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CIM EN SPE DIRIGENZA SCOLASTICA - notiziedellascuola.it · Sta cambiando il profilo del dirigente...

Date post: 18-Feb-2019
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Transcript

 

 

 

 

DIRIGENZA SCOLASTICA 

competenze giuridiche, amministrative,  organizzative e pedagogiche 

 

 

Contributi 

Sergio Auriemma 

Andrea Avon 

Roberto Baldascino 

Antonia Carlini 

Giancarlo Cerini 

Armando Luisi 

Maurizio Muraglia 

Gianna Prapotnich 

Guglielmo Rispoli 

Mariella Spinosi 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Estratti di capitoli del volume “Dirigenza scolastica”

© Tecnodid Editrice Srl – Piazza Carlo III, 42 – 80137 Napoli tel. 081 441922 – fax 081 210893 – www.tecnodid.it

 

PRESENTAZIONE

Sta cambiando il profilo del dirigente scolastico? Questa è la domanda che fa da filo conduttore alle riflessioni degli autori, impegnati ad esplorare i nuovi scenari in cui si esplica la funzione dirigenziale: le nuove dinamiche del dimensionamento, l’evoluzione della pubblica amministrazione, il reclutamen-to di una nuova generazione di “civil servant”, la richiesta che ci viene anche dall’Europa di una scuola più efficiente, l’attuazione di riforme spesso condi-zionate da pesanti restrizioni di risorse.

Sono tutti elementi che richiedono una forte capacità di leadership per chi è chiamato a governare un istituto scolastico, da esercitare con una si-cura padronanza dei ferri del mestiere, culturali prima ancora che gestiona-li, organizzativi piuttosto che astrattamente burocratici, relazionali e comu-nicativi e non solo formali. Si è detto che un dirigente deve muoversi in una arena pubblica (all’interno e all’esterno della scuola) sempre più affollata e turbolenta: la sua sensibilità “educativa” dovrà coniugarsi con le sue doti di fine “negoziatore”, le capacità manageriali andranno calibrate sulla cor-rettezza delle procedure amministrative.

Egli è pur sempre il “rappresentante legale” dell’istituto che dirige ed è chiamato a rendere conto dei risultati, ma è anche parte attiva di un profilo di grande complessità, difficile da racchiudere in un manuale esaustivo di tutte le competenze necessarie, che richiede una grande capacità di orien-tamento e di comprensione delle questioni in gioco, anche nella vita quoti-diana di una scuola.

I dieci autori del testo “Dirigenza scolastica”, essi stessi dirigenti di comprovata esperienza o autorevoli esperti nei diversi settori di competenza, hanno provato a ricostruire “i fondamentali” di una professione decisiva per la qualità dell’istruzione e del servizio scolastico, mediante un equilibra-to dosaggio tra quadri di riferimento concettuali, approfondimenti tematici e normativi, documenti e fonti di supporto.

   

Il testo, di oltre 600 pagine, è in corso di stampa  e sarà disponibile a fine febbraio al prezzo di € 64,00. 

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INDICE  

Parte I GLI ORDINAMENTI DELLA SCUOLA PROSPETTIVE EUROPEE E QUADRO DI RIFERIMENTO ITALIANO  GLI ORDINAMENTI SCOLASTICI IN ITALIA (Giancarlo Cerini) 

1. Uno sguardo alla nostra storia 2. Quindici anni di riforme incompiute 3. Il primo ciclo: verso la comprensività 4. Il “rebus” della riforma della scuola secondaria superiore 

 LE STRATEGIE EUROPEE PER LA SCUOLA NELLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA (Gianna Prapotnich) 

5. L’Europa della scuola nei documenti strategici 6. Da Lisbona a ET 2020 7. Gli standard europei: competenze chiave e qualifiche 8. I programmi di scambio e di sviluppo educativo 9. Linee evolutive dei sistemi educativi nella UE 10. I sistemi di istruzione, formazione e ricerca in Europa 

 

Parte II IL PIANO DELLE OFFERTE FORMATIVE E LE AUTONOMIE 

 LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA (Mariella Spinosi) 

1. Quadro generale 2. Autonomia organizzativa e didattica 3. Autonomia di ricerca e innovazione 4. Dimensionamento delle scuole 

LA GESTIONE DEL POF (Guglielmo Rispoli) 

5. Compiti del Dirigente scolastico 6. Costruzione del curricolo di scuola 7. Patto educativo e contratto formativo 8. Forme di flessibilità e arricchimento dell’offerta 

 I RAPPORTI CON IL TERRITORIO (Andrea Avon) 

9. Evoluzione del quadro istituzionale 10. Regioni ed Enti Locali: compiti e prospettive 11. Fare rete per un’offerta formativa del territorio 12. Ruolo delle istituzioni scolastiche e delle reti di scuola 13. Scuola tra governance e capitale sociale 

Indice  

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Parte III PROFILI GIURIDICI DELL’ISTITUZIONE SCOLASTICA E DELLE SUE ATTIVITÀ (Sergio Auriemma)  

LA SCUOLA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 1 Introduzione allo studio dei problemi giuridici 2 Le pubbliche amministrazioni in Italia 3 L’Istituzione scolastica come “soggetto giuridico” 4 Strumenti di “diritto pubblico” e di “diritto privato” adoperabili dalle scuole 

 LA GESTIONE 

5. L’assetto organizzativo: i profili gestionali 6. La gestione delle risorse umane 7. La gestione finanziaria e la gestione patrimoniale 

 I CONTROLLI E LE RESPONSABILITÀ 

8. I controlli  9. Le responsabilità soggettive 

  Parte IV IL PROGETTO EDUCATIVO (Maurizio Muraglia) 

 GLI STUDENTI 

1. I nuovi barbari 2. La motivazione allo studio 3. I bisogni educativi speciali 

GLI INSEGNANTI 

4. Promuovere l’apprendimento 5. Metodologie e stili relazionali 

 IL CURRICOLO IN AZIONE 

6 Saperi e discipline 7 Didattica per competenze 8 Valutazione formativa 

 

Indice  

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Parte V LA SCUOLA COME ORGANIZZAZIONE  LA SCUOLA COME COMUNITÀ PROFESSIONALE (Armando Luisi) 

1. Da Edipo a Narciso  2. La formazione e la ricerca 3. Lo sviluppo professionale 4. La valutazione delle professionalità 5. Le strategie di empowerment 

LA GOVERNANCE INTERNA (Armando Luisi) 

6. Gli organi di partecipazione 7. Il sistema delle decisioni 8. Le funzioni da presidiare e staff 9. Stili di Leadership 

 LA COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE (Roberto Baldascino) 

10. Il knowledge management 11. Comunicare l’identità della scuola 12. La scuola comunica on line: trasparenza e privacy 

Parte VI Strategie di direzione (Antonia Carlini)  PROFILI DELLA DIRIGENZA 

1. Dal preside alla funzione direttiva 2. Dal modello burocratico al modello telocratico: la dirigenza pubblica 3. Autonomia, responsabilità, valutazione, merito: la dirigenza scolastica 4. la dirigenza scolastica tra managerialità e leadership 5. Gli autonomi poteri di direzione 

GLI STRUMENTI DELLA GESTIONE STRATEGICA 

6 Pianificazione strategica 7 Controllo di gestione 8 I sistemi della qualità 

 VALUTAZIONE E CONTROLLO 

9. Autovalutazione e sviluppo 10. Accountability valutazione esterna 11. Accountability e bilancio sociale 

 

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GLI ORDINAMENTI SCOLASTICI IN ITALIA

Giancarlo Cerini

[…]

2. QUINDICI ANNI DI RIFORME INCOMPIUTE

Scuola media: un’immagine che fa discutere

Ultimamente si è riacceso un forte dibattito sulla scuola media italiana, forse ri-pensando ai suoi cinquant’anni di vita, dall’unificazione avvenuta nell’ormai lontano 1962. Della nostra Scuola Secondaria di I grado (questa è la denominazione re-introdotta nella legge 53/32003) si è detto ormai tutto e il contrario di tutto1. È stata definita, variamente:

l’anello debole del nostro sistema educativo, con allievi che invece di incre-mentare i loro livelli di conoscenza sembrano retrocedere, rispetto alla scuola primaria;

un’esperienza che non riesce ad incidere positivamente sulle condizioni so-ciali dei ragazzi, cosicché a 14 anni oltre un terzo si diploma con appena “sufficien-te” (ora trasformato in 6 “rosso”) e imbocca la strada dell’istruzione professionale, se non della dispersione;

un luogo consacrato ad una didattica centrata sui contenuti disciplinari, non in grado di reggere la sfida delle “competenze”, cui i 15enni sono chiamati dai severi test dell’Ocse-Pisa;

un percorso formativo transeunte, troppo breve per lasciare una traccia in una età della vita (la pre-adolescenza) essa stessa in veloce e acerba trasformazione;

È pur vero che la scuola media, scuola di mezzo, è da molti anni alla ricerca di una sua incerta identità, attratta dalla scuola superiore (il piano alto della “seconda-ria”), ma poi richiamata alla comune appartenenza alla scuola di base (il “primo ci-clo” dell’istruzione). L’alternarsi di diverse denominazioni (scuola – di volta in volta – media, secondaria I grado, del primo ciclo, di base) suggella questa sindrome pi-randelliana, nella non risolta ambiguità della sua secondarietà – di accesso ai saperi formali ed al pensare per modelli – o di completamento della formazione primaria, quindi di consolidamento dell’alfabetizzazione strumentale. Con, in più, la spada di Damocle dell’anatema dei ragazzi di Barbiana contenuta nella “Lettera ad una pro-fessoressa”, di oltre 40 anni fa: “Cara signora, lei di me non si ricorderà nemmeno il nome…”. Una ferita ancora da sanare.

                                                                 1 Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2011, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011.

SPECIMEN

Giancarlo Cerini  

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Qualche evidenza della “crisi”

Ci sono però dei dati che fanno pensare: la percentuale di insuccesso coinvolge quasi il 40% dei ragazzi, con insuffi-

cienze diffuse nelle discipline fondamentali; le differenze di ceto, di cultura, di territorio si fanno sentire pesantemente, con una

vistosa frattura Nord-Sud confermata da tutte le rilevazioni nazionali ed internazionali; l’età media degli insegnanti è la più elevata tra tutti i gradi scolastici; i modelli organizzativi sono ormai datati, quasi immutabili da trent’anni, con

una frammentazione di discipline ed una eccessiva presenza di docenti (almeno 9 figure che si alternano in una classe);

il tempo scuola è rigidamente distinto tra un orario tutto-antimeridiano ed un tempo-prolungato presente qua e là (mentre manca una scelta coraggiosa verso tem-pi opzionali e facoltativi per i ragazzi).

La scuola media si sta misurando con il nuovo modello organizzativo previsto dal recente Regolamento di riordino (Dpr 20 marzo 2009, n. 89), che però non sem-bra una risposta risolutiva alle tante questioni aperte, nonostante le buone intenzioni dell’Atto di indirizzo che ha accompagnato l’emanazione del decreto.

La scuola di oggi accoglie allievi che stanno cambiando velocemente, sono sem-pre più diversi tra di loro, adottano modalità di apprendimento reticolari, simultanee, visive, assai diverse da quelle lineari, sequenziali e alfabetiche tipiche degli adulti. Questo cambiamento mette a dura prova gli attuali modelli didattici o, meglio, le tradizionali pratiche didattiche. Occorre ripensare al concetto di alfabetizzazione (di “literacy”), agli strumenti culturali da consegnare ai giovani (lo “zoccolo comune” di conoscenze, competenze e regole di comportamento), al loro coinvolgimento nei processi di apprendimento (con il ruolo decisivo delle emozioni e della motivazio-ne), al rapporto tra l’esperienza formale tipica della scuola e la molteplicità di oppor-tunità di apprendimento che ormai si moltiplicano all’esterno.

Al di là dei casi esemplari, che pure ci sono, l’attuale scuola media non sembra in grado di intercettare le caratteristiche “nuove” dei suoi allievi, questi nuovi “bar-bari” (Baricco2) che ondeggiano velocemente, ma anche superficialmente, su una quantità sterminata di linguaggi, codici, tecnologie, gadget… Appena usciti dal cono d’ombra dell’infanzia e già attratti dai riti del consumo, ipnotizzati dal conformismo del gruppo, alla ricerca di una loro visibilità, inquietanti nella loro mancanza di sensi di colpa (Galimberti, Pietropolli3). Con modelli di riferimento familiari sempre più labili ed incerti, tutt’al più “amicali”.

                                                                 2 A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2008. 3 U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007. G. Pietropol-

li Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari, 2010.

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2. Quindici anni di riforme incompiute 

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Insomma un gruppo difficile da gestire in classe, seppure portato a grandi slanci e voglia di fare, desideroso di sentirsi importante, riconosciuto, capace di fare cose (dunque, competente). La sfida si gioca in classe, è ormai chiaro. Ma con quali strumenti? E operando quali scelte?

Approfondimenti  

Le discipline e le loro connessioni 

L’aggregazione  delle  discipline  del  curricolo  di  scuola  elementare  e medie  in  tre  aree rappresenta  un’ulteriore  novità  delle  Indicazioni/2007  rispetto  alle  precedenti  Indicazio‐ni/2004, ma non in termini assoluti, perché già nelle bozze dei curricoli De Mauro facevano capolino  le aree disciplinari, che avevano poi un padre autorevole nei programmi del 1985 per  la scuola primaria:  la struttura per ambiti era  infatti  la motivazione “nobile” della orga‐nizzazione modulare dell’insegnamento elementare. Per la scuola media, invece, si tratta di una anteprima assoluta. L’organizzazione in aree o ambiti (non è la terminologia che conta) è legata all’esigenza di superare una certa rigidità didattica tipica dell’organizzazione per cattedre della  scuola  secondaria  (con  l’orario  settimanale a  “scacchiera”). C’è anche da  ricordare  che l’aggregazione delle discipline in ambiti/aree è una prerogativa riconosciuta agli insegnanti nel regolamento  dell’autonomia  (Dpr  275/1999)  e  quindi  l’intervento  regolatore  del  centro  do‐vrebbe essere ridotto al minimo. Si oscilla, dunque, tra una sorta di fondazione epistemologica delle aree (es.: linguistica, storica, scientifica) e la flessibilità delle forme di aggregazione e inte‐grazione tra discipline. Nella premessa alle Indicazioni si elogiano i saperi di confine e l’esigenza di connessione tra le discipline, per dare “senso” e “consistenza” alle domande di conoscenza, anche attraverso un insegnamento non frontale, ma operativo e laboratoriale.  Un esauriente  commento  alle  Indicazioni 2007 è  contenuta nel  fascicolo monografico  “Le indicazioni per il curricolo. La parola alla scuola”, in “Notizie della scuola”, n. 2‐3, 16 settem‐bre‐1 ottobre 2007.   Il tempo scuola nel primo ciclo 

Gli attuali modelli orari di funzionamento del primo ciclo (scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di I grado) sono assai variegati. Il nuovo ordinamento (DPR 20‐3‐2009, n. 89) offre sulla carta un’ampia gamma di soluzioni orarie ai genitori (cfr. Tab. 1), tutte però subordina‐te a precisi vincoli di risorse che, al momento indirizzano verso un contenimento dell’offerta di tempo piuttosto che verso una espansione.   

Tab. 1 – Gli orari scolastici previsti dal DPR 89/2009 

Scuola dell’infanzia  Scuola primaria  Scuola secondaria di I grado 

‐ 40 ore settimanali

‐ 50 ore settimanali 

‐ 25 ore settimanali  (orario antimeridiano) 

‐ 24 ore settimanali

‐ 27 ore settimanali 

‐ 30 ore settimanali* 

‐ 40 ore settimanali* 

‐ 30 ore settimanali 

‐ 36 ore settimanali* 

‐ 40 ore settimanali* 

*Modello orario subordinato alla disponibilità di organico e di servizi adeguati (CM 110/2011). 

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Giancarlo Cerini  

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La legge 3.5.1999, n. 124 istituisce per la scuola media anche classi ad indirizzo musicale (DM 6.8.1999, n. 201) che aggiungono due ore settimanali al curricolo base di 30 ore (DPR 89/2009).  Il plafond di base può essere poi variamente  interpretato dalle singole scuole,  in fatto di rientri pomeridiani nei modelli ad orario lungo, o la possibilità di strutturare l’orario su 5 giorni (c.d. settimana corta). La delibera degli organi collegiali (di pertinenza del consi‐glio di istituto) dovrà salvaguardare le caratteristiche qualitative dell’organizzazione scolasti‐ca  (presidiata  dal  collegio  dei  docenti). Ad  esempio,  nel  caso  del  tempo  prolungato  della scuola media vanno previsti almeno 2 o 3 rientri pomeridiani (CM 13‐7‐2011, n. 63 sugli or‐ganici di fatto); il tempo pieno nella scuola elementare è strutturato su cinque giornate “inte‐re” a scuola. Ma qui scatta  il problema dell’assistenza educativa alla mensa, che rientrerebbe negli obblighi di servizio dei docenti (a mente dell’art. 28, comma 10, del CCNL 2006‐2009), ma di cui non si fa mai cenno nei dispositivi amministrativi. Sta di fatto che la previsione di un or‐ganico rapportato alle sole 27 ore settimanali per la scuola primaria (tutto compreso), sta ridu‐cendo i margini di manovra dei dirigenti scolastici nelle offerte di tempo scuola da proporre ai genitori.  

Sembrano dunque maturi  i tempi per una riflessione più “aperta” sul tempo scuola, di‐stinguendo con più nettezza  tra  tempi del curricolo e  tempi per  l’accoglienza,  tra arricchi‐mento formativo e curricolo essenziale, anche studiando soluzioni in sussidiarietà tra scuole, amministrazione scolastica, enti locali, genitori.  

Il confronto europeo ci segnala che i tempi curricolari italiani sono nella media (anzi, a volte sono superiori), ma spesso manca  il “contesto” di una struttura accogliente  (mense, bibliote‐che, spazi sportivi, tempi di relazione), nella logica del “campus” e della giornata “integrata”.  La pluralità dei docenti 

Ha  fatto molto discutere  il ritorno della  figura del maestro unico nella scuola primaria, dopo vent’anni di  sperimentazione dell’organizzazione modulare. Si è parlato di una  forte esigenza di unitarietà, di coerenza, di coesione del modello educativo, per evitare  il rischio della frammentazione. Qualche anno fa si è cercato di introdurre la figura del “tutor” (cfr. il fascicolo monografico Tutor, funzioni tutoriali, comunità tutorante, in “Notizie della Scuola”, n.  20,  16‐30  giugno  2004,  con  contributi  di  Bresciani,  Cerini,  Frigerio,  Scandella,  Spinosi, Summa, Toschi). 

Ci sono modelli di pluralità che sembrano riscuotere un persistente successo tra i genito‐ri e gli  insegnanti. Ci riferiamo alla duplice presenza di  insegnanti  in ogni sezione di scuola dell’infanzia e ai due docenti contitolari di ogni classe a tempo pieno. Talmente solidi da non essere intaccati nemmeno dagli ultimi provvedimenti di restrizione della spesa.  

Rimane dunque  aperto uno  spazio di  ricerca  sulla pluralità possibile:  avremo un  inse‐gnante di classe impegnato su tutte le aree, comprese inglese e musica (si guadagna in unita‐rietà della proposta, ma si rischia di perdere in qualità)? oppure si mantengono –anzi, si raf‐forzano – le figure di docenti specialisti, che insegnano alcune discipline in più classi (si gua‐dagna in competenza, si perde in continuità)?  

L’organico funzionale di istituto e di rete, oggetto di recenti provvedimenti di legge, po‐trà consentire di tenere aperti spazi di ricerca e originalità di soluzioni. Inoltre, la riconferma‐ta presenza dei docenti di sostegno e di altri specialisti (inglese, religione, ecc.) mette a di‐sposizione delle ore in cui più docenti sono presenti a scuola. […]  

SPECIMEN

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LE STRATEGIE EUROPEE PER LA SCUOLA NELLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

Gianna Prapotnich

10. I SISTEMI DI ISTRUZIONE, FORMAZIONE E RICERCA IN EUROPA

[…]

I quattro modelli

I sistemi di educazione, istruzione e formazione dei singoli Paesi europei posso-no essere raggruppati, con buona approssimazione, in quattro modelli principali. Modello latino-mediterraneo

Presente in Francia, Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, è caratterizzato da una notevole tendenza al classicismo e dalla forte volontà istituzionale di condurre gli allievi ad alti risultati di apprendimento, attraverso un complesso sistema di “boccia-ture e ripetenze” e di esami; in passato molto accentrato a livello nazionale, oggi il modello scolastico latino-mediterraneo è fortemente basato sul decentramento locale e sull’autonomia delle scuole. In questi Paesi, tuttavia, è di solito il Ministero della Pubblica Istruzione (in Italia, Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricer-ca) che ha l’autorità di determinare il curriculum, gli esami e le valutazioni nelle scuole primarie e secondarie. Gli studenti in tutte le regioni seguono un percorso formativo di base comune e vengono esaminati in un complesso di conoscenze, competenze e capacità definito a livello ministeriale Anche il quadro orario settima-nale delle materie viene prescritto dai Ministeri preposti all’educazione, l’istruzione e la formazione dei giovani.

Modello germanico

Presente in Austria, Germania, Lussemburgo, Olanda, Svizzera e, con qualche differenza, in Belgio, trova in Germania la sua massima applicazione. È comune-mente conosciuto come “sistema duale”, perché l’industria privata e il governo sono solidalmente responsabili per l’educazione, l’istruzione e la formazione dei giovani, specialmente nel campo della specializzazione pre-professionale. Il governo federale fissa gli standard per l’educazione, mentre i rispettivi stati federali (Bundesländer) sono responsabili per l’istruzione e la formazione nelle scuole di specializzazione pre-professionale. Le norme per l’esame finale di apprendistato, ad esempio, sono fissate dal governo federale secondo le raccomandazioni da parte di organizzazioni

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Gianna Prapotnich 

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imprenditoriali, dell’industria e dei sindacati. Questo sistema educativo duale si tro-va anche in Austria e Svizzera con piccole variazioni rispetto al sistema tedesco. In tutti i casi, tuttavia, ci sono standard nazionali stabiliti in collaborazione le organiz-zazioni del mondo del lavoro. Il sistema educativo tedesco è caratterizzato da una tradizionale suddivisione in tre indirizzi. La Hauptschule, che gli studenti frequenta-no attraverso al nono e decimo anno di scuola, da cui si diplomano con un esame finale per poi proseguire gli studi, nella maggior parte dei casi, attraverso il sistema duale, che prevede sia tirocinio pratico, che formazione e istruzione teorica. Il Gym-nasium, che gli studenti frequentano per seguire un corso di studi che conduce all’università. Il Gymnasium, che si conclude con la maturità, è la tradizionale scuo-la di alta formazione in Germania. Vi sono tre tipi di Gymnasium, uno con una mag-giore enfasi sulle lingue antiche (greco e latino), uno particolarmente basato sulle lingue moderne (soprattutto inglese e francese) e uno prevalentemente orientato ver-so la matematica e le scienze naturali. Ma esistono anche forme particolari di Gym-nasium, come quello per l’Economia e il Commercio e quello per le tecnologie. La Realschule, che permette di accedere ad un sistema di istruzione e formazione supe-riore non di tipo universitario Il completamento di questa scuola è il presupposto per l’ingresso nelle carriere di alto livello nel mondo degli affari, dell’industria e del servizio civile. Dopo la conclusione della Realschule, gli studenti possono anche op-tare per il sistema duale di formazione pratica e teorica, verso una formazione conti-nua. Sebbene di recente si cerchi di sviluppare un sistema di passaggi fra gli indiriz-zi, la scelta fra indirizzi separati rimane comunque la caratteristica principale del modello germanico.

Fonti di documenti 

 Dichiarazione di Bologna (1999) 

“Nell’affermare il nostro sostegno ai principi generali enunciati nella Dichiarazione della Sorbona, ci impegniamo a coordinare le nostre politiche per conseguire in tempi brevi, e co‐munque entro  il primo decennio del 2000,  i seguenti obiettivi, che consideriamo di primaria importanza per l’affermazione dello spazio europeo dell’istruzione superiore e per la promo‐zione internazionale del sistema europeo dell’istruzione superiore: 

‐ Adozione di un sistema di  titoli di semplice  leggibilità e comparabilità, anche  tramite l’implementazione  del Diploma  Supplement,  al  fine  di  favorire  l’employability  dei  cittadini europei e la competitività internazionale del sistema europeo dell’istruzione superiore. 

‐ Adozione di un sistema essenzialmente fondato su due cicli principali, rispettivamente di primo e di secondo livello. L’accesso al secondo ciclo richiederà il completamento del primo ciclo di  studi, di durata almeno  triennale.  Il  titolo  rilasciato al  termine del primo ciclo  sarà anche spendibile quale idonea 

‐ qualificazione nel mercato del  lavoro Europeo.  Il secondo ciclo dovrebbe condurre ad un titolo di master e/o dottorato, come avviene in diversi Paesi Europei. […] 

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LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA

Mariella Spinosi

1. QUADRO GENERALE

Il punto

L’autonomia sembra costituire, oggi, l’oggetto da tutti protetto, a volte rivendica-to – come strategia di difesa – a fronte di azioni nazionali poco gradite, spesso invo-cato, specialmente nelle situazioni più complesse della vita istituzionale. Tutto ciò malgrado la sua presenza nel nostro sistema nazionale da oramai 13 anni (DPR 8 marzo 1999, n. 275).

Ma è proprio così? In realtà l’introduzione dell’autonomia scolastica non è stata indolore. Allora i

timori di perdere qualcosa di sicuro prevaleva nei pensieri dei diversi protagonisti: la sicurezza della classe, del tempo, delle routine…, anche se si era convinti, tutti (o quasi), che i programmi nazionali si sarebbero dovuti adeguare maggiormente alle esigenze ambientali, che bisognava diversificare l’utilizzo delle risorse e rendere più flessibili l’organizzazione e la didattica.

Oggi diciamo che l’autonomia scolastica è una delle espressioni delle policy dei principali Paesi industrializzati fondate sui principi di decentramento delle competenze e di sussidiarietà verticale ed orizzontale, con la conseguente ridistribuzione di poteri e di compiti. Tutto ciò allo scopo di ottenere buoni risultati nell’ambito educativo.

Si parla di policy per intendere la politica pubblica, “reale”, contrapposta alla po-litics con cui si indicano invece i meri rapporti di forza su basi ideologiche tra parti politiche e leader.

Ma qual è il significato più vero di questo profondo cambiamento? Una “piena” autonomia dovrà registrare un forte spostamento, verso le unità scolastiche, di effet-tivi spazi di decisionalità nel campo organizzativo e didattico, di capacità progettua-li, di ambiti di responsabilità, di procedure di valutazione e autovalutazione. E, so-prattutto, dovrà produrre tangibili miglioramenti degli eventi educativi in classe. Le scuole, per concentrare l’attenzione su tali risultati, sono chiamate a spostare altrove molti servizi di carattere amministrativo (dagli stipendi alle carriere, dalle nomine alle pensioni), per esempio utilizzando servizi coordinati in rete: ciò consente eco-nomie di scala e la possibilità di liberare energie, anche amministrative.

Ma dopo 15 anni dalla legge 59 del 15 marzo 1997, dopo 13 anni dal successivo Regolamento (DPR 8 marzo 1999) e dopo quasi 12 anni dalla sua introduzione forma-

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Mariella Spinosi 

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le (1° settembre 2000) è lecito chiedersi se siamo in grado di rilevare miglioramenti del nostro sistema d’istruzione e qualità degli esiti formativi dei nostri studenti. Siamo in grado di accertare gli effetti nella nostra scuola in quanto ad efficienza organizzativa (cioè: capacità di azione o di produzione con il minimo di scarto, di spesa, di risorse e di tempo impiegati), o ad efficacia (cioè: relazione tra obiettivo prefissato e accuratez-za e completezza dei risultati raggiunti)?

Se i risultati italiani delle indagini internazionali OCSE Pisa, riferiti alle com-prensione linguistica, matematica e scientifica (2000-2009), sembrano metterci in ancora in difficoltà, alcuni dati di Education at a glance (uno sguardo sull’educazione) del 2006 mettono invece in evidenza che la stragrande maggioranza di Paesi che ottengono buoni risultati ha un sistema educativo basato sui principi dell’autonomia delle Istituzioni scolastiche.

Questi dati ci dicono anche che l’autonomia non basta: è necessario (e la Finlan-dia ci insegna) che ci sia un rapporto molto stretto tra scuole, politica, sistema pro-duttivo, modelli sociali e, ovviamente, buona cultura delle autonomie locali.

Le riflessioni, esplicitate qui di seguito, che affrontano le linee generali dell’autonomia attraverso l’approfondimento del comma 9 art. 21 della legge 59/1997, e degli articoli 4, 5 e 6 del successivo regolamento (DPR 275/1999), non partono (nella maggior parte dei casi) da dati ufficiali o da esiti di ricerche scientifi-che in materia, ma da evidenze empiriche sorrette da riflessioni continue con i diver-si soggetti istituzionali (operatori scolastici, stakeholder…), e in occasione di molte-plici percorsi formativi realizzati nelle diverse realtà scolastiche. Sono punti di os-servazione diversi e, in quanto diversi, anche significativi. Prime prove tecniche

Le prime prove tecniche di autonomia furono proposte agli inizi degli anni No-vanta. Doveva essere il ministro Francesco D’Onofrio, che aveva ereditato la delega dal precedente Parlamento, a realizzarla.

Il Ministro si era riproposto di spiegare alla gente, prima ancora che alla scuola, i cambiamenti più significativi del nuovo sistema scolastico. Lo avrebbe fatto attraverso la televisione (“Autonomia in onda”): una novità allora che fece anche discutere. Si trattava di stipulare una convenzione con la Rai per acquistare spazi televisivi a tariffa minima all’interno dei palinsesti del 1995. Un progetto di tipo informativo, affidato a spazi specifici (soprattutto telegiornali), attraverso messaggi per genitori, studenti, ope-ratori economici, riversabili in cassette audiovisive destinate alle scuole.

Ma le cose non andarono per il verso giusto. Sicuramente i tempi non erano ma-turi, ma anche l’impegno progettuale non fu sicuramente eccellente se si arrivò alla scadenza della delega prima che potesse partire l’intera operazione.

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1. Quadro generale 

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Le vere prove tecniche si collocano in realtà negli Istituti comprensivi: una delle novità più significative nell’ambito dei processi di trasformazione del sistema d’istruzione. Furono concepiti, come è noto, da una legge per la salvaguardia della montagna italiana (L. 31 gennaio 1994, n. 97, Nuove disposizioni per le zone di montagna), quindi al di fuori di ogni logica di tipo scolastico. Oggi sono diventati oltre che modelli ordinamentali anche modelli di autonomia e ciò senza un grande impegno da parte dei diversi governi che da allora si sono succeduti. Solo recente-mente, come è noto, l’articolo 19 della legge 15 luglio 2011 ha previsto la totale ge-neralizzazione disponendo l’aggregazione di tutte le scuole dell’infanzia, delle pri-marie e delle secondarie di primo grado in istituti comprensivi e la conseguente sop-pressione di tutte le direzioni didattiche e delle scuole medie attualmente esistenti1.

Preoccupazioni e dubbi

Sul nascere, comunque, le preoccupazioni erano diverse e diffuse. Oltre alla pau-ra generica di perdere le antiche certezze per un miglioramento non ancora messo alla prova e dai contorni nebulosi, c’era anche il timore che l’autonomia potesse condurre all’abbattimento delle garanzie del sistema nazionale, ad una scuola preva-lentemente manageriale sorretta da una cultura aziendalistica; ci si preoccupava, in altre parole, che potesse favorire una trasformazione della cultura tradizionale in modelli di mercato, attraverso processi di privatizzazione con il conseguente svuo-tamento degli organi collegiali.

All’inizio, furono tanti gli operatori scolastici, in modo particolare i docenti, ad avere difficoltà ad accettare l’innovazione. Da un lato venivano enfatizzati nobili pensieri: sentirsi protagonisti di un processo di cambiamento; sentirsi soggetti legit-timati a modificare un sistema; avere la possibilità di migliorare il proprio profilo professionale, ma anche l’immagine sociale e di ruolo. Ma dall’altro lato, però ser-peggiavano preoccupazioni un po’ meno nobili che, a distanza di anni, non sembra-no ancora completamente fugate: la paura di perdere le antiche consuetudini (la scuola resta l’istituzione più conservatrice); l’essere costretti a lavorare di più; o do-ver dipendere dalle famiglie, dagli Enti locali; perdere alcune garanzie.

                                                                 1 L’art. 19, comma 4, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con modificazioni dalla legge 15 lu-

glio 2011 n. 111 prevede: “Per garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello stesso ci-clo di istruzione, a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012 la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppres-sione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole se-condarie di I grado; gli istituti compresivi per acquisire l’autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geo-grafiche caratterizzate da specificità linguistiche”.  

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Mariella Spinosi 

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A distanza di tempo possiamo forse dire che alcuni rischi erano anche reali e che anche oggi assistiamo a colpi di coda del centralismo burocratico: aumento indi-scriminato di indicazioni non sempre chiare; tendenza a gestire ancora a livello na-zionale azioni minute che nulla hanno a che vedere con le norme generali sull’istruzione, con i principi fondamentali cui si deve conformare la legislazione regionale, né con i livelli essenziali delle prestazioni garantite a ciascun cittadino in materia di istruzione. Regolamento dell’autonomia: DPR 275/1999

Il Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche (DPR n. 275 dell’8 marzo 1999) è entrato in vigore, come già precisato, il 1° settembre 2000 conclu-dendo un lungo iter, avviato nel marzo del 1997.

Il DPR 275/1999 detta la disciplina generale dell’autonomia e individua le funzioni trasferite alle istituzioni scolastiche, elencando, nel contempo, tutte le disposizioni di legge abrogate. Il testo del documento si riferisce alle diverse articolazioni del sistema scolastico, ai vari indirizzi di studio, alle esperienze formative e alle attività della scuo-la dell’infanzia. Esso mantiene la struttura di fondo che già aveva assunto nella ver-sione approvata dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre 1998. Quel testo era stato il frutto di un lungo processo di elaborazione che, dalle prime bozze, aveva portato an-che ad una consultazione “popolare” nel mondo della scuola nella primavera del 1998, con il coinvolgimento di circa il 70% degli istituti scolastici.

Dalla “base” era emersa l’esigenza di una definizione più concreta delle nuove op-portunità consentite dall’autonomia, soprattutto nel campo didattico, nonché una mi-gliore precisazione del rapporto tra decisioni locali lasciate alla responsabilità delle singole scuole e indirizzi nazionali di competenza dello Stato, anche per fugare il timo-re (allora molto diffuso) di un’eccessiva presa degli Enti locali sulle scelte educative.

Il regolamento è stato rappresentato subito come una prima opportunità per con-cretizzare un modello di scuola “federalista” che mantiene, tuttavia, l’unitarietà del sistema scolastico nazionale. Infatti lo Stato riserva a sé le funzioni relative a “istru-zione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione ge-nerale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale” (articolo 1. Comma 3, punto q della L. 59/1997). Resta, quindi, al Ministero dell’istruzione definire il quadro delle discipline fondamentali, gli standard di apprendimento, i criteri di or-ganizzazione dei curricoli. L’organizzazione delle scuole autonome dovrà rispettare gli standard nazionali di funzionamento.

Si tratta, dunque, di un’autonomia di “comportamenti” e non di un’autonomia “assoluta”, in quanto le risorse finanziarie e l’assegnazione degli organici sono ga-rantite dallo Stato. […] 

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LA GESTIONE DEL POF

Guglielmo Rispoli

 

1. COMPITI DEL DIRIGENTE SCOLASTICO

Il Piano dell’Offerta Formativa è l’asse di funzionamento di un’intera Istituzione scolastica; in pratica è il fulcro ed il pilastro su cui ruota tutta l’organizzazione della scuola. Per questo il P.O.F. costituisce nell’atto formale e nell’importanza sostanzia-le la “carta di identità” della scuola. (art. 3 del DPR 275/1999).

Sul piano documentale e di rendicontazione il POF impegna il Dirigente scola-stico dall’analisi sociale e territoriale all’ipotesi organizzativa, dalla predisposizione dell’organigramma funzionale alla redazione materiale e poi alla pubblicazione e pubblicizzazione. Tale percorso è determinante per l’organizzazione della scuola ed è certamente un primo passo per dare alla vision del dirigente e del suo staff la con-notazione di condivisione e di progettazione.

Sul piano sostanziale il P.O.F. è la capacità produttiva della scuola in cui il diri-gente fa da timoniere e, allo stesso tempo, fa da mediatore ed equilibratore dell’intero sistema sapendo affrontare (ed anche prevedendo) le difficoltà. In tale complessa dinamica il ds orienta lo staff, gestisce sapientemente il personale, valo-rizza le varie professionalità (docenti ed ATA).

Il dirigente scolastico non dimentica di essere stato un docente, è un mae-stro/professore “che ha cambiato mestiere” (Romei P., Il capo di Istituto, un ruolo da ridefinire in Romei P., Autonomia e Progettualità, La Nuova Italia, Firenze) e, come sintesi del suo nuovo approccio professionale, tiene conto e cerca di utilizzare pienamente la personale esperienza di educatore e formatore. Deve essere chiaro che ora tale funzione verrà svolta in una nuova dimensione e con una prospettiva ben più vasta ed importante. Rispetto agli ambiti di professionalità ritornano i concetti di vi-sion e mission.

La vision fa riferimento alla concezione filosofica dell’Uomo, alla funzione psi-cosociale ed interattiva del suo essere personale sociale, alla valorizzazione dei prin-cipi costituzionali di Libertà, Pace, Solidarietà, Eguaglianza.

La vision di scuola è dentro l’esperienza professionale dell’ex docente, oggi nuo-vo dirigente. Le motivazioni di partenza dovranno avere una lettura psico-socio-pedagogica: la nuova complessità sociale, la pressante richiesta di formazione, la esplicitazione dei bisogni di bambini e ragazzi, le domande implicite di tali bisogni, l’analisi dinamica della microsocietà del territorio, la dimensione relazionale e l’approccio flessibile (pensiero debole) alla gestione efficace ed all’organizzazione puntuale dell’istituzione scolastica.

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Guglielmo Rispoli 

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La mission è la trasformazione del pensiero ideale in azione. Vuole essere la for-za trainante per trasformare l’idea, il progetto, perfino la sfida in una realizzazione concreta. La mission del dirigente scolastico sarà indubbiamente fortemente connes-sa alla vision sopra definita ed è anche probabile che, progressivamente, sarà con-vergente con quella di altre risorse importanti della scuola. Essa darà senso e sostan-za alle idee sull’infanzia e l’adolescenza, alle idee di sapere e di futuro, alla funzione degli adulti e dell’educazione, al ruolo attivo della motivazione e della formazione. Quanto maggiore sarà la competenza del ds, quanto più alto sarà il senso critico tan-to più la sua mission si distanzierà e, soprattutto, si distinguerà, da quella istituziona-le che continua ad avere forti connotati burocratici e di centralizzazione della gestio-ne formale dell’istituto scolastico. Ma “chi rassicura il Capo dell’Istituzione scola-stica?” (cfr. Romei, Guarire dal “mal di scuola”, La Nuova Italia 1999). Sicura-mente la capacità di guardare, capire, porsi domande aiuterà il ds e lo staff a farsi un’idea possibile e concreta della mission da realizzare. Ed è riflettendo sulla scuola come “istituto a legame debole” (definito tale da Romei) che la capacità di fare in-sieme, di costruire quanto più è possibile l’identità collettiva e la pianificazione di un efficace modello organizzativo trovano passaggi concreti della realizzazione della mission.

Una delle prime azioni del ds in una nuova istituzione è individuare i problemi per poi intuire ed orientare le azioni risolutive. In tale dimensione lo sforzo maggio-re iniziale sarà quello di far convergere sulle priorità le intelligenze e le risorse mi-gliori della scuola: la convergenza muta la forza ed accelera tutte le dinamiche co-struttive. La conseguente azione, nel fluire delle opinioni e delle ipotesi, è la discus-sione ed elaborazione del modello organizzativo della singola istituzione scolastica.

Alcune mission possibili realizzare il senso di appartenenza e di inclusione forte e visibile a tutti costruire una scuola ricca di senso e di significato; facilitare la percezione progressiva dell’identità collettiva della scuola, agevolare la percezione del sè, del proprio fare, della propria dimensione di gregario

all’interno dell’organizzazione; maturare la vision autonoma della scuola e della sua azione distinta dal fare burocratico; costruire percorsi di insegnamento e, soprattutto, di apprendimento efficaci in cui i docenti

si sentano realizzati ed i ragazzi motivati ad impegnarsi; generare progressivamente una maturazione dell’idea di società in cui la scuola ha un ruolo,

attraverso la partecipazione attiva, al fare nel territorio e all’agire con le proprie idee, i propri pensieri e progetti, le proprie capacità espressive;

sviluppare una cultura del sapere pragmatico e un’idea di competenza facile da capire e facile da perseguire;

puntare costantemente l’azione sulla piena realizzazione del diritto allo studio.

[…]

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I RAPPORTI CON IL TERRITORIO

Andrea Avon

1. EVOLUZIONE DEL QUADRO ISTITUZIONALE

[…]

Il nuovo titolo V – Legge Costituzionale n. 3/2001

Il Titolo V della Costituzione è stato riscritto nel 2001 con la Legge n. 3, che ha di-stribuito la competenza legislativa tra Stato e Regioni in modo innovativo rispetto al testo del 1948: ciò è stato determinato dall’evoluzione della visione dei rapporti tra il centro e la periferia e da una nuova considerazione del ruolo delle Regioni, tuttora in fase di sviluppo e di ridefinizione. Va analizzata la distinzione di competenze nel cam-po dell’istruzione, non espressa in forma chiarissima, determinata dalla nuova stesura dell’art. 117 della Costituzione.

Legislazione esclusiva e concorrente Al legislatore statale viene riservata la competenza a dettare la disciplina che va

garantita unitariamente su tutto il territorio nazionale; in campo scolastico essa limi-ta l’autonomia dei singoli Istituti e si riferisce alle norme generali sull’istruzione ed ai livelli essenziali delle prestazioni garantite a ciascun cittadino (art.117, secondo comma). Tale competenza dello Stato si dice esclusiva, in quanto si tratta di una pre-rogativa ad esso riservata.

Negli altri settori relativi all’istruzione viene attribuita a ciascuna Regione una potestà legislativa che si dice concorrente; con tale termine si intende una facoltà di legiferare temperata dall’obbligo di rispettare i principi generali dettati dal legislato-re nazionale (art.117, terzo e quarto comma): in tale caso intervengono sia lo Stato (per la definizione dei principi generali) sia il legislatore regionale, chiamato a defi-nire la disciplina di dettaglio, fermo restando il limite di non poter ledere l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Spetta quindi alla legge dello Stato definire: le norme generali sull’istruzione; i livelli essenziali delle prestazioni garantite a ciascun cittadino in materia di

istruzione; i principi fondamentali cui si deve conformare la legislazione regionale.

Appare necessario distinguere con maggiore precisione i tre ambiti di intervento legislativo statale.

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Andrea Avon 

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Norme generali e principi fondamentali Va innanzitutto precisato che la Corte Costituzionale negli anni successivi alla

riscrittura del Titolo V è stata più volte chiamata a pronunciarsi in merito e le relati-ve sentenze verranno qui trattate nel capo seguente dedicato agli sviluppi del siste-ma. Deve essere sin d’ora evidenziato che secondo l’Alta Corte le “norme generali sull’istruzione”, sono quelle disposizioni statali che “sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie” sono “applicabili indistintamente al di là dell’am-bito propriamente regionale”. Si tratta quindi di norme che vengono declinate in modo concreto, definendo azioni obbligatorie e sufficientemente specificate, da rea-lizzarsi su tutto il territorio nazionale per la generale esigenza di unitaria applicazio-ne. Esse definiscono lo scheletro giuridico del sistema nazionale di istruzione e non lasciano margini di differenziata articolazione locale (ad es. “La Scuola Primaria, della durata di cinque anni, è articolata in un primo anno (…) e in due periodi didat-tici biennali”, art.4 del D.Lgs. n. 59/2004). Esse differiscono dai “principi fondamen-tali” che lo Stato deve dettare a monte delle differenziate legislazioni regionali sui re-stanti temi in materia di istruzione: in tal caso, infatti, lo Stato fissa una linea di azione, una sorta di direttiva sicuramente vincolante (sempre per esigenze di carattere unita-rio), che, per essere concretamente applicata, ha però bisogno di essere articolata in una disciplina più specifica la cui definizione è di competenza del legislatore regionale (ad es. primo anno della Scuola Primaria “raccordato con la Scuola dell’Infanzia”, contenuto anch’esso nell’art. 4 del D.Lgs. n. 59/2004). Nello stesso settore specifico vi possono quindi essere norme generali fissate dallo Stato, immediatamente applicabili e non declinabili in modo differenziato dalle singole Regioni, unite ad altre disposizioni statali che fissano principi fondamentali, lasciando alle singole Regioni lo spazio per la definizione della disciplina di dettaglio.

Livelli essenziali di prestazione I livelli essenziali delle prestazioni garantiti dal legislatore statale definiscono in-

fine aspetti quantitativi e/o qualitativi del servizio di istruzione, intangibili sia per il legislatore regionale sia per le autonome determinazioni di competenza dei singoli istituti. Anche in questo caso la Carta Costituzionale privilegia l’esigenza di unita-rietà e di omogeneità del sistema di istruzione, al fine di permettere al legislatore na-zionale di assicurare a tutti il godimento di prestazioni garantite, attraverso la defini-zione concreta del contenuto essenziale del diritto di istruzione. Le singole legisla-zioni regionali possono regolare ed offrire ai cittadini anche garanzie di tutela ulte-riori, ma in nessun caso possono limitare o condizionare le prestazioni assicurate del legislatore statale. Nello stesso art. 117, inoltre, viene dato rango costituzionale all’autonomia scolastica, le cui prerogative divengono un limite invalicabile anche per le nuove competenze regionali. […] 

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LA SCUOLA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Sergio Auriemma

1. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEI PROBLEMI GIURIDICI

Considerate le funzioni amministrative e gestionali svolte dal dirigente scolasti-co, lo studio di istituti giuridici che trovano applicazione nel comparto scuola può comportare qualche difficoltà di approccio, specie per soggetti che, nel loro bagaglio culturale e professionale, non annoverino preventive conoscenze del diritto.

Le leggi da prendere in considerazione investono aspetti e materie eterogenee, sicché la sola lettura di singole disposizioni scritte, senza che le stesse siano ricondotte dentro un sistema organico di nozioni e di concetti-base, sarebbe insufficiente.

Gli antichi studiosi del diritto, prima che si desse corso alle grandi codificazioni realizzate nell’Europa dell’Ottocento, erano soliti partire da singole situazioni concrete e, attraverso apposite elaborazioni sistematico-concettuali, riconducevano le stesse all’interno di principi e regole di diritto fondamentali, a loro volta suddivise per grandi ripartizioni (es. diritto pubblico, diritto privato), per argomenti (es. diritto di famiglia, diritto di proprietà, obbligazioni e contratti), per concetti più specifici (es. soggettività giuridica, personalità giuridica, ecc.).

Questo metodo (usato da quel filone di studi conosciuto come “pandettistica tedesca” e poi, in epoca più moderna, adoperato anche nei sistemi di diritto anglosassone attraverso lo studio cosiddetto “dei casi” o “dei problemi”) può rappresentare un utile esempio per accostarsi ai vari ambiti di materie elencati nell’Allegato Tecnico al bando di concorso per dirigente scolastico.

Siffatta metodologia, poiché permette di riflettere su principi basilari, potrà tornare utile anche nella futura ed effettiva pratica operativa, quando, ad esempio, ci si troverà in presenza di cosiddette “lacune normative” (manca una norma esplicita ad hoc) e il dirigente dovrà comunque farsi carico di trovare una soluzione per affrontare correttamente, dal punto di vista giuridico, l’insorta evenienza.

Del resto, l’art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale (premesse al codice civile) stabilisce che “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (è la cd. interpretazione analogica).

Naturalmente i principi generali dei quali è utile impadronirsi non sono compendiati in leggi scritte, alle quali si possa fare rinvio.

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Sergio Auriemma 

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Né è immaginabile che nella presente sede – riassuntiva e con spazio editoriale ristretto – se ne possa fare trattazione tale da esaurire lo studio che il candidato alle prove orali dovrà dedicare alle materie di diritto elencate nel bando di concorso.

Ne consegue un solo suggerimento pratico: è utile che il candidato si munisca di almeno tre manuali giuridici di base (di diritto privato, di diritto pubblico, di diritto amministrativo). Consultando i manuali, gli sarà possibile studiare l’architettura generale degli istituti giuridici. Non interessa l’autore del libro. Va bene qualsiasi manuale, purché in uso presso facoltà di giurisprudenza od anche scuole secondarie superiori (affinché si possa fare affidamento su nozioni attendibili), non eccessiva-mente prolisso ed aggiornato all’anno 2011. Per studiare argomenti di maggior dettaglio o specifici del comparto, sarà poi possibile attingere a scritti monografici, talvolta suggeriti nella presente guida. Ciò premesso, entro questi limiti è possibile offrire al lettore, nel seguito, una succinta panoramica di taluni concetti sistematici.

I rami del diritto

Solitamente si usa distinguere tra diritto “pubblico” e diritto “privato”. La distinzione non si basa su di una definizione univoca e condivisa. Esistono al riguardo diverse concezioni dottrinarie:

la concezione soggettiva, che distingue a seconda del soggetto che agisce mediante atti di supremazia (detti anche autoritativi o unilaterali) oppure attraverso atti privatistici (che può compiere qualunque persona fisica o giuridica);

la concezione che fa riferimento alla diversa posizione dei soggetti destinatari della regolazione normativa: il diritto privato disciplina i rapporti fra soggetti che si trovano in posizioni paritarie, siano essi privati cittadini o enti pubblici; il diritto pubblico disciplina invece i rapporti fra soggetti che si trovano in posizioni non paritarie, in quanto uno dei soggetti del rapporto è in una posizione di supremazia o di autorità sull’altro ed è costretto a subire le decisioni altrui;

la concezione che fa riferimento alle regole giuridiche applicabili, che possono essere pubblici (es. contabilità di Stato) o private (es. contabilità delle società di diritto privato);

la concezione che fa riferimento al fine perseguito, che può essere superindividuale o individuale – la concezione che fa riferimento alla tutela dell’interesse, che può riguardare un interesse generale o collettivo oppure un interesse individuale;

la concezione che fa riferimento alla non derogabilità (pubblico) oppure all’autonomia e derogabilità (privato) delle norme da applicare;

altre teorie, che parlano di “confine mobile” dipendente dalle singole aree in cui i pubblici poteri decidono di intervenire.

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1. Introduzione allo studio dei problemi giuridici 

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Senza accordare preferenza all’una o all’altra tesi teorica, si può dire che oggi è sempre più labile e sfumato il discrimine tra diritto pubblico e diritto privato, come attestano le molteplici regolazioni di fenomeni espressivi di ibridismo pubblico-privato (si pensi al Sistema Nazionale di Istruzione, regolato in buona parte da norme pubblicistiche, ma che comprende in sé le scuole “paritarie”, quali soggetti di diritto privato).

I fatti giuridici

Qualunque accadimento umano idoneo a produrre effetti comunque rilevanti per il diritto costituisce un “fatto giuridico”. I fatti giuridici solitamente, da dottrina e giurisprudenza, sono suddivisi in tre categorie: fatti giuridici in senso stretto, atti giuridici e negozi giuridici.

I fatti giuridici in senso stretto Sono quelli che non derivano (almeno esclusivamente e direttamente) da un

comportamento umano: es. nascita, morte naturale, incendio non provocato. Ad essi la legge riconnette automaticamente alcuni effetti di diritto.

Gli atti giuridici Sono i comportamenti (azioni od omissioni) consapevolmente tenuti da una

persona fisica o da una persona giuridica. Essi producono gli effetti giuridici previsti e voluti dalla persona (secondo legge) e, talvolta, anche effetti ulteriori e diversi stabiliti dalla legge.

I negozi giuridici Sono dichiarazioni di volontà, unilaterali o bilaterali o plurilaterali, con le quali

si tende a produrre determinati effetti giuridici, cioè si mira a regolare (costituire, modificare od estinguere) rapporti giuridici suscettibili di valutazione patrimoniale (es. un testamento, una donazione, un contratto). Se la dichiarazione di volontà è fatta nel rispetto di alcuni requisiti di forma o di sostanza, essa è capace di produrre gli effetti giuridici voluti dalla parte, nonché quelli previsti dalla legge. Anche in questo caso, agli effetti voluti dalle parti si possono sommare ad altri effetti previsti direttamente ed automaticamente dalla legge. L’atto, quindi, è sì espressivo della “autonomia negoziale” spettante alle parti ma, in alcuni casi, è assoggettato anche ad una regolazione integrativa o eteronoma stabilita dalla legge (es. sostituzione automatica di clausole contrattuali contrarie a norme imperative, oppure applicazione giudiziale dei principi di buona fede e correttezza nei contratti di diritto privato).

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Sergio Auriemma 

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Il rapporto giuridico

È tale qualsiasi relazione tra due o più soggetti che si svolge secondo effetti regolati per legge. In generale, tra i due soggetti possono intercorrere vincoli di varia natura (es. affettivi, di mera amicizia, di sola cortesia, di altro interesse). Taluni di questi vincoli possono assumere rilevanza giuridica: ciò accade quando tra i due soggetti nasce una relazione giuridica e sorgono vincoli giuridici obbligatori (cioè vincoli rilevanti per il diritto, cui resta assoggettato il comportamento reciproco dei due soggetti, con obblighi il cui inadempimento può comportare una responsabilità giuridica e può esporre ad eventuale sanzione (es. risarcimento del danno). Per accertare l’esistenza della “giuridicità” del vincolo si rende indispensabile analizzare tutte le caratteristiche “fattuali” della relazione e trovare i cd. “indici di giuridicità”.

Le fonti normative

Per “fonte” si intende l’atto o il fatto che produce (crea) una norma giuridica. L’art. 1 delle già menzionate disposizioni sulla legge in generale (premesse al codice civile) indica che sono fonti del diritto: le leggi, i regolamenti, gli usi (ed, in passato, anche le cd. “norme corporative”, poi abrogate dal R.D. n. 721/1943).

L’elencazione, risalente all’emanazione del codice civile (quindi anteriore alla Costituzione del 1948), è assolutamente incompleta, nonché largamente superata dalla successiva evoluzione dell’Ordinamento giuridico, nazionale e sopranazionale.

Se proprio si desidera adoperare un elenco più attuale ed attendibile (non enunciato però in alcuna fonte) occorre dire che costituiscono fonti normative: le norme dell’Unione Europea direttamente applicabili nell’ordinamento interno, la Costituzione e le leggi costituzionali, le leggi statali e gli atti aventi forza e valore ad esse equiparabili, le leggi regionali e delle Province autonome per gli ambiti di rispettiva competenza, i regolamenti (come indicati dalla legge n. 400/1988), le consuetudini o usi.

Il diritto dell’Unione Europea

Le principali fonti del diritto europeo, oltre alle norme del Trattato che ha istituito prima la Comunità e poi l’Unione (più volte modificato ed integrato, sino a confluire nella versione consolidata del “Trattato sul funzionamento dell’Unione” pubblicata nella Gazzetta Unione Europea 30.03.2010), sono costituite da “regolamenti “ e da “direttive”. I regolamenti sono direttamente applicabili nei confronti degli Stati membri, hanno quali destinatari tutti i cittadini dell’Unione e non hanno bisogno di atti di “trasposizione” nell’ordinamento giuridico interno di ciascun Paese membro dell’Unione. […]

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GLI STUDENTI

Maurizio Muraglia 1. I NUOVI BARBARI

Saper guardare alla condizione giovanile nel nostro tempo è requisito necessario per poter pensare ad un progetto educativo all’altezza delle sfide poste dalla con-temporaneità. I dati messi a disposizione dagli istituti di ricerca che indagano gli universi simbolici e gli stili di vita dei giovani arricchiscono la ricerca educativa e possono aiutare i docenti nel loro delicato lavoro. L’emergenza educativa

Recentemente si è parlato a più riprese di “emergenza educativa” di fronte ad episodi di devianza giovanile enfatizzati dai media. Anche il mondo dell’istruzione è stato seriamente interpellato dai risultati delle indagini internazionali sui livelli di apprendimento dei nostri studenti (OCSE-Pisa ecc.). Tutto ciò ha reso più sensibile l’opinione pubblica verso i temi del disagio giovanile che si manifesta a scuola, e la risposta “repressiva” delle istituzioni, nel nostro Paese, non si è fatta attendere. Il giro di vite, infatti, è cominciato nel 2007, con gli interventi del Ministro Fioroni contro i bulli e contro le facili promozioni. Con l’inasprirsi delle sanzioni disciplina-ri (DD.MM. 16 e 30/2007) e del regime dei debiti (OM 92/2007), che di fatto ha reintrodotto gli esami di riparazione cancellati nel 1994, si è inteso arginare la deriva educativa imperante nelle nostre aule scolastiche. Tutto questo intendeva salutare il ritorno della “serietà” e del “merito”, che sono diventate le parole-chiave del discor-so pubblico sulla scuola, perché sembrano rassicurare le famiglie offrendo loro la sensazione che la scuola si stia riappropriando della propria funzione educativa, quella funzione che avrebbe smarrito in ragione di un malinteso “lassismo pedagogi-co” inaugurato alcuni decenni fa.

È tuttavia importante anche saper porre attenzione alle attuali tendenze della cul-tura giovanile, che è meglio definire come “cultura studentesca”, quando essa inter-cetta l’universo simbolico delle aule scolastiche e degli insegnanti. È vero che l’età evolutiva presenta alcune costanti, ben messe in luce dalla pedagogia del Novecento. I passaggi dalla prima alla seconda infanzia, fino all’adolescenza, sono ben noti e, nelle linee generali, rintracciabili anche nel percorso di una ragazza o di un ragazzo del nostro tempo. È pur vero tuttavia, che il configurarsi di una società altamente segnata dalla comunicazione digitale non può non condizionare il tradizionale sguardo sugli snodi evolutivi della vita dei ragazzi.

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Maurizio Muraglia 

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L’adolescenza, in particolare, si configura come terreno di attenzione privilegiato, ma i bisogni che essa esprime trovano sempre più impreparato il mondo degli adulti, spesso legato non solo ad un’idea tradizionale di autorità, ma anche ad una concezione dell’apprendimento obsoleta, riconducibile al modello trasmissivo dell’insegnamento, puramente verbalistico, frontale, avulso dall’esperienza degli studenti. Non vi è, tra gli studiosi, chi non riconosca il bisogno di protagonismo che attraversa i nostri giova-ni, frutto di dinamiche psicologiche, antropologiche, sociali di varia natura, che il mondo dell’istruzione non può ignorare.

Approfondimenti  La situazione giovanile 

Il punto di partenza  indispensabile per  l’approfondimento delle problematiche  legate alla condizione  giovanile  è  rappresentato  dalle  ricerche  condotte  sul  campo.  Il  volume  dal  titolo Rapporto Giovani – Sesta indagine dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia (a cura di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio de Lillo, Il Mulino, 2007) consente di farsi un’idea delle tendenze  in atto a proposito del rapporto tra  i giovani e  la scuola. Alessandro Cavalli ne dà un resoconto puntuale in un suo intervento su “Rivista dell’istruzione” 6/2009, all’interno di un inte‐ressante dossier che il periodico ha recentemente dedicato proprio alla condizione giovanile.  

Anche l’associazione Treelle (www.treelle.org) ha realizzato di recente un’inchiesta cam‐pionaria volta a rilevare le percezioni soggettive e le rappresentazioni coltivate dalla catego‐ria dei giovani adulti (19‐25 anni).  

Infine è utile consultare le risultanze dell’indagine compiuta dall’istituto di ricerca Alma‐diploma (www.almadiploma.it/) sulle scelte compiute dai diplomati dopo un certo periodo di conseguimento del diploma e sulla percezione che essi hanno maturato della loro esperienza scolastica a distanza di tempo.  

Tutte queste indagini sembrano convenire su una percezione di sostanziale fiducia che i giovani nutrirebbero ancora verso  l’istituzione scolastica e gli  insegnanti. Vale a dire che, a fronte del discredito abbastanza diffuso  che  la  scuola  sembra  riscuotere presso  l’opinione pubblica, resta ancora  in piedi un certo capitale di credibilità di cui  il sistema può disporre, per quanto, ad un’analisi più approfondita, sia possibile individuare alcune crepe importanti, due  in particolare. La prima ha a che fare col gap  intergenerazionale tra studenti ed adulti, che rende sempre meno facili le relazioni tra i due mondi. A ciò contribuisce in forte misura la  differenza  di  approccio  alle  tecnologie  della  comunicazione  digitale.  Inoltre,  sul  piano strettamente scolastico, presenta aspetti di sempre maggiore criticità la dimensione valuta‐tiva del rapporto tra studenti e insegnanti. I criteri di valutazione dei docenti appaiono sem‐pre più discutibili e ciò ha indubbie ricadute sulla qualità della relazione educativa. 

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LA SCUOLA COME COMUNITÀ PROFESSIONALE

Armando Luisi

5. LE STRATEGIE DI EMPOWERMENT1

Empowerment è un concetto che necessita di definizioni, con ricorso ad etichette linguistiche italiane di uso frequente. Non è solo potenziamento, non è solo arric-chimento, non è solo sviluppo: è un po’ tutte e tre le cose ed altro ancora. Per svilup-pare il nostro ragionamento sulle strategie di empowerment, partiamo da due defini-zioni, la prima raccolta in ambito terapeutico, la seconda in ambito manageriale.

Definizioni

“L’empowerment è una complessa strategia d’intervento (…) che serve ad in-crementare nel soggetto la consapevolezza di proprie risorse per risolvere problemi e la capacità di potere scegliere in termini operativi, in considerazione di un forte sentimento di autoefficacia e autoaffermazione”2.

“L’empowerment è uno strumento per coinvolgere i collaboratori, facendone veri e propri partner. Un suo aspetto strutturale è conferire ai lavoratori il potere e la responsabilità di prendere decisioni importanti. La sua essenza è liberare il patrimonio di conoscenze, di esperienze e di motivazione che è già presente nei lavoratori ma che è fortemente sottoutilizzato (nelle organizzazioni gerarchiche la capacità delle risorse umane è usata in misura molto parziale, circa il 25-30% del totale)”3.

Le due definizioni hanno in comune alcuni concetti importanti: il soggetto (lavoratore o soggetto in terapia) possiede le risorse sulle quali si in-

tende far leva (o che si ritiene di incrementare), ma non le utilizza al meglio; lo sviluppo del sentimento (o della convinzione) di autoefficacia; lo sviluppo della capacità di scegliere (di prendere decisioni).

Considerati gli aspetti comuni alle due definizioni, possiamo definire l’empowerment come l’aumento del senso di efficacia nello svolgimento di un compito. Per essere più efficaci occorrono nuove conoscenze (informazioni), possibilità di farne uso (esercizio), capacità riflessiva (autovalutazione), senso di comunità professionale

                                                                 1 Le prime parti di questo contributo riportano (in maniera aggiornata ed integrata) il contributo

dell’Autore in Stili di leadership – Gestire le risorse umane, Management per le scuole dell’autonomia, Università degli Studi di Macerata, Tecnodid Formazione, 2011.

2 F. Nanetti, Le sembianze del potere. Empowerment e autostima, Quattroventi, Urbino (PU), Bolo-gna, 2002.

3 K. Blanchard, J. P. Carlos, A. Randolph, Le tre chiavi dell’empowerment, Franco Angeli, Milano, 2000

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Armando Luisi 

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(confronto con gli altri), capacità di lavoro di gruppo (integrazione delle risorse), creatività e flessibilità.

Empowerment è sviluppo di potere e di responsabilità nel prendere le decisioni importanti, anche quelle connesse all’agire quotidiano.

Anche nelle migliori situazioni, ciò che nelle nostre scuole ha funzionato fino ad ora potrebbe non reggere alle sfide del domani, alle innovazioni strutturali in atto o alle istanze di cambiamento che da più parti si riversano su di essa. I successi di ieri possono diventare l’ostacolo più evidente al cambiamento, le routine consolidate po-trebbero non far vedere altra strada che quella da sempre praticata. L’abitudine ad agire su disposizioni di servizio potrebbe costituire l’ostacolo maggiore allo svilup-po di un agire consapevole e autonomo.

Fattori di successo Creatività, flessibilità e disponibilità al cambiamento sono importanti fattori di

successo perché aiutano a esplorare in continuazione le variazioni che si presentano nelle interazioni e nei processi da noi utilizzati per ottenere i risultati desiderati. Ci permettono di evitare di cadere nelle trappole del successo riscosso in passato perché ci aiutano a capire le caratteristiche del presente (i nostri cambiamenti e quelli del contesto nel quale operiamo).

La flessibilità deve essere proporzionale alla potenziale variazione o all’incertezza del ruolo del sistema. Nei momenti di grande incertezza e di grandi cambiamenti si richiede un elevato livello di flessibilità; chi ne è maggiormente dotato può con maggiore probabilità diventare elemento catalizzatore del sistema. La flessibilità si coniuga con il principio della varietà necessaria, secondo il quale, dato un obiettivo, diventa più probabile il suo raggiungimento se si dispone di più alternative e se si fa affidamento a una varietà di risorse per perseguirlo. Occorrono determinazione e fer-mezza sugli obiettivi, flessibilità e creatività sui modi per raggiungerli. Chi ha respon-sabilità manageriali (nel nostro caso, il dirigente scolastico) fornirà personalmente esempi di comportamento congruenti con gli obiettivi dichiarati. Per primo, il dirigente mostrerà di credere autenticamente nel potenziale di crescita dei lavoratori della sua scuola e si sforzerà di dare loro modo di assumere il controllo del loro destino anche in ambito lavorativo. Perché questo accada occorre che egli promuova un clima di fiducia e di collaborazione all’interno del quale le persone sentano di poter dare il meglio di sé, agendo con senso di responsabilità, in un contesto di libertà.

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LA COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE

Roberto Baldascino

11. COMUNICARE L’IDENTITÀ DELLA SCUOLA

Comunicare imparando dalle aziende

Le aziende dei settori di punta hanno compreso da tempo che la supremazia nei mercati si acquisisce, solo ed esclusivamente, grazie a continue innovazioni e attra-verso una propria ed unica visibilità identitaria che li distingua dalle altre. Essenziale diventano allora la cura nella confezione dei messaggi attraverso i quali si vuole vei-colare l’immagine di sé ed anche l’attenzione alle preferenze, sensibilità, propensio-ni dei destinatari.

Essere primi per un’organizzazione significa esercitare la capacità di trasmettere fiducia all’utenza o alla clientela. Per le aziende – e non solo – il capitale umano e gli altri valori, definiti come intagible assets (risorse intangibili), sono gli elementi portanti che permettono di definire con precisione e trasmettere, se ben guidati e or-ganizzati, una precisa identità. Con quest’ultima le risorse intangibili hanno un dop-pio rapporto: da una parte ne sono le componenti, e dall’altra i propulsori. Pur non essendo direttamente valori economici, ne costituisco la base per ottenerli; fra tutti primeggia la capacità di gestire la conoscenza presente, sia quella personale – il più delle volte tacita appartenente all’expertise dei singoli lavoratori – sia quella più esplicita e strutturata, classificabile all’interno di particolari repertori, repository o pagine gialle aziendali. L’una e l’altra sono parti integranti e manifeste del patrimo-nio gnoseologico e quindi ne costituiscono il DNA esclusivo che determina quella particolare identità. Si tratta di attivare, all’interno dell’organizzazione, alcuni pro-cessi trasparenti di condivisione e disseminazione tra i partecipanti del sapere cattu-rato e messo in circuitazione, in diversi modi e con diverse tecnologie. Le identità della scuola

Per gli studiosi l’identità di una scuola può essere desunta dall’ ingente mole di do-cumentazione che ogni hanno produce. Non a caso tale documentazione è stata ogget-to preferenziale d’osservazione nel corso dei diversi monitoraggi dell’autonomia sco-lastica, attivati nell’ultimo decennio per determinare “il carattere” dell’istituto, la sua storia, la sua potenzialità e il suo futuro.

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Roberto Baldascino 

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Il patrimonio identitario della scuola è di tipo documentale, formalizzato e inter-relato; esemplificando si potrebbe suddividere il suo contenuto in cinque grandi classificazioni:

1. la programmazione strategica, in cui è presente il POF che rappresenta il nu-cleo fondante della scuola, dal quale emergono la flessibilità organizzativo-didattica, il curriculum di istituto, le attività e i progetti didattici per l’ampiamento dell’offerta formativa. All’interno si trova il programma annuale, comprensivo delle diverse schede illustrative e finanziarie;

2. la programmazione dell’attività didattica e organizzativa, in cui si distinguo-no le attività istituzionali, quelle funzionali all’insegnamento e gli incontri collegiali;

3. la programmazione organizzativa dei servizi, in cui sono presenti la carta dei servizi, il documento programmatico per la sicurezza (DPS) per la tutela ed il trat-tamento dei dati personali e sensibili, il documento sulla valutazione dei rischi (DVR) ai sensi del dlgs 81/2008 per valutare i possibili nell’ambiente di lavoro;

4. Le regolamentazioni, in cui si possono distinguere: il patto di corresponsabi-lità, il regolamento di istituto, i regolamenti per i laboratori e il regolamento uso In-ternet – PUA (politica uso accettabile della rete);

5. le negoziazioni con particolare riferimento alla contrattazione integrativa di istituto e la relativa distribuzione del fondo istituzioni scolastiche.

L’identità desumibile dai documenti – primo tra tutti il POF, definito appunto carta di identità della scuola – è una realtà multidimensionale, perché costituita da un pensato, un dichiarato ed un agito che vengono descritti – all’interno delle “carte” – in modo formale, quando non addirittura burocratico. Alla lettura dell’utente o del-lo studioso la descrizione documentale non può, dunque, che risultare polisemica e per questo richiede sforzo ermeneutico ed esercizio della responsabilità personale.

Mettendo in relazione le diverse documentazioni si può comprendere ciò che la scuola è, compie, o è intenzionata a svolgere, e quali sono le risorse umane e mate-riali in grado di supportare e portare avanti gli intenti didattico-organizzativi descrit-ti. Tale comparazione, a causa del numero, della dispersione e della diversità nei flussi documentali, che interagiscono tra di loro direttamente o indirettamente, ren-dono difficile e complessa la ricostruzione sintetica e immediata di una visione uni-taria. Nella realtà l’unico che ha effettivamente un tale sguardo di insieme sistemico è il Dirigente Scolastico, che, in effetti, rappresenta, sia normativamente, sia prati-camente, l’unitarietà della istituzione che dirige, condividendo la propria “vision” con tutto il personale e che si esprime con le azioni intraprese e con il complesso or-ganizzativo attivato.

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PROFILI DELLA DIRIGENZA

Antonia Carlini

4. LA DIRIGENZA SCOLASTICA TRA MANAGERIALITÀ E LEADERSHIP Una dirigenza a più dimensioni

Possiamo immaginare la dirigenza scolastica come un sistema complesso, con più dimensioni interdipendenti tra loro e fortemente interrelate, per cui l’azione su una comporta immediatamente effetti e interazioni sulle altre. Possiamo individuare almeno quattro dimensioni fondamentali: la dimensione educativa, la dimensione organizzativa, la dimensione relazionale e la dimensione amministrativa.

La dimensione educativa

Si alimenta delle conoscenze nell’area socio-psico-pedagogica e della ricerca educativa e didattica ed è sostenuta dalle competenze acquisite nel ruolo docente di provenienza. Esse sono necessarie per l’attività di promozione, di coordinamento e di guida dei processi che caratterizzano la comunità scolastica: progettazione di iti-nerari formativi rispondenti ai bisogni individuali ed alle istanze particolari; pro-grammazione di percorsi di ricerca e di sperimentazione di modelli didattici ed or-ganizzativi innovativi e flessibili e di esperienze sviluppo professionale; monitorag-gio e valutazione di processi ed esiti, pianificazione di azioni miglioramento dei ri-sultati raggiunti e ampliamento dell’offerta formativa.

Essa trova i suoi valori fondanti nei principi costituzionali della libertà di inse-gnamento (art.33), del diritto allo studio (art.34), poi successo formativo con il dpr n. 275/1999, e del diritto delle famiglie ad istruire ed educare i figli (art.30), poi li-bertà di scelta educativa delle famiglie, principio fondante dell’autonomia didattica (art. 21, comma 9 legge n.59/1997) principi di cui il dirigente si fa garante ed ai qua-li finalizza l’attività di gestione. Infatti, l’esercizio delle competenze assegnate dalla norma e declinate nel comma 2 dell’art.25 del dlgs165 (“gestione delle risorse fi-nanziarie e strumentali”, “autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valo-rizzazione delle risorse umane” “organizzazione dell’attività scolastica secondo cri-teri di efficienza ed efficacia formative”) è finalizzato alla “promozione di interventi per assicurare la qualità dei processi formativi (…) per l’esercizio della libertà di insegnamento, intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica, per l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l’attuazione del diritto all’apprendimento da parte degli alunni”.

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Antonia Carlini 

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La norma stessa, dunque, nella definizione della funzione dirigenziale della ge-stione ricorre ad una caratterizzazione educativa molto forte, che “contamina” gli stessi criteri organizzativi di efficacia ed efficienza “formative”, appunto, e li relati-vizza al contesto scolastico ed alle sue finalità.

Fonti di documenti  Quale dirigenza per la scuola dell’autonomia? – Quaderno n. 7, dicembre 2007, Associazione Treellle 3. L’importanza della dirigenza (leadership) per la qualità della scuola 

Una  buona  dirigenza  può  e  deve  aumentare  l’efficacia  e  l’efficienza  della  scuola. L’efficacia di una scuola si misura principalmente: 

a.  sul  livello  di  conoscenze  e  competenze  raggiunte  dagli  studenti,  più  precisamente  sul “valore aggiunto” che  la scuola riesce a sviluppare nei giovani rispetto ai momenti di avvio del percorso scolastico;  

b.  sul livello di curiosità e di aspirazioni a migliorare che i giovani acquisiscono; c.  sul  livello  di  capacità  che  i  giovani  acquisiscono  per  gestire  autonomamente metodi  e 

strumenti che consentano loro di continuare a imparare lungo il corso della vita.  L’efficienza  di  una  scuola  si misura  invece  attraverso  la miglior  combinazione  di  tutte  le 

risorse  e  dei  vari  fattori  che  possono  entrare  in  gioco  per  garantire  un  certo  risultato.  In particolare, il migliore uso delle risorse finanziarie, delle risorse umane e di quelle strumentali (edilizia,  ICT, etc.). Una  tensione all’efficienza può consentire di “fare meglio con meno”, con rilevanti benefici per una più corretta ed equa allocazione delle risorse pubbliche disponibili. 

Vent’anni di ricerche, soprattutto di paesi anglofoni, affermano che due sono i fattori decisivi per  le performance della scuola: a)  la qualità degli  insegnanti, b)  la qualità della dirigenza. Le ricerche internazionali sottolineano infatti che la qualità professionale del capo di istituto e del suo gruppo dirigente può avere un’influenza sostanziale sul livello qualitativo della scuola. 

Va peraltro sottolineato che l’influenza del dirigente si esercita soprattutto indirettamente. Infatti  il  dirigente  può  agire  sulla  composizione  del  gruppo  dirigente,  sullo  sviluppo professionale degli  insegnanti, sul  loro coordinamento;  inoltre può assicurare nella scuola un clima favorevole alla serenità di studenti e famiglie e allo spirito collaborativo tra gli insegnanti. Ma può anche influenzare l’attività individuale degli insegnanti se ha la possibilità di sceglierli, motivarli, aiutarli a formarsi e auto valutarsi e a migliorare individualmente e collettivamente, soprattutto  se  riesce  a  infondere  una  comune  visione  per  raggiungere  obiettivi  ambiziosi mantenendo così un alto livello di aspirazioni che funga da stimolo per tutti.  

C’è  una  seconda  ragione,  altrettanto  importante,  per  investire  sulla  professionalità  dei dirigenti  e  valorizzarla:  attiene  alla  importante  funzione  che  i  dirigenti  possono  svolgere  per implementare  le politiche di riforma decise dal Ministero e dal Parlamento. Tutti sappiamo per esperienza  quanto  sia  difficile  che  riforme  di  vario  genere  ottengano  in  tempi  ragionevoli cambiamenti nelle pratiche effettive degli operatori della  scuola.  La natura,  la dimensione e  il ritmo del cambiamento a livello scolastico sono molto condizionati da resistenze di vario tipo che sfuggono alla previsione e al controllo dei decisori politici. […] 

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