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CIAC. SI STAMPI! Turi Vasile dal cinema al racconto GENNARO SAVARESE
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  • CIAC. SI STAMPI!Turi Vasile dal cinema al racconto

    G E N N A RO S AVA R E S E

  • G E N N A RO S AVA R E S E

    CIAC. SI STAMPI!

    Turi Vasile dal cinema al racconto

  • Bibliotheca Edizioni Romacorso Vittorio Emanuele II, 217 – 00186 Romatel. 06.68.30.13.67 fax 06.855.88.32e-mail: [email protected]

    Finito di stampare gennaio 2010

    Proprietà letteraria riservata. I diritti di traduzione,di memorizzazione elettronica, di riproduzione to-tale o parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservatiper tutti i Paesi.

  • Indice

    p. 7 Nota dell’autore

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    25 II

    39 III

    47 IV

    61 V

  • Nota dell’autore

    Raccolgo in questo volumetto i miei interventi sullaprosa narrativa di Turi Vasile datati tra il 1996 e il 2008,dei quali fornisco qui di seguito le essenziali notizie edi-toriali.

    Il primo di essi, che prendeva spunto dalla raccoltaL’ultima sigaretta e altri racconti, apparve sulla rivista“Oggi e domani” (a. XXIV, n. del 5 maggio 2006) col ti-tolo Turi Vasile narratore. In esso ricordavo un mio pre-cedente intervento del 1993, alla presentazione del volu-me Un villano a Cinecittà, della quale purtroppo avevosmarrito gli appunti, ma i cui tratti salienti erano ricor-dati nell’articolo del ’96.

    Il secondo, pur esso apparso su “Oggi e domani”(a.XXVI, n. di gen.-feb. 1998) era il testo della relazioneda me letta alla presentazione del volume Male non fare,tenutasi a Roma nei locali di Palazzo Firenze il 16 gen-naio 1998. Mio partner in quella presentazione fu l’on.Giulio Andreotti, legato allo scrittore da antica amiciziae profonda stima.

    Dell’occasione, dell’argomento e della data del terzodi questi interventi si dà notizia all’inizio di esso, in unaforma alquanto incondita, che sa ancora di brogliaccio.Ma anche esso prendeva spunto da una raccolta di rac-

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    conti dello scrittore, Il ponte sullo Stretto, non meno im-portante delle altre raccolte solo perché relativamentepiù esigua.

    Il quarto, datato Roma 4 dicembre 2000, è il testodella presentazione che feci della prova narrativa di piùampio respiro tentata da Vasile, il romanzo Giòn. Lamaggiore ampiezza del narrare dell’autore, se non erro,favorisce anche nel critico-lettore una più articolata mes-sa a fuoco delle peculiarità tipiche di un autore “anfibio”quale il cineasta-scrittore.

    Il quinto e ultimo intervento è il testo della relazioneche tenni alla Libreria Croce di Roma, il 15 maggio2008, insieme con Francesco Mercadante e CarloLizzani, sul libro Silvana. Fu l’ultima volta che parlai inpubblico dei racconti e degli improbabili “romanzi” diVasile, e a ripensarci non posso che lodarmi di aver con-cluso quell’intervento con l’elogio della “saggezza” dell’a-mico Turi, proprio come in un celebre dialogo di Platoneun irrequieto discepolo e amico fa della saggezza diSocrate, mal dissimulata sotto le sembianze poche at-traenti di un Sileno.

    Silvana non è stato neppure l’ultimo libro a me notodi Vasile narratore. Poche settimane prima di lasciarci,infatti, egli fece in tempo a far giungere ai suoi amiciL’ombra, una raccolta di memorie, fantasie e riflessionialla sua maniera, fresca di stampa del luglio 2009.Questa sì che era una maniera, pensosa e distaccata in-sieme, di congedarsi dalla vita e dalla scrittura sulla basedi un bilancio nel quale risultano coinvolti fino alle radi-ci l’uomo etico e il letterato. Nel rammarico di non aver-

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    ne potuto parlare con la calma necessaria alla mia lentez-za congenita, mi limiterò ad osservare che a questa rac-colta Turi ha intenzionalmente affidato le migliori essen-ze, i segreti più occulti del suo narrare: e tanto meglio seintenzione cosciente non c’è stata. Il canto del cigno è unfatto di natura, non di calcolo.

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    Riprendo un discorso iniziato nel 1993, quando aRoma intervenni alla presentazione di Un villano aCinecittà, da poco apparso in pubblico per l’editoreSellerio. In quell’occasione dissi cose che in parte nasce-vano dal calore, dall’entusiasmo di tutte le “prime volte”(sempre che in queste non manchino le condizioni ogget-tive per l’entusiasmo), in parte rispondevano all’esigenzadi fissare alcune frecce direzionali che facilitassero l’an-nessione di quella nuova provincia letteraria al mio noncerto illimitato campo di competenza storico-critica.

    Tra le cose del primo genere (oltre alla necessaria atte-stazione di gratitudine all’amico Francesco Mercadante,per avermi propiziata la conoscenza di Turi Vasile e dellasua opera letteraria), quella di maggior forza era la circo-stanza che i “favolosi Anni Trenta” di Vasile, quelli deiquali ancora si parla ne L’ultima sigaretta e altri racconti”,erano stati anche i miei. Tutte le volte che vedevo scorre-re in quelle pagine ricordi di vita familiare e sociale (cioèdi quella micro-società della quale eravamo stati cittadinifelici); esperienze scolastiche, con nomi e immagini diprofessori dotati di straordinarie capacità maieutiche, ol-tre che di solida, autentica e formativa cultura; compagnied amici, di giochi, di studi, di letture, dal pastorello Lilloal collega di università: dinanzi a tutte quelle figure ed

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    eventi di un comune “mondo di ieri” mi ripetevo, con in-tonazione però non satirica, con la quale era nato, ma no-stalgica, il verso oraziano, Mutato nomine/ de te fabulanarratur.

    Veramente, pedanteria filologica vorrebbe che si dices-se mutatis nominibus, se soltanto dovessi sostituire conplausibili corrispondenze nomi di miei amici e professoridei miei favolosi Anni Trenta avellinesi a quelli degli ami-ci e professori di Turi Vasile (Fulchignoni, Celi, Piromalli,Campanella, Sciavicco, Natoli, per citare un po’ alla rin-fusa da Gli odori della memoria, oltre che dagli altri datidella biografia intellettuale dello scrittore consegnati al-l’eccellente volume degli Atti del Seminario del 1992).Così come, per la medesima pedantesca legge di analogianell’esplicazione di quel verso oraziano, chi parla dovreb-be vedersi, oltre che come oggetto (de te fabula narratur),come soggetto narrante. Ma qui entrerebbe in gioco unaverifica dei poteri dal verdetto assolutamente prevedibilecirca la modestissima suppellettile di risorse narrative dichi non può far altro che ringraziare Vasile per aver ricor-dato e scritto di quegli anni, oltre che per sé, anche perqualcun altro, pronto a riconoscersi nelle ragioni dell’au-tore e dichiararsi disposto a testimoniare.

    Le cose del secondo genere alle quali accennavo all’i-nizio, e cioè i modi e i mezzi per annettere al territoriocritico-letterario a me più familiare la nuova regione nar-rativa che si intitolava a Turi Vasile (e cioè, oltre a Un vil-lano a Cinecittà, anche i racconti di Paura del vento, data-ti 1987-1991), ruotavano intorno al problema morfolo-gico: che genere di scrittura pratica, che tipo di libri pro-duce questo scrittore? Mettendo insieme alcuni indizi (il

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    termine testimonianze usato dall’autore per Un villano aCinecittà; l’accenno, in Paura del vento, all’“altro capoli-nea” da lui ritrovato a poca distanza da Roma, “la con-centrazione dei suoi ricordi d’infanzia”), mi parve che sipotesse legittimamente far rientrare queste pagine nel do-minio della letteratura autobiografica. Può anche darsiche questo mio accessus morfologico alla scrittura di Vasilerispondesse alla legge psicologica del minimo sforzo, vistoche il nuovo caso letterario avrebbe rappresentato per meuna ripresa e sviluppo di miei precedenti interessi perscrittori (Vico, Genovesi, Goldoni, Alfieri, De Sanctis,Croce) che tutti, anche se con scopi e in modi diversi,avevano scritto di sé.

    Tra l’altro il caso di questo siciliano coinvolto con pro-blemi di autobiografia (e di autoritratto: Autoritratto si in-titola uno dei più importanti, se non il più importantedei racconti di L’ultima sigaretta, e su di esso mi soffer-merò più avanti) mi sembrava che potesse costituire unasfida tutta da dimostrare al perentorio assioma di un “vi-cin suo grande”, l’“autobiografia ripugna al gusto italia-no” (parole di Verga a Capuana). E invece Un villano aCinecittà fin dal titolo, dall’ossimoro concettuale inarcatotra i due termini “villano” e “Cinecittà”, si inseriva a pie-no titolo, con continuità e novità insieme, nella grandetradizione autobiografica italiana, che era stata poi preva-lentemente meridionale. Il “villano” Vasile, il “venuto, inun certo senso, dalla campagna” (sono sue parole), che se-guendo la sua stidda ca curri, la “stella che corre”, finiscenel mondo di Cinecittà e di Hollywood, possiede, inquanto personaggio di autobiografia, i connotati che unrecente studioso del “patto autobiografico”, Battistini, in-

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    dividua nella tradizione meridionale, dai primordi diBruno e Campanella, giù giù fino a De Sanctis e Croce,attraverso Vico, Giannone, D’Andrea, Genovesi eGalanti: “Il modello autobiografico degli scrittori meri-dionali – scrive Battistini – ripiega su un mondo paesanoe primitivo, fermo alla sua esperienza contadina”. Le “tra-dizioni villerecce” e gli “etimi contadineschi” che avevanoattirato l’attenzione di Vico nel ricostruire l’infanzia del-l’umanità nella Scienza Nuova, e la propria infanzia nellasua Vita scritta da se medesimo, mi sembrava che trovasse-ro istruttivi riscontri nella base paesana, primitiva e con-tadina della memoria autobiografica del “villano” Vasile,che si traduceva, sul piano linguistico, in parole che rifiu-tano la traduzione in lingua, stidda, pani e cumpanaggiu,raddu, scattigghiu, patruzzu, travagghia, scafizzatu, cria-teddi, quagghiaru, e così via.

    L’altro polo del titolo di quel libro, la parola “Cinecittà”,qualificando quel “villano”, quel rappresentante di una ci-viltà contadina, come uno che era finito cultore della “deci-ma Musa”, segnava per me un aspetto nuovo all’interno delgenere letterario dell’autobiografia, aggiornava la serie degliIo narranti a me familiari: il filosofo chiuso nelle sue “aspremeditazioni”; il figlio di ciabattino che, nauseato della me-tafisica, finiva per inventare la scienza tutta mondana dell’e-conomia politica; il poeta tragico vocato a trarre “del vero edel grande accesi lampi” dalle oscure profondità degli ani-mi, “dal cupo, ove gli affetti han regno”, come gli ricono-sceva Parini; il figlio della piccola borghesia irpina che “to-mo tomo”, divenuto quasi a sua insaputa professore di bel-le lettere, aveva finito per essere professore di vita democra-tica ad un’Italia quasi tutta ancora da fare.

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    Così il nome di Vasile autore di Un villano a Cinecittà,ma anche di Paura del vento prima, ed ora de L’ultima si-garetta, mi sembra che possa tranquillamente aggiungersialla serie degli scrittori autobiografici or ora ricordati, aVico e ad Alfieri, a Genovesi e De Sanctis, oltre che per lacomune origine geopolitica e sociale con i più tra loro,anche per il valore di integrazione e aggiornamento nellatipologia del soggetto autobiografico. Dopo il filosofo,l’economista, il poeta tragico, il professore, ecco affacciar-si allo specchio dell’autobiografia un tipico rappresentan-te della nostra civiltà delle immagini, un uomo di cinema,che entro questa tutta novecentesca provincia di quelloche Barthes chiama “l’impero dei segni” vive una com-piuta e coerente esperienza di autobiografia.

    A confermare la pertinenza del narrare di Vasile allostatuto dell’autobiografia soccorre la centralità del “caso”come catalizzatore essenziale per la scoperta e segnalazio-ne di una vocazione, che ha come referente necessarioquesta stupenda “giustificazione dell’autobiografia” inPassato e presente di Gramsci: “Spesso le autobiografie so-no un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia de-gna di essere narrata perché originale, diversa dalle altre,ecc. L’autobiografia può essere concepita ‘politicamente’.Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vi-te, ma che per un ‘caso’ essa ha avuto uno sbocco che lealtre mille non potevano avere o non ebbero di fatto.Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il pro-cesso, si indica lo sbocco. L’autobiografia sostituisce quin-di il ‘saggio politico o filosofico’: si descrive in atto ciò chealtrimenti si deduce logicamente. È certo che l’autobio-grafia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vi-

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    ta in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leg-gi scritte o i principi morali dominanti”.

    Non c’è dubbio che quando fissava questo preziosoprincipio sul genere letterario autobiografia Gramsci ave-va in mente De Sanctis autobiografo, che in una paginadi Un viaggio elettorale così aveva narrato la genesi dellasua vocazione, cioè del senso storico della sua vita: “Forsesarei finito così, se la nonna non mi conduceva in Napoli,dove, leggendo di Demostene e di Cicerone, dissi: voglioessere un avvocato. E stetti fisso in questo pensiero, e fe-ci i miei studii, e giunsi fino al primo anno della praticaforense, quando zio Carlo, mio maestro, e che teneva unabella scuola, fu colto da apoplessia, e mi fu forza, per te-nere unita la scuola, di supplirlo io, e così mi trovai mae-stro quasi per caso. E il caso fu più intelligente di me, per-ché aveva indovinato la mia vocazione”.

    Qual principio desanctisiano-gramsciano sulla funzio-ne del casuale, del fortuito come determinante nel deli-nearsi di una vocazione trova una sintomatica variantenella memoria autobiografica di Vasile, nella forma, cioè,non di una svolta iniziale, ma di un episodio di percorsoche conferma la forza del “caso” come autenticazione diuna carriera intrapresa fuori degli schemi vigenti nell’o-rizzonte originario del soggetto che ricorda. Tale è, in Unvillano a Cinecittà, l’episodio del fiasco impagliato di-menticato dall’attrezzista, e che l’apprendista cineasta, perun moto di collera contro l’intrusione autoritaria del di-rettore della fotografia, lascia stare nel campo visivo dellamacchina da presa: con la conseguenza che il registaGenina, tornato sul set dopo una breve assenza forzata,trova felice e piena di significato l’idea di quell’inquadra-

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    tura col fiasco in bella vista, e gratifica il giovane Vasile diun riconoscimento che la logica delle cose, contro tutte leapparenze, non ci consente di giudicare immeritato:“Vasile, è stata un’idea vostra? …Siete un poeta”.

    Col genere letterario autobiografia che si aggiorna colcontributo dell’uomo di cinema, vengono alla ribalta del-lo spazio letterario nuovi tipi di “operatori”. Come iMemoires di Goldoni pullulano di capocomici, impresariteatrali, attori, maschere e comici dell’arte, prime donnee avventurieri vari gravitanti intorno al palcoscenico, cosìnelle memorie cinematografiche di Vasile sfilano registi esceneggiatori, attori e produttori, tutti ormai nella grandestoria del cinema italiano, da Amedeo Nazzari e Vivi Gioia Genina e Rossellini, da De Sica e Antonioni a Fellini eGiulietta Masina, per citare un po’ a caso, con i quali, tral’altro, come sempre accade quando biografia e autobio-grafia incominciano a far da specchio ad epoche nuove,entrano nel circolo della notorietà nuovi facta et dicta me-morabilia. Mi rimane, nella memoria, perché mi è parsoun geniale aforisma di estetica generale, e non soltantobuono per uomini di cinema, l’episodio di Rossellini spa-paracchiato in poltrona a parlare di donne, che getta lìquesto articolo di poetica: “Pensare ad altro mentre si èimpegnati a fare l’amore”, cioè saper essere disimpegnati inopere impegnate, fare arte pensando ad altro. Vasile con-fessa di aver memorizzato e fatto tesoro di quel canone:“Compiere atti d’amore pensando ad altro – che è propriodella poesia (egli dice)… Raccontare verità trasfigurando-le – (che è proprio dell’arte)”.

    L’essere uomo di cinema ha comportato, e comporta,per Vasile, una particolare sensibilità al problema di “in

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  • GENNARO SAVARESE

    quale lingua scrivere”. Confesso – egli scrive in Un viaggioper De Sica – di non aver saputo a lungo in quale linguascrivere, mentre lessico e sintassi rincorrevano i rapidimutamenti dei costumi e delle esigenze sociali”. L’attivitàdi sceneggiatore ha contribuito a fargli capire “la diffe-renza che passa tra una scrittura letteraria e quella per ilcinema”; ed egli ricorda che era stato un amico sceneg-giatore, il Perilli, a sforzarsi di fargli capire che “una sce-neggiatura non è un compiuto testo letterario ma un pro-memoria per il regista”. In realtà al fondo di questa, chesembra la storia di un dibattito tutto privato sul proble-ma dell’espressione, c’è la presa di coscienza di un proble-ma d’ordine più generale, che il sorgere e l’affermarsi del-la civiltà del cinema ha posto all’uomo di lettere, tantopiù acutamente ad uno che opera nell’uno e nell’altrocampo. Come scrittore Vasile si rivela più di altri avverti-to della funzione comunicativa e aggregante del linguag-gio verbale e scritto, proprio perché più da vicino e dal-l’interno ha potuto sperimentare “l’assuefazione generaledi questo secolo alla droga dell’immagine”.

    Ma non si tratta di essere più o meno in allarme ed inguardia contro il pericolo di questa droga. Il fenomenoevidenziato dalla presa di coscienza di Vasile è il portatostorico della civiltà filmica, e ricorda un po’ quello chedovette essere nei secoli tra medio evo ed età moderna ildifficile cammino della osmosi, nelle opere di teatro, fratesto letterario e fattori extralinguistici (presenza fisica egesti degli attori, scenario, e tutto quello che costituisce il“gioco scenico”). Su tutto questo ha ragione Zumthor:“Per noi moderni, il teatro è un’arte che solo un abuso dilinguaggio permette di classificare tra i generi letterari”. Il

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    testo letterario è solo uno degli insiemi significanti cheentrano in gioco nell’opera di teatro, e non è concepibile(pena il fallimento dello specifico “teatrale”) se non instretta funzionalità con i fattori visuali della comunica-zione operanti sulla scena.

    Ebbene, a me sembra che nell’esperienza di Vasilescrittore, o meglio nel complesso della sua esperienza ine-stricabile di esperto del cinema (e del teatro) e di cultoredel linguaggio letterario sia possibile cogliere in manieraesemplare una vicenda culturale esclusiva dei nostri tem-pi, uno dei possibili esiti di novità nell’ormai quasi seco-lare processo osmotico tra cinema e letteratura. Vasile nonfa un mistero del suo iniziale “analfabetismo cinemato-grafico” e della cautela con la quale cercava di non farnetrapelare indizi ai suoi nuovi compagni di lavoro al tem-po dei suoi esordi a Cinecittà: “Nello sforzo di apprende-re il loro lessico, tacevo perché le parole non tradissero lamia incompetenza”. Fa un curioso effetto, oggi, a leggerele prove narrative di Vasile, pensare al cammino percorsoda questo “incompetente” di tecnica cinematografica, co-sì ricco adesso di competenze specifiche da poter farnepreziosi imprestiti allo scrittore. E mi spiego.

    In una prosa de L’ultima sigaretta, la più breve, ma del-le più intense, Marleen, Vasile usa l’espressione “miscuglioanacronistico di immagini e di pensieri” per questa fanta-sia: egli se ne sta steso al sole nel giardino della sua casa almare mentre la nipotina Liza modula su un flauto di can-na le note di Lili Marleen; col ricordo egli si rivede alleFonti del Clitumno, nei primi anni Cinquanta, in comi-tiva con la sua famiglia; tra le polle c’è riverso un vecchioelmo tedesco, residuo dell’ultima guerra, che da un foro

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    all’altezza della tempia lascia sprizzare di tanto in tanto unfiotto d’acqua; la figlia Maria “tenta col suo ditino di in-terrompere il flusso e ride”. I grandi non ridono, si sonofatti seri. “È apparso sul fondo un ragazzo; indossa, lace-ra, la divisa della Wehrmacht; viene avanti trascinando ipiedi negli stivali infangati e appoggiandosi al fucile im-pugnato per la canna. Si guarda intorno, abbagliato dalloscenario, troppo bello per non suggerirgli di essere arriva-to alla fine. Mai deve essersi sentito così lontano da casa;eppure sul volto contratto dallo spasimo si riflette la rapi-da luce di un sorriso”. Ed ecco ora la figlia Maria, accor-sa presso il soldato caduto supino, che preme invano sulpiccolo foro in corrispondenza con la tempia per fermareil sangue che zampilla: “anche lei non ride più, sente chetra le dita le sfugge la speranza”. Intanto nel giardino del-la casa al mare la moglie di Turi “si è messa a cantare dol-cemente e Liza la accompagna col flauto. Entrambe nonsospettano di fare da sottofondo a un miscuglio anacro-nistico di immagini e di pensieri”.

    A questo punto, nonostante la mia (questa, sì, vera etotale incompetenza in fatto di procedimenti filmici) ionon saprei trovare altra definizione, per questa prosa, chequella di “istruzioni al regista” per la realizzazione di unpiccolo film, con relativa colonna musicale. Nel campodell’iconologia, dal quale ho preso il concetto di “istru-zioni al pittore” adattandolo all’arte del cinema (“istru-zioni al regista”), esiste anche un altro procedimento de-scrittivo idoneo a surrogare la presenza reale dell’operad’arte, ed è l’ecfrasi, l’ante oculos ponere, il far quasi vede-re, con le parole, un prodotto delle arti figurative, il ten-tativo di tradurre nel linguaggio verbale il linguaggio visi-

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    vo, di creare, col mezzo espressivo temporale, l’illusionepropria del mezzo espressivo spaziale. È chiaro che, di-nanzi ad una prosa che guidi la fantasia a concepire nel-l’insieme e nei particolari un prodotto delle belle arti, inassenza dell’opera d’arte che faccia da referente a quellaprosa, può anche accadere che non si riesca a stabilire seci si trovi di fronte ad “istruzioni al pittore” o ad un “ec-frasi”. Non ho saputo trovare similitudine migliore perrendere ciò che provo dinanzi alle più belle prose diVasile, quelle, cioè, nelle quali coesistono “quasi con im-possibile congiunzione congiunte”, le attitudini dell’uo-mo di cinema e quelle dello scrittore: quei racconti, in al-tri termini, dei quali non si saprebbe dire se l’autorizza-zione per l’exequatur sia un “pronto, si stampi!”, o un“ciac, si giri!”; se, per rimanere al linguaggio dell’iconolo-gia, ci si trovi dinanzi ad “istruzioni al regista” o ad “ec-frasi” di un film realmente fatto e consumato, anche sesolo nel caldo della memoria e della fantasia.

    Lo scritto che più compiutamente rappresenta questeragioni, per così dire, filmico-narrative di Vasile, e le attivain una trasparente poetica, è quello che chiude la primaparte del volume, Autoritratto: in esso il primo piano è ri-servato proprio alla metafora della vita simile ad una pelli-cola i cui fotogrammi scorrano sullo schermo della memo-ria. Ed in realtà davanti alla fantasia del lettore passano unaquindicina di fotogrammi, ai quali lo scrittore intende con-segnare della sua vita “i misteri irrisolti, inspiegabili fin daquando furono vissuti” (ne segnalo qualcuno): l’arrivo delpadre alla Stazione Marittima per le feste di un lontanoNatale; una notte insonne di lui piccolo nella branda ac-canto alla camera da letto dei genitori; una confessione al

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    padre Parroco e qualche altro episodio dei suoi primi tur-bamenti sessuali; un altro ricordo del padre, nell’umiliante(agli occhi del figlio) situazione di subalterno; il giardinodelle fragole, che la sua famigliola fu costretta ad abbando-nare perché soffocato dalle nuove costruzioni; il viaggio dinozze iniziato prendendo il tram a Piazza Ungheria, e cosìvia. Questo “miscuglio anacronistico di immagini e di pen-sieri” è più completo di quello intitolato a Lili Marleen; è,più che un Autoritratto, un’Autobiografia, non saprei dire severamente fatta, o ricostruibile, esclusivamente, come scri-ve a un certo punto Vasile, dei “detriti” della sua vita, di“speranze irrealizzate”, di “meschinità consapevoli”, e di“vergogne inconfessate”. A me pare che questa intenzionedell’autore, a giudicare dai “fotogrammi” descritti, valgaper lui solo come segreto avvertimento, come deterrentecontro il pericolo segnalato da Gramsci, di concepire l’au-tobiografia come un “atto di orgoglio”. E invece per Vasilel’autobiografia (o autoritratto) è soprattutto un atto diumiltà e di amore: ciò che si dice di una sola di queste im-magini (“io vorrei inchiodare questa immagine come si in-chioda una farfalla al muro perché ci resti così, con le alispalancate”) vale anche per tutte le altre di questa autobio-grafia in nuce. Nella quale ormai è anche lasciata alle spallel’inconciliabilità tra la prosa del soggettista e quella del nar-ratore. Vasile può narrare compiutamente anche con laprosa secca del soggettista: “Mamma esce dalla porta del se-maforo e chiama. Smetto di giocare nel vento, nel sole, e lecorro incontro. Lei mi porge una fetta di pane inzuppatonell’acqua e cosparso di zucchero. Lo addento; lo assaporo.Dà forza e dolcezza. Mio padre mi scarruffa con una carez-za i capelli. Il cuore mi scoppia di gioia. Ho paura di tanta

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    felicità”. È soltanto un’“istruzione” del narratore Vasile alregista che sonnecchia dentro di lui? Anche se fosse soltan-to questo (ma non lo è), intanto ogni lettore può, grazie aquella prosa in apparenza di poco più alta sul livello delladidascalia, produrre e proiettare un vero e proprio film sul-lo schermo interiore della sua fantasia.

    Nella valigia di fibra dell’omonimo racconto col quale sichiude l’ultimo suo libro, che viene raccolta nel cassonettodella spazzatura e, travasata nel ventre capace della macchi-na raccoglitrice, finisce impastata dalle pale inesorabili nel-la massa dei rifiuti; (una valigia pur essa della famiglia vasi-liana degli oggetti che hanno forse il loro capostipite in unfiasco impagliato di uno studio di Cinecittà, ma dalla pre-senza ormai non più casuale sul set della memoria, vereimagines agentes per lo scrittore, e il lettore, di questi ricor-di); in quella valigia di fibra per fortuna Vasile non ha fat-to in tempo a rinchiudere anche il dattiloscritto o le bozzedi stampa nelle quali continuano a vivere la sua trottolinadi legno e il libro di lettura di seconda elementare, il vec-chio disco con incisi sulle due facce one-step e fox-trot e illetto informe della casa di campagna, gli occhiali incerotta-ti del figlio bambino e le perle perdute della collana di suafiglia, ma più ancora continuano a vivere voci, sguardi e si-mulacri delle persone care scomparse: “Dov’è ora la sua bel-la voce? Dove sono i suoi occhi scintillanti?”

    Noi ci auguriamo intanto che sulla pellicola della me-moria dell’amico scrittore molti altri fotogrammi possanostamparsi, e siamo certi che i films consegnati alle sue pa-gine continueranno a scorrere sugli schermi mentali dimolti lettori, indenni dalle pale inesorabili della macchi-na raccoglitrice.

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  • L’onorevole Giulio Andreotti e Turi Vasile.

  • II

    In una breve nota introduttiva alla terza edizione am-pliata di Paura del vento, del 1991, Turi Vasile, rifacendomolto probabilmente il verso ad un celebre incipit di ser-mone oraziano su un diffuso difetto dei cantanti ( utnumquam inducant animum cantare rogati, / iniussi num-quam desistant, “quando li inviti, non si decidono mai acantare; quando non ne sono richiesti, non la smettonopiù”), così scriveva a proposito dell’esortazione, venutaglida più parti, a rimediare all`“esilità del libriccino”: “...E ame non è parso vero di accoglierla, come quei bambini acui non bastano dieci lire per indurli a dire poesie e a cuinon basta un milione per farli smettere”. Sarà stato dun-que (dirò continuando nel tono di quella così vera simili-tudine oraziana) per il fatto di non aver ricevuto adegua-ti inviti al silenzio se Turi Vasíle ha continuato a darci, do-po Paura del vento, altri volumi di racconti: Un villano aCinecittà nel 1993, L’ultima sigaretta nel 1996, e, adesso,sullo scorcio dell’anno appena passato, questo Male nonfare sempre per la casa editrice Sellerio.

    Tranne che per il primo di questi volumi, per altridue ho avuto la gradita occasione di occuparmene, una

  • GENNARO SAVARESE

    prima volta nel ‘93, alla presentazione romana di Unvillano a Cinecittà, e la seconda volta in un convegno in-ternazionale sulla letteratura siciliana tenutosi a Ragusanel 1996, nel quale il volume fresco di stampa L’ultimasigaretta e altri racconti mi offrì lo spunto per delineareuna mia prima (insufficientissima, ovviamente) propo-sta di lettura per Turi Vasile narratore, che poi con que-sto titolo, in quello stesso anno, apparve sul “Oggi e do-mani” (a. XXIV, n.5, maggio 1996, pp. 7-10). Se ricor-do questi minimi riferimenti bibliografici è perché ledue o tre nuove osservazioni che penso di fare intorno aquesto nuovo volume di Vasile narratore non potrebbe-ro avere altrove la giustificazione della loro novità se nonnelle cose suggeritemi dalla prosa di Vasile nei miei pre-cedenti incontri con essa.

    Quelle cose, a stringerle in breve. spero senza dannoper la loro funzionalità didattica, si possono riassumere inquesti punti:

    1) le pagine narrative di Vasile rientrano prevalente-mente nel dominio della letteratura autobiografica, e per-ciò comportano sia una verifica teorico-retorica in base aiprincipi di quello che è stato chiamato il “patto autobio-grafico”, sia una collocazione storica nella grande tradi-zione dell’autobiografismo italiano, e di quello meridio-nale in particolare;

    2) sotto entrambi questi punti di vista, dall’una o dal-l’altra di queste angolature, la maggiore originalità dellanarrativa autobiografica di Vasile consiste nell’affacciarsiallo specchio dell’autobiografia di un tipico rappresentan-te della nostra civiltà delle immagini, di un uomo di tea-tro e di cinema con i suoi peculiari ricordi (dopo le me-

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  • II

    morie del filosofo e dell’economista, del poeta tragico odel professore), e perciò stesso con il rinnovarsi e l’arric-chirsi dei dicta et facta memorabilia che immancabilmen-te si accompagnano all’interesse per il vissuto storico (no-tevoli, in Un villano a Cinecittà, le gallerie dei Genina, deiNazzari, dei Rossellini, dei Fellini e Masina, ecc.);

    3) la novità del nuovo soggetto del ricordare in quan-to uomo di una civiltà spostata decisamente sul visivo(teatro, cinema, televisione) non manca di far sentire isuoi effetti sulle scelte formali di quel soggetto quando af-fronta il problema del linguaggio letterario. La storia diVasile scrittore ha conosciuto il problema dell’ “in qualelingua scrivere” (al tempo in cui faceva il soggettista difilm), il pericolo dell’“assuefazione generale di questo se-colo alla droga dell’immagine”, ma anche l’incidenza cheil progresso dall’iniziale “analfabetismo cinematografico”alla competenza filmica della maturità ha avuto sulla suapersonalità di scrittore. E così, alla fine di quel mio suc-cinto profilo, mi pareva di poter individuare in Vasile nar-ratore alcuni preziosi imprestiti che il non più “analfabe-ta” di cinema poteva permettersi di fare allo scrittore: co-me in qualche racconto del quale “non si saprebbe dire sel’autorizzazione per l’exequatur sia un “pronto, si stampi”,o un “ciac, si giri”; dove, lasciatosi ormai alle spalle il sen-so della inconciliabilità tra la prosa del soggettista e quel-la del narratore, egli dimostra che, quando si ha l’attitu-dine al raccontare, si può narrare compiutamente anchecon la prosa secca del soggettista. E tanto meglio se la mo-derna fenomenologia delle nuove “arti ‘sorelle”, il cinemae la poesia in questo caso, fa venire alla mente il concettodi “istruzioni al regista”.

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    Se queste erano le tre o quattro idee che alla mia ten-denziosità di critico-lettore parvero sufficienti per una pri-ma definizione, ad uso più che altro personale, di Vasilenarratore, quando apro Male non fare leggo, nel risvolto dicopertina, che nel libro il tema dell’“interrogare le icone si-billine dei ricordi” si arricchisce adesso “di toni da incuboad occhi aperti nelle storie sotto il titolo di ‘Lui’”. E quan-do poi l’amico Vasile mi fa sapere che nei primi giudizi sullibro, nel corso di presentazioni al pubblico o in contattiprivati, ha sentito parlare anche di “atmosfera post-kafkia-na” dei primi racconti, o cose simili, la mia attenzione alproblema morfologico di questi testi narrativi si è fatta piùviva, soprattutto nel ricordo di alcune neppure troppo re-mote discussioni su taluni generi, o sottogeneri, letterari,che non portano esclusivamente, e di necessità, fuori del-la nostra letteratura. Ma diamo prima di tutto uno sguar-do ai racconti della sezione intitolata “Lui”.

    I primi due, che sono in realtà uno solo, come dice an-che lo smembramento del detto proverbiale “Male nonfare, paura non avere” nei suoi due elementi, a far da ti-toli ai due racconti, narrano la vicenda di un “Lui” che daun irrefrenabile, anche se in apparenza immotivato e irra-gionevole accesso di paura, viene travolto in un vortice diassurdi, ma quasi necessari sviluppi interiori ed esteriori,che lo portano ad una fine tragica. Qui l’ingranaggio im-placabile delle vicende, simili all’insignificante granelloche a poco a poco si fa inarrestabile valanga, porta la no-stra memoria letteraria anche ad un certo Cekov storicodi ordinarie e tranquille esistenze, incredibilmente abili, aun certo punto, ad infilarsi in crepe che portano a labi-rinti senza scampo.

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  • II

    Nel racconto spezzato in due tronconi Vasile raccontaper due volte la stessa vicenda, una prima volta dal pun-to di vista del protagonista, la seconda da quello dei sini-stri accusatori-testimoni, fattisi poi, come ora si dice nelnobilitante burocratese da cronaca giudiziaria, collabora-tori di giustizia, e perciò anche dell’inquisitore: l’epilogo,lasciato in sospeso nella prima parte del racconto, si ha altermine della seconda, quando la vicenda è stata intera-mente ripercorsa nella luce (o nelle tenebre?) delle risul-tanze e delle apparenze tangibili. La prima parte è quelladestinata ad apparire più ricca di “valore e senso univer-salmente umano” (uso con intenzione, e con misurata do-se di ambiguità, quest’espressione tra virgolette, che èquella sulla quale Pirandello giocò tutte le sue Avvertenzesugli scrupoli della fantasia quando, a distanza di venti an-ni dall’apparizione del suo romanzo, tornò a discuterecon i critici la pretesa assurdità e inverosimiglianza de Ilfu Mattia Pascal). Nel racconto di Vasile l’assurdità dellasituazione ha radici oscure nella generale condizioneumana, si sviluppa da un senso di paura che spinge alla ri-cerca di una colpa della quale non si ha più memoria. Il“Lui” soggetto della storia, ormai illustre personaggiopubblico, si dà inspiegabilmente alla fuga sentendo grida-re alle sue spalle “Al ladro! Al ladro!”. Si è rinnovato in luiil terrore che lo aveva preso quando, ragazzino, era statofatto inseguire dai cani da un contadino inferocito, che loaveva scambiato per ladro di frutta. Adesso, però, egli nonha più il conforto tranquillizzante della madre, dalla qua-le era venuta anche una risposta alla sua paura:“Scappando gli hai fatto venire cattivi pensieri. Male nonfare, paura non avere”. Questo articolo di una inoppu-

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    gnabile etica popolare, che per un siciliano come Vasilepotrebbe far pensare ai “proverbi” del verghiano Padron‘Ntoni, (e che, come vedremo, è essenziale per una defi-nizione morfologica di questi racconti), “Male non fare,paura non avere”, “Lui” poi ricorderà di esserselo sentitoripetere una seconda volta dalla madre, in un altro episo-dio di “terrore” spropositato al tempo, pur esso infan tile,di una innocente avventura balneare.

    Adesso, però, oltre a non disporre più del confortomaterno, se non nell’appisolamento che lo coglie sul let-tino dell’analista, “Lui” non scappa più davanti ai caniaizzatigli contro da un contadino, né si sente guardatocon ostilità dalla gente, per essere stato innocente mes-saggero in una tresca balneare tra un ragazza del posto edun marinaio argentino. Chi adesso lo perseguita è unoscuro senso di colpa del quale, per quanti sforzi faccia, econ l’aiuto di un amico avvocato e dello psicana lista, nonriesce a trovare l’origine in quella parte della propria sto-ria che è controllata dalla coscienza. Anche gli altri episo-di che gli riesce di far affiorare dal nero pozzo della me-moria non sono tali da giustificare l’enormità di quel sen-so di colpa, al punto che “Lui” pensa di fare questa “veri-fica”: “Si recò nella chiesa parrocchiale del quartiere doveera nato e chiese un certificato di battesimo. Lo ottennesubito: vi erano indicati anche i nomi dei padrini, mortinel frattempo. Non c’era alcun dubbio, era stato battez-zato e mondato dal peccato originale”.

    Intanto i suoi insoliti comportamenti hanno innesca-to la sinistra interpretazione di due figuri, “un assassinocomparso più volte su tutti i giornali, dallo sguardo tor-bido e sfuggente”, e un suo compare, detto “il guercio”

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    per una ferita che gli aveva deturpato un occhio, anch’e-gli “imputato di pluriomicidio, spaccio di stupefacenti,associazione per delinquere di stampo mafioso”. II grido“Al ladro! Al ladro!”, sul quale si era aperta la storia dalpunto di vista di “Lui” (con la tormentosa inchiesta inte-riore verso il “buco nero” della memoria, alla ricerca diuna colpa che giustificasse l’invincibile, irrazionale pau-ra), apre anche la seconda parte del racconto, ma questavolta dal punto di vista dei due inattendibili testimoni-ac-cusatori, che attrae nell’intreccio altri personaggi e aspet-ti di un vero e proprio “romanzo nero” che si dirama, ce-lato ma reale, nel tessuto della realtà quotidiana: un “av-vocaticchio”, una talpa, uno sbirro pedinatore, laFamiglia, un criminale incallito che commissiona fredda-mente delitti (“onorevoli”, però, com’egli li chiama!), mapiange poi sulle fotografie delle figlie e si dichiara con or-goglio rispettoso sempre di “donne a bambini, angeli diDio”, un magistrato scrupoloso, ma sensibile ai lampi deifotografi, il reato di pedofilia, e cosi via.

    II richiamo da me fatto al “romanzo nero”, uno dei se-mi e serbatoi della moderna letteratura fantastica, tendeanch’esso all’approccio verso una possibile definizionemorfologica di questi racconti di Vasile, alla quale accen-navo poco sopra. Ma intanto non sarà superfluo far nota-re come la struttura narra tiva dei primi due racconti, conla loro complementarità specu lare, è come pervasa da unaforte tensione allo specifico teatrale (e qui entra in giocoancora una volta la dominante natura di Vasile cultore delletterario-visivo, teatro a cinema, di cui già ho toccato).Non è difficile immaginare quanto poco manchi perchéun esperto di dramma (e non occorre dire chi, solo che si

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    pensi alla copiosa intercambiabilità tra racconti e drammiin Pirandello) trasformi i due racconti Male non fare ePaura non avere nei due atti di una originale pièce teatra-le, giocata su un avvolgimento della vicenda su se stessa,e di cui personaggi, scene, battute-madri di dialogo, per-fino, sono quasi tutti già in nuce tra le righe della prosanarrativa.

    Ma la connotazione secondo me più letterariamentecongrua di questi due racconti, come anche degli altri duedella sezione “Lui” (La nebbia e Il profumo dell’anima ), èquella, or ora accennata, di racconti “fantastici”, e loscomparto della nostra letteratura dove li collochereiquello di “notturno italiano”.

    Con questo indovinatissimo titolo, infatti, Notturnoitaliano. Racconti fantastici del Novecento, l’amico e colle-ga dell’Università di Firenze Enrico Ghidetti, con la col-laborazione di un suo allievo, ha pubblicato nel 1984un’antologia di più di trenta racconti di scrittori italianidel nostro secolo, che da Lo specifico del dottor Menghi diItalo Svevo alla Quaestio de Centauris di Primo Levi acco-glie scritti come (per non ricordare che i nomi più noti),Storia completamente assurda di Giovanni Papini, Paroledi un morto di Federigo Tozzi, Quasi d’amore di MassimoBontempelli, Di sera, un geranio di Luigi Pirandello, Settepiani di Dino Buzzati, Albergo Splendido di AlbertoMoravia, Avventura a Campo di Fiori di Gorgio Vigolo,La moglie di Gogol di Tommaso Landolfi, Lighea diTomasi di Lampedusa, I Dinosauri di Italo Calvino.L’iniziativa di Ghidetti e Lattarulo, che seguiva di un an-no ad una analoga degli stessi curatori per autori italianidell’Ottocento, si proponeva di riscattare al meglio quel-

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  • II

    la che, a partire da una ironica osserva zione di Leopardi(“nessuna nazione meno dell’italiana crede all’esistenzadegli spiriti”) per finire alla categorica negazione propriodi uno degli autori più dotati su questo versante, DinoBuzzati (“nella letteratura italiana non c’è niente di fanta-stico”, Variazioni sul fantastico), poteva sembrare una sor-ta di inferiorità senza rimedio della nostra letteratura neiconfronti di altre più fortunate, in Europa e nel mondo.

    Ora a me sembra che i quattro racconti di Vasile dellasezione “Lui” abbiano tutte le carte in regola per entrare inuna eventuale appendice di aggiornamento di questoNottur no italiano, dei racconti fantastici del Novecento. Sesi adottano in fatti i criteri ermeneutici elaborati propriotra gli anni Settanta e Ottanta da una straordinaria fiori-tura di studi intorno al fantastico (il libro di Todorov suLa letteratura fantastica con gli interventi di Italo Calvinosu di esso, raccolti poi in Una pietra sopra, i Saggi sul fan-tastico di Sergio Solmi, le ricerche su La narrazione fanta-stica di un gruppo di studiosi coordinati da RemoCeserani, il libro di Neuro Bonifazi Teoria del fantastico eil racconto fantastico in Italia: Tarchetti, Pirandello, Buzzati,per non ricordare che i più significativi) sarà facile consta-tare che questi racconti di Vasile che io dico trovano natu-rale collocazione nel genere (o sottogenere letterario di cuisi parla e nei suoi tipici procedimenti formali.

    Si prenda ad esempio La nebbia, il cui protagonista,un “Lui” inconfondibile “doppio” dell’autore, vive nel-l’imma ginazione una situazione tipica in questo genere diracconti, un inquietante “passaggio di soglia”, dalla vegliaal sogno, (o dalla vita alla morte, che qui fa tutt’uno), fi-no all’esperienza della Grande Luce. E si sa che il fanta-

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    stico, secondo la definizione di Todorov, occupa il lasso ditempo di incertezza nel quale il soggetto giunge quasisempre a pensare: “son desto, o sogno?”; “son vivo, omorto?”, come qui accade a “Lui”, come in apertura de Ildeserto dei Tartari di Buzzati accade, con ossessiva insi-stenza, al capo-sarto Prosdocimo. E l’incertezza deve esse-re anche del lettore, al quale tocca il domandarsi se quelcorpo che alla fine del racconto un’onda ta gigantesca sol-leva al cielo e poi deposita nei pressi della sua abitazione,sia un cadavere o un essere ancora senziente.

    Su una mescolanza di grottesco e di “fantastico mera-viglio so”, come lo chiamerebbe Todorov, si fonda invecela storia di Michele, ne Il profumo dell’anima. Michele,racconta Vasile, nato “molto bellissimo” come il Narcisodel dugentesco Novellino, verso i diciotto anni soggiace aun “amaro destino biologico”, che poi si scoprirà essereeffetto di una dimenti canza della natura nella sua evolu-zione genetica: una puzza insopportabile, un “fetore dimorte” resistente ad ogni cura inizia a sprigionarglisi daipiedi, condannandolo ad un isola mento sempre più inu-mano. Fattisi amputare i piedi, sostitu iti con sofisticateprotesi, l’infelice vede a poco a poco rispuntare in altreparti del corpo la tremenda anomalia glandolare. Quandoperò infine, dopo peripezie sempre più degradanti,Michele entra volontariamente nel rogo di una pineta infiamme, dal suo corpo carbonizzato, “simile a una ignudastatua di ebano dai piedi di argento”, e intatto nella “for-ma immortale della sua bellezza” originaria, si sprigione -rà “una nuvola bianca al cui intenso profumo concorre-vano i tre Grandi Odori dell’Isola: la zagara, il gelsominoe la ginestra selvatica”: “il profumo dell’anima”, come lo

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    chiama il prete venuto ad aspergere di acqua benedetta lamirabile forma, e che egli rifiuta di far contaminare dal-l’odore dell’in censo. Qui il “fantastico meraviglioso”, in-centrato intorno al cadavere di Michele, evoca la funzio-ne della morte tragica come restauratrice di una perfezio-ne originaria progressiva mente deturpata dall’esistenza(un po’ analogamente, ma in senso inverso, al DorianGray di Oscar Wilde).

    Del resto anche i primi due racconti, dai quali prendetitolo il volume, hanno validi titoli di pertinenza allamorfologia del racconto fantastico. Applicando un artico-lo sempre di Todorov, che identifica, nell’attualizzare eprendere alla lettera una metafora, uno degli elementi ge-nerativi della letteratura fantastica (Todorov prende adesempio 1’espressione “l’amore è più forte della morte”sulla quale Villiers de 1’Isle-Adam costruisce e svolge unodei suoi Racconti crudeli), Remo Ceserani ricorda il casodi Pirandello, che sull’espressione quotidiana “morire inun soffio”, sulla frase “La vita cos’è! Basta un soffio a por-tarsela via”, costruisce la novella Soffio, una delle sue piùincredibil mente allucinanti. A me sembra che qualcosadel genere operi Vasile con il proverbio, o adagio popola-re ”Male non fare, paura non avere”: solo che con la pa-radossalità di quell’“acutus nec insulsus homo, ut Siculus”,ch’egli è, fa sì che il suo racconto svolga quel motto insenso antifrastico, come se dicesse “Male non fare, ma ab-bi sempre paura” o, ancora meglio, “Se hai paura, qualchemale hai fatto”. Ma può darsi che questo radicale pessi-mismo sia solo un gioco della sua fantasia artistica, alleprese con quelle “reali inverosimiglianze” di cui (come vo-leva Pirandello nella tardiva apologia de Il fu Mattia

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    Pascal, da me ricordata) è “capace la vita, anche nei ro-manzi che, senza saperlo, essa copia dall’arte”. (Come di-re, nel caso di Vasile, una vita che scrive romanzi più “ne-ri” di quelli immaginati dall’arte).

    Nella chiusa de Il profumo dell’anima Vasile lega, concallida iunctura, la prima e la seconda parte del volume,grazie ai “tre Grandi Odori dell’Isola”, che sono poi zaga-ra, ginestra e gelsomino che fanno da titolo alla sezionedegli altri otto racconti. In questi ritroviamo il Vasile me-morialista dei suoi “favolosi” anni d’infanzia e di adole-scenza che già conoscevamo (anche se di quei ricordi stra-ripano pur sempre tutti gli incubi di “Lui” nei quattroracconti della prima parte). Adesso però, a parte qualcheprosa leggermente spostata verso il curioso folcloristico(Nino e il padre santo, Suor Asina), il ricordare di Vasile haun più deciso scatto verso la mitizzazione simbolica delsuo passato, ben riassunta da quella sorta di evemeristicadivinizzazione (oggi si direbbe canonizzazione) dei suoinonni, nel bellissimo capitolo fina le, I miei Lari. E cosìl’immagine di fanciulla che in Perchè non ti strinsi al miocuore attraversa a lunghi intervalli la vita dello scrittore,sempre diversa, ma inalterabile in una sua eterna giovi-nezza, ha un po’ del divino che è solo delle creature poe-tiche, della Simonetta di Poliziano, della “donna che nonsi trova” della canzone leopardiana Alla sua donna.

    Nei momenti migliori quella mitizzazione, come sem-pre dovrebbe essere nel processo artistico, si incarna nellaforma. Come in questa chiusa de Il gelsomino d’Arabia: “Asera il profumo si spandeva penetrante; mia madre, le so-relline ed io sedevamo nel balcone aspettando papà.Annunciata fra gorosamente, sbucava dalle palme del via-

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  • II

    le sottostante la banda della Regia Marina. Suonava la ri-tirata, seguita da un codazzo di marinai alla fine della lo-ro libera uscita e di ragazzi saltellanti al ritmo della musi-ca. Tutti, senza accorgersene, marciavano a tempo. Solomio padre aveva il passo stanco, ma vedendoci sollevò ilbraccio e sorrise”.

    Per rabbonire il vecchio professore di liceo che son-necchia ancora in me, pronto a segnare almeno di rosso-blu quello scarto di tempi, dall’imperfetto al passato re-moto, nella chiusa di una scena che tutto ci fa immagina-re abituale, e perciò correttamente coniugata all’imperfet-to, potrei invocare in di fesa di quel “sollevò il braccio esorrise” la nozione della vecchia retorica chiamata “sche-ma per tempora”, figura reto rica, licenza poetica costruitasui tempi verbali. Ma sarebbe saccenteria superflua.Meglio dire, in forma più semplice, che Vasile doveva inquel punto violare la sintassi se voleva, da scrittore, sot-trarre al flusso del tempo e rendere mitico, simbo lico,“eterno” (per quel che può significare eternità tra gli uo-mini), il gesto affettuoso e il sorriso di un uomo stancoche era suo padre. Perciò: “Sollevò il braccio e sorrise”.

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  • III

    È il ricordo di una serata svoltasi a Civitavecchia, seben ricordo in quello stesso anno 1999, per la presenta-zione di questo, e di un altro libro, dell’attore comicoPino Caruso: trattandosi di due scrittori siciliani avevoscelto come motto del mio file di appunti (la mia parte ri-guardava solo il volumetto di Vasile) le parole di Ciceronea lode del prototipo umano “siculo”: Acutus nec insulsushomo, ut Siculus. Dal brogliaccio di questi appunti ricavociò che dissi in quell’occasione degli undici racconti de Ilponte sullo stretto.

    Dopo aver ricordato i miei precedenti interventi suVasile narratore, ne strinsi in breve il succo in questi pun-ti: 1) Vasile è uno scrittore prevalentemente autobiografi-co; 2) egli porta nella scrittura autobiografica l’esperienzae la forma mentis di un nuovo soggetto (a paragone conquelli da me già praticati, i Vico, i Genovesi, i De Sanctis),quelle dell’uomo di teatro e di cinema, rappresentante del-la nostra civiltà delle immagini; 3) che questa novità delsoggetto “memorante” dislocato sul visivo (teatro, cinema,televisione) fa sentire i suoi effetti sulle scelte formali cheegli fa quando affronta il problema del linguaggio lettera-rio. Può bastare per tutte la metafora del più importateracconto de L’ultima sigaretta (Autoritratto), quella della vi-

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    ta paragonata a una pellicola i cui fotogrammi scorranosullo schermo della memoria.

    Anche ne Il ponte sullo Stretto troviamo una metafora-guida della stessa famiglia della pellicola di Autoritratto,ed è La moviola della memoria, alla quale non senza ra-gione Vasile assegna l’ultimo posto nella raccolta, quasipostfazione da servire come chiave di lettura delle pagineprecedenti. (Si tratta per fortuna di una “moviola” che sioccupa degli “enigmi” del Tempo, non delle preziose pe-date di miliardari giocatori che innescano settimanalmen-te le ugualmente miliardarie e diseducative prestazioni dirumorosi, nonché spesso sgrammaticati, incivili e volga-rissimi cosiddetti giornalisti sportivi).

    Anche in questi undici racconti troviamo tutto ilmondo caro alla memoria del narratore, ma in primo pia-no le persone ed affetti familiari, dai quali si stempera nel-la prosa narrativa un sapore da leopardiani “ricordi d’in-fanzia e di adolescenza”, anche se, naturalmente, in uncontesto storico-sociale molto diverso. Ognuno dei primisei racconti ruota intorno ad una figura cara che è tra-piantata nella pagina a tutto tondo, con la sua peculiarevitalità, con tutto l’ambiente che la vide vivere: in Sognodi fine estate la figura del nonno cacciatore (e come di-menticare, nello sfondo, le figurine di zia donn’Anna e ziaAgatina, “le due monache di casa della famiglia”, che adun non meridionale potrebbero non evocare nulla?); inLe mani del padre la figura del padre, intramontabile dal-l’orizzonte memoriale di Vasile, del padre zaùrdu, zotico,come lo chiamava la moglie, ma poi intento a carezzarenel sonno i figlioli, lievemente, perché non si svegliassero,con quelle mani che talvolta li schiaffeggiava da svegli; il

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  • III

    terzo racconto, Frittate, ruota invece intorno alla figuradella madre ed ai suoi piccoli miracoli di economia do-mestica (“a casa nostra non si buttava mai niente”. E poiil “menù settimanale fisso”, e il triplice bacio al tozzo dipane ammuffito che si era costretti a buttare); in Stocco,scirocco e malanova occupa la ribalta il fratello del padre,zio Nirìa, frenatore nelle ferrovie, dallo sguardo dolce edai caratteristici “mustazza a manubriu”, raggiunto dallanotizia della morte del figlio malato in una pausa di po-vera felicità nella casa del fratello; ne La barba diCarlomagno la persona di famiglia intorno a cui ruota ildivertente racconto di paladini e pupari è lo zio Ciccu,fratellastro del padre, contadino analfabeta senza figli, mafiero del nipote studente ginnasiale, da lui sentimental-mente quasi adottato. Includerei nel filone di questi rac-conti, per così dire, “di famiglia”, anche il sesto, Unastrizzatina d’occhi, per la presenza della nipote Liza, inter-locutrice simpaticamente “saputa” di nonno Turi.

    Accanto al filone degli affetti e persone di famiglia,perdura nel libro l’altro grande tema delle memorie diVasile, quello dei “favolosi Anni Trenta”, legato alla “sua”Messina, “che fu avamposto di cultura fino agli AnniQuaranta”, come leggiamo nel brano che dà il titolo al li-bro, Il ponte sullo Stretto. Nel riprendere questo tema nelcapitolo successivo, Il terremoto di Messina, Vasile esplici-ta meglio quello spunto: “Al fervore del ritorno ostinatosul luogo ad alto rischio, corrispose una vivacità culturaleche rese la città partecipe di vasti orizzonti…Maestri fa-mosi si affacciarono nelle sue scuole e collaborarono congli ingegni locali a preparare gli Anni Trenta come favo-losi. Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira, Salvatore

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  • GENNARO SAVARESE

    Quasimodo furono considerati i tre moschettieri dellospirito, con le loro convergenze e con le loro divergenzesul piano dialettico. A loro, altri si aggiunsero a tener vi-vi i fermenti del Novecento europeo; il futurismo che siera proposto di divulgare il suo manifesto in Sicilia pro-prio nei giorni del terremoto, tornò di casa con forme piùpropriamente originali; e la cultura greco-latina vi trovòinterpreti agguerriti e sensibili. Sul finire di quegli anni,inoltre, la gioventù messinese, ad opera soprattutto diEnrico Fulchignoni, diede un contributo determinantealla risoluzione della crisi della scena nazionale nel pas-saggio dal tramonto del Grande Attore al teatro di regìa”.

    Uno di quei mitici personaggi della cultura messinese,Salvatore Pugliatti, (“giurista, musicofilo, critico letterarioe d’arte, saggista e, soprattutto, infaticabile maestro”) di-venta protagonista nel racconto Il terremoto di Messina,nel quale Vasile rievoca episodi ed attori di un suo filmche non fu mai fatto su quella catastrofe. Pugliatti, inter-pellato dal nostro cineasta sui suoi personali ricordi deldisastro, gli narrò un episodio che Vasile inserisce con unproprio sottotitolo nel racconto “L’ospedale civile e il circoequestre Bizzarro”, per una sorta di “universale significatometaforico” che egli scorge in quell’episodio marginale: ilmassiccio, e apparentemente indistruttibile edificio del-l’ospedale civile, sbriciolato dal terremoto come un ca-stello di sabbia, mentre il tendone del circo equestreBizzarro resiste anche alla furia del maremoto, sicché fini-sce poi per fare le veci dell’ormai inesistente ospedale. Èchiaro che questa piccola storia ha le sue ragioni nel desi-derio di coinvolgere Pugliatti nella sceneggiatura di quelfilm che non fu mai fatto, ed in essa riemerge la peculia-

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  • III

    rità di Vasile narratore di cui dissi più diffusamente in al-tra occasione, quella dell’uomo di cinema, che anchequando narra non riesce a nascondere il suo interesse pri-mario per quella che può essere, o avrebbe potuto essere,una bella immagine filmica. Come è in questo caso quel-la dei soccorritori che, per lavare le ferite degli scampatiraccolti nel circo, utilizzano “l’acqua che la pioggia avevaraccolto nelle sacche del tendone”. Vasile non poté, persvariati motivi, fare quel suo film sul terremoto diMessina: ma un’immagine come quella di “un gruppo disoldati che con l’aiuto delle pertiche rovesciano sulla ter-ra straziata l’acqua lustrale piovuta dal cielo” era troppobella per lasciarla all’ “archivio della dimenticanza”, tantopiù se essa portava la firma di un aiuto sceneggiatore chesi chiamava Salvatore Pugliatti!

    In alcuni di questi racconti è notevole la costruzione diuna linea narrativa tutta giocata su alternanze di realtàpresente e di inserti di ricordi (è appunto, credo, la tecni-ca della “moviola della memoria”, che nel continuum diuna vicenda che occupa il primo piano può operare ritor-ni sul passato, e su più strati del passato, per poi tornaredonde è partita: è come se la vita rientrasse nel dominiodel tempo, secondo la conclusione de La festa diSant’Alfio). Proprio questo racconto offre il più chiaroesempio della tecnica narrativa di cui dicevo. All’autorecolpito da collasso (“strappato alle ombre prima cheesplodesse la Grande Luce”), e strappato alla morte, comeegli immagina, proprio dalla mano protettiva del patronodi Lentini nel giorno della sua festa, mentre è immobile aletto nel reparto di terapia intensiva, si riaffacciano comesu un monitor, alternandosi ai tracciati di elettrocardio-

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    grammi, scene delle passate feste di Sant’Alfio, da quan-do suo padre, Paliddu, ancora ragazzino, picciriddu, svet-tava sulla ressa a cavalcioni del fratellastro (zio Ciccu), aquando poi, cresciuto, era sempre lì, a quella festa (masulle labbra gli spuntavano ormai i baffi, e tra i capelli glisi allargava una “frezza bianca”); finché infine non è tor-nato più a quell’appuntamento annuale, e invano il figliosi immagina di cercarlo tra la folla. “Non veniva qui ognianno? Perché non è tornato?” La festa di Sant’Alfio è co-sì rivissuta, da uno che è stato egli stesso sulla soglia dellaGrande Luce, attraverso la favola del padre, da quandoera un povero ragazzino orgoglioso dei suoi gambali conle palombelle a quando scompare per sempre dal video,nel quale lo schermo della memoria si confonde con icomputer della sala di rianimazione.

    Del resto già il primo racconto, Sogno di fine estate, eracostruito con la tecnica dell’incastro: nel ricordo di un’u-scita in compagnia del nonno per una battuta di caccia,da quando “Nannu” sveglia il nipotino alle tre del matti-no a quando misteriosamente si allontana (“Aspettamiqui –dice- ché non torno più”), si inseriscono in succes-sione i rintocchi della campana della Matrice, i ragazziniche vanno a messa, la figlia del ciabattino che canta convoce gentile “Son fili d’oro…”, la tappa del nonno alla ca-sa di Maddalena. Ancora una volta mi assale il sospettoche l’uomo-di-cinema Vasile scrive il bozzetto in prosacome se pensasse ad una resa filmica di tutte quelle oredella notte e del giorno, suoni, rumori, figure: ad un cor-tometraggio, in altre parole.

    Su tutto domina poi, in questo libro di autobiografiaper racconti, accanto ai segreti imprestiti del narratore al

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    cineasta e del cineasta al narratore, il sentimento tuttoparticolare, fatto di nostalgico orgoglio, di quello cheSciascia chiamava, se ben ricordo, “sicilitudine”, e che inVasile assume l’aspetto di sentirsi parte del mondo nonmalgrado, ma proprio grazie alla divisione, alla separatez-za. Perciò a far da titolo alla raccolta è stato scelto Il pon-te sulla Stretto, dove Vasile contrappone alla sempre so-gnata, magnificata, e per fortuna mai realizzataMeraviglia di un reale, audace ponte sullo Stretto, il “suo”ponte, una sognata, ma non perciò meno reale “passerel-la aerea per soli pedoni, che va da Cariddi a Scilla e daScilla a Cariddi”. Il valore che va salvato è l’insularità,“che della Sicilia è il segreto –non solo dei suoi limiti- madella sua simbiosi col mondo”. E che “le separazioni pos-sono unire più dei ponti” ce lo conferma, dopo tanti altripassati incontri, anche questa serata di lettura con l’ami-co “isolano” Turi Vasile.

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    Nell’ultimo capitolo del libro del 1993, Un villano aCinecittà, Bentornato alle sabbie nere, Turi Vasile raccontache, ritornato alle isole della sua Sicilia (le ultime scenehanno per teatro, se ben ricordo, Lipari e Vulcano) al ter-mine di un vagabondaggio che lo ha portato da Londra aBerlino, da Madrid a Johannesburg, da San Paolo a HongKong, da New York a Los Angeles, quando scende a ter-ra per essere trasferito in barca al suo albergo, trova a ri-ceverlo uno strano personaggio, che egli così descrive:“Venne a rilevarmi un tipo biondo, alto, con gli occhi sla-vati, nordico d’aspetto e siculo di accento, ‘Voscenza vi-nissi cu mia’ e prese le valigie. Con quel ‘voscenza’ in disu -so, anche lui voleva prendermi in giro oppure sul serio.Mi accompagnò a una grossa barca con tettoia e diede or-dine al motorista di partire”. Quando la barca fu entratanel Porto di Ponente - aggiunge Vasile- “il tipo biondo as-sicurò che avrebbe provveduto a sbarcare le valigie alPorto di Levante, dove aspettavano una jeep e un facchi-no. Per guadagnare tempo, avrei fatto bene ad andare apiedi in albergo - e me lo indicò...”

    Quando, dopo alcuni anni, ho avuto tra le mani que-sto “romanzo” (che io scrivo tra virgolette, e poi dirò per-

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    ché), mi è parso che tra quel capitolo di Un villano aCinecittà e Giòn ci fosse (benché limitato a un solo perso-naggio) il rapporto che corre tra Fantasticheria e IMalavoglia in Verga. In Fantasticheria, come è noto, loscrittore presenta rapidamente, e in forma anonima, adun’amica signora del bel mondo, quelli che poi sarebberostati i personaggi del romanzo: il “vecchietto che stava altimone della nostra barca”; la ragazza “che faceva capolinodietro i vasi di basilico”; il poveretto “che è rimasto aPantelleria” dove “mangia il pane del re”, e così via. Il let-tore poi, aperti I Malavoglia, avrebbe dato i nomi a quelleanonime comparse di Fantasticheria, chiamandoli “Padron‘Ntoni”, “Lia”, “Ntoni”, e così via per tutti gli altri. Allostesso modo un lettore di Vasile che conosca Un villano aCinecittà, aperto questo libro, Giòn, non potrà che dire co-me è accaduto a me: “Ma questo personaggio io lo cono-sco, l‘ho già incontrato. è il “tipo biondo, alto, con gli oc-chi slavati, nordico d’aspetto e siculo di accento (Voscenzavinissi cu mia…) di Bentornato alle sabbie nere !”.

    E infatti il “romanzo” si apre con la scena di un auti-sta alto (“svettava sulla folla”) e “rigido come un manichi-no”, venuto all’aeroporto a prelevare lo scrittore e la mo-glie, col sistema di riconoscimento che tutti conosciamo(“inalberava un cartello col mio nome”). Quando poi ilpersonaggio parla, le sue parole svariano da “At your ser-vice, sir” a “Non c’è. Facissi reclamu”. All’esame “semprepiù incuriosito” dello scrittore risulta questo identikit: “tramagro, molto alto e un po’ curvo, aveva occhi di un az-zurro carico e ciglia del colore di chi è stato rosso di peloin gioventù. Nella faccia spolverata di efelidi spiccavano

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    un naso affilato e labbra sottili. Un tipo nordico, come sene trovano in Sicilia, accozzaglia di razze”. Lo zoom dellamacchina, (fotografica o da presa), ci ha avvicinato, in-grandito e lievemente migliorato il rapido profilo di Unvillano a Cinecittà, ma non c’è dubbio che si tratti dellastessa persona. Come non c’è dubbio (per rimanere all’e-quazione della formula critica di accessus da me or oraadoperata), che l’io narrante di Giòn sia lo stesso memo-rialista di esperienze di cinema di Un villano a Cinecittà,proprio come il Verga dei Malavoglia era lo stesso svagatosognatore “ad occhi aperti” di Fantasticheria. E lo è a talpunto che il segreto germe della “ragion poetica”, degliaspetti formali di questo libro, possiamo cercarlo nel ca-pitolo di Un villano a Cinecittà dal titolo addirittura em-blematico, La vita è cinema (anche il portiere di notte del-l’albergo di Taormina, dirà, alla fine della storia, con quelpizzico di verità che hanno anche le più banali metafore:“Si lasci servire, commendatore; la vita di Giòn è un ci-nematografo”). Ma non è a questo luogo comune (e pergiunta lessicalmente improprio) della civiltà delle imma-gini che intendevo riferirmi. Di quel capitolo di Un vil-lano a Cinecittà mi venivano alla memoria le parole con lequali lo sceneggiatore Ivo Perilli iniziava Vasile al proble-ma, difficile perché tutto nuovo per uno scrittore digiunodello specifico filmico, del rapporto fra testo letterario elinguaggio cinematografico: “Lui si sforzava di farmi ca-pire che una sceneggiatura non è un compiuto testo let-terario ma un pro-memoria per il regista al quale è affi-data la gestione definitiva del linguaggio cinematografi-co”. Ma su questo punto, che è lo stesso del “romanzo” travirgolette, tornerò fra poco.

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    A segnalare la strettissima pertinenza di Giòn alla ci-viltà del cinema molto contribuisce anche la cornice nar-rativa, che è 1’occasione di un convegno organizzato aTaormina su La nuova poetica cinematografica, e nel qua-le all’autore toccherà di svolgere una relazione dal titolo:L’immagine ucciderà la parola? Le pagine che Vasile dedi-ca al rimuginamento del tema assegnatogli, nel quale al-l’ansia che prende ogni oratore nell’attesa della prova siaggiunge la felice invenzione dello smarrimento degli ap-punti (la valigetta che li conteneva è finita nientemeno aSingapore!), sono autentici spunti di poetica cinemato-grafica, degni di stare accanto ai molto più numerosi con-tributi di Un villano a Cinecitta, che a una vera e propria“ragion poetica del film” in forma di aneddoti e di rac-conti. Nella tesi “dell’immagine destinata a insidiare ilprimato della parola” il narratore si àncora alla “profezia”di Pirandello (i cui Quaderni di Serafino Gubbio operato-re sono davvero un emblema pionieristicamente profeticodella guerra dei linguaggi che ancora divampa, anzi si al-larga e si complica nei nostri giorni), “ricavandone 1’ipo-tesi - sono parole dello scrittore - che il linguaggio delTerzo Millennio possa decretare la morte della letteraturaa favore della immagine integrata dalla musica”.

    Per venire al racconto, la sua prima parte, ambientata inSicilia, si può definire, con le parole stesse dell’autore, lastoria di una “parentesi investigativa”, di un “periodo sot-tratto alle abituali incombenze” dell’io narrante, che di so-lito passa il suo tempo ad occuparsi di produzione cinema-tografica e di altre faccende che hanno a che fare col cine-ma. L’investigazione ha per oggetto Giòn (sicilianizzazione

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    grafica dell’inglese John), 1’autista “nordico d’aspetto e si-culo di accento”, per adattare a lui le parole usate per il tra-ghettatore di Un villano a Cinecittà, che ha i connotati diun nobile britanno stabilitosi in Sicilia, come un personag-gio di Stevenson o di Lawrence, per curare la malattia dipetto con i soli e l’aria di mare che - come dirà Stella instretto siciliano - “al suo paese nemmeno sanno che esisto-no”. Fin dall’inizio l’eponimo del racconto, tranne le pochebattute in lingua anglo-sicula (“Ma che lingua parla?”, do-manda la moglie del narratore) viene trattato con una tec-nica che ricorda parecchio quella che alcuni scrittori ame-ricani del secolo scorso hanno chiamato della indirection,secondo la quale “la realtà non può essere colta che tan-genzialmente, e comunicata obliquamente”. Più che incomportamenti e discorsi autonomi, Giòn vive nei raccon-ti e ritratti che di lui in successione forniscono gli altri: ilportiere di notte dell’albergo di Taormina; i genitori di SaroFailla, l’ambiguo amico di Giòn; e infine il parroco.Ripensando a quei racconti e ritratti, lo scrittore investiga-tore scriverà, all’inizio della seconda parte, che l’immaginedi Giòn che ne è venuta fuori è stata resa “inquietante esfuggente” da “ammiccamenti, maledizioni e reticenze”. Iprimi (gli ammiccamenti) sono stati del portiere di notte,che aveva fatto al narratore la storia di Giòn dal suo arrivoin Sicilia, una ventina d’anni prima, con la sua aria nobilee malinconica, all’amicizia col barcaiolo Saro (fornito della“voce incantatrice delle sirene e bellissimo come la statua diun dio greco”), che poi per un certo tempo era andato a vi-vere con lui “senza curarsi della gente”, fino al giorno diuna clamorosa rottura e della partenza di Saro dal paese. Ilportiere aveva anche narrato del successivo amore tra Saro

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    e Stella, della nascita di un bambino da quella relazione,dell’inarrestabile carriera di libertino di Saro (“Sa Liolà, ilpersonaggio di Pirandello? - aveva chiesto il portiere, che sipiccava di uomo colto - Bene: Saro è nella vita Liolà, copiaconforme”), dell’intervento di Giòn che, quando Saro erasparito di nuovo, e (almeno a quanto sembrava) definitiva-mente, aveva liquidato la casa che aveva a Londra, com-prato la casa dove era in affitto e preso con sé Stella e ilbambino. “Da nobile qual era - aveva concluso il portiere -si fece servo per non fargli mancare niente, per allontanareStella dalle tentazioni e mantenere il ragazzo agli studi”: ecosì aveva finito per fare l’autonoleggiatore.

    Di “maledizioni” era stato intessuto invece il “raccontoa due voci” delle sventure di Saro che i genitori del pesca-tore, raggiunti dal narratore, gli avevano fatto a loro volta.“Una ventina d’anni prima - aveva spiegato la madre diSaro - era venuto in treno il diavolo in persona. Pareva ungran signore ed era bello come è il diavolo quando si trave-ste”. Così Giòn, che già nel racconto ammiccante del por-tiere di notte era apparso come uno dell’altra “parrocchia”,prende l’aspetto di un diavolo omosessuale che circuendo-lo con regali e riguardi aveva tentato di far perdere a Saro“la mascolinità” (come recita il vecchio pescatore). Di quil’alterco e la fuga di Saro nei boschi, dove purtroppo “lamalasorte - rincalza la madre - gli mandò incontro quellaceleberrima bottana”, Stella, già stata in montagna la “ca-gna dei carbonai”.

    Ispirato a “reticenze”, infine, era stato il discorso intor-no a Giòn tenuto dal parroco. Il narratore-inquisitore eragiunto al prete grazie ad alcuni particolari emersi dal rac-

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    conto del portiere di notte. Dopo la clamorosa lite con Saro- aveva detto il portiere ”fu a questo punto che Giòn chia-mò il prete”. E ancora: “Padre parroco ...andava a trovarlospesso. Dissero che Giòn si era aggravato e che aveva rice-vuto l’olio santo. Il prete assicurò che non era vero, ma nondisse parola sul motivo delle sue visite”. In questa primaparte ci sono già tutte le linee portanti del racconto:1’“enigma” del personaggio John, che acuirà via via nel nar-ratore l’attrazione per il “contrasto tra l’essere e l’apparire”;la curiosità “insensata”, “malsana”, del “detective dilettan-te”, che lo spinge ad “invadere l’intimità altrui”, che altronon è che “un desiderio di appropriazione” (in questo giu-dizio negativo concordano la moglie dell’autore e il parro-co); la natura tutta particolare di questa “appropriazione”,che consiste nella cattura che il cinema, costantemente, emolto spesso con crudeltà, fa della vita, e che è poi il sensoultimo di questo “romanzo”. In realtà l’incastro della storiadi Giòn nello spazio di un congresso di cinematografia nonè affatto una “parentesi” (parentesi investigativa) nelle ordi-narie incombenze di un uomo del cinema. Nell’intrigarsicon la storia di John il narratore, in effetti, continua a muo-versi nelle sue ordinarie incombenze. Con diversa sensibili-tà lo hanno capito fin dall’inizio sia il portiere di notte (“lei,come produttore, è alla ricerca di storie, di personaggi stra-ni...”), sia il parroco (“Se lei è alla ricerca di soggetti per lesue pellicole, sappia che ho più rispetto per l’intimità altruiche per il cinema”). Subito dopo la prima versione di que-sta “storia complicata”, il racconto del portiere dell’albergo,scatta nel narratore il (come dire?) furor cinematographicus.“Rimasto solo – scrive - indugiai a guardare il paesaggionotturno pensando ad altro. Nelle vetrate apparve come su

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    un grande schermo il volto di John dal naso aguzzo comela prua d’un battello; negli occhi stagnavano il distacco e ladolcezza della rassegnazione. In dissolvenza prese il suo po-sto la donna dei boschi, disponibile ma non aggressiva, dal-la pelle rimasta bianca in mezzo al carbone. Si impose il ra-gazzo, 1’unico che avesse lo sguardo pieno di rancore e 1’e-spressione ribelle. Saro non venne - non solo perché non loavevo mai visto- ma perché era forse il personaggio più im-penetrabile, persino più di John. Riuscii solo a intravederela statua di un dio greco a cui era stato paragonato, una for-ma di marmo, perfetta, ma senza testa, come i simulacridella via Appia Antica”. John, Stella, Antonino, Saro eranogià diventati, nella accesa fantasia del narratore, quattro“personaggi in cerca”, non, pirandellianamente, d’autore,cioè di uno scrittore di teatro, di un drammaturgo, ma dicineoperatore, regista, produttore (di un loro, per restare aPirandello, che è servizievole di un nome anche per questanuova formula, di un loro Serafino Gubbio). Cosi pure sul-la linea di una ragion poetica del film si colloca 1’osserva-zione sul dialetto parlato dai genitori di Saro nel loro “rac-conto a due voci” delle sventure del figlio. “Parlavano il dia-letto - scrive Vasile - che Visconti aveva usato nel suo filmLa terra trema e di cui io avevo fatto la traduzione simulta-nea dei dialoghi per i giornalisti accreditati alla Mostra d’ar-te cinematografica di Venezia”. Vien quasi spontaneo dipensare che quel dialetto, misto naturalmente all’italiano eall’inglese, come è la sola lingua possibile per questo “ro-manzo”, cosi lo sarebbe stata per un futuro film su Giòn.

    Nelle altre due parti del libro, da un lato si completa lavicenda fattuale, intorno alle due figure di Antonino

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    Mineo e di Saro Failla, dall’altro vengono a sciogliersi i di-versi nodi rimasti insoluti nella prima parte della storia (co-s’è avvenuto tra Giòn e Saro nella famosa notte della lite,che cosa andava a fare periodicamente il prete, dopo quel-la notte, a casa dell’inglese?). La parte dedicata adAntonino, recatosi a Roma dopo gli esami di maturità pertentare la via dello spettacolo (è stata la madre Stella a far-gli rivolgere al “commendatore” la domanda se potesse “fa-re il cinema”), è una vera e propria aristeia del giovane eroein chiave e ambiente moderni. Qui viene fuori nel narrato-re la verve dell’uomo di spettacolo, che si diverte a far ruo-tare intorno all’iniziazione di Antonino alla carriera di at-tore l’intera vita di una casa di produzione (registi, sponsor,segretarie, uscieri; e poi consigli di amministrazione e con-ferenze stampa). È a questo punto, tra la seconda e la terzaparte, che, mentre si arricchisce di interessanti sviluppi ilrapporto sentimentale di Antonino con Giòn e Saro, tuttoil racconto subisce come il sussulto di una notevole accele-razione romanzesca, che fa perno su una storia amorosa diAntonino e sulla nuova situazione generale determinate dalritorno di Saro. E intanto, mentre i rapporti tra i perso-naggi “siciliani” vanno lentamente a ricomporsi in un nuo-vo equilibrio, a poco a poco esce dalla storia e dalla scena,discretamente come vi era entrato, l’enigmatico Lord Giòn.

    Lasciando a questo punto al lettore curioso il piacere diriempire le tante lacune del racconto che la mia succintaesposizione si è lasciate dietro, tenterò due conclusioni prov-visorie su Giòn, una di carattere formale, concernente il pos-sibile giudizio intorno a questo tipo di racconto dal puntodi vista della classificazione letteraria, l’altra relativa a quella

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    che Manzoni avrebbe chiamato “il sugo di tutta la storia”.Per quel che riguarda la prima, occorre dare per scontatoche, se si parte dalla natura delle opere e non dalle caselle deigeneri letterari, si rivela sempre attuale la riserva diGiordano Bruno su di essi, perché “tanti son geni (cioè ge-neri) e specie di vere regole, quanti son geni e specie di veripoeti”. Ora a me pare che questo scritto conservi nel suo or-ganismo i cromosomi della sua “natura” (nel significato vi-chiano di origine, di nascita), che non consentono di attri-buirgli, se non per prassi editoriale, il sottotitolo di “roman-zo” nell’accezione ordinaria del termine. Nato da un picco-lo germe annidato tra le righe del libro più intimamente le-gato alla vocazione e carriera di Vasile uomo di teatro e dicinema, nato dalle pagine di Un villano a Cinecittà, il per-sonaggio Giòn, (e come lui le altre figure che lo circondanonella storia), vive in una prosa che sviluppa, in cammino pa-rallelo, un discorso di parole e un discorso di immagini escansioni filmiche. Ancora una volta a mio giudizio, e inmaniera addirittura esemplare, trattandosi della prova nar-rativa di più ampio respiro finora tentata dallo scrittore, citroviamo di fronte a un racconto del quale, come ebbi a scri-vere una volta, “non si saprebbe dire se 1’autorizzazione perl’exequatur sia un ‘pronto, si stampi!”, o un “ciac, si giri!”. Eforse mai come questa volta si dovrà dire che le due auto-rizzazioni dell’autore sarebbero, in realtà, una cosa sola. Conil vantaggio, in questo caso, che i due discorsi paralleli di cuidicevo, quello per parole e quello per immagini da film,contengono una risorsa nuova, quella di un controllo reci-proco, nel senso che nella struttura di un libro da conside-rarsi come “opera aperta” l’uno può correggere ed emenda-re, e a volte anche a dar ragione di qualche eventuale in-

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    temperanza dell’altro. In ogni caso, al di là di ogni laborio-so, e in fin dei conti inessenziale sforzo classificatorio (ro-manzo sì, romanzo no?), sul quale incombe la tuttora guer-reggiata ed irrisolta guerra dei linguaggi alla quale ho accen-nato poco fa, quel che conta è la certezza che Vasile con que-sto libro, come lo scrittore inventivo e non imitatore di cuiparlava Bruno, ha scelto di essere “poeta di propria Musa”,non “scimmia de la Musa altrui”.

    Per tornare al “vicin grande” di Vasile dal quale ho pre-so le mosse, Verga, vale forse la pena rievocare un articolodella sua teoria del narrare, germogliata da quella zolianadel “romanzo sperimentale”, che contiene un assunto per isuoi tempi rivoluzionario sul ruolo e il futuro del narrato-re in genere, e dal quale si può ricavare qualche utile corol-lario per la funzione del narratore di Giòn. Stando a quelche Verga scriveva a Salvatore Farina nella lettera dedicato-ria de L’amante di Gramigna, la funzione dello scrittore eraquella di intermediario, a vantaggio dell’uomo comune, trala realtà vissuta e le “risorse dell’immaginazione” del letto-re. Ma questa funzione sarebbe venuta meno quando “lascienza del cuore umano”, frutto della nuova arte, si fossecosì generalmente diffusa da rendere inutile l’intermedia-zione dello scrittore: ogni più comune persona avrebbeavuto la possibilità di “leggere” nuovi romanzi nei fatti dicronaca (i “fatti diversi”), che essa avrebbe saputo interpre-tare da sola grazie alla “scienza del cuore umano” ormai dalei stessa posseduta.

    Prima però che questa futuribile scomparsa dello scrit-tore “medium” tra realtà e lettore presagita da Verga avesse

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    luogo, accanto all’impero della parola si era prepotente-mente affacciato quello che Barthes ha chiamato “l’imperodei segni”, il martellante assedio delle immagini (al di là delteatro, la fotografia, il cinema e la televisione), sicché perl’intermediazione tra il reale e le “risorse dell’immaginazio-ne” non sarebbe più bastato il semplice scrittore. Per il nuo-vo pubblico prodotto dalla civiltà delle immagini naturaleintermediario sarebbe stato l’esperto dei due linguaggi co-involti, quello della parola e quello delle immagini: comeben sa il narratore di Giòn, che non a caso inventa che larelazione assegnatagli al convegno di Taormina sulla cine-matografia abbia per argomento “L’immagine ucciderà laparola?” A quest’ordine di considerazioni va ricondotto ilprincipale quesito posto da Giòn, sull’apparente sfasaturatra la mole del libro e l’innegabile densità del racconto co-me esso si dispiega nella partecipe attenzione del lettore.Perché mai - ci si chiede - giunto alla fine del volume, il let-tore ha come l’impressione di aver viaggiato, non per lospazio di centocinquanta pagine stampate, ma attraversoun libro di ben più ampia e articolata struttura? E la rispo-sta non potrebbe essere che questa: che il destinatario, ilfruitore di questo racconto non è un semplice lettore, maun, per così dire, lettore -spettatore, lettore-in-poltrona-al-cinema, (o forse, per dirla meglio ancora, presente ai lavo-ri di un set cinematografico) perché intermediario tra larealtà e le sue (del lettore) “risorse dell’immaginazione” nonè più il semplice scrittore dei tempi del Verga, ma l’uomodi spettacolo e di cinema, che non a caso in uno dei suoipiù emblematici scritti su se stesso, Autoritratto, ha parago-nato la vita ad una pellicola i cui fotogrammi scorrano sul-lo schermo della memoria. Si deve proprio alle ragioni “fil-

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    mico-narrative” di Vasile se il suo raccontare ha una densi-tà (densità nell’essenzialità) ignota alle comuni forme dinarrazione. Scrissi una volta, a proposito del Vasile dei rac-conti, che egli è capace di “narrare compiutamente anchecon la prosa secca del soggettista”, e questo già comportavaun giudizio sulla essenzialità del suo dettato. Collegandomiora a questa, e ad altre considerazioni che facevo in quellasede, dirò che il narratore di Giòn è uno che, mentre rac-conta, fornisce anche “istruzioni” a un ideale soggettista,sceneggiatore, regista di un film, che intanto egli va co-struendo con la collaborazione del lettore-spettatore. Èproprio qui la ragione della apparente sfasatura, ricordatapoco sopra, tra la mole del libro e il suo tempo di lettura.Il lettore, mentre legge, è invitato a concepire mentalmen-te (e a goderne) figure, espressioni, dialoghi, scene, trapas-si narrativi, secondo una logica “filmica” delle immagini,più che in base alle ordinarie risorse immaginative che ognilettura comporta. Il che vuol dire un dilatarsi del tempo in-terno alla lettura, una diversa amministrazione del “piaceredel testo”, dietro la guida, esperta ma non paralizzante, delnarratore-uomo di cinema.

    Si potrà forse allora parlare di un “metaromanzo” che sidispiega sul racconto (e con questo vengo alla seconda con-clusione), la cui logica vuole che John esca di scena avendoesaurito la sua funzione, che era stata simile a quella di unreagente che si fa da parte dopo aver prodotto l’evento (inquesto caso, non chimico, ma sentimentale) al quale eradestinato? E la funzione di John era stata questa: che in unaeterna Sicilia di turismo in alberghi di lusso, di spiagge do-rate, di apollinei efebi a caccia di svedesi, di femmine delposto che, anche se indossano minigonne e fumano siga-

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    rette, conservano sempre qualcosa della “lupa” verghiana:che in questa Sicilia la sua presenza enigmatica irradiasseuna forza perturbatrice dal nome molto semplice, l’amore.La presenza “indiretta” di John ha avuto la funzione di faremergere, in forme e gradi diversi, la capacità di amore in“un analfabeta del mare”, in “una puttana dei monti”, e inquel giovane irrequieto e indocile che era loro figlio.“Quale amore?”, possiamo domandarci, come fa il pretenel colloquio finale con l’autore. Il quale ci viene incontronel solo modo possibile, con conclusioni e spiegazioni chelì per lì non concludono e non spiegano nulla (“Talvoltal’amore non riesce a esprimersi, a comunicare”; Saro ha ac-coltellato Giòn perché “aveva paura dell’amore”, perché sisentiva “perseguitato da un sentimento che umiliava la suanatura animalesca”; perché a volte possono provocare unareazione non le parole o i gesti, ma “anche il silenzio, ancheil sentimento...”; e ricorda il mito di Psiche che “anche leiaveva tentato di uccidere Amore per paura”). Non conclu-dono e non spiegano, ma lasciano inquietudini e interro-gativi benèfici. Nello stesso modo, alla domanda finale delnarratore: “Chi era Giòn? Il prete non può trovar di meglioche rispondere come “il personaggio di una commedia diteatro” (la commedia è di Diego Fabbri): “ ‘Un uomo, lo saDio..’ Ecco, noi possiamo solo tentare di interpretare ciòche Dio sa”.

    Se tale è il “sugo” di questa storia, non c’è dubbio cheessa sia destinata ad essere, romanzo o non romanzo (o ro-manzo sui generis), una storia interessante per chiunque lalegga, come è stata per me.

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    La copertina dell’editore Avagliano recita: Turi Vasile,SILVANA, Romanzo. L’autore dichiara poi in limine chenel titolo è la dedica, cioè che il libro è dedicato a Silvana.E in data: Roma 22 marzo 2007, l’autore ottantacin-quenne si presenta, e presenta al tempo stesso la moglieSilvana, con la quale è stato insieme per sessantasette an-ni. Silvana è ora diventata, a causa della malattia, presen-te-assente, vicinissima ma irraggiungibile.

    Confesso che di tutti i dati della succitata, ampia di-dascalia, quello che mi ha dato un po’da riflettere, a cau-sa di quanto mi era noto dell’autore quale scrittore, è sta-ta la parola “romanzo”, al punto da indurmi a chiedermi:ma che cosa è un romanzo? E poiché Vasile, a quanto nesapevo con certezza, è autore anfibio, di cinema e di pro-sa, mi è venuto spontaneo chiedere lumi ad uno scrittorefinito abbondantemente sul grande schermo, EdwardMorgan Forster, celebre romanziere, (Camera con vista,Casa Howard, Passaggio in India), nonché teorico del ro-manzo (E. M. FORSTER, Aspetti del romanzo, 1927,trad. italiana di Corrado Pavolini, per Il Saggiatore,1963). Il quale Forster, alla domanda : “Che cos’è che co-stituisce un romanzo?”, dopo due confuse risposte di due“varietà” di uomini, dava, come terza, questa sua:“Sì…oh Dio, sì,…il romanzo racconta una storia.” E

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    proseguiva: “Questo è l’aspetto fondamentale, senza dicui il romanzo non potrebbe esistere. È il massimo ele-mento comune a tutti i romanzi, e per parte mia preferi-rei che non lo fosse, che q


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