto». A volte diventa un
esercizio di stilizzazione, come nella veduta di Via Bol’šaja, un'inequivocabile
Prospettiva della Neva: «A sinistra passeggiano gli aristocratici, a destra i
democratici. Un profluvio di signorine: capelli color stoppa, musetti scuri, greche,
russe, polacche (...) Sono di moda gli abiti color oliva, con la camicetta» (lettera
del 7-19 aprile 1887 alla sorella Maša). Tema costante dell'epistolario l'ironico
motivo corporale del rendiconto sul «catarro intestinale» o «le emorroidi» che
sovente intercala la narrazione sugli abitanti della provincia, le loro consuetudini,
i tic, le liste dei cibi offerti nei vari pranzi, gli ultimi pettegolezzi. Molti dei temi e
alcuni ritratti, lo stile di queste lettere, con le digressioni liriche del paesaggio e
la beffarda ironia, sono materiale proprio della scrittura čechoviana.
La perizia di Čechov, nel complicare il tema aneddotico - muovere da un nucleo
minimale, quasi un germe comico, e costellarlo di altrettante situazioni -
dinamizza il racconto breve, sospingendolo a volte verso la farsa, a volte verso la
satira. Nella strategia dell'umorismo da lui impiegata possono convergere in uno
stesso racconto più procedimenti, con un effetto inusuale di compressione: la
sorpresa, il contrasto, l'accostamento inatteso di fenomeni dissimili, il principio
della doppia azione, ovvero l'universo della duplicità che è all'origine del comico.
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E i titoli dei primi racconti, con un adagio, un motto, quando sembrano
anticipare l'azione narrativa o la caratteristica dell'eroe, segnalare per sintesi il
focus, denominando una professione o un oggetto, alla lettura rivelano invece
un'ambivalenza. La parola del comico mostra allora la propria duplicità: essa
significa altro, se non il contrario, da quel che annunciava, così il titolo si trova
sovente in posizione di contrasto con il contenuto del racconto, secondo una
doppia prospettiva, un punto di vista insolito sulla realtà, che si apre al lettore
come il corpo ambiguo del Sileno di Alcibiade. Anche quando la contrapposizione
non è marcata, il titolo conserva tuttavia un lieve slittamento semantico.
Altrettanto conflittuale risulta lo svolgersi dell'intreccio, sicché l'esordio lirico o
drammatico risolve in comico improvviso o viceversa il riso si va complicando di
sfumature psicologiche, assumendo la maschera del «serio». Allo stesso modo la
conclusione riserva uno scioglimento a sorpresa, accentua «l'attesa delusa» che
prepara il riso, e più tardi rinvierà a un oltre temporale, al di là dei margini della
narrazione.
A ben, guardare, i primi personaggi čechoviani difficilmente si distinguono,
usufruiscono di una forma di anonimato, sono più tipi che personaggi, poiché la
loro individualità emerge solo nella situazione42. Essi vivono ancora dei retaggi
letterari della provincia russa o dell'usad'ba (la proprietà di campagna) oppure
s'inseriscono nell'indistinto brulichio della grande città, portatori di un grado o di
una professione.
Dai racconti degli anni Ottanta si potrebbe con agio trarre un catalogo, quasi un
prontuario di situazioni e procedimenti, che poggiano su una forte
consapevolezza stilistica. Prenderà forma una specie di emboîtement del comico,
una concatenazione assai ritmata di unità minime, «briciole» di riso che si
compongono in una macrostruttura.
Ed ecco l'equivoco, il calembour, lo scandalo, la parodia letteraria, la gag
clownesca, la burla, l'alogismo, la «maschera verbale» e la «maschera cosale», e
ancora una serie di sottogruppi, tecniche ausiliarie del riso. Come ad esempio i
«nomi parlanti», che hanno sempre avuto largo impiego nelle commedie e nelle
opere comiche, con riferimento al carattere o alla funzione dei personaggi. In
Čechov i nomi sono connessi alle caratteristiche o alla posizione sociale di chi li
porta; ad esempio: lo sposo Epaminond Maksimovič Aplombov, il bettoliere
42 L. Ginzburg, O literatumom geroe, Leningrad 1979, p. 72.
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Samopljuev (Sispùta; dalla radice di sé e sputo), l'ospite straniero Padekuà, il
protagonista del Camaleonte Ociumielov (Appestato), l'ispettore Possudin
(Inquisito, un neologismo composto dal prefisso sotto e dal sostantivo giudizio),
il suonatore di contrabbasso Smic'kòv (Archetti), l'aiuto contabile Glotkin
(Ingolla) e così per un lungo catalogo parlante che suscita complicità immediata
nel lettore russo. Altrettanto evidente risulta la gamma della screziatura
linguistica, che muove al riso per la maldestrezza con cui il sempliciotto cerca di
complicare il proprio linguaggio, infiorettandolo di locuzioni o singole parole
preziose, solitamente storpiate e adoprate a sproposito, o per l’enfasi, altrettanto
risibile, del burocrate che si gonfia le gote di espressioni curiali e citazioni,
anch’esse in contrasto comico con la situazione.
Il cognome cavallino designa così sin dal titolo l'ambito del riso: il nome
parlante, la «maschera verbale» accompagna il dilagare della trovata comica che
procede per cumulazione, principio diffuso nelle fiabe di magia, che qui s'ingegna
nell'inesauribile onomastica, uno stemma lessicale fiorito attorno alla parola
cavallo.
Il crescendo dei rimedi, quasi un'eco delle «grida» nella piazza medievale43,
ricorda l'affannarsi attorno al Malato immaginario. La fulminea risoluzione lega
questo schema al racconto della Lota, dove più sonoro echeggia il riso del folclore
con lo sdoppiamento fisico dei due personaggi iniziali: il carpentiere Gherassim,
«un contadino alto, scarno, dalla testa rossa, ricciuta e il viso irto di peli» e il
basso carpentiere Ljubim, «un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e gli
occhietti stretti da cinese». Presto raggiunti da una teoria variegata di «buffi»,
parade clownesca cui ultimo tiene dietro il pastore Efim, «vecchio decrepito con
un occhio solo e la bocca storta», seguito dalle «pecore, dopo di esse i cavalli,
dopo i cavalli le vacche». Si forma un corteo, si accumulano le persone attorno a
qualcosa che perde di senso e d'importanza: un capriccioso incantesimo - il
pesce ha sempre una connotazione magica nelle fiabe russe - annulla distanze
sociali, ranghi, imponendo a tutti una simbolica nudità, per poi di colpo
volatilizzarsi secondo il modello del «molto rumore per nulla».
43 Cfr. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi 1979, pp. 202-204.
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Il racconto Gli stivali dà riprova di quanto tenace sia la tradizione dello «stolto»
del folclore russo, colui che inconsapevolmente svela l'inganno, palesa
l'ingiustizia, mettendo a soqquadro la «norma» dei ruoli sociali con un
comportamento alogico44, condotto per assurdo sino ai toni della pochade.
Murkin, l’accordatore di pianoforte, il babbeo con il «viso giallo, il naso
tabaccoso, la voce tintinnante», appare una variante russificata dell'ostinato, del
pedante Manfùrio beffato nel Candelaio di Bruno, sicché il racconto di Čechov
potrebbe quasi illustrare la massima di Erasmo - «non v'è sciocchezza maggiore
del senno intempestivo e così non v'è imprudenza maggiore della prudenza
intesa a rovescio».
Al motivo dell'equivoco, dello scambio d'abito si intreccia qui il motivo della
finzione teatrale, della maschera, nell'ambiente del teatro di provincia, che tanta
parte avrà nell'opera di Čechov. Nella categoria degli inopportuni, suscitatori di
scandali inattesi, si dovrà annoverare anche l'ignaro invitato alle nozze, il
telegrafista Blincikov (Frittellini) che parla a sproposito, «per dritto e per
traverso», scompigliando le regole di vita del Vicolo Piatisobaci (Cinquebotoli) nel
Matrimonio di calcolo.
Analogo effetto di comicità è prodotto dall'ottusa, violenta ostinazione del
maestro di cappella (forse un riferimento autobiografico allo stolido autoritarismo
del padre, Pavel Egorovič Čechov) nel racconto del 1884 Dalla padella nella
brace. La canonica lite per contumelie, valendosi della ripetizione e di un
assommarsi di coinvolgimenti lungo una «scala comica» in crescendo, giunge
all'esito estremo della «esclusione dal gruppo». Chi deve scusarsi offende e
nell'offesa trascina l'intera gerarchia giudiziaria: dallo scrivano della polizia
all'avvocato, dal delegato di sezione al giudice conciliatore.
Molti racconti potrebbero ancora raggrupparsi entro l'ampia genealogia del
cacciatore cacciato o del burlatore burlato, quando lo scioglimento contraddice
l'inizio e la narrazione, quasi dalla sua metà, procede simmetricamente a ritroso,
invertendo l'intenzione dell'esordio. Così la sensale di matrimoni nel Lieto fine si
troverà soppesata e «sposata» con un effetto parodistico sulle regole del buon
governo della casa e sulla norma del buon senso comune. Oppure Non c'è fuoco
senza fumo, dove il viaggio dell'ispettore Possudin non ha luogo nella realtà,
44 Cfr. D. Lichačëv-A. Pančenko, Smechovoj mir drevnei Rusi, Leningrad 1976, pp. 150-152.
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bensì unicamente nella narrazione «rovesciata» del vetturale. La particolare
coloritura gogoliana poggia non solo sulla situazione, ma anche su espliciti
riferimenti, come il nome del vanesio giudice Liapkin-Tiapkin (Ciaccola-ciarla) del
Revisore, qui capovolto in Tiapkin-Liapkin. Gogoliana è inoltre l'amplificazione
involontaria della Calunnia, che si potrebbe annoverare tra i casi di «perversa
prudentia nihil imprudentius», oppure tra quelli del «chi la fa l'aspetti».
L'elenco si allunga con il principio dell'abbassamento irriverente, con
l'attribuzione di termini alti a contenuti bassi nella costante parodia dei luoghi
comuni, del filosofare a buon mercato: «che è la vita? per che viviamo? La vita è
un mito, un sogno... un ventriloquio» (Romanzo del contrabbasso). E ancora, se
la donna viene spesso paragonata a cibi saporosi - come motteggiando scrive lo
stesso Cechov alla sorella Masa da Taganrog - all'inverso un tacchino arrosto è
«bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa come una ninfa...» nella Sirena,
dove le ragioni del ventre, nella tradizione del riso carnascialesco, sono
contrapposte ai ranghi sociali dei ghiottoni e alla loro funzione di pubblici ufficiali.
Se in molti testi è ridicolizzato il discorso incoerente o inappropriato, generatore
di equivoci e involontarie incongruità, in altri si fa più intenzionale la direzione
satirica. Iperbole e caricatura, inseparabili complici del comico, giungono in
alcuni perfetti racconti alla soglia del grottesco. Incastrando l'uno nell'altro una
pluralità di effetti, Čechov colpisce e smaschera la parola falsa, la svuota di
contenuto, anzi la riempie di significati opposti, ne mostra l'ambivalenza
paradossale come nel discorso del Camaleonte e dell'Oratore.
Nel Camaleonte si mima quasi il numero canonico dei due clown circensi, il
Rossiccio e il Bianco, che realizzano il modello della sopraffazione burlesca: nel
circo a suon di busse la «vittima» cambia di continuo enunciato, così come esige
immotivatamente, il «persecutore». Mentre in Gogol, nella pièce All'uscita del
teatro, la piaggeria gerarchica fa mutar d'avviso l'impiegato di fronte al
superiore, in Cechov lo stesso schema si prolunga con effetto intensificato. Il
camaleonte esercita il proprio potere su una vittima doppiamente indifesa,
perché priva di parola: un cane. A sua volta il commissario rionale di polizia
Ociumielov riproduce il modello del servilismo di fronte a una presunta autorità.
Il mutamento d'opinione è scandito dal mutamento di «pelle», egli si infila o sfila
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la giacca, raddoppiando, con un gesto metaforico, il significato del titolo. Il
comico si carica qui della smorfia del grottesco, mira alla satira, denunciando il
sopruso commesso in nome della giustizia. Sottinteso e negato ne risulta il
monito - «la giustizia è uguale per tutti».
Tra i luoghi prescelti è accordata una preferenza a quelli che determinano un
incontro simultaneo di più personaggi, i luoghi classici del teatro e del riso
buffonesco: alla più tradizionale piazza si sostituiscono come luoghi chiusi il
tribunale, il teatro, l'albergo, l'osteria, là ove convengono «mercanti, attori,
pubblici impiegati, scrivani della polizia: in genere tutta la "schiuma" che aveva
costume di riunirsi nella trattoria la sera» (Dalla padella nella brace). All'aperto
incontriamo il lago o lo stagno, il ponte, la proprietà di campagna, presto
accompagnati dalla strada, dalla ferrovia, cui si aggiungono la celebre carrozza e
il vagone ferroviario.
Le situazioni estreme che accompagnano il riso rituale sollecitano anche una
parola rituale, altresì smascherata nella sua nocività retorica, autoreferente. Così
avviene nelle nozze, situazione costante in Čechov, ancora nel teatro fino
all'ultima pièce, e pretesto canonico nella letteratura russa, dall'Aneddoto
scabroso di Dostoevskij fino alla travolgente scena di trivialità nella Cimice di
Majakovskij. E non solo alle nozze, come recita l'encomio dell'Oratore, il Cicerone
di provincia «può parlare quando gli garba: tra veglia e sonno, a digiuno, ubriaco
fradicio, con la fèbbre ardente» e indifferentemente «a matrimoni, giubilei,
funerali». Una straordinaria parodia del discorso d'occasione che «scorre liscio»,
si scatena con la forza di «acqua da gronda e copioso», quasi un dialogo dei
morti rovesciato, condotto là ove si danno raduno morti e vivi, nell'inopinato
scambio delle parti, mentre la parola si impadronisce della scena negando
l'azione, ambivalente parola contraddetta.
Il riso è un demone veloce e inafferrabile, «è difficile riuscire ad acchiappare per
la coda l'umorismo» - ha scritto Čechov e con Jean Paul potrebbe ripetere «la
brevità è l'anima e il corpo dell'arguzia, anzi si identifica con essa», poiché il riso
ci deve cogliere di sorpresa, inatteso. Eppure, anche se imposta da regole
contrattuali o da esigenze di «genere», la laconicità dei primi testi čechoviani
diviene nel tempo segnacolo d'uno stile; un ascetismo di mezzi espressivi che
contrasta l'effusione romantica e collima con un'estetica del pudore, del riserbo.
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Possiamo leggere la lettera al fratello Nikolaj (il pittore alcolista che morrà di tifò)
come un compendio di etica, un trattatello sulle passioni che schiva il sussiego
del moralista, attenua anche nel lessico il registro alto della retorica predicatoria,
non s'impanca a giudice, non sermoneggia. Preferisce porre la «buona
educazione» a norma del vivere sociale. «Si ride soltanto di ciò che è ridicolo o di
ciò che non si comprende...» scrive al fratello. «Sei un semplice mortale e tutti
noi mortali siamo enigmatici solamente quando siamo sciocchi, e siamo ridicoli
quarantotto settimane all'anno... Non è così?» (lettera del marzo 1886). E i suoi
personaggi, annota Mirskij, sono tutti simili, tutti dello stesso materiale, della
«stoffa comune dell'umanità».
Fissando la sua attenzione «sull'infinitesimale, sulle lesioni microscopiche
dell'anima», Čechov appare una singolare figura di moralista, piuttosto un
melanconico contemporaneo, capace di studiare i «differenziali della mente, le
sue forze minori inconsce, involontarie, distruttive, dissolventi»45. Il suo universo
è traversato dal comico in una duplice, opposta direzione. L'ironia, il paradosso
conservano ancora in lui la qualità di antidoto alle passioni violente, all'eccesso
romantico, le pause dei suoi dialoghi teatrali assolvono la funzione disgiuntiva,
disgregatrice che nei racconti umoristici era riservata alla chiusa inattesa.
Sviluppando l'ordine contraddittorio del discorso, Čechov esalta il nonsense del
quotidiano, l'incoerenza dei «buoni propositi» e la loro stasi ineffettuale. Il
fraintendimento della parola, che agisce come molla compressa del riso, assume
in questa scrittura un valore ontologico, una noesi del tragico, che a sua volta
genera malinteso, ribaltamento di senso. «Se, nei racconti comici, il riso nasceva
insieme a un brivido freddo, anche nei racconti non più comici la commozione e il
dolore nascevano in un'aria aspra, fredda al respiro come un'aria di neve»46.
Sono note le peripezie dei testi teatrali di Anton Pavlovič, il primo fiasco del
Gabbiano, frainteso come pièce comica, e viceversa l'interpretazione di tragico
esasperato che Stanislavskij imporrà al Giardino dei ciliegi, nelle intenzioni
dell'autore «un'allegra commedia, quasi un vaudeville».
Saggio fu allora, per questo tragico controvoglia, indossare la maschera dello
sciocco socratico, il sapiente che per primo ride di sé, mescolandosi agli attori del
45 D. Mirskij, Storia della letteratura russa, cit., p. 386. 46 N. Ginzburg, Profilo biografico, in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere, Einaudi 1989, p. XIX.
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teatro del mondo, con la speranza che forse un giorno, «fra due o trecento anni
la vita su questa terra sarà meravigliosa, fantastica».
Caterina Graziadei
Roma, febbraio 1991
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Indice Traccia – racconto pagina
01 - Un cognome cavallino 1
02 - Il Leone e il Sole 4
03 - Lieto fine 8
04 - La lota 12
05 - Lo specchio curvo (racconto di Natale) 17
06 - Gli stivali 19
07 - Dalla padella nella brace 23
08 - Una natura enigmatica 29
09 - Dal diario di un aiuto contabile 31
10 - Matrimonio di calcolo (romanzo in due parti) 33
11 - Il romanzo del contrabbasso 37
12 - L'oratore 42
13 - La sirena 45
14 - Una calunnia 51
15 - Il punto esclamativo (racconto di Natale) 54
16 - Il camaleonte 59
17 - Non c'è fuoco senza fumo 62
18 - La maschera del riso di Caterina Graziadei 66
Traduzione dal russo di Alfredo Polledro Postfazione di Caterina Graziadei Edizioni e/o Avvertenza: Nel decidere di usare la traduzione di Alfredo Polledro - ormai divenuta un classico – abbiamo scelto di lasciare invariati sia la translitterazione che gli eventuali termini arcaici. © Copyright 1991 by Edizioni e/o - Via Camozzi, 1 - 00195 Roma