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1 LE VERIFICHE PRELIMINARI NEL RITO ORDINARIO 1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005 -2. Il rapporto col rito societario -3.Le verifiche ex art. 183 c.p.c.: alcuni profili preliminari -4. La notificazione, la mancata costituzione e la contumacia -5. Le verifiche degli atti introduttivi - 6. L'estensione del contraddittorio necessaria e facoltativa 1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005 Sono trascorsi quasi due anni da quando si svolsero le prime riflessioni sul "nuovo " rito, progressivamente delineatosi nel 2005, e all'epoca chiamato, con un po' di folclore, "rito competitivo" dal nome del primo strumento legislativo che lo aveva ospitato. Nel sintetizzarne i tratti salienti, si può quindi tracciare, ora, anche un primo bilancio sull’esito nella pratica, e non solo un raffronto con il rito previgente: il che può essere utile introduzione, per una comprensione contestuale, all'analisi posta come oggetto specifico di questa relazione. La caratteristica dell'attuale "nuovo rito" può qualificarsi come continuità acceleratoria rispetto al modello degli anni '90. Se quest'ultimo aveva realizzato un sistema davvero contrapposto a quello precedentemente vigente e giurisprudenzialmente vivente all'epoca - fondandosi sulla tipizzazione delle
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LE VERIFICHE PRELIMINARI NEL RITO ORDINARIO

1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005 -2. Il

rapporto col rito societario -3.Le verifiche ex art. 183 c.p.c.:

alcuni profili preliminari -4. La notificazione, la mancata

costituzione e la contumacia -5. Le verifiche degli atti

introduttivi - 6. L'estensione del contraddittorio necessaria e

facoltativa

1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005

Sono trascorsi quasi due anni da quando si svolsero le prime riflessioni sul

"nuovo " rito, progressivamente delineatosi nel 2005, e all'epoca chiamato, con

un po' di folclore, "rito competitivo" dal nome del primo strumento legislativo che

lo aveva ospitato. Nel sintetizzarne i tratti salienti, si può quindi tracciare, ora,

anche un primo bilancio sull’esito nella pratica, e non solo un raffronto con il rito

previgente: il che può essere utile introduzione, per una comprensione

contestuale, all'analisi posta come oggetto specifico di questa relazione.

La caratteristica dell'attuale "nuovo rito" può qualificarsi come continuità

acceleratoria rispetto al modello degli anni '90. Se quest'ultimo aveva realizzato

un sistema davvero contrapposto a quello precedentemente vigente e

giurisprudenzialmente vivente all'epoca - fondandosi sulla tipizzazione delle

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udienze e sul recupero delle preclusioni, sottratte al potere dispositivo delle parti

cui appunto la giurisprudenza, forse ancora più che la legge, le aveva

consegnate -, non altrettanto può dirsi per il rito del 2005, che prende, per così

dire, il modulo del 1995 e lo contrae, lo addensa, lo sintetizza. Una sorta di

precipitazione chimica diretta non a cambiare il modulo (non vi è infatti

correlazione alcuna al di poco antecedente modulo “opposto”, il rito societario,

che rimane espressamente indicato come via alternativa proprio dall'articolo 70

ter disp. att. c.p.c. ), non volutamente almeno, né all'altro principale modello di

cognizione piena, il rito del lavoro (il quale viene poi esteso, con la legge 102 del

2006, invece,a un nuovo settore specifico); da un lato, infatti, le preclusioni

rimangono le fondamenta della costruzione processuale, dall'altro non vi è

introduzione di poteri ufficiosi (come invece comporta il rito del lavoro), né

peraltro il giudicante viene estromesso dalla fase di determinazione della

regiudicanda (come invece propone il rito societario, che correlativamente

coinvolge il potere dispositivo delle parti nella formazione delle preclusioni).

Più che un nuovo rito ordinario, in effetti, la riforma del 2005 è un restyling con

palese scopo acceleratorio; oggettivamente nell'ottica del canone, nelle more

affermatosi come principio costituzionale, della ragionevole durata del processo.

Eliminare ciò che è superfluo, e in generale i cosiddetti tempi morti, è

palesemente l'obiettivo del legislatore nella ricerca dell'Eldorado processuale,

l'unità anziché la formazione progressiva ( unità aristotelica di tempo, di luogo e

di azione: tradotta nel rito già dal modello processuale del lavoro e

potenzialmente realizzata ora nell’ordinario, in caso di non necessità di

istruttoria tramite prove costituende ).(1)

Si giunge così a un modello, peraltro, che nella pratica può traviarsi in una

eterogenesi dei fini, stornando la tipizzazione delle udienze in un unicum

anteriore all’istruttoria che, a parte il profilo delle preclusioni, riecheggia il vero

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"vecchio rito ", quello anteriore alla riforma degli anni 90.(2)

Lo scopo di contrazione comporta anzitutto l'assorbimento, in quella che si

potrebbe definire la polimorfa prima udienza, dell'udienza di verifica

(nell'interesse delle parti) e di smistamento (nell'interesse organizzativo

dell'ufficio) che era delineata dal previgente articolo 180 c.p.c., eliminando

questa sorta di anticamera del tempio della giustizia. In effetti, se si dovesse

fare un paragone architettonico, si potrebbe dire che mentre il modello 1995

strutturava il processo come un appartamento tradizionale, a camere distinte, il

rito del 2005 ne fa un loft. Almeno come intenzione: l'articolo 183 c.p.c.

consente, peraltro, e lo dimostra proprio con quella sua parte che sostituisce il

vecchio 180, una replica anche plurima dello stesso "locale ", ma ciò nel caso in

cui si verifichino due tipi di fattispecie: patologica ( in esito delle verifiche ex

art.183, comma 1, c.p.c. ) e fisiologica ( introduzione di rapporti accessori ).

Tutto ciò, tuttavia, è eventuale: non si può negare che l'eliminazione

dell'udienza/anticamera - introdotta, si ricordi, a modifica della legge 353 del

1990, su imperioso impulso dell'avvocatura italiana con la legge 1995 n. 238 -,

ha virtuosi effetti di accelerazione, tra l'altro risolvendo alla radice ogni dubbio

derivabile dall' obbligo di assegnazione di termine per le eccezioni in senso

stretto prima di avviare la trattazione nonchè dal rapporto dell'articolo 80 bis att.

c.p.c. con il successivamente introdotto obbligo del tentativo di conciliazione(3)

e consentendo quindi, quando ve ne sono i presupposti ( di fatto anche sotto il

profilo organizzativo del ruolo del giudice ), la già richiamata "unità aristotelica",

vale a dire l'immediato trattenimento in decisione all’esito della prima e unica

udienza.

Se infatti caratteristica del rito è la contrazione del modulo, ovvero la sua

semplificazione nel senso matematico del termine, tre sono, nella fase iniziale,

le "semplificazioni": l'eliminazione dell'udienza ex art.180 assorbendola nella

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prima parte dell'udienza di trattazione,è la minore proprio perchè si tratta solo di

un "travaso"; più incisive, perchè soppressioni tout court, sono la eliminazione

della concessione al convenuto di un termi ne per le eccezioni in senso stretto

posteriore alla scadenza di quello per la costituzione, e l'eliminazione del

tentativo di conciliazione obbligatorio. Nella fase successiva, le altre

semplificazioni sono quelle afferenti ai termini per memorie e all'udienza per le

decisioni istruttorie, di cui non si tratta in questa sede.

Deve darsi atto che il termine per le eccezioni, pur conquistato come si è visto

con notevole clamore, nella pratica è quasi sprofondato nel silenzio perchè

utilizzato assai di rado. Relativamente più "sentito" era il passaggio conciliativo

obbligatorio - che poi obbligatorio non era, non avendo il giudice civile alcun

potere coercitivo al riguardo e perdendosi poi il più delle volte nell' insieme degli

esiti istruttori l'argomento di prova della mancata comparizione - (4) la cui

eliminazione è stata considerata uno dei tratti innovatori più spiccati del rito del

2005 ed è riconducibile anche alla diminuzione del tasso di oralità -mantenuta

come canone programmatico del processo proprio dal nuovo articolo 180

c.p.c.(5) La scelta del legislatore, quindi, ha destato anche vive critiche. A ben

guardare, però, nell'ottica dell'accelerazione, è stata in qualche modo

ineludibile: tali critiche non tengono infatti conto che la pratica aveva già

profondamente eroso l'istituto del tentativo obbligatorio e che comunque

l'obbligatorietà (più formale che sostanziale viste le tenui conseguenze ex

art.183,comma 1, previgente) si risolveva nell'assoggettamento - censurabile sul

piano della ragionevolezza - allo stesso regime di situazioni completamente

diverse con eventuali ricadute negative proprio sul piano della celerità(6)

Ma pure di questo profilo, perché oggettivamente contiguo alla trattazione, non

si tratterà in questa sede. Ci si limita a rilevare che, essendo divenuto il

passaggio conciliativo oggetto di valutazione di opportunità caso per caso,

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occorre (e questo non ne è l'unico motivo nella riforma) un maggior impegno

del giudice di preparazione e cognizione della causa fin dall'inizio per compiere

tale prognosi di proficuo investimento di tempo processuale. Invero l'incombente

conciliativo, sia a scopo deflattivo sia per evitare alle parti costi sproporzionati in

rapporto all'oggetto della controversia, non può certo essere messo da parte,

ma anzi va incentivato dal giudice, anche perché, come subito è apparso alle

prime letture e la pratica ha confermato, è raro che in un simile stadio iniziale

venga dalle parti un'iniziativa congiunta in tal senso.

Quanto invece alla soppressione del termine per eccezioni in senso stretto che

era obbligatorio assegnare all'esito dell'udienza ex articolo 180 c.p.c., ciò

ovviamente incide sul contenuto della comparsa di risposta. Quindi conduce in

medias res dell'oggetto di questa relazione. Prima di addentrarvisi, però, appare

opportuno sgombrare il campo da un'altra norma che fu considerata novità di

spicco della riforma, e che, invece, in questo attuale bilancio, risulta avere un

peso molto inferiore: l'art. 70 ter disp. att. c.p.c., che avrebbe dovuto costituire il

cavallo di Troia per un nuovo rito ordinario alternativo alla tradizione: il rito

societario.

2. Il rapporto col rito societario

L'art.1 d.lgs.2003 n.5 com'è noto regola i rapporti tra il rito societario e ogni altro

rito, stabilendo, al quinto comma, che se una causa assoggettata al rito

societario è stata proposta secondo rito diverso, il giudice lo "rileva" - quindi la

questione va sollevata anche d'ufficio, senza che rientri nel potere dispositivo

delle parti scegliere un altro rito - e dispone con ordinanza il mutamento del rito

e la cancellazione della causa dal ruolo. Si tratta di una verifica da effettuare

logicamente in limine litis, quindi unitamente a quelle ex art. 183, comma

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1,c.p.c., ma non scatta al riguardo alcuna decadenza (come infatti è usuale per i

mutamenti di rito: cfr. p. es. artt.426 e 427 c.p.c.), per cui può rilevarsi l'erroneità

del rito anche oltre l'udienza di prima comparizione, come prevede

espressamente la norma in esame.

A questa norma di confine obbligato la riforma del 2005 ha aggiunto una norma

di confine elettivo in senso opposto: le parti non possono uscire dal rito

societario per entrare nell'ordinario - in nessun modo, neanche tattico: a esso

sono attratte tutte le cause connesse (con prevalenza superiore anche a quella

del rito del lavoro, come si evince dal raffronto tra il primo comma dell'art.1

d.lgs.2003 n..5, che include pure l'art.33 c.p.c., e l'art.40, comma 3, c.p.c.) - ma

possono lasciare l'ordinario per entrare nel societario; questo però deve essere

deciso in limine litis (a parte i problemi,di cui si dirà infra, sulla sopravvenienza

di parti), come dispone l'art. 70 disp.att. c.p.c.

E in effetti, qualora fosse applicato - ma finora è stato “fuggito” dalla pratica -

una particolare verifica spettante al giudice nella prima udienza e, pare, tale da

assorbire ogni altra sarebbe quella relativa al negozio processuale introdotto

dall'articolo 70 ter att, c.p.c. Questa novità apparentemente rilevante della

riforma del 2005 ha provocato da un lato interesse nei teorici, dall'altro allarme

nei pratici. La pratica, ormai si può constatarlo, ha dimostrato di essere per così

dire allergica al modulo societario, che d'altronde si è sovente concretato nella

complicazione e nella dilatazione delle dimensioni dei fascicoli, in stenta

compatibilità con il principio della ragionevole durata del processo. Proprio per

questo la norma è rimasta affidata alla ermeneutica teorica, perché non la si

riscontra, in sostanza, nella quotidianità giudiziaria .(7) Per questo non si

scenderà più di tanto nell'analisi della fattispecie di tramutamento, ai sensi di

detta norma, del rito ordinario in rito societario, limitandosi a rilevare anzitutto

che il mutamento del rito non comporta anche il mutamento dell'organo

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giudicante ( da monocratico a collegiale ) vista la specifica determinazione che

l'articolo 1, comma terzo, d. lgs. 5 del 2003 opera delle materie soggette al rito

societario nella sua versione collegiale. Adottando una diversa interpretazione,

del resto, sarebbe chiaro il conflitto con il principio del giudice naturale. In

secondo luogo, si osserva che se successivamente all'elezione del rito

societario entrano nel processo ulteriori soggetti ( coattivamente come chiamati

in causa e litisconsorti necessari, ma anche volontariamente come gli

intervenienti ), ciò, nonostante quanto appare agevolmente prospettabile ed è

stato invero sostenuto da considerevole dottrina,(8) non significa che questi

debbano a loro volta dare il consenso, cioè, oltre che entrare nel processo,

inserirsi in quella sorta di "negozio processuale" che le parti originarie avrebbero

compiuto optando per il rito societario. Vale a dire, che abbiano il potere di fare

regredire il processo, eventualmente, al rito ordinario. Ciò è stato argomentato

in base a una pretesa lesione, altrimenti, del diritto di difesa delle parti "ulteriori".

Non si vede, però, come l'imposizione di un rito possa costituire lesione del

diritto di difesa, trattandosi di uno strumento processuale regolato dalla legge

che, in quanto tale, deve essere coerente e compatibile con i principi

costituzionali, incluso quello del diritto di difesa. In altre parole, un rito non può

mai significare compressione del diritto di difesa,(9) perché è un modello

legislativo, e non una regolamentazione di privati.(10)

Già nell'ordinamento si riscontrano, poi, altre ipotesi di "imposizione" di rito alla

controparte:(11) si pensi, seppur in misura minore, al modello monitorio, e più

recentemente, dopo la riforma del rito cautelare, al modello sommario

tendenzialmente autonomo. Al contrario, qualora le parti "ulteriori" disponessero

del potere di sciogliere l'accordo (12) posto alla sorgente del processo in cui

entrano, ciò potrebbe avere anche effetti defatigatori, in conflitto con il principio

generale della ragionevole durata.

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Nell'ipotesi, comunque, che le parti addivengano a un accordo ex articolo 70 ter,

l'udienza fissata secondo il rito ordinario dovrà tenersi perché, come è stato

rilevato in dottrina, sarà la sede per verificare l'esistenza di un valido accordo : e

all'esito di tale verifica, se il risultato è positivo, il giudice disporrà con ordinanza

il mutamento del rito, cancellando la causa dal proprio ruolo (ma ovviamente

resta nel ruolo generale), null'altro incombente, neppure il tentativo di

conciliazione, potendo avere luogo nell'udienza(13)

3.Le verifiche ex art. 183 c.p.c.: alcuni profili preliminari

Le verifiche preliminari che il giudice deve compiere all'avvio dell'udienza

polimorfa dettata dal nuovo art. 183 c.p.c. si innestano su una tradizione di varia

e minuta casistica, nella quale talora il tecnicismo degli interpreti ha raggiunto

livelli contigui al formalismo. Appare perciò opportuno, prima di scendere a un

esame specifico, ricordare i corretti criteri interpretativi cui la tradizionale ottica

deve e dovrà sempre più adeguarsi, anche perchè la riforma del 2005 è la prima

rilevante modifica del rito ordinario posteriore al novellato art.111 Cost.

La stella polare dell'interpretazione della procedura va infatti ident ificata nel

canone costituzionale della ragionevole durata del processo tenendo ben

presente che nel dettato costituzionale processo deve leggersi "giusto

processo", cioè contraddittorio. Senza il rispetto del diritto di difesa potrà

verificarsi tutt'al più un procedimento, ma non un processo. Il rispetto del diritto

di difesa è dato anche dalla ragionevole durata dello strumento processuale

attraverso il quale si esercita, avendo "il legislatore il dovere di garantire e le

parti processuali il diritto di esigere ( legge n. 89 del 2001 ) che la durata del

processo sia ragionevole e pertanto non sia di per sé lesiva del diritto di agire in

giudizio ".(14) ; così come, simmetricamente e inscindibilmente, la celerità del

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processo trova la sua unità di misura e i suoi limiti nel rispetto del diritto di

difesa.

La riforma dell'articolo 111 della Costituzione spinge allora a rimeditare sul

formalismo che connota tradizionali interpretazioni dei vizi di rito. In un

crescendo di attenzione, ciò è stato evidenziato dalla Suprema Corte, che ha

indicato come strumento di celerità la semplificazione degli aspetti procedurali.

In particolare, nel principio della ragionevole durata è stata ravvisata "una

riduzione all'essenziale delle ipotesi di nullità per "vizi formali "... in contrasto

con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare

interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia in un tempo

ragionevole ".(15)

Il principio della ragionevole durata del processo, anzi, deve ormai prevalere

sugli altri principi processuali costituzionali. Come hanno chiaramente affermato,

da ultimo, le Sezioni Unite nella sentenza n.4636 del 28 febbraio 2007, esso

infatti è di portata tale da surclassare anche i profili astrattamente logici

dell'interpretazione perchè impone per le norme processuali soluzioni

interpretative da vagliare non solo sul piano della coerenza logico-concettuale,

ma anche e soprattutto per l'incidenza operativa sul perseguimento di tale

obiettivo costituzionale.

Va altresì ricordato che l'articolo 180 c.p.c. previgente, al primo comma,

indicava come oggetto della verifica da compiersi nell'udienza per la prima

comparizione " la regolarità del contraddittorio ", elencando come norme da

applicare gli articoli 102, comma 2, 164, 167, 182 e 291, comma 1, c.p.c. Il

nuovo articolo 183, comma 1, c.p.c. riproduce praticamente il dettato della

norma previgente, a parte alcune differenze, delle quali una sola significativa,

sulle quali ci si soffermerà più oltre. È invece il caso di sottolineare fin d’ora che

l'elenco dell'articolo 183, comma 1, così come l'elenco del previgente articolo

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180, comma 1, non è assolutamente tassativo, esistendo ulteriori incombenti

che il giudice deve esperire in limine litis. (16)

Di questi ulteriori incombenti, sono già stati esaminati quelli relativi al rapporto

con il rito societario, in ordine ai quali, tuttavia, a ben guardare, non vi è alcuna

barriera preclusiva, ma che è logico siano svolti in tale sede. In particolare,

l'articolo 70 ter att. c.p.c. dovrebbe, come si è visto, assorbirne ogni altro. Ma

l'incombente che appare precedere ogni altra attività giurisdizionale in effetti

consiste nella identificazione del giudice, non come ufficio - e quindi non sotto il

profilo della competenza - bensì in relazione al rispetto, nel provvedimento di

assegnazione, di quella " porzione " del principio del giudice naturale che regola

l' identificazione del giudice nell'ambito dello stesso ufficio.

Al riguardo, va anzitutto richiamato l'articolo 83 ter att. c.p.c. Non viene infatti

ritenuta riconducibile alla incompetenza territoriale, ma concerne indubbiamente

la determinazione del giudice naturale, la fattispecie di tale disposizione, che

regola il rilievo, proprio non oltre "l'udienza di prima comparizione "- quindi,

indubbiamente ora, non oltre l'udienza ex articolo 183 c.p.c. - della inosservanza

delle disposizioni sulle attribuzioni delle cause monocratiche tra sede principale

e sezioni distaccate nonché tra le sezioni distaccate stesse. La dizione della

norma lascia intendere che la questione è rilevabile sia dalle parti sia dal

giudice; su di essa decide il presidente del tribunale con decreto non

impugnabile. Alcune osservazioni merita questa tematica.

Anzitutto, frequentemente le parti prospettano la questione di cui all'articolo 83

ter come eccezione di incompetenza territoriale ( derogabile ); in questo caso

spetterà al giudice, ovviamente, attribuire la qualifica corretta all'eccezione che

comunque è stata proposta. Peraltro, deve ricordarsi che si tratta, come ogni

altro profilo di assegnazione, di questione rilevabile d'ufficio.

In secondo luogo, deve evidenziarsi che sussiste analoga questione per le

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attribuzioni alle diverse sezioni della sede principale come stabilito nelle tabelle

vigenti. La determinazione del giudice naturale dovrebbe, come si è detto,

logicamente avvenire in limine litis (17) per cui appare ragionevole ( non senza

qualche spazio per il dubbio, perché si estende una preclusione: ubi voluit dixit )

applicare analogicamente a tale fattispecie l'articolo 83 ter, con la sua barriera

preclusiva.

Ulteriore rilievo deve svolgersi sul fatto che il presidente del tribunale, sia per la

fattispecie di cui all'articolo 83 ter sia per quella ad esso analogicamente

ricondotta, decide "con decreto non impugnabile ". Questo significa, anzitutto,

che il contraddittorio sulla questione si esplicherà davanti al giudice, il quale, per

consentire alle parti di svolgerlo, dovrebbe a questo punto occuparsi della

questione all'udienza, e non prima. Il giudice poi rimetterà il fascicolo d'ufficio al

presidente, che provvede. In tale provvedimento, però, potrebbe anche

verificarsi, magari per lapsus materiale, un'assegnazione inequivocamente

erronea. Poiché non si tratta di discrezionalità amministrativa bensì di

applicazione del principio costituzionale del giudice naturale, si porrebbe allora il

problema di una eventuale istanza di revoca/revisione al presidente: tale istanza

non appare inammissibile perché il decreto viene qualificato non impugnabile,

non trattandosi di impugnazione ma di istanza allo stesso organo che lo ha

emesso e valendo ( ubi voluit dixit ) l'equivalenza non impugrabilità-non

revocabilità solo per le ordinanze ex articolo 177 c.p.c.; una simile possibilità,

poi, appare tanto più ragionevole considerato il fatto che per il decreto (cfr. art.

135, comma 4, c.p.c. ) non è prescritta la motivazione.

4. La notificazione, la mancata costituzione e la contumacia

L'articolo 183, comma 1, c.p.c. pone come ultima delle norme espressamente

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elencate l'articolo 291, comma 1, c.p.c.. Logicamente la verifica della

notificazione sarebbe la prima: tuttavia lo schema “ideale”, o quanto meno

fisiologico del processo è identificabile nel pieno dispiegamento delle

potenzialità del contraddittorio attraverso la rituale tempestiva costituzione di

tutte le parti; e questo spiega la collocazione finale di tale verifica nell'elenco-

promemoria che il legislatore ha stilato.

A proposito di costituzione, si ricorda subito che la prima parte che si costituisce

deve presentare la nota d'iscrizione della causa a ruolo, atto organizzativo

interno rivolto al giudice (Cass. 2002 n. 9247 ) che rimane pertanto valido anche

in caso di mancanza di sottoscrizione del difensore ( Cass. 2005 n. 9874 ). Se

sussistono due note di iscrizione, prevale la prima e il secondo procedimento è

affetto da nullità ( Cass. 2004 n. 21349 ).

Si noti inoltre che i termini di costituzione non sono indicati come liberi per cui

andranno contati a ritroso non computando il giorno della udienza che vale

come giorno iniziale, e applicando l'articolo 155 c.p.c., il quale è stato modificato

proprio dalla legge 2005 n. 263 che ha equiparato, per il compimento degli atti

processuali svolti fuori udienza, il sabato al giorno festivo. (18)

Dunque, la notificazione andrà verificata, come dispone appunto l'articolo 291,

comma 1, c.p.c., solo nell'ipotesi in cui il convenuto non si è costituito, dato che

altrimenti la notificazione ha raggiunto il suo scopo (cfr. d'altronde il combinato

disposto degli articoli 160, 156 e 157 c.p.c. ).

Mantenendo l'attenzione sugli elementi di novità introdotti dalla riforma del 2005,

riguardo alle notifiche va ricordato che la legge 2005 n. 263, sulla scorta della

sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002, ha aggiunto un terzo

comma all'articolo 149 c.p.c. per cui la notifica a mezzo posta si perfeziona, per

il notificante, alla consegna del plico all'ufficiale giudiziario, per il destinatario al

momento in cui ha legale conoscenza dell'atto. Come è stato rilevato in dottrina

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(19) questo significa che fin dal momento della consegna all'ufficiale giudiziario

la parte onerata della notifica potrà porre in essere le attività che

presuppongono la notificazione, tra cui l'iscrizione a ruolo della causa non con

l'originale della citazione notificata bensì con la cosiddetta velina. Tali effetti,

provvisoriamente anticipati a favore del notificante, diventano definitivi con il

perfezionamento della notifica ( anche di una notifica successiva se la prima

non è andata a buon fine per motivi non attribuibili al notificante ) pure per il

destinatario. Da questo momento, individuabile nella ricezione o nel suo

equivalente legale, si verificano gli ulteriori effetti, sostanziali e processuali, della

notificazione, tra cui il decorso del termine per la costituzione dell'attore. Se la

notifica deve farsi a più convenuti, l'articolo 165, comma 2, c.p.c., prevede

l'inserimento nel fascicolo dell'originale della citazione nei dieci giorni posteriori

all'ultima notifica; tuttavia il termine di costituzione per il notificante decorre dal

perfezionamento ( per il notificato ) dalla prima notifica. (20)

L'articolo 149, comma 3, specifica per la notificazione a mezzo posta un

principio valevole per tutte le notificazioni nel processo civile, già affermato

appunto dalla Corte Costituzionale nella sentenza 28 del 2004, e confermato

dalla giurisprudenza di legittimità, che ha evidenziato l'esistenza

nell'ordinamento come principio generale del canone secondo cui, qualunque

sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale si intende

perfezionata, dal lato del richiedente, al momento della consegna dell'atto

all'ufficiale giudiziario e che, comunque, secondo una interpretazione

costituzionalmente vincolata, non può addebitarsi alla parte l'esito intempestivo

del procedimento di notifica per un fatto estraneo ai suoi poteri di impulso. (21)

L'articolo 291, comma 1, prevede quindi che il giudice vagli d'ufficio, in caso di

mancata costituzione del convenuto, la validità della notificazione. Se riscontra

un vizio che ne causa la nullità, dispone la rinnovazione, attribuendo allo scopo

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un termine perentorio all'attore. Dovrà pertanto fissare un'altra udienza di

trattazione, come dispone l'articolo 183, comma 2, c.p.c.: è il primo esempio

della potenzialità di proliferazione dell'udienza " unitaria " insita nel nuovo

articolo 183. Se la rinnovazione va a buon fine, " impedisce ogni decadenza ";

se invece l'ordine dell'innovazione non è eseguito, vista la perentorietà del

termine, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo 291 il giudice ordina la

cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue ex articolo 307,

comma terzo, c.p.c.: si noti che è la stessa dizione dell'articolo 164, comma 2,

c.p.c.

Se poi l'attore avvia il procedimento di notificazione per eseguire l'ordine di

rinnovazione ma questa notificazione non va a buon fine per motivi estranei al

notificante, come già sopra si è accennato, non scatta il meccanismo

sanzionatorio della cessazione di impulso processuale di cui al terzo comma,

ma dovrà essere disposta una ulteriore rinnovazione, in applicazione dei principi

appena esposti, con ulteriore fissazione di udienza ex articolo 183, comma 2.

(22)

Se la notifica è valida, ovviamente dovrà dichiararsi la contumacia del

convenuto. La dichiarazione di contumacia dovrebbe essere pronunciata in

limine litis, quindi alla prima udienza oppure, se la notifica deve essere

rinnovata, alla prima udienza successiva al perfezionamento della notifica; tale

dichiarazione comporta l'applicabilità degli articoli 293 ss.c.p.c., posti a tutela del

diritto di difesa del contumace. Proprio perché si tratta di tutela del diritto di

difesa, è da ritenersi che, ovviamente, nel caso di omissione della dichiarazione,

questa possa effettuarsi anche in seguito, per dar luogo alla loro applicazione.

Anche se è estremamente più raro, la contumacia, è ovvio, può riguardare pure

l'attore, se non si costituisce, qualora si sia costituito tempestivamente il

convenuto ( e non si sia pertanto realizzata la fattispecie di cui al combinato

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disposto degli articoli 171 e 307 c.p.c., che ora si vedrà ); in questo caso,

tuttavia, poiché la contumacia equivale a cessazione dell'impulso processuale

da parte di chi ha instaurato il giudizio, la legge mantiene la procedibilità

soltanto se l'impulso processuale viene assunto dal convenuto: l'articolo 290

c.p.c. prevede infatti che il giudizio prosegua solo se il convenuto ne fa richiesta,

perché altrimenti, contestualmente alla dichiarazione di contumacia, il giudice

disporrà che la causa sia cancellata dal ruolo e il processo si estinguerà

immediatamente. Nel caso invece in cui l'attore si sia costituito ma non compare

alla prima udienza, si ricorda, questo spostamento dell'impulso processuale

nella disponibilità del convenuto ha comunque come presupposto la previa

fissazione di nuova udienza - che sarà ora, logicamente, ex art. 183, comma 2,

c.p.c. - da comunicare all'attore; solo in questa, se il convenuto non chiede che il

processo continui, il giudice provvederà a cancellare la causa dal ruolo e a

dichiarare l'estinzione del processo (art.181, comma 2, c.p.c.)

Per completare la rassegna di queste fattispecie va infine esaminata quella

della mancata costituzione di entrambe le parti. Non vi è ovviamente

dichiarazione di contumacia, bensì vige lo specifico dispositivo di cancellazione

dettato dagli art.171, comma 1, e 307, comma 1, con possibilità di riassunzione

entro un anno pena estinzione.

La cancellazione dovrebbe essere disposta d'ufficio, tranne per il caso in cui il

convenuto, costituitosi tardivamente, a fronte di una costituzione tardiva

dell'attore non eccepisca la fattispecie di cancellazione, realizzando così una

sanatoria per raggiungimento dello scopo (Cass. 1987 n. 8878 ). L'ordinanza di

cancellazione dal ruolo non è impugnabile, ex articolo 181, comma 1, c.p.c. e

quindi neppure revocabile, ex articolo 177 c.p.c.

Secondo la lettera dell'articolo 307, comma 1, parrebbe sufficiente, per evitare

tale cancellazione, che una delle parti si costituisse entro il termine ex articolo

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166 c.p.c., cioè il termine per il convenuto; questa interpretazione, che ha

trovato alcuni riscontri in dottrina, è tuttavia rifiutata dalla consolidata

giurisprudenza di legittimità, in base alla quale la tempestività della costituzione

deve essere valutata secondo i termini rispettivamente indicati dal codice per

attore e per convenuto.

Se entrambe le parti non si sono costituite nei termini e il processo, cancellato

dal ruolo, è poi riassunto entro l'anno, è stato posto l'interrogativo se il

convenuto è comunque incorso nelle decadenze ex articolo 167 c.p.c., avendo

certa dottrina sostenuto (23) che ciò non accade ( equivarrebbe a gravare il

convenuto sempre dell'obbligo di costituirsi ), in quanto le decadenze ex articolo

167 c.p.c. scatterebbero soltanto se l'attore si è a sua volta costituito

regolarmente. La questione è dubbia, in quanto da un lato l'articolo 171, comma

2, c.p.c. prevede che il convenuto incorra nelle decadenze ex articolo 167 c.p.c.

anche nel caso in cui l'attore si costituisce tardivamente, purché non oltre la

prima udienza ( se il convenuto si è costituito entro il suo termine, altrimenti si

ricadrebbe nel primo comma dell'articolo 171 ); dall'altro, si tratterebbe di una

vera e propria rimessione in termini sulla quale la legge tace completamente (e

ubi voluit dixit ).

Non si applica l'articolo 171, comma 2, c.p.c. nel caso di appello, secondo

l'interpretazione attualmente consolidata della giurisprudenza di legittimità ( si

veda per esempio Cass. 2005 n. 11594 ) che lo ritiene incompatibile con

l'articolo 348 c.p.c. visto il favore per il passaggio in giudicato della sentenza

impugnata. Dunque, la costituzione tempestiva dell'appellato non toglie il fatto

che la tardiva costituzione dell'appellante rende improcedibile l'appello. Si tratta

tuttavia di improcedibilità e quindi il giudice deve comunque esaminare l'appello

eventualmente promosso in via incidentale, perché solo l'inammissibilità

dell'appello principale rende inefficace la impugnazione incidentale ex articolo

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334 c.p.c. (24)

Una disciplina particolare riguarda infine il giudizio monitoriamente introdotto. La

giurisprudenza di legittimità appare ormai consolidata, in conflitto con anche

recenti posizioni dottrinali(25) volte a "recuperare" la lettera dell'articolo 645

c.p.c.(26)

In questa sede pratica non è possibile soffermarsi più di tanto sulla questione. È

peraltro opportuno ricordare quali sono i capisaldi della giurisprudenza di

legittimità al riguardo:

1. Il dimezzamento dei termini di comparizione non è obbligatorio ma è

rimesso alla libera scelta di parte opponente; i termini infatti sono intesi

come minimi, per cui l'opponente può avvalersi dei termini ordinari e

anche superarli;

2. I termini di costituzione sono correlati a quelli di comparizione, per cui se i

primi sono dimezzati, dimezzati sono anche i secondi.

3. Va equiparata - configurandosi pertanto una normativa specifica rispetto al

generale meccanismo degli articoli 171 e 307 c.p.c.- la costituzione tardiva

dell'opponente alla sua mancata costituzione ai fini dell'articolo 647,

comma 1, c.p.c., nel senso che l'opposizione, indipendentemente

dall'istanza di dichiarazione di esecutività del decreto e anche dalla

costituzione dell'opposto, diventa improcedibile.(27)

Si tratta evidentemente di una impostazione giurisprudenziale complessiva (si

noti che anche l'articolo 647, comma 1, letteralmente non menziona la

costituzione tardiva allo stesso modo in cui l'articolo 645, comma 2, non

menziona letteralmente i termini di costituzione) diretta oggettivamente ad

obiettivi deflattivi forse non originariamente perseguiti a tale livello dal legislatore

(si noti tra l'altro che i severi effetti che la giurisprudenza deduce da questi vizi di

rito prescindono completamente dal vaglio della loro incidenza sul diritto di

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difesa dell'opposto) ma ormai da intendersi solidamente incastonati nel diritto

vivente. Al di là della sostenibilità o meno di un revirement (28) deve comunque

darsi atto dell'incidenza sulla fattispecie dell'istituto, ormai generalizzato, della

rimessione in termini. Per l'ipotesi in cui l'opponente abbia effettuato una

costituzione tardiva per causa che non gli è imputabile, appare ragionevolmente

sostenibile l'applicabilità dell'articolo 184 bis c.p.c.; (29) e poiché l'effetto della

tardiva costituzione deve identificarsi nella improcedibilità, secondo l'attuale

insegnamento giurisprudenziale, è da presumere che una simile istanza sia da

proporre immediatamente nella fase preliminare dell'udienza ex articolo 183

c.p.c. Potrebbe così realizzarsi una fattispecie analoga a quella di cui all'articolo

650 c.p.c., in base alla prova ( non necessariamente documentale ) del caso

fortuito o della forza maggiore come causa della costituzione tardiva.

È pur vero che la Corte Costituzionale, in una ormai risalente sentenza ( 141 del

1976 ), ha ritenuto irrilevante la causa non imputabile all'opponente che ne

aveva impedito la tempestiva costituzione. Tale precedente, già all'epoca

criticato, anteriore fra l'altro al potenziamento del valore costituzionale del

contraddittorio addotto dal novellato testo dell'articolo 111 Cost. ( si ricorda che

la fase di opposizione rappresenta proprio il contraddittorio in un procedimento

che grazie ad essa viene ricondotto al modello ordinario), appare ora

agevolmente superabile, tenendo conto pure del fatto che le pronunce di rigetto

della Corte Costituzionale non hanno vincolatività interpretativa. Nell'ipotesi, qui

non condivisa, in cui si reputi inapplicabile per diretta via interpretativa l'articolo

184 bis c.p.c. alla fattispecie in esame rimane comunque aperta, e doverosa, la

strada della eccezione di costituzionalità; ma la valorizzazione della non

imputabilità oggettiva dei "contrattempi processuali" appare ormai così

consapevole, si ripete, da rendere superflua una simile opzione.(30)

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5. Le verifiche degli atti introduttivi

Logicamente successive agli incombenti eventuali appena esaminati sono le

attività di cui agli artt.164 e 167 comma 2, c,p,c, Prima di esaminare le

fattispecie della nullità degli atti introduttivi in sé, ai sensi dell'articolo 183,

comma primo, è peraltro il caso di soffermarsi su una rilevante modifica operata

dalla riforma del 2005 sul contenuto della comparsa di risposta, cui sopra si è

già accennato: la collocazione delle eccezioni in senso stretto in tale atto

introduttivo, tramite la soppressione del termine che allo scopo si assegnava in

forza del previgente articolo 180.

E' vero che questo termine era uno strumento di raro utilizzo, ma comunque,

come precauzione, esisteva. Sopprimendolo, si è dato un giro di vite alle

preclusioni per il convenuto - controbilanciato solo parzialmente

dall'allungamento del termine minimo di comparizione - perché il nuovo articolo

167 va raccordato al combinato disposto degli articoli 166 e 171, comma 2

c.p.c., per cui la mancata costituzione tempestiva comporta la decadenza non

più solo per la domanda riconvenzionale e per la chiamata di terzo, ma anche

per le eccezioni in senso stretto. Va sottolineato, tuttavia, che il termine dei venti

giorni prima dell'udienza non è necessariamente in rapporto all'udienza di

citazione, in quanto può essere allungato dal giudice quando questi, applicando

l'articolo 168 bis c.p.c., la sposta. Il che significa che il maturare di tale

importante preclusione, completamente estraneo ad ogni potere dispositivo

delle parti (che neppure indirettamente possono incidervi: l'articolo 168 bis,

comma 4, prevede infatti lo spostamento d'ufficio dell'udienza a quella

immediatamente successiva nell'ipotesi in cui la citazione abbia indicato una

data in cui il giudice designato non la tiene; ciò tuttavia, visto l'esplicito dettato

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dell'articolo 166 che fa riferimento solo al quinto comma dell'articolo 168 bis,

non modifica la decorrenza del termine di costituzione ), è invece in qualche

modo collegato a interventi organizzativi del giudice con eventuali problemi di

disuguaglianza e anche sotto il profilo, quantomeno astratto, di terzietà, che il

ritorno in auge dell'articolo 168 bis c.p.c., frutto dell'eliminazione dell'udienza

preliminare, potrebbe proporre. (31)

Problemi che peraltro non sono del tutto superabili allo stato: tenuto conto del

principio della ragionevole durata del processo, cui corrisponde come si è visto

un vero e proprio diritto delle parti, il giudice, quando applica l'articolo 168 bis,

comma 5, c.p.c., interpretandolo in modo costituzionalmente orientato, non

dovrebbe avvalersene ad libitum, ma per reali necessità organizzative, che

quindi non possono venir meno perché la legge attribuisce allo spostamento

d'udienza, in questo caso, una oggettiva rimessione in termini. La soluzione

allora va rimessa al legislatore, dal quale sarebbe auspicabile ottenere

l'eliminazione completa dell'incidenza dell'art.168 bis c.p.c. sul termine di

costituzione del convenuto.

Le eccezioni in senso stretto che non siano consequenziali alle avverse difese e

quindi non ricadano nella fase di "assestamento" disciplinata dalla parte

seconda dell'articolo 183 c.p.c. devono dunque essere proposte,, ora, nella

comparsa di risposta tempestiva (si ricorda che anche recentemente la

Cassazione - sentenza 421 del 2006 - ha ribadito che sono eccezioni in senso

stretto, oltre a quelle in cui la normativa espressamente attribuisce il potere di

rilevazione alla parte, le eccezioni che corrispondono alla titolarità di un diritto ),

che è pure il luogo di proposizione della domanda riconvenzionale che non sia,

a sua volta, conseguenza di una domanda proposta dall'attore nella fase di

trattazione ex articolo 183, comma 5 (e si ricorda ancora la recente Cass n.

15271 del 2006 per cui vi è eccezione riconvenzionale quando lo scopo è solo il

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rigetto dell'avversa domanda, mentre si ha domanda riconvenzionale quando si

chiede il riconoscimento delle conseguenze giuridiche derivanti dal fatto posto a

base dell'eccezione ). (32)

Qualora la costituzione sia stata tardiva e quindi la parte non abbia potuto

avvalersi delle facoltà di proposizione di eccezione in senso stretto o di

domanda riconvenzionale, nonché di chiamata di terzo, potrebbero comunque

sussistere gli oggettivi presupposti di non imputabilità della decadenza alla parte

stessa ex articolo 184 bis c.p.c.: in questo caso proprio in limine litis la parte

decaduta dovrebbe presentare la relativa istanza al giudice, il quale a sua volta

ne dovrebbe verificare subito la fondatezza, quantomeno quando si fonda su

prove precostituite. Questo incombente è dunque preliminare alla trattazione di

cui alla seconda parte dell'articolo 183 c.p.c.

Una fattispecie specifica di rimessione in termini per le decadenze ex articolo

167 c.p.c. è poi ravvisabile nel combinato disposto degli articoli 163, comma 3,

n. 7, e 164, comma 3, c.p.c.. In questo caso la decadenza in cui è incorso il

convenuto non è attribuibile né a caso fortuito né a forza maggiore bensì alla

carenza, nell'atto di citazione, dell'avvertimento di cui all'articolo 163, comma 3,

n. 7, e quindi alla controparte. Tale avvertimento deve essere esplicito e

completo; d'altronde, il meccanismo non scatta d'ufficio ma deve essere

eccepito dal convenuto. Ciò è ragionevole, in quanto il convenuto è dotato di

difesa tecnica, per cui l'assenza dell'avvertimento può non avere inciso in alcun

modo sulla sua posizione difensiva se, appunto, è ricorso a tale difesa per

tempo. Ma se il convenuto si è rivolto a un legale troppo tardi per una

costituzione tempestiva, il meccanismo trova fondamento in una sua effettiva

lesione del diritto di difesa, non essendo egli obbligato a conoscere la normativa

processuale - anzi assumendo la legge che non la conosca: articolo 82 c.p.c.-.

In applicazione quindi dell'articolo 164, comma 3, c.p.c., il giudice fisserà una

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nuova udienza "nel rispetto dei termini", ovvero a distanza quantomeno del

termine di comparizione applicabile alla fattispecie: le decadenze del convenuto

matureranno venti giorni prima di tale udienza (dieci nel caso che vi sia stata

abbreviazione dei termini e, seguendo la giurisprudenza di legittimità, nella

opposizione a decreto ingiuntivo ). (33)

Questo introduce alla tematica della in jus vocatio, come funzione degli atti

introduttivi. Al riguardo, un'apparente differenza tra il testo del primo comma del

nuovo articolo 183 e l'originario articolo 180, primo comma, si pone nel fatto che

mentre in quest'ultimo si faceva riferimento all'articolo 164 e all'articolo 167 tout

court, nell'articolo 183 "nuovo" il riferimento è all'articolo 164 "secondo, terzo e

quinto comma " e all'articolo 167 "secondo e terzo comma". L'articolo 167

secondo comma è evidentemente il corrispondente, dal punto di vista del

convenuto, dell'articolo 164 quarto e quinto comma dal punto di vista dell'attore.

Non crea problemi il fatto che dell'articolo 164 non sia stato richiamato il quarto

comma, in quanto il quinto comma, richiamato, è quello che prevede il

provvedimento che scaturisce dalla verifica di cui al quarto comma. Dunque,

applicando l'articolo 167, secondo comma, il giudice emette un provvedimento

simmetrico rispetto a quello derivante dalla nullità della citazione, e la situazione

rimane corrispondente al rito precedente, mutando soltanto le etichette

dell'udienza: prima si trattava di due udienze ex articolo 180, ora, se si deve

applicare l'articolo 183, secondo comma, di due udienze ex articolo 183. L'unica

differenza è l'accelerazione dovuta alla concentrazione di tutti gli incombenti,

potenzialmente, nell'udienza ex articolo 183: mentre nel rito precedente il

giudice avrebbe dovuto fissare per la trattazione un'altra udienza (il "vecchio"

183), ora si può procedere immediatamente, nell'udienza fissata ai sensi del

nuovo articolo 183, secondo comma, alla trattazione se i problemi riconducibili

al primo comma sono stati superati.

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23

La norma fondamentale, in questa tematica, è proprio l'articolo 164. Senza

menzionarla espressamente, nella determinazione delle fattispecie di nullità

della citazione si fonda sulla tradizionale dicotomia in cui si sostanzia, sul piano

ontologico e teleologico, la citazione. (34)

Per quanto concerne la in jus vocatio, l'articolo 164 al primo comma indica le

fattispecie, che il giudice rileva d'ufficio disponendo una rinnovazione entro

termine perentorio che sana ex tunc, se il convenuto non si costituisce -

secondo comma -; se si costituisce, invece, - terzo comma - le nullità sono

sanate, quindi la verifica non deve svolgersi, come nel caso dell'art.291 c.p.c.,

ma in questa fattispecie, di maggior spessore rispetto a una nullità di notifica,

sopravvivono alla costituzione due casi di nullità relativa (già richiamati quale

presupposto di uno specifico istituto di rimessione in termini, come logicamente

comporta il loro contenuto), quelli della violazione dei termini di comparizione e

dell'omesso avvertimento dell'art.163, comma 3, n.7.

Le nullità del primo comma sono identificate, ovviamente, richiamando in modo

più o meno esplicito la norma che detta il contenuto della citazione, l'art.163

c.p.c. L'art. 163, comma 3, n. 1, c.p.c. prescrive l'indicazione in citazione del

tribunale dinanzi al quale la controparte è chiamata: incide dunque su tale

funzione in esame, dando luogo a nullità, la non identificazione del tribunale, ex

art.164, comma 1( per esempio nel caso in cui nello stesso atto siano stati

indicati uffici giudiziari diversi, così da rendere assolutamente incerto quello

adito). L'articolo 163, comma 3, n. 2 impone poi l'indicazione delle parti e

l'omissione o assoluta incertezza di tale indicazione è pure prevista dall'articolo

164, comma 1, come nullità della vocatio. Si è osservato in dottrina che tale

vizio potrebbe però incidere anche sulla editio actionis, in quanto la

identificazione delle parti, insieme a quella di petitum e causa petendi significa

identificazione dell'azione. Ma è logico che prima di identificare l'azione si debba

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risolvere il profilo di instaurazione del contraddittorio come in jus vocatio.

Seguendo il principio della conservazione e quello, specifico per la nullità, del

raggiungimento dello scopo, la giurisprudenza ha ritenuta valida la citazione

anche in mancanza di alcune indicazioni relative alle persone fisiche ( come

residenza, domicilio o dimora ) purché, anche utilizzando il contenuto dell'atto

nella parte espositiva, non sussista incertezza sull'identificazione.

Quanto alle persone giuridiche(35) sono intervenute di recente le Sezioni Unite

che nelle sentenze n. 4810 e 4814 del 2005 hanno affermato che la nullità

quanto al requisito ex articolo 163, comma 3, n. 2, deriva dall'incertezza

sull'organo della persona giuridica dotato del potere di rappresentanza, e non

dall'incertezza sul nome del suo titolare ( così sciogliendo, come si vedrà infra,

anche il problema della di illeggibilità della firma ). (36)

Sulla stessa linea da ultimo S.U. ord. 1 ottobre 2007 n.20596 insegna che "in

tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, la persona fisica

che ha conferito il mandato al difensore non ha l'onere di dimostrare tale sua

qualità, neppure nel caso in cui l'ente si sia costituito in giudizio per mezzo di

persona diversa dal legale rappresentante e l'organo che ha conferito il potere di

rappresentanza processuale derivi tale potestà dall'atto costitutivo o dallo

statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo

consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e quindi spetta a loro fornire la

prova negativa. Solo nel caso in cui il potere rappresentativo derivi da un atto

della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale, spetta a chi agisce

l'onere di provare l'esistenza di tale potere. " La contestazione della

legittimazione inoltre deve essere tempestiva ( Cass. n. 13669 del 2006 e n.

8442 del 2002 ).

Altra ipotesi di nullità della in jus vocatio è la mancanza della data. Infatti

l'articolo 164, comma 1, (che rimanda implicitamente all'art.163, comma 3, n.7)

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prevede la nullità della citazione se manca l'indicazione della data dell'udienza

di comparizione ( nella copia notificata: Cass. 2003 n. 6017 ) . A ciò sono state

equiparate, dagli interpreti, l'indicazione erronea o la presenza di più date,

purchè naturalmente sussista incertezza sulla data di comparizione (per

esempio, Cass. 2004 n. 15498 ). È tipico, in questo senso, l'esempio della

citazione per l'anno precedente (Cass. 2002 n. 12546). Secondo

l'interpretazione preferibile, (in questo senso Cass. 2003 n. 6017, contrastante

con Cass. 2002 n. 12546) l’obbligo di lealtà del convenuto di non profittare di

errori di controparte del tutto riconoscibili e quindi non lesivi dei suoi diritti non

giunge al livello dell'onere di attivarsi in cancelleria per venire a conoscenza

della data.

Infine l'articolo 164, comma 1, indica quali ulteriori casi di nullità della citazione

l'assegnazione di termine di comparire inferiore a quello di legge e la omissione

dell'avvertimento dell'articolo 163, comma 3, n. 7. Questi due casi, come già

accennato, si differenziano da quelli appena esaminati quanto agli effetti di

invalidità che producono. Le conseguenze della nullità ex articolo 164, comma

1, sono infatti diverse a seconda che il convenuto si costituisca oppure no.

Partendo dall'ipotesi in cui non avvenga costituzione, la conseguenza, come si

legge nell'articolo 164, comma 2, dopo il loro rilievo inevitabilmente d'ufficio (

non essendo costituita la parte legittimata a segnalarlo come eccezione), è la

rinnovazione entro termine perentorio, fissando un'altra udienza ai sensi

dell'articolo 183, comma 2. Gli effetti della rinnovazione retroagiscono.

Anzitutto va rilevato che il termine concesso dal giudice, ai sensi dell'articolo

307, comma 3, c.p.c. non può essere inferiore a un mese né superiore a sei

mesi. Si ricorda che l'attuale testo dell'articolo 307 risale alla legge 1950 n. 581;

a sua volta il testo dell'articolo 163 bis, prima della riforma degli anni '90,

indicava come termine massimo di comparizione 180 giorni, per il caso in cui il

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luogo della notificazione si trovasse in altro Stato, e come termine minimo trenta

giorni. Dunque vi era coincidenza tra la gamma dei termini di comparizione e il

termine che poteva assegnare il giudice ex articolo 307. L'articolo 8 della legge

1990 n. 353 sostituì il primo comma dell'articolo 163 bis riducendo il termine

massimo a 120 giorni ( sempre per il caso che la notifica dovesse effettuarsi

all'estero ). A sua volta la riforma del 2005, e specificamente l'articolo 2, comma

1, della legge 2005 n. 263, ha modificato i termini di comparizione partendo da

un minimo di 90 giorni a un massimo di 150 ( salva l'abbreviazione fino alla

metà del comma 2, rimasto immutato ). È il caso di riflettere su come il termine

perentorio ex articolo 164, comma 2, c.p.c., in combinato disposto con l'articolo

307, comma 3, possa coordinarsi con i termini di comparizione. Se, infatti, la

rinnovazione della citazione deriva da una sua invalidità di grado tale da

renderla nulla, il destinatario della citazione deve essere posto, nella procedura

di rinnovazione, in una posizione non deteriore, sul piano del diritto di difesa,

rispetto a quella che la legge gli assegna quando la citazione viene subito

effettuata validamente. Ciò tanto più considerato che, comunque, una qualche

deminutio rispetto alla situazione completamente fisiologica è già stabilita dalla

legge tramite la retroattività della sanatoria ( per cui una citazione nulla, se

seguita da una citazione valida, esplica comunque gli effetti sostanziali e

processuali dalla sua notificazione ). Appare ragionevole dunque che il giudice

non conceda un termine inferiore ai 90 giorni per la notifica in Italia, tranne,

ovviamente, se si è verificata la fattispecie di cui all'articolo 163 bis, comma 2,

c.p.c.; potrebbe altrimenti prospettarsi anche un profilo di illegittimità

costituzionale rispetto agli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Occorre poi chiedersi che cosa accade se la rinnovazione non avviene entro il

termine perentorio concesso dal giudice. L'articolo 164, comma 2, dispone per

tale ipotesi che il giudice ordini la cancellazione della causa del ruolo, con

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conseguente estinzione ex articolo 307, comma 3. Secondo una interpretazione,

perché si realizzi la fattispecie estintiva occorrerebbe - nell'ipotesi in cui il

convenuto si sia comunque costituito - che la parte interessata, cioè appunto il

convenuto, eccepisse tempestivamente l'estinzione. Tale interpretazione non è

del tutto convincente, perché l'articolo 164, comma 2, rinvia specificamente

all'articolo 307, comma 3, senza peraltro richiamare il quarto comma, e

soprattutto dispone direttamente che il giudice ordini la cancellazione della

causa del ruolo, indicando l'estinzione come conseguenza di tale cancellazione.

Se il giudice ha obbligo di cancellare immediatamente la causa dal ruolo, è

difficile individuare un residuo spazio per attività processuale delle parti. Inoltre,

non richiamando come si è detto il comma 4 dell'articolo 307, la disciplina

specifica dell'articolo 164 indica l'estinzione come conseguenza ex lege, senza

richiedere che il giudice la dichiari, e stabilendo invece che il giudice emetta un

provvedimento dal contenuto diverso, cioè semplicemente la cancellazione della

causa dal ruolo, che si ripete dev'essere disposta subito d'ufficio, all'esito della

verifica della mancata effet tuazione della rinnovazione nel termine perentorio

assegnato. Diversamente opinando, del resto, la perentorietà del termine

verrebbe in effetti elusa. Tale interpretazione appare la più confacente

all’impostazione di semplificazione che come si è visto insegna la recente

giurisprudenza, eliminando gli appesantimenti formalistici per adeguare la

tradizione al concetto di ragionevole durata del processo.

La perentorietà del termine, tuttavia, in conformità con il principio, ormai

affermatosi, che non può gravare sulla parte il mancato perfezionamento di atti

per motivi ad essa estranei, non toglie che, se la rinnovazione della citazione

non va a buon fine per difetto della notifica non attribuibile al notificante, il

giudice debba ordinare la rinnovazione della notifica e, una volta raggiunto il

perfezionamento, si verifichi l'effetto retroattivo "sin dal momento della prima

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notificazione ", cioè dalla notificazione della citazione nulla. Diverso appare il

discorso per l'ipotesi in cui la citazione rinnovata contenga di nuovo vizi tali da

renderla nulla sotto profilo della in jus vocatio. Poiché il vizio è attribuibile alla

parte stessa che doveva effettuare la rinnovazione, appare ragionevole ritenere

che essa abbia già consumato la sua possibilità di correzione, e che la

fattispecie sia quindi da equiparare alla mancata rinnovazione, con conseguente

cancellazione dal ruolo e immediata estinzione.

Si ricorda infine che la nullità della in jus vocatio, se non rilevata, può costituire

motivo di impugnazione. In tal caso il giudice di appello dichiara la nullità del

giudizio di primo grado e, dopo aver espletato davanti a lui le attività impedite

dalla nullità, deciderà la causa del merito (questa è la più logica delle soluzioni,

e la più conforme alle necessità di ragionevole durata del processo, ed è stata

affermata da Cass. 2004 n. 18571 ).

Si esamini ora l'ipotesi in cui il convenuto si costituisce. Questo ha effetto

sanante per i primi tre casi di nullità di cui all'articolo 164, comma 1, e trasforma,

invece, in casi di nullità relativa le ultime due ipotesi di detta norma (articolo 164,

comma 3). Tale disciplina conduce a ritenere, quindi, che il termine di

comparizione sia, in certa misura, nell'ambito del potere dispositivo del

convenuto, potere che viene esercitato tramite la scelta della costituzione o, nel

caso in cui questa scelta sia risolta in modo positivo, tramite l'esercizio

dell'eccezione in senso stretto di cui all'articolo 164, comma 3.

Proprio perché si tratta evidentemente di eccezione processuale in senso stretto

dovrebbe essere proposta nella comparsa di costituzione; ma, visto il contenuto

della eccezione - in sostanza, tale eccezione tutela l'impossibilità di una

costituzione tempestiva nel rispetto del diritto di difesa del convenuto -, si può

ritenere che sia proponibile in una comparsa di costituzione non tempestiva,

quindi anche nel caso di costituzione in udienza. Tardiva invece appare la

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29

proposizione per la prima volta in udienza, in caso di mancata eccezione nella

comparsa di risposta, tranne nel caso in cui la costituzione avvenga in udienza,

perché in questa ipotesi vi è una contestualità che consente di qualificare tutto

"prima difesa ".

Nel caso poi in cui, essendo stata omessa la verifica della nullità, il convenuto si

costituisce sua sponte tardivamente e oltre l'udienza ex articolo 183 c.p.c.,

eccependo nella prima difesa le fattispecie che rientrano nell'articolo 164,

comma 3, ha diritto alla regressione del processo - con fissazione di nuova

prima udienza di trattazione ex artt. 164, comma 3, e 183, comma 2 - non

potendo superarsi la valutazione legislativa della meritevolezza di tutela della

fattispecie né tantomeno far gravare sulla parte l'omissione del giudice quanto

alla verifica in limine litis.

Sempre a proposito dei termini di comparizione, è stato poi sostenuto (37) che

se viene proposta con l'atto introduttivo un'istanza cautelare (come la

sospensione delle delibere condominiali o la provvisionale ex articolo 147 del

Codice delle assicurazioni; ma si consideri anche la fattispecie ex articolo 649

c.p.c. ) o anticipatoria (come la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex

articolo 648 c.p.c. o l'ordinanza ex artt. 186 bis e 186 ter c.p.c. ), il giudice può

procedere "alla fissazione di un'udienza anche senza il rispetto dei termini

minimi di comparizione ", udienza finalizzata esclusivamente a tali istanze, da

decidere comunque "all'esito della comparizione delle parti e previa

instaurazione del contraddittorio " salva l'emissione del decreto inaudita altera

parte nel caso di istanza cautelare. Per quanto riguarda l'istanza cautelare,

indubbiamente, potendo essere presentata anche ante causam, a fortiori può

essere fissata un'udienza per essa prima dell'udienza ex articolo 183 c..p.c. e, in

particolare, prima del decorso dei termini minimi di comparizione. ( Si ricordi,

peraltro, che qualora un convenuto non costituito si costituisca in un cautelare in

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30

corso di causa, la costituzione nell'incidente non vale automaticamente come

costituzione nel merito, ciò verificandosi, infatti, solo quando nella costituzione

viene presa una posizione compiuta anche riguardo a esso: Cass. 2005 n.

5904). Diversa, peraltro, appare la questione delle anticipatorie: la cognizione

sommaria non sostenuta da urgenza, come è l'ipotesi meramente anticipatoria,

non legittima una compressione del diritto di difesa di controparte come

oggettivamente è fissare un'udienza ad hoc prima del decorso dei termini minimi

di comparizione. D'altronde, la durata dei termini è stata scelta dal legislatore

come unità di misura temporale per un contraddittorio effettivo, e non formale:

convocare le parti per una udienza anteriore al decorso di tali termini realizza,

invece, un contraddittorio non conforme alla valutazione legislativa.

Nell'ipotesi cui il convenuto si costituisce tempestivamente, come si è visto,

sana la nullità della in jus vocatio, salva la possibilità del convenuto di ottenere

una nuova udienza nei casi dell'articolo 164, comma 3. Potrebbe però accadere

che in conseguenza degli altri vizi, non compresi nel comma 3 e sanati dalla

costituzione tempestiva, il convenuto sia incorso in decadenze: ciò non può

escludersi a priori, soprattutto con la riforma del 2005, per quanto riguarda la

proposizione delle eccezioni in senso stretto. Appare ragionevole, se si

verificasse una simile fattispecie, ricorrere all'articolo 184 bis c.p.c. in quanto la

sanatoria della citazione non estingue comunque il diritto di difesa della parte

citata.

La seconda funzione della citazione, come si è visto, è la editio actionis, la cui

nullità è disciplinata dall'articolo 164, comma 4 come omissione o assoluta

incertezza del requisito di cui all'articolo 163, comma 3, n. 3, oppure mancanza

di esposizione dei fatti di cui al 4 della stessa norma.

L'articolo 163, comma 3, n. 3, riguarda l'indicazione della cosa oggetto della

domanda; ciò è stato identificato dalla dottrina nel cosiddetto petitum mediato,

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31

ovvero la situazione sostanziale dedotta in giudizio (38) , mentre il petitum

immediato, cioè il provvedimento richiesto, è stato ricondotto al n. 4. Ai fini della

editio actionis è l'omessa o assolutamente incerta indicazione dei fatti costitutivi

(e non delle ragioni di diritto, in quanto jura novit curia) a causare nullità,

considerati gli evidenti effetti ostativi all'esercizio del diritto di difesa di

controparte.

A proposito dei fatti costitutivi la dottrina ha elaborato la distinzione tra diritti

autodeterminati - i diritti che non possono esistere simultaneamente più volte

con lo stesso contenuto tra gli stessi soggetti: in questo caso, per la loro

identificazione i fatti costitutivi non avrebbero logicamente rilevanza ( incidendo

invece sul profilo probatorio ) - e diritti eterodeterminati - ovvero quelli che

possono sussistere con il medesimo contenuto più volte tra gli stessi soggetti: in

questo caso, i fatti costitutivi della causa petendi sono imprescindibili per

identificare il diritto. Nella prima categoria sono stati assunti i diritti reali e i diritti

della personalità; nella seconda i diritti di credito, la responsabilità

extracontrattuale ecc. Poiché l'articolo 164 sanziona con la stessa nullità

l'omessa indicazione dei fatti in tutte le azioni, in dottrina, per salvare l'utilità e la

logica della questa classificazione, si è fatto ricorso a una valorizzazione della -

non da tutti riconosciuta, si ricorda - terza funzione della citazione, quella

preparatoria, rilevando che il contatto fra il giudice e le parti nella udienza di

trattazione, che deve essere focalizzato sui punti controversi e solo su di essi,

non sarebbe proficuo se non fossero indicati i fatti costitutivi per qualunque tipo

di diritto (39)

Non è questa la sede per riflessioni dogmatiche. Si osserva soltanto che un

eccesso di analisi non dà utilità se non riconduce a una sintesi. Assumere che

l'indicazione dei fatti costitutivi, per i diritti autodeterminati, rileva solo sul piano

probatorio appare una lettura alquanto restrittiva, e perciò in qualche misura

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confinante con il formalismo, della funzione "editio actionis": a che serve

identificare l'azione se ciò non consente contestualmente a controparte di

predisporre la propria difesa? Esponendo la propria azione, quindi, l'attore non

può esimersi, per rispettare i diritti di controparte, dall'indicarne i fatti costitutivi. Il

reale scopo e senso della editio actionis non è, per così dire, l'apposizione di

una etichetta su un contenitore ancora vuoto, bensì la tutela del contraddittorio

sul piano sostanziale, una volta che la in jus vocatio lo ha costituito dal punto di

vista formale. Dunque è logico, e coerente con le concrete scelte del legislatore,

concludere che l'unità di misura anche della nullità dell'editio actionis è pur

sempre il diritto di difesa del convenuto.

Se la nullità della in jus vocatio è sanata dalla costituzione del convenuto (

tranne, come si è visto, per inosservanza del termine per comparire e difetto di

avviso ai sensi del numero 7 dell'articolo 163 se il convenuto eccepisce), al pari

della nullità della notificazione, la nullità della editio actionis non è invece sanata

da tale costituzione. Inoltre, poiché si tratta di identificazione dell'azione, l'effetto

del procedimento correttivo ( rinnovazione della citazione o fissazione di

udienza per integrazione della domanda ) non può retroagire: dispone infatti

l'articolo 164, comma 5, che "restano ferme le decadenze maturate e salvi i

diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione ". (Si noti che la

riforma del 2005 ha ritoccato l'ultimo comma dell'articolo 164, sostituendo il

riferimento all'ultimo comma, con quello al secondo comma dell'articolo 183) .

Quali sono le conseguenze dell'inadempimento dell'ordine di cui all'articolo 164,

comma 5? Premesso che l'incipit di tale comma lascia intendere che il rilievo

della nullità possa avvenire anche d'ufficio ( "il giudice, rilevata la nullità.... "), si

osserva che il giudice assegna un termine perentorio, che anche in questo caso

deve trarsi dall'articolo 307, comma 3. Poiché, a motivo della nullità, il termine di

comparizione non ha potuto essere fruttuoso per la difesa del convenuto,

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appare ragionevole svolgere le stesse considerazioni effettuate a proposito della

nullità della in jus vocatio quanto a misura del termine. Comunque alla

fattispecie appare pienamente applicabile, nonostante alcune incertezze

dottrinali, l'articolo 307, comma 3, laddove stabilisce che "il processo si

estingue... qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione... non vi

abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito... dal giudice che dalla

legge sia autorizzato a fissarlo ". È evidente che, nel caso di specie,

l'integrazione tramite fissazione di nuova udienza è del tutto equipollente, visto il

suo scopo, alla rinnovazione disposta per il caso di mancata costituzione. (40)

In caso di mancata costituzione del convenuto, se il giudice non ha verificato la

nullità nella prima udienza, ciò non gli toglie il potere-dovere di farlo

successivamente, perché la sua omissione non ha certo effetto sanatorio. Si

pone quindi la questione di cosa accade, nell'ipotesi in cui la nullità non sia stata

rilevata e non si sia ad essa provveduto in limine litis, agli atti processuali

frattanto compiuti. Appare ragionevole ritenere, visto anche il dettato del

secondo comma del nuovo articolo 183 - che a differenza del previgente

articolo 180 indica espressamente come esito di verifica ex articolo 164 la

fissazione di altra udienza di trattazione - che la nullità dell'atto introduttivo si

propaghi automaticamente su tutti gli atti compiuti prima del suo rilievo e che

pertanto, dopo la rinnovazione, altrettanto automaticamente il giudizio debba

regredire in limine litis. (41)

Quanto poi alle conseguenze, in sede di impugnazione, di una non rilevata

nullità della editio actionis, si ritiene siano riconducibili alla nullità della sentenza

impugnata.

L'omologo dell'art.164 c.p.c. per le conseguenze della carente editio actionis

della domanda riconvenzionale (è evidente che qui non vi è profilo di in jus

vocatio, essendo stato il processo già incardinato da controparte) è la seconda

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parte dell'art.167, comma 2, c.p.c., che indica come presupposto di tale carenza

l'omissione o assoluta incertezza dell' “oggetto” o del “titolo” della domanda,

prevedendo il rilievo anche d'ufficio e la conseguente assegnazione di termine

perentorio di integrazione, con effetto ex nunc. Ciò comporta, ovviamente, la

fissazione di ulteriore udienza ex art. 183, comma 2; e se l'integrazione non

viene eseguita, la nullità non sarà sanata, per cui, ovviamente, la domanda

riconvenzionale non potrà valutarsi nel merito. Come si è visto, la dizione è

diversa da quella dell'art. 164, comma 4, per cui si è prospettata anche una

lettura che nel “titolo” includa gli elementi di diritto della domanda. La questione

è discutibile. Premesso che la norma è di rara applicazione, va peraltro ricordato

che, se si adotta la lettura più conforme alle esigenze costituzionali di

semplificazione e celerità insite logicamente nel principio della ragionevole

durata valorizzando realmente, ai fini dell'ammissibilità della domanda

riconvenzionale, l'art. 36 c.p.c. e non circoscrivendo l'incidenza dei confini posti

da tale norma alle ipotesi in cui venga coinvolto l'aspetto della competenza,

l'identificazione del titolo inclusiva ab origine pure delle ragioni di diritto assume

un rilievo comprensibile nella domanda riconvenzionele. L'argomento può però

rovesciarsi, rilevando che a questo punto, per consentire all'avversario

l'esplicazione del diritto di difesa tramite domanda riconvenzionale ammissibile

ex art. 36 c.p.c., anche l'editio actionis della domanda principale dovrebbe

includere una chiara proposizione del titolo (a parte l'ipotesi in cui il titolo della

domanda riconvenzionale sia l'eccezione riconvenzionale). Questi profili

sfociano quindi nella trattazione, per cui non possono approfondirsi in questa

sede.

Un ulteriore profilo di verifica degli atti introduttivi concerne la difesa tecnica.

L'articolo 163, comma 3, n. 6, impone che nella citazione siano indicati il nome e

cognome del difensore e la procura,se già rilasciata.. Dal canto suo l'articolo

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166 stabilisce che il convenuto (si prescinde qui dalle ipotesi in cui la difesa

tecnica non è necessaria ex articolo 82 c.p.c. ) si costituisce a mezzo di

procuratore e nel fascicolo che deposita deve essere inclusa la procura. Come è

noto, l'articolo 83 c.p.c. indica le modalità di conferimento della procura.

L'articolo 125 c.p.c., poi, stabilisce che la procura può essere rilasciata fino alla

costituzione, che nei processi introdotti con citazione è successiva alla notifica

di questa. Se la procura non è rilasciata entro tale termine, si verifica una nullità

insanabile della citazione, per consolidata giurisprudenza. (42)

Peraltro, se la parte si costituisce con la cosiddetta velina (quindi rinviando la

produzione dell'originale notificato, da eseguirsi entro dieci giorni dalla notifica)

(43), oppure se la copia notificata è priva di procura, la giurisprudenza ha

ritenuto sufficiente a dimostrare che la procura sia stata conferita prima della

notificazione l'annotazione "mandato sull'originale" o altra equivalente trascritta

a margine della copia notificata oppure l'indicazione nell'epigrafe della copia del

difensore come destinatario della procura speciale ( Cass. 2005 n. 6169 ).

Come si è detto, non è sanabile tramite alcuna ratifica il mancato conferimento

della procura oltre la costituzione ex articolo 125, comma 2, c.p.c.; la

giurisprudenza, quindi, ritiene ( non senza dissensi in dottrina ) che tale

fattispecie abbia una disciplina autonoma, non riconducibile all'articolo 182

c.p.c. che riguarda invece, prevedendone la sanatoria, il difetto di

rappresentanza, assistenza o autorizzazioni di chi la procura conferisce.

Nel caso di costituzione tramite difensore privo di jus postulandi - e qui entra in

gioco pure l'ipotesi della costituzione di convenuto senza la procura - la parte è

da ritenere contumace (44).

Qualora poi la firma di chi conferisce la procura sia illeggibile, le Sezioni Unite,

con le due pronunce del 7 marzo 2005 (4810 e 4814 ) hanno affermato che ciò

è irrilevante se il nome di chi ha firmato risulta dal testo della procura o dalla

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certificazione di autografia, (45) o ancora dall'indicazione di una specifica

funzione che renda identificabile il suo titolare tramite i documenti di causa o il

registro delle imprese; in difetto di ciò, come pure quando non viene indicata la

funzione specifica, ma qualificato genericamente chi firma come "legale

rappresentante ", si ha una nullità relativa che controparte deve eccepire nella

prima difesa, così che l'interessato integri nella prima difesa successiva tale

carenza; e in difetto di integrazione, si avrà nullità della procura e inammissibilità

dell'atto relativo.

Nullità insanabile sussiste invece se manca la sottoscrizione dell'atto (Cass.

1978 n. 5077 ) oppure se la sottoscrizione è di una parte non autorizzata a stare

in giudizio personalmente.

Logicamente successiva verifica, che il giudice deve effettuare anche d'ufficio, è

quella della regolarità della costituzione delle parti ex articolo 182 c.p.c., per

quanto concerne rappresentanza, assistenza e autorizzazioni ( per esempio, per

i minori, per le persone giuridiche, per gli enti pubblici, per il fallimento )

invitandole a "completare o a mettere in regola gli atti e i documenti... difettosi ".

Il primo comma dell'articolo 182 appare interpretabile nel senso che il giudice

verifica la regolare costituzione delle parti (secondo una lettura anche sotto

l'aspetto fiscale) e la presenza dei documenti offerti in allegazione agli atti

introduttivi. Il nucleo centrale è però il secondo comma. Si ricorda che, mentre

con la legge 142 del 1990 per gli enti locali era necessario che il mandato alla

lite fosse accompagnato da una delibera della giunta, l'articolo 50 del t.u. enti

locali (d.lgs. 2000 n.267 ) ha modificato la normativa e conseguentemente le

Sezioni Unite, nella pronuncia 2005 n. 12868, hanno riconosciuto che lo statuto

del comune, o il suo regolamento se lo statuto a esso rinvia, possono affidare il

potere di rappresentanza in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori,

per cui solo dove manca una specifica disposizione in tal senso il sindaco

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conserva la titolarità esclusiva del potere di stare in giudizio per il comune.

Per quanto riguarda il condominio, l'amministratore ne ha la rappresentanza

passiva in giudizio ex articolo 1131, comma 2, cod. civ. anche senza delibera

autorizzativa, tranne per le cause che non rientrano tra quelle che

l'amministratore può autonomamente proporre ai sensi del primo comma; il

secondo comma infatti ha come ratio solo favorire il terzo che agisce contro il

condominio consentendogli di citare soltanto l'amministratore e non tutti i

condomini, ma ciò non significa che l'amministratore sia legittimato a resistere in

giudizio senza autorizzazione dell'assemblea ( Cass. 2004 n. 22294 ). Quindi

nell'udienza ex articolo 183 c.p.c. il giudice dovrebbe verificare se la

controversia esula da quelle del primo comma dell'articolo 1131 cod. civ. per

disporre in tal caso la regolarizzazione tramite la produzione della occorrente

delibera.

Nell'ipotesi in cui il giudice abbia dato disposizioni ex articolo 182, comma 2

c.p.c. e queste non siano state adempiute, è logico ritenere che la causa debba

essere immediatamente trattenuta in decisione sulla questione di rito se

concerne l'attore ( la cui domanda dovrebbe dichiararsi inammissibile ); se la

questione riguarda il convenuto, se ne dovrà dichiarare la contumacia.

Anche recentemente la Cassazione ha valorizzato l'articolo 182 c.p.c.

affermando ( sentenza 8241 del 2006 ) che la mancata produzione delle

autorizzazioni necessarie da parte del legale rappresentante di un ente, se è

rilevata in sede di decisione, rende inammissibile la domanda, perché il potere

di invito alla legalizzazione ex articolo 182, comma 2, può esercitarsi soltanto in

fase istruttoria. Con un simile asserto appare coerente, sempre tra le pronunce

recenti della Suprema Corte, la sentenza 5515 del 2006 che ha ritenuto non

censurabile in sede di impugnazione il mancato esercizio del potere di invito alla

regolarizzazione; non del tutto coerente, invece, appare la coeva sentenza 8435

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del 2006, secondo la quale, in caso di omesso deposito, questa volta, della

procura generale ad lites, il giudice deve, anche in sede di decisione collegiale e

anche in fase di appello, invitare la parte ex articolo 182, comma 1, c.p.c., a

produrre il documento, essendo tale produzione tale da sanare ex. tunc il

conseguente difetto di costituzione. A sua volta, il difetto di legittimazione

processuale del rappresentante è stato ritenuto sanabile in ogni stato in grado di

giudizio tramite la costituzione del soggetto legittimato che ratifichi anche

tacitamente l'operato del falsus procurator (Cass. n. 7879 del 2006 ).

Sempre logicamente preliminare alla trattazione e derivante dalla verifica del

contenuto degli atti introduttivi è il rilievo da parte del giudice dell'eventuale

difetto di giurisdizione nonché - e per questo scatta pure la barriera preclusiva

dopo l'udienza ex articolo 183 c.p.c.- dell'eventuale difetto di competenza per

materia, per valore o per territorio inderogabile. Riguardo alla competenza, va

segnalato che il suo consolidamento ha subito a sua volta un giro di vite dalla

riforma del 2005, analogo a quanto è accaduto per l'eccezione in senso stret to:

mentre quest'ultima era proponibile entro il termine assegnato nell'udienza ex

articolo 180 c.p.c., il profilo della competenza inderogabile rimaneva vitale fino

all'udienza successiva, quella di trattazione secondo il previgente articolo 183

c.p.c..; ora, la soppressione dell'udienza "anticamera" modifica il contenuto

dell'articolo 38, comma 1, c.p.c., per cui è da ritenere che anche questa verifica

faccia parte delle verifiche preliminari della fase introduttiva del nuovo articolo

183 c.p.c. Rientra pure nei rilievi preliminari, in quanto "non può essere eccepita

dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza" ex articolo 40, comma 2,

c.p.c., la questione della connessione.

Si tratta di aspetti che concernono una prima valutazione non formale del

contenuto degli atti introduttivi, correlata alla loro funzione di editio actionis. Su

questo piano si colloca un altro genere d'incombente, menzionato in via

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39

espressa dall'art.183, comma 1: quello, che ora si approfondirà, dell'estensione

del contraddittorio.

6. L'estensione del contraddittorio necessaria e facoltativa

La verifica del litisconsorzio necessario deve effettuarsi d'ufficio, secondo il

contenuto della domanda, indipendentemente dalla condotta dei convenuti

(Cass. 2005 n. 10130 ). Si tenga conto infatti dell'art.101 c.p.c., che sottrae al

potere dispositivo delle parti la completezza del contradditttorio. La

determinazione di una fattispecie in cui si rende necessaria l'integrazione, poi,

può essere, nonostante l'esplicito dettato dell'art. 183, comma 1, inattuabile in

limine litis, occorrendo allo scopo integrazioni probatorie ( per esempio, nelle

cause di diritti reali o successorie occorre avere a disposizione certificati

catastali e/o certificati anagrafici storici.) Il giudice quindi attraverso questa

verifica entrerà nella vera e propria trattazione, chiedendo chiarimenti alle parti e

segnalando la necessità di integrazioni documentali. Al quarto comma l'articolo

183 dispone proprio che "il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati,

i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene

opportuna la trattazione ". Ciò dovrebbe avvenire, secondo la struttura

complessiva della norma, all'esito della fase preliminare dei primi due commi; se

però gli elementi agli atti non consentono di accertare l'esistenza di un

litisconsorzio necessario non integro, ma fanno concretamente emergere tale

eventualità, non può non applicarsi il quarto comma. Per chiarire la questione,

allora, e in particolare per la produzione dei documenti necessari, non appare

tuttavia idonea la sequenza dei termini di cui al sesto comma, essendosi ancora

su un piano preliminare di dubbia conformazione soggettiva del contraddittorio.

Appare pertanto ragionevole ritenere che il giudice inviti le parti al chiarimento,

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anche documentale, necessario per risolvere questo aspetto, rinviando

eventualmente ad altra udienza sempre riconducibile però all'articolo 183,

comma primo, e magari autorizzando le parti a uno scambio ex articolo 170

c.p.c. di memorie sulla questione, con allegate produzioni.

Si coglie l'occasione per segnalare un ulteriore profilo di "svuotamento" inflitto

dalla riforma del 2005 all'art.180 c.p.c. Il testo previgente dell'articolo 180, al

comma 2, dopo avere enunciato l'oralità della trattazione davanti al giudice

istruttore, conferiva a questi il potere di autorizzare comunicazioni di comparse

ex articolo 170, ultimo comma. Il nuovo testo ha espunto questa previsione. La

conformazione letterale dell'articolo 170, ultimo comma, lascia però intendere

l'esistenza di un potere del giudice di autorizzare memorie anche al di là dei casi

espressamente previsti dalla normativa ( si noti in particolare l'inciso "in

qualunque stato e grado del giudizio "). Tale potere discende del resto anche

dalla lettura dell'articolo 175, comma 2, c.p.c. in relazione diretta al principio

costituzionale di contraddittorio, ovvero al diritto di difesa, essendo notorio che

la memoria scritta è strumento per il suo esercizio, e l'enunciazione dell'oralità

della trattazione, ex articolo 180 c.p.c., non può quindi intendersi come un

divieto dell'utilizzo di tale strumento, ma piuttosto come l'indicazione di una sua

programmatica eccezionalità. Si è di fronte, dunque, a un'ulteriore ipotesi di

interpretazione costituzionalmente orientata necessaria per stornare

un'apparente lacuna scaturita dal restyling del 2005.

Tornando al litisconsorzio necessario, non è ovviamente possibile in questa

sede analizzare i singoli casi alla luce delle normative sostanziali. Va peraltro

ricordato che, sul piano dei criteri generali, anche recentemente la Suprema

Corte ha dato indicazioni, insegnando che, a parte le ipotesi in cui è

espressamente previsto dalla normativa,(46) il litisconsorzio necessario si

verifica quando l'azione è diretta alla modifica o alla costituzione di un rapporto

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plurisoggettivo oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile comune

a più soggetti ( sentenza 17027 del 2006 ) o anche quando la domanda è diretta

all'accertamento di un rapporto giuridico plurisoggettivo ( sentenza 7079 del

2006; peraltro, in caso di domanda di accertamento di usucapione, si è ritenuto

necessario il litisconsorzio fra comproprietari soltanto dal lato passivo e non dal

lato attivo ).

Anche in questo caso, il riscontro della fattispecie comporterà la fissazione di

udienza ulteriore ex art. 183, comma 2; e se il rilievo non è fatto in limine litis,

quando avverrà comporterà regressione del giudizio, per ovvi motivi di tutela del

pretermesso (è noto che le pretermissione integra il caso tipico di sentenza

inutiliter data). La pienezza di tutela che compete ad ogni litisconsorte

necessario si evince anche da una recente sentenza della Corte Costituzionale,

la n. 41 del 2006, che ha dichiarato illegittimo il combinato disposto degli articoli

38 e 102 c.p.c. laddove consentivano " di ritenere improduttiva di effetti

l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile proposta non da tutti i

litisconsorti necessari ". L'ingresso tardivo nel processo di un litisconsorte

pretermesso, quindi, comporta una regressione che può pervenire, a seconda

delle difese che concretamente egli riterrà di spiegare, a una fase addirittura

anteriore all'udienza ex articolo 183 c.p.c.: si ricorda infatti che quando l'udienza

avviene, è già scattata la preclusione per quanto riguarda l'eccezione di

incompetenza territoriale derogabile. La plurisoggettività, in sintesi, incide solo

sugli aspetti positivi di tutela, senza in alcun modo comportare alcuna deminutio

dei poteri processuali dei singoli.

Interessata ad adempiere all'ordine ex articolo 102 c.p.c. è ovviamente parte

attrice; se entro il termine perentorio - per la determinazione della cui durata si

applica l'articolo 307, comma 3, e possono riproporsi le considerazioni già

svolte sulla necessità di adeguamento da parte del giudice della sua

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42

determinazione ai termini di comparizione, in modo da non collocare neppure il

litisconsorte in una posizione deteriore rispetto agli altri soggetti chiamati in

giudizio - l'ordine non è adempiuto, si applica l'articolo 307, comma 3, c.p.c., con

conseguente estinzione del processo che la parte interessata ( comma 4 ) dovrà

eccepire nella sua prima difesa (quindi, in concreto, la parte convenuta).

Ovviamente, se la in jus vocatio non è andata a buon fine per cause non

imputabili alla parte, si applicherà l'articolo 184 bis c.p.c. in relazione ai principi

generali della rimessione in termini. (47)

Occorre ora esaminare l'ipotesi di estensione del contraddittorio ex articolo 106

c.p.c.

L'incidenza su questo aspetto della riforma del 2005 è una delle questioni più

problematiche delle prime letture. Per meglio comprenderlo, è opportuno

anzitutto ricapitolare quello che si è finora esaminato. L'articolo 183 al primo

comma ricicla quello che nel rito precedente era l'udienza ex articolo 180; ne

deriva, se del caso, la fissazione di una ulteriore udienza ex articolo 183 come

stabilito dal secondo comma dello stesso. L'unica differenza tra il testo del primo

comma del nuovo articolo 183 e l'originario articolo 180, primo comma, sta nel

fatto che mentre in quest'ultimo si faceva riferimento all'articolo 164 e all'articolo

167 tout court, nell'articolo 183 "nuovo" il riferimento è all'articolo 164 "secondo,

terzo e quinto comma " e all'articolo 167 "secondo e terzo comma". L'articolo

167 secondo comma è evidentemente il corrispondente, dal punto di vista del

convenuto, dell'articolo 164 quarto e quinto comma dal punto di vista dell'attore.

Non crea problemi il fatto che dell'articolo 164 non sia stato richiamato il quarto

comma, in quanto il quinto comma, richiamato, è quello che prevede il

provvedimento che scaturisce dalla verifica di cui al quarto comma. Dunque,

applicando l'articolo 167, secondo comma, il giudice emette un provvedimento

simmetrico rispetto a quello derivante dalla nullità della citazione, e la situazione

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43

rimane corrispondente al rito precedente. L'unica differenza è l'accelerazione

dovuta alla concentrazione di tutti gli incombenti, potenzialmente, nell'udienza:

ex articolo 183. La situazione rispetto al rito precedente appare invece diversa,

al di là del profilo della concentrazione, per quanto concerne l'articolo 167 terzo

comma. Tale norma non si pone in simmetria con l'articolo 164 perché non ha

niente a che vedere con le nullità, riguardando soltanto la chiamata del terzo da

parte del convenuto e collegandosi pertanto all'articolo 269 c.p.c.. Quest'ultimo

è stato oggetto a sua volta di riforma del quinto comma: "Nell'ipotesi prevista dal

terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima

udienza di trattazione, ma i termini eventuali di cui al sesto comma dell'articolo

183 sono fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo ".

Se si confronta questo testo con quello precedente emerge chiaramente che il

coordinamento ha riguardato soltanto la questione dei termini, sostituendo quelli

del novellato articolo 183, sesto comma, ai termini dell'articolo 183, ultimo

comma, e dell'articolo 184 nel testo precedente. Dunque questo intervento non

è significativo in rapporto al richiamo del terzo comma dell'articolo 167 da parte

del nuovo primo comma dell'articolo 183. Le opzioni interpretative sono dunque

due. O si ritiene che il rinvio al terzo comma dell'articolo 167 sia un "refuso"

tamquam non esset, oppure se ne traggono conseguenze applicative. In

quest'ultimo caso deve allora ritenersi che sia stato abrogato il meccanismo che

comportava lo spostamento di udienza con provvedimento a questa anteriore in

caso di chiamata di terzo richiesta nella comparsa di risposta: il provvedimento

deve ora assumersi nell'udienza ex articolo 183, per combinato disposto dei

commi primo e secondo di tale norma, comportando uno sdoppiamento

dell'udienza come accade per gli altri provvedimenti previsti in tali disposizioni.

Deve quindi ritenersi implicitamente abrogato, ex articolo 15 prel. in quanto

incompatibile con norma successiva, l'articolo 269, secondo comma, nella parte

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44

in cui prevede che il giudice dispone con decreto lo spostamento dell'udienza,

dovendosi ora ritenere che disponga con ordinanza ai sensi dell'articolo 183,

secondo comma. Può invece ritenersi che il convenuto resti obbligato, pena

decadenza, a chiedere nella comparsa di risposta lo spostamento - ora

“sdoppiamento” - dell'udienza per la chiamata: vale a dire, ora, l'applicazione,

con ordinanza, dell'articolo 183, secondo comma.

Ma se la decisione sulla chiamata del terzo richiesta dal convenuto deve tornare

ad essere assunta in contraddittorio, come avveniva prima della riforma degli

ami 90, deve individuarsi una ratio per questa apparente “regressione” del

legislatore. La ratio, logicamente e tautologicamente, non può che individuarsi

nella tutela del contraddittorio, appunto; ma se l'attore può interloquire sulla

richiesta di chiamata avanzata dal convenuto, questo da un lato significa che -

affinché tale esercizio del diritto di difesa da parte dell'attore non sia

concretamente inutile - il provvedimento del giudice ( che infatti non è più

decreto ma ordinanza ) non si limiterà più a fissare automaticamente un'altra

udienza, come nel rito previgente, ma comprenderà anche un vaglio della

congruità della chiamata in rapporto alle difese del convenuto e in generale al

thema decidendi che emerge dagli atti introduttivi. Dall'altro, ciò comporta una

"deminutio” rispetto alla completa parificazione del convenuto all'attore per

quanto riguarda la facoltà di estendere il contraddittorio. I profili di problematicità

costituzionale invocati da chi sostiene che la riforma non abbia portato jus

novum in questo campo (rifacendosi alla nota Corte Costituzionale 1997 n. 80,

la quale aveva ritenuto ragionevole la insindacabile facoltà del convenuto nella

sua prima difesa di ampliare l'ambito soggettivo del processo per parificarne la

posizione a quella dell'attore) (48) devono però, ormai, confrontarsi con il nuovo

principio della ragionevole durata del processo. Rispetto a questo, infatti, si

misura l'effettiva “utilità” dell'esercizio del diritto di difesa attoreo sopra

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45

evidenziato, in modo più che comprensibile tenuto conto della defatigatorietà di

certe chiamate introdotte come strumento di pura tattica processuale.

Si tenga presente che nel comma quinto dell'articolo 183 novellato si riproduce,

quanto alla chiamata del terzo ad opera dell'attore, senza modifiche il testo del

quarto comma dell'articolo 183 anteriore alla riforma del 2005. Si deve perciò

dedurre che le modalità della chiamata di terzo rimangono intatte e vi è un

“refuso”? O, quantomeno, la diversa formulazione dell'articolo 183 rispetto alla

chiamata chiesta dal convenuto e alla chiamata chiesta dall'attore - solo in

quest'ultimo caso si parla di autorizzazione e si prospetta un vaglio di merito

("se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto ") - implica che solo il

provvedimento relativo alla chiamata da parte dell'attore è una autorizzazione

mentre il provvedimento relativo alla chiamata da parte del convenuto non

comporta alcun vaglio che non sia quello della tempestività della richiesta? Una

simile lettura renderebbe ingiustificabile la modifica normativa, privandola

dell'unica ratio prospettabile. A questo punto, allora, varrebbe la pena di

sostenere l'alternativa più drastica, cioè che il riferimento all'articolo 167, terzo

comma, è un mero refuso, dato che applicarlo in tal modo: comporterebbe solo

un insensato aggravamento dei tempi processuali. Questa “correzione”

interpretativa della legge appare tuttavia veramente difficile da sostenere: non si

tratta, infatti, di una mancanza di coordinamento come, per esempio, se fosse

rimasta nel nuovo testo un'indicazione presente nel testo previgente, là

significativa e non più in quello attuale. Nel caso di specie, al contrario, si è

introdotto un elemento nuovo di esplicita specificazione rispetto al testo

precedente, introduzione quindi che dovrebbe avere un senso, in rapporto

anche al generale principio ermeneutico di conservazione. Appare quindi

difficilmente eludibile l'opzione che riconosce in tale inserzione una effettiva

modifica rispetto al sistema antecedente; modifica che, si ripete, appare

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46

giustificabile solo in rapporto al diritto di difesa in combinato disposto con il

principio della ragionevole durata del processo. D'altronde, deve ricordarsi, chi

non ottiene l'autorizzazione alla chiamata rimane comunque tutelato dalla

possibilità di instaurare separatamente un altro giudizio contro il soggetto che

voleva chiamare. La difformità di dizione sopra evidenziata appare in questo

contesto superabile considerando che la formula del novellato comma quinto

dell'articolo 183 è tralatizia rispetto al testo previgente, mentre per quanto

riguarda la decisione sulla chiamata richiesta dal convenuto l'abrogazione

implicita dell'articolo 169, secondo comma, nella parte in cui concerneva il

provvedimento del giudice, fa sì che non si possa considerare "sopravvissuta"

alcuna connotazione di automatismo nel provvedimento in questione: non si

tratta più di decreto, ma di ordinanza, e ragionando in rapporto alla tutela

effettiva del diritto di difesa non si può quindi negargli un contenuto autorizzativo

in senso proprio.

A questo punto, se si ritiene che una facoltà sindacabile per il convenuto di

chiamare terzi costituisca una lesione del suo diritto di difesa e della sua parità

con l'attore, occorre trovare un supporto nella lettera del nuovo articolo 183

c.p.c. oppure attivare il vaglio di legittimità costituzionale: l'interpretazione

costituzionalmente orientata, infatti, rimane sempre interpretazione, e non

correzione. È d'altronde senz'altro più auspicabile, visto che, come appena

evidenziato, la lettera lascia spazi estremamente ridotti se non inesistenti (non

paiono condivisibili, per esempio, quelle letture secondo le quali l'articolo 183

menziona l'incombente della chiamata in causa per l'ipotesi in cui il giudice non

abbia provveduto prima, magari per un disguido di cancelleria: (49) più che una

lettura forzata, questa confligge con il principio di conservazione, essendo già

più che ovvio che il giudice che omette di provvedere su un'istanza non ne è poi

per questo esonerato), piuttosto che instaurare prassi forzate, rimettere la

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questione al giudice delle leggi. (50)

Ad avviso di chi scrive, invece, non è incompatibile con i principi costituzionali

che il giudice, dal ruolo meccanico di puro "manovratore cronologico" che gli

attribuiva il sistema dello spostamento dell'udienza prima dell'udienza stessa,

ritorni ad essere investito di una funzione giurisdizionale, dirimendo l'esito del

contraddittorio delle parti tramite un vaglio dell'ammissibilità della chiamata. Si

tratta infatti, in ultima analisi, di un potere autorizzativo finalizzato non certo a

tarpare le ali al convenuto sotto il profilo della parità con la controparte, quanto

piuttosto ad apporre un filtro a iniziative processuali che, si ripete, potrebbero

essere – ed esserlo efficacemente, vista la durata dei termini di comparizione -

defatigatorie. Nell'interpretare poi il novellato articolo 111 Cost. occorre

ovviamente ricordare che sarebbe letto parzialmente se rapportato solo a un

obiettivo di accelerazione, senza tenere conto della natura di ciò che deve avere

la ragionevole durata, ovvero senza tenere conto dell'altra inscindibile parte del

canone, cioè del concetto di contraddittorio e dunque di difesa. Si potrebbe

allora affermare che viene leso il diritto di difesa del convenuto, perché questi

risulta privato della parità delle armi quanto alla estensione del contraddittorio?

Ma a ben guardare la chiamata del terzo non è un diretto strumento di difesa

verso l'attore, perché non si collegano processualmente tramite essa l'attore e il

chiamato: i rapporti processuali restano distinti. Non si tratta quindi di

estensione del contraddittorio nei confronti dell'attore come nei casi di cui agli

articoli 102 e 107 c.p.c., bensì dell'affiancamento di altro processo, così da

creare un simultaneus processus analogo alla fattispecie ex articolo 274 c.p.c.

Ma non vi è diritto al simultaneus processus, tanto è vero che quello ex articolo

274 c.p.c. (come quello ex artt. 103, comma 2 e 104, comma 2 c.p.c.) è un

potere discrezionale del giudice ( a parte ovviamente i casi di riunione ex lege ).

La tutela generale della sfera giuridica ( cioè non specificamente verso l'attore,

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48

bensì tramite l'attuazione di un processo connesso " compensativo ") come si è

detto può ben essere esercitata dal convenuto, se la chiamata non è

autorizzata, instaurando tale processo in modo separato, nessuna preclusione

sorgendo infatti dal rigetto dell'istanza di chiamata, che ha contenuto

ontologicamente endoprocessuale. Se non vi è dunque lesione al diritto di tutela

processuale dei propri interessi sostanziali, non si vede perché il profilo

acceleratorio debba essere conculcato, dilatando i tempi e aggravando la

regiudicanda. Tant'è vero che queste chiamate sono gradate ( o espressamente

o comunque logicamente) rispetto alla linea difensiva del convenuto nei

confronti dell'attore, funzionando appunto non come difesa verso quest'ultimo,

bensì come "cautela "rispetto agli esiti della difesa suddetta. (51)

Un ulteriore profilo attinente alla chiamata del terzo è quella della cosiddetta

domanda trasversale, cioè la domanda che il convenuto dispiega nei confronti di

un altro convenuto ( è il caso più frequente ) oppure il chiamato nei confronti di

un altro chiamato, oppure ancora l'attore nei confronti del chiamato dal

convenuto o il chiamato nei confronti di un convenuto che non sia quello che lo

ha introdotto in causa. È evidente la caratteristica di trasversalità perché la

domanda viene rivolta nei confronti di un soggetto per così dire laterale rispetto

a quello che la propone, e dunque non collegato ad esso da un rapporto

processuale diretto: la questione si individua quindi dell'ammissibilità o meno di

una tale domanda senza avvalersi del meccanismo per la chiamata in causa di

terzo. Ulteriore interrogativo è se tale domanda sarà vincolata ai limiti delle

cosiddette domande riconvenzionali ( art. 36 c.p.c. ), considerato il fatto che

riconvenzionale non è, non essendo una domanda "di replica " nei confronti di

un soggetto che abbia già proposto una domanda verso chi fa la domanda

trasversale. Proprio perché non è "replica ", si potrebbe dire che non potrà mai

svolgere un ruolo affine a quello della reconventio reconventionis, e dunque il

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49

termine per la proposizione dovrebbe coincidere con quello della tempestiva

costituzione della parte che la propone, non potendo essere introdotta nella

successiva fase di determinazione integrativa della regiudicanda di cui

all’udienza e ai termini ex art. 183 c.p.c.

Parte di questi problemi si spegne se si riconduce la proposizione della

domanda al meccanismo della chiamata di terzo, con le sue correlate

decadenze; se poi si aderisce alla tesi per cui nel nuovo sistema non esiste più

l'automatico spostamento di udienza, ma è ritornata la valutazione nel

contraddittorio dell'istanza di chiamata, per dare dei canoni a questo vaglio è

ineludibile l'articolo 36 c.p.c., in relazione anche ai principi costituzionali del

diritto di difesa e della ragionevole durata del processo intesi come presidio

della concentrazione e della celerità dello strumento processuale. Proprio per il

profilo della celerità si è ritenuto peraltro di ammettere la proposizione della

domanda trasversale senza richiedere chiamata, argomentando che la parte nei

cui confronti è diretta è già presente nel processo(52)

La giurisprudenza in tal senso, però, si muoveva nel rito anteriore alla

l.1990/353 (il cui articolo 29 modificò poi l'articolo 269 c.p.c.), che era intriso del

potere dispositivo delle parti, in un'ottica si può dire opposta a quella del rito

degli anni '90, da cui poi non si è discostato il legislatore del 2005. Se dunque le

parti potevano, con accettazione tacita del contraddittorio, dilatare ad libitum la

regiudicanda, vale a dire semplicemente non eccependo lo jus novum nella

prima difesa successiva alla sua introduzione, era logico anche ammettere la

proposizione di domande fra soggetti non collegati formalmente da rapporto

processuale, ma soltanto compresenti in un cumulo processuale o tutt'al più in

un litisconsorzio necessario. È chiaro che una simile struttura da un lato

valorizzava il potere dispositivo delle parti, formalmente, dall'altro

comprometteva sostanzialmente il loro diritto di difesa, aggirando la garanzia del

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termine di comparizione ex articolo 163 bis c.p.c. da cui si ricava il termine a

difesa stricto sensu detraendone quello (che serve per la difesa di controparte)

per la costituzione tempestiva. Proponendo la propria domanda nella comparsa

di risposta senza chiedere la chiamata in causa del soggetto verso cui è diretta,

invece, si riduce il termine a difesa allo spazio temporale tra la costituzione

tempestiva e l'udienza ex articolo 183 c.p.c.

Viene in gioco altresì l’eliminazione nel rito del 2005 del termine ad hoc per

proporre eccezioni in senso stretto oltre all'udienza preliminare ex articolo 180

c.p.c.; la compressione del diritto di difesa della "controparte trasversale " si è

dunque incrementata. Alla luce del combinato disposto dei principi costituzionali

di celerità e di difesa ( ragionevole durata del giusto processo ), appare allora

preferibile l'orientamento che opta per l'utilizzazione del meccanismo della

chiamata di terzo. In quest’ottica peraltro il potere dispositivo non incide, perché

allora la proposizione della domanda deve avvenire con l'istanza di chiamata, e

non semplicemente con l'introduzione della domanda stessa nel proprio atto

costitutivo. Si crea così un rapporto processuale diretto che, avendo a

presupposto un'autorizzazione in contraddittorio, salvaguarda anche dalle

iniziative defatigatorie, raggiungendo un equilibrato contemperamento tra le

esigenze di difesa e le esigenze di celerità.

La questione della chiamata di terzo ex art. 106 c.p.c. si presenta, infine, in

modo particolare nel giudizio monitoriamente introdotto, dove, per quanto

riguarda la chiamata in causa ad opera dell'opponente, sussiste una dicotomia

tra la giurisprudenza di legittimità e una consistente giurisprudenza di merito. A

fronte dell’orientamento di quest’ultima, secondo cui l’opponente può ( e deve,

pena decadenza) chiamare direttamente il terzo nella stessa citazione con cui

instaura la fase di cognizione piena, quindi per la stessa udienza per cui chiama

l’opposto, la Suprema Corte, nella sentenza 2000, n. 8718, ha affermato che il

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giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non contempla alcuna "inversione

della posizione sostanziale delle parti ", e ciò ha “effetti non solo nell'ambito

dell'onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine

processuale "; non è pertanto compatibile con tale procedimento l'articolo 269

c.p.c. "che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa,... dovendo in

ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto"

l'ingiunzione, "non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto

istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la

domanda è diretta, così che l'opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di

convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell'udienza,

nonché quella di notificare l'opposizione a soggetto diverso dal creditore

procedente in ingiunzione ) deve necessariamente chiedere al giudice, con lo

stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al

quale ritiene comune la causa sulla base dell'esposizione dei fatti e delle

considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo ".(54)

Il ragionamento presenta, in effetti, alcuni profili non del tutto appaganti.

Anzitutto, si identifica la posizione sostanziale con la posizione processuale,

partendo però dalla premessa che non vi è inversione della posizione

sostanziale. Si è sempre ritenuto, invece, che questo tipo di giudizio sia

caratterizzato dalla non coincidenza tra posizione sostanziale e posizione

processuale, mantenendo quindi sul piano processuale l'incidenza della

posizione sostanziale solo in quello che vi è inscindibilmente connesso, vale a

dire l'onere della prova. Perché la posizione sostanziale debba invece "dilatarsi"

così da plasmare di sè tutta la posizione processuale la pronuncia allora lo

motiva laddove afferma che le parti non possono essere originariamente altre

che quelle del decreto ingiuntivo; si tratta però di una spiegazione che, all’epoca

in cui maturò questo arresto, pativa una certa impronta apodittica. Ancor meno

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convincente era, nel vigore della normativa anteriore alla riforma del 2005, un

altro aspetto: precludere all'opponente, come convenuto sostanziale, la facoltà

di chiedere lo spostamento dell'udienza, e contestualmente precludergli anche

quella dell'attore, cioè citare direttamente. A questo punto l'opponente non ha

ruolo, né sostanziale né processuale, né di attore né di convenuto, e con l'atto di

opposizione deve chiedere al giudice una "autorizzazione" alla chiamata;

autorizzazione che, nel rito vigente all'epoca, non era prevista se non per la

chiamata dell'attore conseguente alle difese del convenuto, e quindi in un

contesto (l'udienza ex articolo 183 c.p.c.) di contraddittorio; contesto assente se

il giudice doveva, come pare dovesse desumersi da questa giurisprudenza,

emettere l'autorizzazione a seguito della citazione, prima quindi dell'udienza e,

se l'autorizzazione veniva concessa, fissandone un'altra. La giurisprudenza di

merito che si adeguò a questo orientamento di legittimità, infatti, trasformò

l'autorizzazione nel meccanico spostamento previsto per l'ipotesi di istanza di

chiamata di terzo proposta dal convenuto nella comparsa di risposta.

Non solo nella giurisprudenza di merito, ma pure in dottrina (55) questo

orientamento ha trovato resistenze.

A parte le argomentazioni logico-dogmatiche, tuttavia, decisamente difficile era

contrastare l'argomento a favore della tesi della giurisprudenza di legittimità

fondato sull'effetto pratico del contrasto: la creazione, cioè, di una incertezza del

diritto, per stornare la quale occorre adeguarsi alla Cassazione. (56)

Non è questa la sede per soffermarsi sull'effettivo potere normativo della

Cassazione del diritto vivente. Va solo ricordato che l'eventuale decadenza dalla

facoltà di chiamare un terzo, per l'opponente come per qualunque parte, ha

incidenza solo endoprocessuale ben potendo l'opponente instaurare una causa

separata nella quale, indubitabilmente come attore sostanziale e processuale,

citare il soggetto che voleva introdurre nel giudizio di opposizione a decreto

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ingiuntivo, ottenendo poi, eventualmente, una riunione ( che comunque non

toglie l'autonomia ai rapporti processuali, autonomia che però sarebbe rimasta

anche se il simultaneus processus fosse partito sin dalla citazione in

opposizione ). Quanto poi alle ipotesi di correzione di una chiamata diretta in

citazione da parte dell'opponente che sono state proposte per "sanare" l'altro

lato dell'incertezza, non appare condivisibile quella dell'autorizzazione ex post in

forza del potere di cui all'articolo 107 c.p.c.,(57) essendo principio generale che i

poteri ufficiosi non possono essere esercitati per sanare le decadenze in cui

sono incorse le parti.

I termini della tormentata questione si sono ora modificati, per il “combinato

disposto” della riforma 2005 – letta nel senso del ripristino del potere

autorizzativo – e di un recentissimo arresto delle Sezioni Unite.

L’interpretazione contrastante con la giurisprudenza di legittimità partiva dal

concetto che il giudizio monitoriamente introdotto ha delle evidenti

particolarità,(58) ma la legge non lo delinea come contenitore di un unico

rapporto processuale, comprimendo e mutilando la qualità di attore

dell'opponente nel senso di inibirgli di citare altri soggetti contestualmente

all'opposto, ovvero di porre in essere un cumulo processuale.

Questa impostazione deve fare ora i conti con l’ordinanza delle Sezioni Unite

n.20596 del 1 ottobre 2007, che, abbandonando la prevalente tradizionale

lettura, ha affermato che la litispendenza del giudizio monitorio ha come

condizione la notifica del ricorso-decreto, ma non coincide con la notifica stessa,

bensì retroagisce al deposito del ricorso. Infatti, affermano le Sezioni Unite, "il

terzo comma dell'art. 643, c.p.c. deve interpretarsi nel senso che la lite

introdotta con la domanda di ingiunzione deve considerarsi pendente a seguito

della notifica del ricorso e del decreto, ma gli effetti della pendenza

retroagiscono al momento del deposito del ricorso". Ciò scaturisce

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dall'applicazione al procedimento monitorio dei canoni dei procedimenti

instaurati con ricorso, vale a dire della regola che "per la costituzione del

processo è sufficiente che si realizzi il contatto tra due dei tre soggetti del

rapporto processuale, nulla rilevando che tale contatto abbia luogo fra le due

parti, come nei processi che iniziano con citazione, o tra una parte e il giudice,

come nei processi su ricorso "; e l'applicazione di tale regola non può essere

esclusa dal "fatto che, a differenza degli altri procedimenti su ricorso, nel

procedimento di ingiunzione il giudizio a cognizione piena è meramente

eventuale... perché, comunque, il diritto di difesa dell'ingiunto è garantito dalla

necessità che, per il verificarsi della litispendenza, con decorrenza dalla data del

deposito del ricorso, il ricorso stesso e il decreto debbono essere notificati”; e

infatti "la fondamentale funzione della notifica del ricorso e del decreto è di

provocare il contraddittorio ".(59)

Questo recentissimo insegnamento della Suprema Corte - che si inserisce

nell'ottica del favor creditoris cui la giurisprudenza di legittimità si è sempre

attenuta rispetto all'istituto monitorio - (60), dettato a proposito dell’art. 39 c.p.c.,

al contenpo introduce un elemento strutturale forte a sostegno della tesi, propria

della giurisprudenza di legittimità, che l'opponente deve chiedere

l'autorizzazione al giudice per chiamare il terzo, non potendo modificare di sua

mera iniziativa la struttura originaria del rapporto processuale. Seguendo questa

impostazione, la posizione dell'opponente non può più dirsi realmente

assimilabile a quella dell'attore processuale: il giudizio è incardinato con il

ricorso monitorio, per cui l'atto di citazione non lo instaura, ma semplicemente

completa il rapporto processuale aggiungendo ai due soggetti già presenti, cioè

il ricorrente-attore e il giudice, il terzo soggetto, cioè il convenuto. Deve ritenersi

che il deposito del ricorso non dà luogo soltanto al procedimento sommario di

ingiunzione, ma altresì al procedimento ordinario di opposizione all'ingiunzione,

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anche se tale effetto è condizionato alla resistenza concreta della controparte,

che si manifesta nella notifica del suo atto difensivo, la cosiddetta citazione in

opposizione. Appare allora quantomeno asimmetrica l'introduzione di un terzo

da parte del convenuto tramite tale suo atto difensivo. Questo trova proprio un

riscontro nel nuovo testo dell'articolo 183, comma 1, laddove richiama l'articolo

167, comma 3, interpretato nel senso che la chiamata di causa è ritornata una

facoltà sub judice, e non un automatico strumento della “parità delle armi ". Oltre

a questo vi è da considerare il fatto che i termini di comparizione, ex articolo

645, comma 2, c.p.c., sono ridotti, in questo tipo di giudizio, della metà. La

riduzione, se l'atto che li assegna è in effetti la comparsa di risposta in un

giudizio già instaurato con ricorso al giudice, appare quanto mai razionale, alla

luce del principio della ragionevole durata (ciò peraltro dovrebbe incidere pure

sul contenuto del ricorso monitorio, che dovrebbe a questo punto avere i

requisiti di una piena editio actionis per consentire le difese del convenuto,

come ordinariamente accade per un ricorso che introduca un giudizio

ordinario),(61) mentre discutibile diventa quella giurisprudenza che affida alla

libera scelta della parte opponente l'utilizzo del dimezzamento, non reputandolo

obbligatorio. È evidente che se obbligatorio fosse, d’altronde, vi sarebbe un

ulteriore motivo per escludere la facoltà di chiamata diretta in questo peculiare

"atto di citazione", perché al terzo sarebbero imposti, pur essendo rimasto

estraneo alla fase monitoria, dei termini di comparizione ridotti rispetto a quelli di

un giudizio ordinario, a prescindere da qualunque concreta urgenza, con

evidenti riflessi sul suo diritto di difesa.

Nel contesto, allora, delle novità normative e giurisprudenziali appare ormai più

solida di quella con essa contrastante l’interpretazione della Suprema Corte in

ordine alla chiamata del terzo da parte dell’opponente, da effettuarsi quindi con

istanza in citazione ed autorizzazione, previo specifico contraddittorio,

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nell’udienza ex art. 183 c.p.c., rientrando dunque anche questo incombente nel

novero delle verifiche preliminari e conseguendone la fissazione di udienza ex

art.183, comma 2, c.p.c.

NOTE (1)Ha definito "udienza aristotelica" quella delineata dal nuovo articolo 183 c.p.c. Stefani, Brevi note sulla novella al cubo, Relazione per gruppo di lavoro all'Incontro di studi La riforma del processo civile, Roma, 26-28 febbraio 2007 , 20. (2)Ci si permette di rinviare su questi aspetti a C.Graziosi, La nuova udienza di trattazione: una prima lettura, Riv.trim.dir.proc.civ.,2006, 954. (3) Con la riforma degli anni 90 l'art.80 bis att. c. p.c.,, introdotto dal d.p.r. 1950 n.857, prevedendo la remissione al collegio per la decisione - equivalente a precisazione di conclusioni per il giudicante monocratico - "anche nell'udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti", si è trovato a far riferimento all'udienza ex art.180 c.p.c. ma al tempo stesso a coesistere (o forse, appunto, soccombere) con l'art.183,comma1, c.p.c., da cui si poteva sfuggire solo se la natura della causa non consentiva la conciliazione. (4) Barbuto, Al giudice maggiori poteri di verifica, Guida al dir., 2005, 36, afferma che nel previgente rito la comparizione personale delle parti alla prima udienza di trattazione era sì obbligatoria ma "blandamente obbligatoria per l'assenza di sanzione"; e segnala come novità della riforma del 2005, "logicamente derivante dal nuovo regime di non obbligatorietà ", il fatto che "la mancata comparizione senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi del comma 2 dell'articolo 116 ". In realtà il previgente articolo 183, comma 1, indicava espressamente che la mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo era "comportamento valutabile ai sensi del secondo comma dell'articolo 116"; cosa che del resto si poteva già evincere dalla semplice lettura, di portata generale, di quest'ultima norma, laddove fa riferimento al contegno delle parti nel processo. (5) Con la riforma del 2005 di tale articolo - scrive A. Graziosi, Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo ordinario di cognizione, Rass. forense, 2006, 1533 - è stato "svuotato di ogni contenuto procedimentale e rimane a presidiare, un po' malinconicamente, il chiovendiano vessillo dell'oralità in un ambiente processuale ormai totalmente dominato dalla regola opposta ". (6) Definisce l'interrogatorio libero obbligatorio del previgente articolo 183 c.p.c. "in molte controversie... un'inutile perdita di tempo Scarselli, Brevi note sulle modifiche al codice di procedura civile previste dalla Legge n. 80 del 2005, Foro it., 2005, V, 174. Secondo Barbuto, cit., 36, invece, "è prevalsa la diffidenza verso il tentativo obbligatorio di conciliazione endo-processuale ", scelta non condivisibile "perché

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l'esperienza pregressa ha insegnato l'utilità, anche sotto il profilo psicologico, della obbligatorietà ex lege del contatto diretto fra le parti e il giudice nella fase iniziale ". Due opinioni esemplari dell'opposto approccio alla questione. Probabilmente, si nota per inciso, il punto sta proprio nella rilevanza del profilo psicologico: la pratica insegna che un tentativo obbligatorio di conciliazione in limine litis può essere proficuo nelle cause in cui o il valore economico è limitato oppure le parti sono presenti non tanto, per così dire, come soggetti solo economici quanto piuttosto come soggetti anche psicologici . A chi scrive non appaiono pertanto fondate,quanto meno in una certa misura, talune preoccupazioni/riprovazioni espresse, nelle prime letture del rito "competitivo" per l'eliminazione del passaggio obbligato conciliativo (cfr. per esempio Stefani, Brevi note, cit. ,5 ss., secondo il quale non è "culturalmente compatibile con la giurisdizione" il fatto che "la causa può essere decisa senza che la parte sostanziale incontri mai il suo giudice ", mentre la scelta del legislatore del 2005 avrebbe realizzato "non un processo improntato all'oralità ed alla speditezza" ma piuttosto "un processo ordalico e formale "). (7) Fabiani, Postilla minima sul rito societario dopo la legge 28. 12. 2005, n. 263, rileva come "a questo punto... le esigenze che avevano ideologicamente giustificato l'implementazione di un rito a cognizione piena speciale siano divenute ampiamente eccessive al cospetto di un rito ordinario che per effetto della - tendenziale e fisiologica - crasi tra udienza per gli adempimenti di cui all'articolo 180 c.p.c. e udienza di trattazione, si rivela oggi un giudizio estremamente concentrato, quasi al limite della sincope ". (8)La sopravvenienza di parti ulteriori, per intervento volontario o coatto, è stato uno dei temi scaturiti dall'articolo 70 ter att. c.p.c. maggiormente indagati dalla dottrina. Non è questa la sede per passare in rassegna le varie interpretazioni emerse; basti ricordare che la maggioranza degli autori esige il consenso del litisconsorte necessario (così Menchini, Il rito su accordo delle parti ai sensi dell'art. 70 ter att. c.p.c., Foro it. 2005, V , 210; Costantino, Modifica della fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Foro it., 2005, V, 103; Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 60; Cecchella, Commento all'art. 70 ter, in Il nuovo processo societario, a cura di Luiso, Torino, 2006, 628; Olivieri, La pluralità di parti nel processo a cognizione piena secondo il rito (necessario o concordato) del d.lgs.5/2003, www.judicium.it, sub 1; A. Graziosi, Appunti, cit., 1525 ss. (9) D'altronde la pluralità dei riti e la loro autonomia stanno avviando verso il superamento del concetto di rito ordinario (cfr. Corte cost. 1999 n. 191, secondo cui le difformità tra rito del lavoro e rito ordinario non consentono confronti nei quali sia ragionevole adottare uno dei due come modello per l'altro; e cfr. pure Cass. 2002 n. 14829 ). (10) Di conforme avviso Scarselli,op. cit., 173 s. Questo autore indica come suo "unico dubbio" il caso del litisconsorte necessario pretermesso "che non intenda aderire al rito societario già scelto dagli altri litisconsorti una volta chiamato in causa per

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integrare... ex art. 102 c.p.c. ": e lo risolve ritenendo che, anche in questo caso, il terzo chiamato in causa non abbia il diritto di far regredire il processo al rito ordinario, poiché la scelta del rito è rimessa, dalla legge, solo ad attore e convenuto, e poiché i riti sono equivalenti quanto alla tutela delle prerogative costituzionali. In realtà, solo quest'ultima argomentazione appare valida, quantomeno sul piano del dover essere: come si è detto, i riti devono tutti tutelare i principi costituzionali dettati per il processo. (Non si può sottacere, per inciso, che nel concreto potrebbe non esservi un'effettiva equivalenza sotto tale profilo tra un rito imperniato sulle preclusioni - dotato, sì, di un'uscita di sicurezza, ma stretta e impervia, qual è l'articolo 184 bis c.p.c. - e un rito che convoglia di nuovo le preclusioni nell'orbita del potere dispositivo delle parti, di più o meno consapevole esercizio a seconda della qualità della difesa tecnica, in un'ottica processuale che giustamente è stata definita "liberista "; eppure, paradossalmente, anche blindata in confronto al rito ordinario, perchè, come si è visto, da questo si può uscire, dal societario mai). La prima argomentazione, invece, non tiene conto del fatto che il litisconsorte necessario non può equipararsi a un chiamato in causa, essendo parte del rapporto principale al punto che, se la pretermissione non viene "corretta ", la sentenza sarà inutiliter data. Non può quindi ritenersi che il litisconsorte necessario, di per sé, non abbia le stesse prerogative di attore e convenuto: che poi non possa fare regredire il processo "disfando" l'accordo di scelta del rito tra essi intercorso trova fondamento, come si è detto, solo nel fatto che va tutelata la ragionevole durata del processo qualora non vi sia - e in questo caso non c'è -alcuna concreta lesione del diritto di difesa. (11)Cfr.Tiscini, Il rito convenzionale: note a margine dell'art. 70 ter att. c.p.c.,www. judicium.it, la quale rileva che finora la scelta del rito era riservata alla parte che introduceva il giudizio e si giustificava in relazione a una maggiore celerità nell'ottenimento di un titolo esecutivo. Non si può non osservare che, non offrendo oramai il rito societario alcun vantaggio nè di sommarietà nè di celerità rispetto al rito ordinario tradizionale, la ratio della norma appare individuabile nel conferimento al rito societario di una potenzialità tendenzialmente omnicomprensiva, che la pratica, peraltro, ha disatteso. (12) Un vero e proprio negozio giuridico processuale, come lo definisce Menchini, cit., 204; in dottrina è stato paragonato agli accordi sulla deroga della competenza o della giurisdizione ( anche da ciò deducendo la non necessità del consenso delle parti non originarie ) per sottolineare la legittimità costituzionale del rito elettivo (si veda ancora Menchini,op.loc.cit. che inoltre osserva come semmai "meno convincente è la limitazione delle possibilità di scelta, ossia il non avere posto sul medesimo piano i due riti ( nell'ottica del legislatore oramai entrambi ordinari ), lasciando alle parti la libertà di optare per l'uno o per l'altro relativamente a tutte le controversie per legge sottoposte ad uno di essi "; sul punto cfr. pure A. Graziosi, op.loc.cit., secondo il quale quello che lascia perplessi non è l'affidamento della scelta del rito alle parti, ma piuttosto "l'aver scelto il rito societario come unica alternativa a quello ordinario ", trattandosi

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d'altronde "di uno strumento ancora non metabolizzato dalla prassi giudiziaria ". (13) Cfr. in tal senso De Cristofaro, Il nuovo processo civile "competitivo" secondo la l. 80/2005, www. judicium.it, sub 2; Tiscini, cit., sub 4, secondo la quale nell'udienza non sarebbe neppure applicabile l'articolo 181 c.p.c.; Consolo, Competizione sì, ma più che altro fra riti e fra legislatori processuali (sulla legge n. 80/2005), Corriere giur., 2005, 894, e Menchini,cit., 207; ritiene invece che l'udienza non si debba tenere Costantino, op.cit.,104, secondo il quale, se al momento della costituzione dell'attore emerge la sua proposta ex articolo 70 ter si dovrebbe designare il giudice soltanto decorso il termine per l'accettazione del convenuto. Sempre a proposito della designazione del giudice, è stato addirittura ipotizzato in dottrina - cfr.Costantino,op.loc.cit., e Cecchella, cit., 627 - che dovendo avvenire dopo l'iscrizione della causa al ruolo da parte dell'attore potrebbe influenzare la scelta del convenuto. Fortunatamente la pratica pare aver lasciato "sulla carta" questi problemi. Va peraltro rilevato che ogni eventuale incidenza della nomina del giudice istruttore sulla ipotetica scelta societaria delle parti potrebbe agevolmente essere fronteggiata tramite una regola tabellare per cui, quando verrà presentata l'istanza di fissazione d'udienza e il presidente dovrà nominare, ex articolo 12 d.lgs. 2003 n. 5, il giudice relatore, questi coincida con l'originario giudice istruttore; analogamente a quanto accade in certi uffici giudiziari quando un procedimento, iniziato erroneamente con rito ordinario e quindi cancellato dal ruolo dal giudice istruttore, "ritorna" tramite l'istanza di fissazione d'udienza. Naturalmente in questo caso non si tratterà di giudice relatore in senso proprio, essendo il processo monocratico, ai sensi dell'articolo 18 d.lgs. 2003 n. 5. (14)Così S.U. ord.1 ottobre 2007,n.20596 (15)Così la recente ordinanza 20 giugno 2007,n.14355, con la quale, significativamente, la Sezione tributaria della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite, in un'ottica appunto semplificatoria e di raggiungimento dello scopo di tutela del diritto di difesa, la questione della notifica dell'atto d'impugnazione a una pluralità di parti tramite una sola copia al procuratore che le rappresenti tutte, anziché, secondo la interpretazione affermata da S.U. 1997 n. 9859, tramite tante copie quante sono le parti; sulla stessa linea di valore semplificatorio del principio del novellato articolo 111 Cost. cfr. S.U. 2006 n. 13916, 2005 n. 23220, e 2004 n. 10963, nonché Cass. 2006 n. 24856, richiamate come precedenti anche dalla suddetta ordinanza. (16) Secondo Santangeli, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile ordinario alla luce delle recenti riforme,www.juducium.it, sub 2, l'elencazione delle attività di verifica riversata dall'abrogato comma 2 dell'articolo 180 c.p.c. nel primo comma del nuovo articolo 183, un tempo "indispensabile per attribuire una parvenza di contenuto ad una udienza dettata esclusivamente per ovviare ad un verificarsi delle preclusioni ritenuto troppo repentino, appare oggi probabilmente superflua, perché è naturale che l'udienza di apertura di un processo non possa iniziare che con una verifica dell'esistenza dei requisiti necessari perché il giudice possa giungere fino a rendere una pronuncia, ed addirittura pericolosa laddove non si comprenda che l'elenco

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dei controlli richiamati è puramente esemplificativo (v. ad es. l'art. 83 ter disp. att. c.p.c. ) ". Ma che l'elenco non sia tassativo non è dubitabile, e corrisponde, si ripete, all'interpretazione che si era già affermata per il previgente articolo 180 c.p.c. (17) Anche se a ciò, si rileva per inciso, potrebbe non apparire del tutto coerente l'istituto della riunione ai sensi dell'articolo 273 o dell'articolo 274 c.p.c.; già più sensibile a questo profilo appare l'articolo 40, comma 2, seconda parte, c.p.c. A proposito poi della riunione ex articolo 274 si segnala la modifica, ad opera del d.lgs. 2006 n. 40, dell'articolo 151, comma 1, disp.att.c.p.c., che ha aggiunto alla fattispecie di riunione "quasi obbligatoria" ( eccettuate, infatti, ancora le ipotesi in cui renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo ) delle controversie in materia di lavoro, di previdenza e assistenza, le "controversie dinanzi al giudice di pace ", ponendo inoltre, a conclusione del comma, le seguenti frasi: "In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e immotivate ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello." La norma è palesemente dettata per le cosiddette cause seriali e la valutazione della sua applicabilità, ragionevolmente, dovrebbe a sua volta espletarsi in limine litis. (18) Si rileva per inciso che il prolungamento dei termini grazie al sabato vale per gli "atti processuali ", e non per i provvedimenti giurisdizionali. Incide però indirettamente sul termine per il deposito delle sentenze nel caso in cui il termine per la replica scade di sabato, spostando il dies a quo per il deposito della minuta al martedì successivo. (19) Caponi, La nuova disciplina delle notificazioni a mezzo del servizio postale ( art. 149, terzo comma, c.p.c.), Relazione all'Incontro di studi Il punto sul rito civile, Roma 13-15 marzo 2006, passim. (20) Cass. 1997 n. 6481; l'articolo 3, comma 2, d.lgs. 2003 n. 5 prevede, al contrario, che la costituzione, se vi sono più convenuti, avvenga entro dieci giorni dall'ultima notifica. (21) Così Cass. 2005 n. 14085. Osserva poi Caponi,op..cit. 7: "Ricollegare l'osservanza del termine alla consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario è certamente uno strumento utile, ma risolve un solo problema, quello determinato da una causa non imputabile che determini semplicemente la tardività del perfezionamento di un procedimento di notificazione tempestivamente avviato. In tutti gli altri casi deve soccorrere la rimessione in termini. " (22) Va ricordato che l'articolo 291 c.p.c. riguarda la possibilità di rinnovazione di notificazione nulla e non di notificazione inesistente: Cass. 2004 n. 4900. (23) Balena, Le preclusioni nel processo di primo grado, Giur. it., 1996, IV, 267. (24) Cass. 1993 n. 5817. Sempre a proposito di improcedibilità dell'appello, si ricorda che questa non può derivare dalla mancata produzione della sentenza impugnata, ma se il contenuto di questa non è desumibile dagli atti l'appello diventerà inammissibile: Cass. 2003 n. 10404; sulla mancanza della sentenza v. anche Cass. 2005 n. 15206. (25) Da ultimo Caponi, Sul termine di costituzione del giudizio di opposizione al decreto

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ingiuntivo ( artt. 645, 647 c.p.c. ), Corriere giur. 2006,727 ; cfr. anche Balbi, Improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo, diritto alla difesa e inadeguatezza del termine di costituzione del debitore opponente, Giur. it., 1998, 2087 . (26) Così Caponi, op.ult.cit., 731: "l'art. 645, comma 2 c.p.c....va letto esattamente per quello che dice: esso prevede la riduzione a metà dei soli termini di comparizione ( come effetto automatico, ipso iure ) ed esclude pertanto... la riduzione a metà dei termini di costituzione ". (27) La giurisprudenza, si ripete, è consolidata (si veda già, p.es., Cass. 1980 n. 1975). Da ultimo si ricorda Cass. 2006 n. 13252 per cui, in caso di opposizione tempestiva ma costituzione tardiva dell'opponente - esattamente come nel caso di opposizione tardiva e costituzione tempestiva dell'opponente - l'opposto non può formulare istanza ex articolo 647 c.p.c., da intendersi invece limitata alle fattispecie di mancanza di opposizione o mancanza di costituzione dopo l'opposizione. Come in questi casi, l'efficacia del decreto è la stessa, ma essendosi comunque incardinato il processo in contraddittorio, la definizione del giudizio deve avvenire con sentenza - e il decreto può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo ex articolo 648 c.p.c. - perché l'opposizione deve essere dichiarata inammissibile (nell'ipotesi di opposizione tardiva) o improcedibile ( nel caso di costituzione tardiva ) d'ufficio sul presupposto che sul decreto ingiuntivo si è formato un giudicato interno, essendo il giudizio di opposizione uno sviluppo della fase monitoria. ( Si rileva per inciso, a proposito dell'articolo 648 c.p.c., che l'affermazione della sua applicabilità pare abbastanza discutibile, trattandosi di causa di evidente pronta soluzione ). (28) La giurisprudenza in questione prescinde da una visione puramente letterale della norma optando invece per una visione sistematica che ( a parte i riferimenti ai lavori preparatori, di opinabile incidenza ) collega il termine di comparizione a quello di costituzione, "sintonizzandone" la durata come emerge dal combinato disposto degli articoli 163 bis, comma 2, 165, comma 1, e 166 c.p.c. Questa impostazione è stata censurata (Caponi, op.ult. cit., 729 s. ) sostenendo da un lato che il dimezzamento dei termini è obbligatorio perché deriva da una esigenza di celere riconduzione di un procedimento avviato inaudita altera parte al canone ordinario, "esigenza generale ed astratta "sottratta" sia alla disponibilità delle parti, che del giudice", dall'altro che l'abbreviazione ex articolo 163 bis, comma 2, sarebbe come struttura e funzione diversa dalla riduzione del termine di comparizione ex articolo 645, derivando la prima da concrete e specifiche ragioni di urgenza da valutarsi dal giudice, la seconda genericamente dalla peculiarità della fattispecie processuale dove già le parti avrebbero avuto modo di presentare i propri argomenti difensivi. Questa comparazione dei due istituti abbreviatori, tratta da Cass. 1995 n. 4719 (che ne ha dedotto la problematica soluzione dell'applicabilità dell'ulteriore abbreviazione ex articolo 163 bis alla fattispecie di opposizione all'ingiunzione ), non appare completamente convincente, in quanto da un lato l'esperienza insegna che le reali, piene argomentazioni difensive sono dispiegate dall'opposto nella comparsa di risposta, ma soprattutto, dall'altro, non

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si vede la differenza ontologica tra due strumenti finalizzati all'urgenza semplicemente perché in un caso l'urgenza è valutata come sussistente dal legislatore e nell'altro caso è valutata come sussistente dal giudice. Più convincente è l'ulteriore rilievo che nel caso dell'articolo 645 non vi è necessità di controbilanciare a favore del convenuto la riduzione del suo termine di comparizione tramite il dimezzamento del termine attoreo di costituzione, perché il convenuto è "in una posizione difensiva soltanto dal punto di vista formale ": invero, anche se completerà la "discovery " delle sue difese nella comparsa di risposta, di solito (a parte cioè le eventuali domnde riconvenzionali dell’opponente) l'opposto è colui che “attacca”, non colui che si difende. Da questo punto di vista appare in certa misura carente di logicità la correlazione innestata dalla giurisprudenza di legittimità tra i due tipi di termini nonostante il dettato dell'articolo 645, considerato anche il fatto che lo stesso comma secondo che indica il dimezzamento dei termini di comparizione comincia con il richiamo alle "norme del procedimento ordinario ". E ciò può agevolmente intendersi proprio nel senso che la seconda parte del comma ( che infatti inizia con un limitativo "ma") circoscrive l'ampiezza del rinvio, istituendovi una eccezione ben determinata nel suo contenuto e quindi non interpretativamente dilatabile: ubi voluit dixit. (29) Non appare condivisibile la lettura che identifica nell'articolo 294 c.p.c. lo strumento di rimessione in termini qui applicabile - Balbi, Inattività dell'intimato ed esecutorietà del decreto di ingiunzione, Riv. dir. proc., 1979,40 -, se non altro perché l'opponente si costituisce, per cui non è qualificabile come contumace. Si dà atto peraltro che questa dottrina è anteriore all'introduzione nel sistema dell'articolo 184 bis c.p.c. ( 30) Significativo per prossimità è l'intervento della Cassazione a sezioni unite n. 10216 del 2006 che, applicando il già ricordato principio - frutto della depurazione di oggettività appena evidenziata - della distinzione tra il momento di perfezionamento della notifica per il notificante e quello di perfezionamento per il notificato ( cfr.Corte Cost. 477 del 2002, 28 e 97 del 2004, 154 del 2005 ), afferma che se l'atto è stato consegnato per la notificazione all'ufficiale giudiziario nel termine perentorio previsto e la notifica non si è perfezionata per un problema insorto nella fase affidata all'ufficiale giudiziario, è possibile la rinnovazione della notifica; e ciò è stato addotto per legittimare il notificante-opponente a decreto ingiuntivo all'opposizione ex articolo 650 c.p.c. (31) Cfr. M.Criscuolo, Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva, Relazione all'Incontro di studi Il punto sul rito civile, Roma, 13-15 marzo 2006, 19 s., secondo il quale è "opportuno che il giudice valuti, prima di adottare il differimento..., se con lo stesso non attui un'impropria rimessione in termini del convenuto, fattispecie che, se non dettata dalla legge, comunque appannerebbe l'immagine di imparzialità e terzïetà che deve sempre caratterizzare l'operato del giudice ". (32) Nella giurisprudenza precedente si veda anche Cass. 2004 n. 16501, che richiama S.U. 1998 n. 1099. Tra le eccezioni in senso stretto di rito, si annoverano le eccezioni di

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incompetenza di territorio derogabile, l'eccezione ex articolo 164, comma 3, ex articolo 215, comma 1, n.2, di estinzione ex articolo 307 comma 4, di difetto di legittimazione processuale rispetto alla titolarità in concreto del rapporto ( Cass. 2002 n. 4318 ), l'eccezione riconvenzionale, l'eccezione di difetto di giurisdizione per il convenuto straniero, l'eccezione di clausola compromissoria. Quanto alle eccezioni di merito in senso stretto, si ricordano le eccezioni di prescrizione ( articolo 2938 cod. civ. ), di compensazione ( articolo 1242 cod. civ. ), di annullamento ( articolo 1442 cod. civ. ), di rescissione ( articolo 1449 cod. civ. ), di inadempimento ex articolo 1460 cod. civ., dei vizi della cosa acquistata ( articolo 1495 cod. civ. ), di vizi ex articolo 1667 cod. civ., di escussione del debitore principale a favore del fideiussore ( articolo 1944 cod. civ. ), di divisione tra più fideiussori ( articolo 1947 cod. civ. ), di escussione preventiva del patrimonio sociale a favore del socio ( articolo 2268 cod. civ. ), di ritenzione (artt. 748,975,1006, 1502 e 2756 cod. civ. ), di usucapione ( articolo 1165 cod. civ. ) e di decadenza ( articolo 2969 cod. civ. tranne per le decadenze che comportano l'improponibilità di azione in materia indisponibile: per esempio azione di disconoscimento ex articolo 244 cod. civ. ). (33) Su questi argomenti si tornerà infra, a proposito delle nullità della citazione. (34) Secondo un orientamento dottrinale esiste una terza funzione, quella di atto preparatorio della prima udienza ( cfr. Proto Pisani, La nuova disciplina della nullità dell'atto di citazione, Foro it., 1991, V, 178 ). Non è questa, ovviamente, la sede per vagli dogmatici; appare necessario e sufficiente osservare che la funzione preparatoria della prima udienza è insita nella editio actionis, se questa è effettuata in modo completo e corretto. (35)Sul requisito dell'assoluta incertezza anche per esse come presupposto della nullità v. Cass. 2004 n. 8344 . (36) Se l'atto viene notificato a una persona non più esistente, non è nullo ma a sua volta inesistente. Il regime dell'inesistenza è però applicato per la persona fisica deceduta, non ammettendosi in tal caso alcuna sanatoria integrando il contraddittorio nei confronti degli eredi ( Cass. 2001 n. 11688 ). Nel caso invece di persona giuridica, cessata per incorporazione, la giurisprudenza riteneva sanante la successiva costituzione della società incorporante. Essendosi poi sostenuto che nel nuovo diritto societario la fusione per incorporazione non è più causa di interruzione, le Sezioni Unite ( ordinanza 2006 n. 2637 ) hanno affermato che, ex articolo 2505 bis cod. civ., la fusione per incorporazione non provoca l'estinzione della società incorporata, e parimenti la fusione paritaria tra società non crea un nuovo soggetto, ma realizza l'unificazione tramite l'integrazione reciproca delle società, per cui il soggetto giuridico mantiene la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo. (37) Criscuolo, cit., 27 s. (38) Cfr.Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 1999,7. (39) Così Proto Pisani, cit., 206; aderisce sostanzialmente Criscuolo, Le verifiche, cit., 14, secondo il quale "questa spiegazione trova poi nuova linfa nell'irrigidimento delle

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preclusioni per il convenuto... in quanto se in precedenza, prima del maturare della preclusione relativa alle eccezioni in senso stretto, vi era comunque una possibilità di contatto con il giudice, e quindi nel contraddittorio delle parti si sarebbe potuto sollecitare una migliore chiarificazione degli aspetti in fatto del diritto azionato, oggi invece la preclusione scatterà venti giorni prima dell'udienza di cui all'art. 183 ". (40) contra Trib. Roma 23 luglio 1998, secondo il quale non è prevista alcuna sanzione processuale per la inottemperanza dell'ordine di integrazione. (41) Non appaiono condivisibili quegli orientamenti dottrinali che tendono a negare l'automatismo della regressione, evidenziando, per esempio, che la contumacia può essere stata una tattica del convenuto e quindi esigendo che questi dimostri la incolpevolezza della sua mancata costituzione. Il legislatore, infatti, sancendo una fattispecie di nullità ha indicato - creando sostanzialmente una presunzione juris et de jure - una lesione del diritto di difesa, idonea pertanto a giustificare una regressione, e conseguentemente anche una maggiore durata, del processo. Analogamente, come si è visto, dovrebbe accadere nel caso di costituzione tardiva per le nullità di in jus vocatio che sopravvivono alla costituzione . (42) Tra le recenti cfr. p.es. Cass. 2004 n. 16474). (43) Termine non perentorio, per cui la sua violazione sarebbe mera irregolarità: Cass. 2004 n. 23027. (44) Cfr. Cass. 2004 n. 19652, proprio per il caso del convenuto. (45) La certificazione di autografia da parte del difensore può apporsi non solo subito dopo la firma della procura, ma anche in chiusura dell'atto cui la procura accede e senza formule sacramentali: S.U. 2005 n. 25032. (46) Una recentissima ipotesi di litisconsorzio imposto da espressa norma si ravvisa nell'articolo 140, comma 4, del Codice delle assicurazioni (d.lgs. 2005 n. 209. (47) Per un caso di proroga del termine dell'integrazione del contraddittorio ex articolo 102 c.p.c. v. Cass. 2004 n. 2292 (48) "Per verificare che sia garantita alle parti un'identità di trattamento, la comparazione dei poteri ad esse attribuiti deve essere eseguita con riferimento ad uno stesso strumento processuale, il quale, nella fattispecie, è da individuarsi nell'atto in cui ciascuna parte espone introduttivamente le proprie ragioni: in questo momento le parti devono essere poste in grado di compiere le medesime attività con eguali poteri. Ed in effetti, nell'indicato momento, la posizione dell'attore, che può liberamente scegliere i soggetti da convenire in giudizio, è del tutto corrispondente a quella del convenuto, a cui è esattamente e correlativamente riconosciuta la facoltà di chiamare in causa qualsivoglia terzo, al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda essere garantito ": così afferma la sentenza, peraltro anteriore al novellato articolo 111 della Costituzione. (49)In questo senso p.es. Santangeli, op. loc. cit. (50) Ex multis, focalizza chiaramente la questione A. Graziosi, op.cit., 1532 s., secondo il quale per risolvere la questione esistono "soltanto due vie: o si ritiene che

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l'introduzione del rinvio al 3^ comma dell'art. 167 c.p.c. ad opera della riforma del 2005 sia frutto di un refuso... e quindi non si considera... o si ritiene che, a dispetto di quanto scritto nel testo di legge, la norma richiamata non è l'articolo 167, comma 3^, c.p.c., bensì l'articolo 269, comma 2^, c.p.c. ". (In effetti, si osserva per inciso, se si deve andare "a dispetto di quanto di scritto nel testo di legge ", ci si orienta per la prima strada, quella che reputa il richiamo un vero e proprio refuso da correggere. Che vi sia invece contrasto con la lettera nella seconda strada è discutibile, in quanto il richiamo all'articolo 269 è "contenuto " logicamente nel richiamo all'articolo 167, che lo menziona.) Tutto ciò considerato, l'autore conclude che "autorizzare il giudice ad un controllo preventivo ( e non solo a posteriori ex art. 272 c.p.c. ) sulle istanze di chiamata in causa, servirebbe ad evitare quelle, non infrequenti, effettuate a scopo puramente defatigatorio o, peggio ancora, quelle dirette a conseguire obiettivi processualmente illeciti ( quale ad esempio quello, purtroppo non ignoto al costume giudiziario, di chiamare in causa un potenziale teste avversario al solo fine di precludergli la possibilità di deporre ). " ( 51) In ultima analisi, il rapporto accessorio ha una natura cautelare, non nel senso, ovviamente, di urgenziale, bensì nel senso più lato di tutela in relazione non a una lesione concreta (come è proprio di un’iniziativa giurisdizionale per così dire ordinaria) bensì a un rischio, non astratto ma già esistente. Mentre nel cautelare in senso proprio il periculum è rappresentato da un illecito, e la tutela è integralmente proveniente dal giudice, in questo “cautelare lato sensu” la cautela sfocerà solo eventualmente in un provvedimento giurisdizionale ( se infatti la linea difensiva verso l'attore regge, non vi sarà provvedimento di merito nel rapporto processuale accessorio: questo genere di processo simultaneo è comunque non paritario quanto ai rapporti processuali, potendo l'esito dell'uno assorbire l'altro, come già si è notato a proposito della ontologica gradualità dei rapporti). Superiore quindi è il peso dell'iniziativa della parte, che parzialmente si autotutela in modo preventivo predisponendo la prossimità cronologica della garanzia/ manleva tramite simultaneus processus; e ulteriore differenza rispetto al cautelare in senso proprio parte dal fatto che mentre quello è oggetto di cognizione sommaria, questo si avvale della cognizione piena. (52)In questo senso Cass. n. 12558 del 1999, che invoca proprio i "principi di economia processuale e di concentrazione dei giudizi " ponendo come limite soltanto la proposizione in una costituzione tempestiva. Conformi Cass. 1980 n. 2848 e 1971 n. 894. (53)Cfr. Luiso, Diritto processuale civile,cit., 1999,20, e Trisorio Liuzzi, La difesa del convenuto e dei terzi nella nuova fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, Giur. It., 1996, IV, 86. Contrari Ronco, Appunti sulla domanda proposta da un convenuto contro l'altro, Giur. It., 1999, 2290; Camastri, Sulla riconvenzionale di altro convenuto, Giur. merito, 2002, 1222; Breggia, Rifondazione normativa o prassi virtuose per accelerare la fase introduttiva del processo civile di cognizione? Giur.it., 2004,1328. In giurisprudenza a favore della "libera trasversale " Trib. Milano 19

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giugno 1997; Trib. Napoli 20 settembre 2001; Trib. Lucca 14 gennaio 2002; per la chiamata di terzo invece Trib. Torino 16 marzo 1999. (54) Cfr. altresì le sentenze 2002 n. 3156 e 2003 n. 1185. (55) Infatti la dottrina nettamente prevalente si è finora schierata per l'altra impostazione: cfr., per esempio, Mandrioli, Diritto processuale civile, III, Torino, 2002, 218; Di Rosa, Il procedimento di ingiunzione, Milano, 2002, 333; Valitutti -De Stefano, il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 2000,292. ( 56) Così, per esempio, Breggia, op.cit.,1333. (57) In questo senso Dalmotto, nota a Trib. Milano 19 dicembre 1995, Giur. It., 1997, I, II, 272. (58) Si coglie l’occasione per ricordare che caratteristico del rito monitorio era anche il dubbio interpretativo sulla parte a cui doveva essere assegnato il termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d'ufficio nell'udienza di cui al previgente articolo 180 c.p.c., vista la discrasia tra la posizione processuale e quella sostanziale delle parti. Avendo la riforma del 2005 abrogato questa sorta di appendice dell'atto introduttivo del convenuto, il problema più non si pone: essendo convenuto sostanziale, tutte le eccezioni in senso stretto l'opponente dovrà riversarle nella citazione. (59) Cfr. già Cass. 1998 n. 3316, per cui l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo non introduce un giudizio autonomo di impugnazione del decreto, bensì costituisce un mero atto di impulso processuale introduttivo di una fase successiva ed eventuale di verifica e d'accertamento a cognizione piena del procedimento iniziato a cognizione sommaria senza contraddittorio. (60) Il principio è stato affermato per l'ipotesi di proposizione, davanti a giudici diversi, di giudizio monitoriamente introdotto e di speculare giudizio di accertamento negativo, con evidenti conseguenze ex articolo 39 c.p.c.; le Sezioni Unite hanno ritenuto che far prevalere il deposito del ricorso sulla notifica della citazione dell'altro giudizio presidia "evidenti esigenze di giustizia... consistenti nella necessità di evitare che la tutela ottenuta dal creditore sia messa nel nulla non per effetto dell'accertamento in contraddittorio dell'inesistenza delle condizioni processuali per la concessione del decreto ingiuntivo o, nel merito, delle ragioni creditorie, ma per il mero fatto che il debitore si sia affrettato a precedere... magari al solo scopo di ottenere la dichiarazione di nullità e la cancellazione dell'eventuale ipoteca giudiziale ". Non si può certo negare che tali esigenze di giustizia sussistano; va peraltro anche osservato, con il massimo rispetto per le valutazioni della Suprema Corte, che, prima della notifica ex articolo 643 c.p.c., il preteso debitore ( a questo stadio nulla è ancora accertato ) può non sapere dell'esistenza del giudizio monitoriamente introdotto per cui la sua iniziativa di notificazione della citazione di un giudizio non si può leggere automaticamente come strumento sleale per far naufragare l'iniziativa processuale del preteso creditore. Eppure, con questo sistema rischiano di restare sempre a suo carico le spese di tale giudizio. Mentre l'impostazione tradizionale applicava qui il canone cuius commoda ejus incommoda, ponendo questo rischio a carico del soggetto che già era favorito

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dall'ordinamento perché poteva ottenere una pronuncia giurisdizionale inaudita altera parte, ora questo controbilanciamento, in forza di una sorta di presunzione negativa a carico del preteso debitore, più non sussiste. E a parte poi rimane il problema di quella ipoteca giudiziale menzionata nella ordinanza che deriva dalla concessione dell'esecutorietà al decreto ex articolo 642 c.p.c. e, qualunque siano i presupposti più o meno legittimi sulla base dei quali è stata concessa, non può essere incisa ex articolo 649 c.p.c. né dalla stessa sentenza (cfr. invece, per esempio, l’ articolo 669 novies, comma 3 ), dovendosi attendere il giudicato. Su questa tematica si consenta di rinviare a C,Graziosi, La tutela cautelare delle garanzie patrimoniali e la lesione della reputazione commerciale del debitore, Relazione all'Incontro di studi Pubblicità e tutela dei diritti, Roma 14-16 luglio 2003, 25 ss. ( 61) Si ricordi infatti che l'opposizione a decreto ingiuntivo si distingue anche quanto alla facoltà di proposizione di domande riconvenzionali da parte dell'opposto, limitata alla reconventio reconventionis proprio dalla sua posizione di attore sostanziale, come da consolidata giurisprudenza.