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LE VERIFICHE PRELIMINARI NEL RITO ORDINARIO
1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005 -2. Il
rapporto col rito societario -3.Le verifiche ex art. 183 c.p.c.:
alcuni profili preliminari -4. La notificazione, la mancata
costituzione e la contumacia -5. Le verifiche degli atti
introduttivi - 6. L'estensione del contraddittorio necessaria e
facoltativa
1.Alcune considerazioni generali sulla riforma del 2005
Sono trascorsi quasi due anni da quando si svolsero le prime riflessioni sul
"nuovo " rito, progressivamente delineatosi nel 2005, e all'epoca chiamato, con
un po' di folclore, "rito competitivo" dal nome del primo strumento legislativo che
lo aveva ospitato. Nel sintetizzarne i tratti salienti, si può quindi tracciare, ora,
anche un primo bilancio sull’esito nella pratica, e non solo un raffronto con il rito
previgente: il che può essere utile introduzione, per una comprensione
contestuale, all'analisi posta come oggetto specifico di questa relazione.
La caratteristica dell'attuale "nuovo rito" può qualificarsi come continuità
acceleratoria rispetto al modello degli anni '90. Se quest'ultimo aveva realizzato
un sistema davvero contrapposto a quello precedentemente vigente e
giurisprudenzialmente vivente all'epoca - fondandosi sulla tipizzazione delle
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udienze e sul recupero delle preclusioni, sottratte al potere dispositivo delle parti
cui appunto la giurisprudenza, forse ancora più che la legge, le aveva
consegnate -, non altrettanto può dirsi per il rito del 2005, che prende, per così
dire, il modulo del 1995 e lo contrae, lo addensa, lo sintetizza. Una sorta di
precipitazione chimica diretta non a cambiare il modulo (non vi è infatti
correlazione alcuna al di poco antecedente modulo “opposto”, il rito societario,
che rimane espressamente indicato come via alternativa proprio dall'articolo 70
ter disp. att. c.p.c. ), non volutamente almeno, né all'altro principale modello di
cognizione piena, il rito del lavoro (il quale viene poi esteso, con la legge 102 del
2006, invece,a un nuovo settore specifico); da un lato, infatti, le preclusioni
rimangono le fondamenta della costruzione processuale, dall'altro non vi è
introduzione di poteri ufficiosi (come invece comporta il rito del lavoro), né
peraltro il giudicante viene estromesso dalla fase di determinazione della
regiudicanda (come invece propone il rito societario, che correlativamente
coinvolge il potere dispositivo delle parti nella formazione delle preclusioni).
Più che un nuovo rito ordinario, in effetti, la riforma del 2005 è un restyling con
palese scopo acceleratorio; oggettivamente nell'ottica del canone, nelle more
affermatosi come principio costituzionale, della ragionevole durata del processo.
Eliminare ciò che è superfluo, e in generale i cosiddetti tempi morti, è
palesemente l'obiettivo del legislatore nella ricerca dell'Eldorado processuale,
l'unità anziché la formazione progressiva ( unità aristotelica di tempo, di luogo e
di azione: tradotta nel rito già dal modello processuale del lavoro e
potenzialmente realizzata ora nell’ordinario, in caso di non necessità di
istruttoria tramite prove costituende ).(1)
Si giunge così a un modello, peraltro, che nella pratica può traviarsi in una
eterogenesi dei fini, stornando la tipizzazione delle udienze in un unicum
anteriore all’istruttoria che, a parte il profilo delle preclusioni, riecheggia il vero
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"vecchio rito ", quello anteriore alla riforma degli anni 90.(2)
Lo scopo di contrazione comporta anzitutto l'assorbimento, in quella che si
potrebbe definire la polimorfa prima udienza, dell'udienza di verifica
(nell'interesse delle parti) e di smistamento (nell'interesse organizzativo
dell'ufficio) che era delineata dal previgente articolo 180 c.p.c., eliminando
questa sorta di anticamera del tempio della giustizia. In effetti, se si dovesse
fare un paragone architettonico, si potrebbe dire che mentre il modello 1995
strutturava il processo come un appartamento tradizionale, a camere distinte, il
rito del 2005 ne fa un loft. Almeno come intenzione: l'articolo 183 c.p.c.
consente, peraltro, e lo dimostra proprio con quella sua parte che sostituisce il
vecchio 180, una replica anche plurima dello stesso "locale ", ma ciò nel caso in
cui si verifichino due tipi di fattispecie: patologica ( in esito delle verifiche ex
art.183, comma 1, c.p.c. ) e fisiologica ( introduzione di rapporti accessori ).
Tutto ciò, tuttavia, è eventuale: non si può negare che l'eliminazione
dell'udienza/anticamera - introdotta, si ricordi, a modifica della legge 353 del
1990, su imperioso impulso dell'avvocatura italiana con la legge 1995 n. 238 -,
ha virtuosi effetti di accelerazione, tra l'altro risolvendo alla radice ogni dubbio
derivabile dall' obbligo di assegnazione di termine per le eccezioni in senso
stretto prima di avviare la trattazione nonchè dal rapporto dell'articolo 80 bis att.
c.p.c. con il successivamente introdotto obbligo del tentativo di conciliazione(3)
e consentendo quindi, quando ve ne sono i presupposti ( di fatto anche sotto il
profilo organizzativo del ruolo del giudice ), la già richiamata "unità aristotelica",
vale a dire l'immediato trattenimento in decisione all’esito della prima e unica
udienza.
Se infatti caratteristica del rito è la contrazione del modulo, ovvero la sua
semplificazione nel senso matematico del termine, tre sono, nella fase iniziale,
le "semplificazioni": l'eliminazione dell'udienza ex art.180 assorbendola nella
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prima parte dell'udienza di trattazione,è la minore proprio perchè si tratta solo di
un "travaso"; più incisive, perchè soppressioni tout court, sono la eliminazione
della concessione al convenuto di un termi ne per le eccezioni in senso stretto
posteriore alla scadenza di quello per la costituzione, e l'eliminazione del
tentativo di conciliazione obbligatorio. Nella fase successiva, le altre
semplificazioni sono quelle afferenti ai termini per memorie e all'udienza per le
decisioni istruttorie, di cui non si tratta in questa sede.
Deve darsi atto che il termine per le eccezioni, pur conquistato come si è visto
con notevole clamore, nella pratica è quasi sprofondato nel silenzio perchè
utilizzato assai di rado. Relativamente più "sentito" era il passaggio conciliativo
obbligatorio - che poi obbligatorio non era, non avendo il giudice civile alcun
potere coercitivo al riguardo e perdendosi poi il più delle volte nell' insieme degli
esiti istruttori l'argomento di prova della mancata comparizione - (4) la cui
eliminazione è stata considerata uno dei tratti innovatori più spiccati del rito del
2005 ed è riconducibile anche alla diminuzione del tasso di oralità -mantenuta
come canone programmatico del processo proprio dal nuovo articolo 180
c.p.c.(5) La scelta del legislatore, quindi, ha destato anche vive critiche. A ben
guardare, però, nell'ottica dell'accelerazione, è stata in qualche modo
ineludibile: tali critiche non tengono infatti conto che la pratica aveva già
profondamente eroso l'istituto del tentativo obbligatorio e che comunque
l'obbligatorietà (più formale che sostanziale viste le tenui conseguenze ex
art.183,comma 1, previgente) si risolveva nell'assoggettamento - censurabile sul
piano della ragionevolezza - allo stesso regime di situazioni completamente
diverse con eventuali ricadute negative proprio sul piano della celerità(6)
Ma pure di questo profilo, perché oggettivamente contiguo alla trattazione, non
si tratterà in questa sede. Ci si limita a rilevare che, essendo divenuto il
passaggio conciliativo oggetto di valutazione di opportunità caso per caso,
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occorre (e questo non ne è l'unico motivo nella riforma) un maggior impegno
del giudice di preparazione e cognizione della causa fin dall'inizio per compiere
tale prognosi di proficuo investimento di tempo processuale. Invero l'incombente
conciliativo, sia a scopo deflattivo sia per evitare alle parti costi sproporzionati in
rapporto all'oggetto della controversia, non può certo essere messo da parte,
ma anzi va incentivato dal giudice, anche perché, come subito è apparso alle
prime letture e la pratica ha confermato, è raro che in un simile stadio iniziale
venga dalle parti un'iniziativa congiunta in tal senso.
Quanto invece alla soppressione del termine per eccezioni in senso stretto che
era obbligatorio assegnare all'esito dell'udienza ex articolo 180 c.p.c., ciò
ovviamente incide sul contenuto della comparsa di risposta. Quindi conduce in
medias res dell'oggetto di questa relazione. Prima di addentrarvisi, però, appare
opportuno sgombrare il campo da un'altra norma che fu considerata novità di
spicco della riforma, e che, invece, in questo attuale bilancio, risulta avere un
peso molto inferiore: l'art. 70 ter disp. att. c.p.c., che avrebbe dovuto costituire il
cavallo di Troia per un nuovo rito ordinario alternativo alla tradizione: il rito
societario.
2. Il rapporto col rito societario
L'art.1 d.lgs.2003 n.5 com'è noto regola i rapporti tra il rito societario e ogni altro
rito, stabilendo, al quinto comma, che se una causa assoggettata al rito
societario è stata proposta secondo rito diverso, il giudice lo "rileva" - quindi la
questione va sollevata anche d'ufficio, senza che rientri nel potere dispositivo
delle parti scegliere un altro rito - e dispone con ordinanza il mutamento del rito
e la cancellazione della causa dal ruolo. Si tratta di una verifica da effettuare
logicamente in limine litis, quindi unitamente a quelle ex art. 183, comma
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1,c.p.c., ma non scatta al riguardo alcuna decadenza (come infatti è usuale per i
mutamenti di rito: cfr. p. es. artt.426 e 427 c.p.c.), per cui può rilevarsi l'erroneità
del rito anche oltre l'udienza di prima comparizione, come prevede
espressamente la norma in esame.
A questa norma di confine obbligato la riforma del 2005 ha aggiunto una norma
di confine elettivo in senso opposto: le parti non possono uscire dal rito
societario per entrare nell'ordinario - in nessun modo, neanche tattico: a esso
sono attratte tutte le cause connesse (con prevalenza superiore anche a quella
del rito del lavoro, come si evince dal raffronto tra il primo comma dell'art.1
d.lgs.2003 n..5, che include pure l'art.33 c.p.c., e l'art.40, comma 3, c.p.c.) - ma
possono lasciare l'ordinario per entrare nel societario; questo però deve essere
deciso in limine litis (a parte i problemi,di cui si dirà infra, sulla sopravvenienza
di parti), come dispone l'art. 70 disp.att. c.p.c.
E in effetti, qualora fosse applicato - ma finora è stato “fuggito” dalla pratica -
una particolare verifica spettante al giudice nella prima udienza e, pare, tale da
assorbire ogni altra sarebbe quella relativa al negozio processuale introdotto
dall'articolo 70 ter att, c.p.c. Questa novità apparentemente rilevante della
riforma del 2005 ha provocato da un lato interesse nei teorici, dall'altro allarme
nei pratici. La pratica, ormai si può constatarlo, ha dimostrato di essere per così
dire allergica al modulo societario, che d'altronde si è sovente concretato nella
complicazione e nella dilatazione delle dimensioni dei fascicoli, in stenta
compatibilità con il principio della ragionevole durata del processo. Proprio per
questo la norma è rimasta affidata alla ermeneutica teorica, perché non la si
riscontra, in sostanza, nella quotidianità giudiziaria .(7) Per questo non si
scenderà più di tanto nell'analisi della fattispecie di tramutamento, ai sensi di
detta norma, del rito ordinario in rito societario, limitandosi a rilevare anzitutto
che il mutamento del rito non comporta anche il mutamento dell'organo
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giudicante ( da monocratico a collegiale ) vista la specifica determinazione che
l'articolo 1, comma terzo, d. lgs. 5 del 2003 opera delle materie soggette al rito
societario nella sua versione collegiale. Adottando una diversa interpretazione,
del resto, sarebbe chiaro il conflitto con il principio del giudice naturale. In
secondo luogo, si osserva che se successivamente all'elezione del rito
societario entrano nel processo ulteriori soggetti ( coattivamente come chiamati
in causa e litisconsorti necessari, ma anche volontariamente come gli
intervenienti ), ciò, nonostante quanto appare agevolmente prospettabile ed è
stato invero sostenuto da considerevole dottrina,(8) non significa che questi
debbano a loro volta dare il consenso, cioè, oltre che entrare nel processo,
inserirsi in quella sorta di "negozio processuale" che le parti originarie avrebbero
compiuto optando per il rito societario. Vale a dire, che abbiano il potere di fare
regredire il processo, eventualmente, al rito ordinario. Ciò è stato argomentato
in base a una pretesa lesione, altrimenti, del diritto di difesa delle parti "ulteriori".
Non si vede, però, come l'imposizione di un rito possa costituire lesione del
diritto di difesa, trattandosi di uno strumento processuale regolato dalla legge
che, in quanto tale, deve essere coerente e compatibile con i principi
costituzionali, incluso quello del diritto di difesa. In altre parole, un rito non può
mai significare compressione del diritto di difesa,(9) perché è un modello
legislativo, e non una regolamentazione di privati.(10)
Già nell'ordinamento si riscontrano, poi, altre ipotesi di "imposizione" di rito alla
controparte:(11) si pensi, seppur in misura minore, al modello monitorio, e più
recentemente, dopo la riforma del rito cautelare, al modello sommario
tendenzialmente autonomo. Al contrario, qualora le parti "ulteriori" disponessero
del potere di sciogliere l'accordo (12) posto alla sorgente del processo in cui
entrano, ciò potrebbe avere anche effetti defatigatori, in conflitto con il principio
generale della ragionevole durata.
8
Nell'ipotesi, comunque, che le parti addivengano a un accordo ex articolo 70 ter,
l'udienza fissata secondo il rito ordinario dovrà tenersi perché, come è stato
rilevato in dottrina, sarà la sede per verificare l'esistenza di un valido accordo : e
all'esito di tale verifica, se il risultato è positivo, il giudice disporrà con ordinanza
il mutamento del rito, cancellando la causa dal proprio ruolo (ma ovviamente
resta nel ruolo generale), null'altro incombente, neppure il tentativo di
conciliazione, potendo avere luogo nell'udienza(13)
3.Le verifiche ex art. 183 c.p.c.: alcuni profili preliminari
Le verifiche preliminari che il giudice deve compiere all'avvio dell'udienza
polimorfa dettata dal nuovo art. 183 c.p.c. si innestano su una tradizione di varia
e minuta casistica, nella quale talora il tecnicismo degli interpreti ha raggiunto
livelli contigui al formalismo. Appare perciò opportuno, prima di scendere a un
esame specifico, ricordare i corretti criteri interpretativi cui la tradizionale ottica
deve e dovrà sempre più adeguarsi, anche perchè la riforma del 2005 è la prima
rilevante modifica del rito ordinario posteriore al novellato art.111 Cost.
La stella polare dell'interpretazione della procedura va infatti ident ificata nel
canone costituzionale della ragionevole durata del processo tenendo ben
presente che nel dettato costituzionale processo deve leggersi "giusto
processo", cioè contraddittorio. Senza il rispetto del diritto di difesa potrà
verificarsi tutt'al più un procedimento, ma non un processo. Il rispetto del diritto
di difesa è dato anche dalla ragionevole durata dello strumento processuale
attraverso il quale si esercita, avendo "il legislatore il dovere di garantire e le
parti processuali il diritto di esigere ( legge n. 89 del 2001 ) che la durata del
processo sia ragionevole e pertanto non sia di per sé lesiva del diritto di agire in
giudizio ".(14) ; così come, simmetricamente e inscindibilmente, la celerità del
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processo trova la sua unità di misura e i suoi limiti nel rispetto del diritto di
difesa.
La riforma dell'articolo 111 della Costituzione spinge allora a rimeditare sul
formalismo che connota tradizionali interpretazioni dei vizi di rito. In un
crescendo di attenzione, ciò è stato evidenziato dalla Suprema Corte, che ha
indicato come strumento di celerità la semplificazione degli aspetti procedurali.
In particolare, nel principio della ragionevole durata è stata ravvisata "una
riduzione all'essenziale delle ipotesi di nullità per "vizi formali "... in contrasto
con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare
interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia in un tempo
ragionevole ".(15)
Il principio della ragionevole durata del processo, anzi, deve ormai prevalere
sugli altri principi processuali costituzionali. Come hanno chiaramente affermato,
da ultimo, le Sezioni Unite nella sentenza n.4636 del 28 febbraio 2007, esso
infatti è di portata tale da surclassare anche i profili astrattamente logici
dell'interpretazione perchè impone per le norme processuali soluzioni
interpretative da vagliare non solo sul piano della coerenza logico-concettuale,
ma anche e soprattutto per l'incidenza operativa sul perseguimento di tale
obiettivo costituzionale.
Va altresì ricordato che l'articolo 180 c.p.c. previgente, al primo comma,
indicava come oggetto della verifica da compiersi nell'udienza per la prima
comparizione " la regolarità del contraddittorio ", elencando come norme da
applicare gli articoli 102, comma 2, 164, 167, 182 e 291, comma 1, c.p.c. Il
nuovo articolo 183, comma 1, c.p.c. riproduce praticamente il dettato della
norma previgente, a parte alcune differenze, delle quali una sola significativa,
sulle quali ci si soffermerà più oltre. È invece il caso di sottolineare fin d’ora che
l'elenco dell'articolo 183, comma 1, così come l'elenco del previgente articolo
10
180, comma 1, non è assolutamente tassativo, esistendo ulteriori incombenti
che il giudice deve esperire in limine litis. (16)
Di questi ulteriori incombenti, sono già stati esaminati quelli relativi al rapporto
con il rito societario, in ordine ai quali, tuttavia, a ben guardare, non vi è alcuna
barriera preclusiva, ma che è logico siano svolti in tale sede. In particolare,
l'articolo 70 ter att. c.p.c. dovrebbe, come si è visto, assorbirne ogni altro. Ma
l'incombente che appare precedere ogni altra attività giurisdizionale in effetti
consiste nella identificazione del giudice, non come ufficio - e quindi non sotto il
profilo della competenza - bensì in relazione al rispetto, nel provvedimento di
assegnazione, di quella " porzione " del principio del giudice naturale che regola
l' identificazione del giudice nell'ambito dello stesso ufficio.
Al riguardo, va anzitutto richiamato l'articolo 83 ter att. c.p.c. Non viene infatti
ritenuta riconducibile alla incompetenza territoriale, ma concerne indubbiamente
la determinazione del giudice naturale, la fattispecie di tale disposizione, che
regola il rilievo, proprio non oltre "l'udienza di prima comparizione "- quindi,
indubbiamente ora, non oltre l'udienza ex articolo 183 c.p.c. - della inosservanza
delle disposizioni sulle attribuzioni delle cause monocratiche tra sede principale
e sezioni distaccate nonché tra le sezioni distaccate stesse. La dizione della
norma lascia intendere che la questione è rilevabile sia dalle parti sia dal
giudice; su di essa decide il presidente del tribunale con decreto non
impugnabile. Alcune osservazioni merita questa tematica.
Anzitutto, frequentemente le parti prospettano la questione di cui all'articolo 83
ter come eccezione di incompetenza territoriale ( derogabile ); in questo caso
spetterà al giudice, ovviamente, attribuire la qualifica corretta all'eccezione che
comunque è stata proposta. Peraltro, deve ricordarsi che si tratta, come ogni
altro profilo di assegnazione, di questione rilevabile d'ufficio.
In secondo luogo, deve evidenziarsi che sussiste analoga questione per le
11
attribuzioni alle diverse sezioni della sede principale come stabilito nelle tabelle
vigenti. La determinazione del giudice naturale dovrebbe, come si è detto,
logicamente avvenire in limine litis (17) per cui appare ragionevole ( non senza
qualche spazio per il dubbio, perché si estende una preclusione: ubi voluit dixit )
applicare analogicamente a tale fattispecie l'articolo 83 ter, con la sua barriera
preclusiva.
Ulteriore rilievo deve svolgersi sul fatto che il presidente del tribunale, sia per la
fattispecie di cui all'articolo 83 ter sia per quella ad esso analogicamente
ricondotta, decide "con decreto non impugnabile ". Questo significa, anzitutto,
che il contraddittorio sulla questione si esplicherà davanti al giudice, il quale, per
consentire alle parti di svolgerlo, dovrebbe a questo punto occuparsi della
questione all'udienza, e non prima. Il giudice poi rimetterà il fascicolo d'ufficio al
presidente, che provvede. In tale provvedimento, però, potrebbe anche
verificarsi, magari per lapsus materiale, un'assegnazione inequivocamente
erronea. Poiché non si tratta di discrezionalità amministrativa bensì di
applicazione del principio costituzionale del giudice naturale, si porrebbe allora il
problema di una eventuale istanza di revoca/revisione al presidente: tale istanza
non appare inammissibile perché il decreto viene qualificato non impugnabile,
non trattandosi di impugnazione ma di istanza allo stesso organo che lo ha
emesso e valendo ( ubi voluit dixit ) l'equivalenza non impugrabilità-non
revocabilità solo per le ordinanze ex articolo 177 c.p.c.; una simile possibilità,
poi, appare tanto più ragionevole considerato il fatto che per il decreto (cfr. art.
135, comma 4, c.p.c. ) non è prescritta la motivazione.
4. La notificazione, la mancata costituzione e la contumacia
L'articolo 183, comma 1, c.p.c. pone come ultima delle norme espressamente
12
elencate l'articolo 291, comma 1, c.p.c.. Logicamente la verifica della
notificazione sarebbe la prima: tuttavia lo schema “ideale”, o quanto meno
fisiologico del processo è identificabile nel pieno dispiegamento delle
potenzialità del contraddittorio attraverso la rituale tempestiva costituzione di
tutte le parti; e questo spiega la collocazione finale di tale verifica nell'elenco-
promemoria che il legislatore ha stilato.
A proposito di costituzione, si ricorda subito che la prima parte che si costituisce
deve presentare la nota d'iscrizione della causa a ruolo, atto organizzativo
interno rivolto al giudice (Cass. 2002 n. 9247 ) che rimane pertanto valido anche
in caso di mancanza di sottoscrizione del difensore ( Cass. 2005 n. 9874 ). Se
sussistono due note di iscrizione, prevale la prima e il secondo procedimento è
affetto da nullità ( Cass. 2004 n. 21349 ).
Si noti inoltre che i termini di costituzione non sono indicati come liberi per cui
andranno contati a ritroso non computando il giorno della udienza che vale
come giorno iniziale, e applicando l'articolo 155 c.p.c., il quale è stato modificato
proprio dalla legge 2005 n. 263 che ha equiparato, per il compimento degli atti
processuali svolti fuori udienza, il sabato al giorno festivo. (18)
Dunque, la notificazione andrà verificata, come dispone appunto l'articolo 291,
comma 1, c.p.c., solo nell'ipotesi in cui il convenuto non si è costituito, dato che
altrimenti la notificazione ha raggiunto il suo scopo (cfr. d'altronde il combinato
disposto degli articoli 160, 156 e 157 c.p.c. ).
Mantenendo l'attenzione sugli elementi di novità introdotti dalla riforma del 2005,
riguardo alle notifiche va ricordato che la legge 2005 n. 263, sulla scorta della
sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002, ha aggiunto un terzo
comma all'articolo 149 c.p.c. per cui la notifica a mezzo posta si perfeziona, per
il notificante, alla consegna del plico all'ufficiale giudiziario, per il destinatario al
momento in cui ha legale conoscenza dell'atto. Come è stato rilevato in dottrina
13
(19) questo significa che fin dal momento della consegna all'ufficiale giudiziario
la parte onerata della notifica potrà porre in essere le attività che
presuppongono la notificazione, tra cui l'iscrizione a ruolo della causa non con
l'originale della citazione notificata bensì con la cosiddetta velina. Tali effetti,
provvisoriamente anticipati a favore del notificante, diventano definitivi con il
perfezionamento della notifica ( anche di una notifica successiva se la prima
non è andata a buon fine per motivi non attribuibili al notificante ) pure per il
destinatario. Da questo momento, individuabile nella ricezione o nel suo
equivalente legale, si verificano gli ulteriori effetti, sostanziali e processuali, della
notificazione, tra cui il decorso del termine per la costituzione dell'attore. Se la
notifica deve farsi a più convenuti, l'articolo 165, comma 2, c.p.c., prevede
l'inserimento nel fascicolo dell'originale della citazione nei dieci giorni posteriori
all'ultima notifica; tuttavia il termine di costituzione per il notificante decorre dal
perfezionamento ( per il notificato ) dalla prima notifica. (20)
L'articolo 149, comma 3, specifica per la notificazione a mezzo posta un
principio valevole per tutte le notificazioni nel processo civile, già affermato
appunto dalla Corte Costituzionale nella sentenza 28 del 2004, e confermato
dalla giurisprudenza di legittimità, che ha evidenziato l'esistenza
nell'ordinamento come principio generale del canone secondo cui, qualunque
sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale si intende
perfezionata, dal lato del richiedente, al momento della consegna dell'atto
all'ufficiale giudiziario e che, comunque, secondo una interpretazione
costituzionalmente vincolata, non può addebitarsi alla parte l'esito intempestivo
del procedimento di notifica per un fatto estraneo ai suoi poteri di impulso. (21)
L'articolo 291, comma 1, prevede quindi che il giudice vagli d'ufficio, in caso di
mancata costituzione del convenuto, la validità della notificazione. Se riscontra
un vizio che ne causa la nullità, dispone la rinnovazione, attribuendo allo scopo
14
un termine perentorio all'attore. Dovrà pertanto fissare un'altra udienza di
trattazione, come dispone l'articolo 183, comma 2, c.p.c.: è il primo esempio
della potenzialità di proliferazione dell'udienza " unitaria " insita nel nuovo
articolo 183. Se la rinnovazione va a buon fine, " impedisce ogni decadenza ";
se invece l'ordine dell'innovazione non è eseguito, vista la perentorietà del
termine, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo 291 il giudice ordina la
cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue ex articolo 307,
comma terzo, c.p.c.: si noti che è la stessa dizione dell'articolo 164, comma 2,
c.p.c.
Se poi l'attore avvia il procedimento di notificazione per eseguire l'ordine di
rinnovazione ma questa notificazione non va a buon fine per motivi estranei al
notificante, come già sopra si è accennato, non scatta il meccanismo
sanzionatorio della cessazione di impulso processuale di cui al terzo comma,
ma dovrà essere disposta una ulteriore rinnovazione, in applicazione dei principi
appena esposti, con ulteriore fissazione di udienza ex articolo 183, comma 2.
(22)
Se la notifica è valida, ovviamente dovrà dichiararsi la contumacia del
convenuto. La dichiarazione di contumacia dovrebbe essere pronunciata in
limine litis, quindi alla prima udienza oppure, se la notifica deve essere
rinnovata, alla prima udienza successiva al perfezionamento della notifica; tale
dichiarazione comporta l'applicabilità degli articoli 293 ss.c.p.c., posti a tutela del
diritto di difesa del contumace. Proprio perché si tratta di tutela del diritto di
difesa, è da ritenersi che, ovviamente, nel caso di omissione della dichiarazione,
questa possa effettuarsi anche in seguito, per dar luogo alla loro applicazione.
Anche se è estremamente più raro, la contumacia, è ovvio, può riguardare pure
l'attore, se non si costituisce, qualora si sia costituito tempestivamente il
convenuto ( e non si sia pertanto realizzata la fattispecie di cui al combinato
15
disposto degli articoli 171 e 307 c.p.c., che ora si vedrà ); in questo caso,
tuttavia, poiché la contumacia equivale a cessazione dell'impulso processuale
da parte di chi ha instaurato il giudizio, la legge mantiene la procedibilità
soltanto se l'impulso processuale viene assunto dal convenuto: l'articolo 290
c.p.c. prevede infatti che il giudizio prosegua solo se il convenuto ne fa richiesta,
perché altrimenti, contestualmente alla dichiarazione di contumacia, il giudice
disporrà che la causa sia cancellata dal ruolo e il processo si estinguerà
immediatamente. Nel caso invece in cui l'attore si sia costituito ma non compare
alla prima udienza, si ricorda, questo spostamento dell'impulso processuale
nella disponibilità del convenuto ha comunque come presupposto la previa
fissazione di nuova udienza - che sarà ora, logicamente, ex art. 183, comma 2,
c.p.c. - da comunicare all'attore; solo in questa, se il convenuto non chiede che il
processo continui, il giudice provvederà a cancellare la causa dal ruolo e a
dichiarare l'estinzione del processo (art.181, comma 2, c.p.c.)
Per completare la rassegna di queste fattispecie va infine esaminata quella
della mancata costituzione di entrambe le parti. Non vi è ovviamente
dichiarazione di contumacia, bensì vige lo specifico dispositivo di cancellazione
dettato dagli art.171, comma 1, e 307, comma 1, con possibilità di riassunzione
entro un anno pena estinzione.
La cancellazione dovrebbe essere disposta d'ufficio, tranne per il caso in cui il
convenuto, costituitosi tardivamente, a fronte di una costituzione tardiva
dell'attore non eccepisca la fattispecie di cancellazione, realizzando così una
sanatoria per raggiungimento dello scopo (Cass. 1987 n. 8878 ). L'ordinanza di
cancellazione dal ruolo non è impugnabile, ex articolo 181, comma 1, c.p.c. e
quindi neppure revocabile, ex articolo 177 c.p.c.
Secondo la lettera dell'articolo 307, comma 1, parrebbe sufficiente, per evitare
tale cancellazione, che una delle parti si costituisse entro il termine ex articolo
16
166 c.p.c., cioè il termine per il convenuto; questa interpretazione, che ha
trovato alcuni riscontri in dottrina, è tuttavia rifiutata dalla consolidata
giurisprudenza di legittimità, in base alla quale la tempestività della costituzione
deve essere valutata secondo i termini rispettivamente indicati dal codice per
attore e per convenuto.
Se entrambe le parti non si sono costituite nei termini e il processo, cancellato
dal ruolo, è poi riassunto entro l'anno, è stato posto l'interrogativo se il
convenuto è comunque incorso nelle decadenze ex articolo 167 c.p.c., avendo
certa dottrina sostenuto (23) che ciò non accade ( equivarrebbe a gravare il
convenuto sempre dell'obbligo di costituirsi ), in quanto le decadenze ex articolo
167 c.p.c. scatterebbero soltanto se l'attore si è a sua volta costituito
regolarmente. La questione è dubbia, in quanto da un lato l'articolo 171, comma
2, c.p.c. prevede che il convenuto incorra nelle decadenze ex articolo 167 c.p.c.
anche nel caso in cui l'attore si costituisce tardivamente, purché non oltre la
prima udienza ( se il convenuto si è costituito entro il suo termine, altrimenti si
ricadrebbe nel primo comma dell'articolo 171 ); dall'altro, si tratterebbe di una
vera e propria rimessione in termini sulla quale la legge tace completamente (e
ubi voluit dixit ).
Non si applica l'articolo 171, comma 2, c.p.c. nel caso di appello, secondo
l'interpretazione attualmente consolidata della giurisprudenza di legittimità ( si
veda per esempio Cass. 2005 n. 11594 ) che lo ritiene incompatibile con
l'articolo 348 c.p.c. visto il favore per il passaggio in giudicato della sentenza
impugnata. Dunque, la costituzione tempestiva dell'appellato non toglie il fatto
che la tardiva costituzione dell'appellante rende improcedibile l'appello. Si tratta
tuttavia di improcedibilità e quindi il giudice deve comunque esaminare l'appello
eventualmente promosso in via incidentale, perché solo l'inammissibilità
dell'appello principale rende inefficace la impugnazione incidentale ex articolo
17
334 c.p.c. (24)
Una disciplina particolare riguarda infine il giudizio monitoriamente introdotto. La
giurisprudenza di legittimità appare ormai consolidata, in conflitto con anche
recenti posizioni dottrinali(25) volte a "recuperare" la lettera dell'articolo 645
c.p.c.(26)
In questa sede pratica non è possibile soffermarsi più di tanto sulla questione. È
peraltro opportuno ricordare quali sono i capisaldi della giurisprudenza di
legittimità al riguardo:
1. Il dimezzamento dei termini di comparizione non è obbligatorio ma è
rimesso alla libera scelta di parte opponente; i termini infatti sono intesi
come minimi, per cui l'opponente può avvalersi dei termini ordinari e
anche superarli;
2. I termini di costituzione sono correlati a quelli di comparizione, per cui se i
primi sono dimezzati, dimezzati sono anche i secondi.
3. Va equiparata - configurandosi pertanto una normativa specifica rispetto al
generale meccanismo degli articoli 171 e 307 c.p.c.- la costituzione tardiva
dell'opponente alla sua mancata costituzione ai fini dell'articolo 647,
comma 1, c.p.c., nel senso che l'opposizione, indipendentemente
dall'istanza di dichiarazione di esecutività del decreto e anche dalla
costituzione dell'opposto, diventa improcedibile.(27)
Si tratta evidentemente di una impostazione giurisprudenziale complessiva (si
noti che anche l'articolo 647, comma 1, letteralmente non menziona la
costituzione tardiva allo stesso modo in cui l'articolo 645, comma 2, non
menziona letteralmente i termini di costituzione) diretta oggettivamente ad
obiettivi deflattivi forse non originariamente perseguiti a tale livello dal legislatore
(si noti tra l'altro che i severi effetti che la giurisprudenza deduce da questi vizi di
rito prescindono completamente dal vaglio della loro incidenza sul diritto di
18
difesa dell'opposto) ma ormai da intendersi solidamente incastonati nel diritto
vivente. Al di là della sostenibilità o meno di un revirement (28) deve comunque
darsi atto dell'incidenza sulla fattispecie dell'istituto, ormai generalizzato, della
rimessione in termini. Per l'ipotesi in cui l'opponente abbia effettuato una
costituzione tardiva per causa che non gli è imputabile, appare ragionevolmente
sostenibile l'applicabilità dell'articolo 184 bis c.p.c.; (29) e poiché l'effetto della
tardiva costituzione deve identificarsi nella improcedibilità, secondo l'attuale
insegnamento giurisprudenziale, è da presumere che una simile istanza sia da
proporre immediatamente nella fase preliminare dell'udienza ex articolo 183
c.p.c. Potrebbe così realizzarsi una fattispecie analoga a quella di cui all'articolo
650 c.p.c., in base alla prova ( non necessariamente documentale ) del caso
fortuito o della forza maggiore come causa della costituzione tardiva.
È pur vero che la Corte Costituzionale, in una ormai risalente sentenza ( 141 del
1976 ), ha ritenuto irrilevante la causa non imputabile all'opponente che ne
aveva impedito la tempestiva costituzione. Tale precedente, già all'epoca
criticato, anteriore fra l'altro al potenziamento del valore costituzionale del
contraddittorio addotto dal novellato testo dell'articolo 111 Cost. ( si ricorda che
la fase di opposizione rappresenta proprio il contraddittorio in un procedimento
che grazie ad essa viene ricondotto al modello ordinario), appare ora
agevolmente superabile, tenendo conto pure del fatto che le pronunce di rigetto
della Corte Costituzionale non hanno vincolatività interpretativa. Nell'ipotesi, qui
non condivisa, in cui si reputi inapplicabile per diretta via interpretativa l'articolo
184 bis c.p.c. alla fattispecie in esame rimane comunque aperta, e doverosa, la
strada della eccezione di costituzionalità; ma la valorizzazione della non
imputabilità oggettiva dei "contrattempi processuali" appare ormai così
consapevole, si ripete, da rendere superflua una simile opzione.(30)
19
5. Le verifiche degli atti introduttivi
Logicamente successive agli incombenti eventuali appena esaminati sono le
attività di cui agli artt.164 e 167 comma 2, c,p,c, Prima di esaminare le
fattispecie della nullità degli atti introduttivi in sé, ai sensi dell'articolo 183,
comma primo, è peraltro il caso di soffermarsi su una rilevante modifica operata
dalla riforma del 2005 sul contenuto della comparsa di risposta, cui sopra si è
già accennato: la collocazione delle eccezioni in senso stretto in tale atto
introduttivo, tramite la soppressione del termine che allo scopo si assegnava in
forza del previgente articolo 180.
E' vero che questo termine era uno strumento di raro utilizzo, ma comunque,
come precauzione, esisteva. Sopprimendolo, si è dato un giro di vite alle
preclusioni per il convenuto - controbilanciato solo parzialmente
dall'allungamento del termine minimo di comparizione - perché il nuovo articolo
167 va raccordato al combinato disposto degli articoli 166 e 171, comma 2
c.p.c., per cui la mancata costituzione tempestiva comporta la decadenza non
più solo per la domanda riconvenzionale e per la chiamata di terzo, ma anche
per le eccezioni in senso stretto. Va sottolineato, tuttavia, che il termine dei venti
giorni prima dell'udienza non è necessariamente in rapporto all'udienza di
citazione, in quanto può essere allungato dal giudice quando questi, applicando
l'articolo 168 bis c.p.c., la sposta. Il che significa che il maturare di tale
importante preclusione, completamente estraneo ad ogni potere dispositivo
delle parti (che neppure indirettamente possono incidervi: l'articolo 168 bis,
comma 4, prevede infatti lo spostamento d'ufficio dell'udienza a quella
immediatamente successiva nell'ipotesi in cui la citazione abbia indicato una
data in cui il giudice designato non la tiene; ciò tuttavia, visto l'esplicito dettato
20
dell'articolo 166 che fa riferimento solo al quinto comma dell'articolo 168 bis,
non modifica la decorrenza del termine di costituzione ), è invece in qualche
modo collegato a interventi organizzativi del giudice con eventuali problemi di
disuguaglianza e anche sotto il profilo, quantomeno astratto, di terzietà, che il
ritorno in auge dell'articolo 168 bis c.p.c., frutto dell'eliminazione dell'udienza
preliminare, potrebbe proporre. (31)
Problemi che peraltro non sono del tutto superabili allo stato: tenuto conto del
principio della ragionevole durata del processo, cui corrisponde come si è visto
un vero e proprio diritto delle parti, il giudice, quando applica l'articolo 168 bis,
comma 5, c.p.c., interpretandolo in modo costituzionalmente orientato, non
dovrebbe avvalersene ad libitum, ma per reali necessità organizzative, che
quindi non possono venir meno perché la legge attribuisce allo spostamento
d'udienza, in questo caso, una oggettiva rimessione in termini. La soluzione
allora va rimessa al legislatore, dal quale sarebbe auspicabile ottenere
l'eliminazione completa dell'incidenza dell'art.168 bis c.p.c. sul termine di
costituzione del convenuto.
Le eccezioni in senso stretto che non siano consequenziali alle avverse difese e
quindi non ricadano nella fase di "assestamento" disciplinata dalla parte
seconda dell'articolo 183 c.p.c. devono dunque essere proposte,, ora, nella
comparsa di risposta tempestiva (si ricorda che anche recentemente la
Cassazione - sentenza 421 del 2006 - ha ribadito che sono eccezioni in senso
stretto, oltre a quelle in cui la normativa espressamente attribuisce il potere di
rilevazione alla parte, le eccezioni che corrispondono alla titolarità di un diritto ),
che è pure il luogo di proposizione della domanda riconvenzionale che non sia,
a sua volta, conseguenza di una domanda proposta dall'attore nella fase di
trattazione ex articolo 183, comma 5 (e si ricorda ancora la recente Cass n.
15271 del 2006 per cui vi è eccezione riconvenzionale quando lo scopo è solo il
21
rigetto dell'avversa domanda, mentre si ha domanda riconvenzionale quando si
chiede il riconoscimento delle conseguenze giuridiche derivanti dal fatto posto a
base dell'eccezione ). (32)
Qualora la costituzione sia stata tardiva e quindi la parte non abbia potuto
avvalersi delle facoltà di proposizione di eccezione in senso stretto o di
domanda riconvenzionale, nonché di chiamata di terzo, potrebbero comunque
sussistere gli oggettivi presupposti di non imputabilità della decadenza alla parte
stessa ex articolo 184 bis c.p.c.: in questo caso proprio in limine litis la parte
decaduta dovrebbe presentare la relativa istanza al giudice, il quale a sua volta
ne dovrebbe verificare subito la fondatezza, quantomeno quando si fonda su
prove precostituite. Questo incombente è dunque preliminare alla trattazione di
cui alla seconda parte dell'articolo 183 c.p.c.
Una fattispecie specifica di rimessione in termini per le decadenze ex articolo
167 c.p.c. è poi ravvisabile nel combinato disposto degli articoli 163, comma 3,
n. 7, e 164, comma 3, c.p.c.. In questo caso la decadenza in cui è incorso il
convenuto non è attribuibile né a caso fortuito né a forza maggiore bensì alla
carenza, nell'atto di citazione, dell'avvertimento di cui all'articolo 163, comma 3,
n. 7, e quindi alla controparte. Tale avvertimento deve essere esplicito e
completo; d'altronde, il meccanismo non scatta d'ufficio ma deve essere
eccepito dal convenuto. Ciò è ragionevole, in quanto il convenuto è dotato di
difesa tecnica, per cui l'assenza dell'avvertimento può non avere inciso in alcun
modo sulla sua posizione difensiva se, appunto, è ricorso a tale difesa per
tempo. Ma se il convenuto si è rivolto a un legale troppo tardi per una
costituzione tempestiva, il meccanismo trova fondamento in una sua effettiva
lesione del diritto di difesa, non essendo egli obbligato a conoscere la normativa
processuale - anzi assumendo la legge che non la conosca: articolo 82 c.p.c.-.
In applicazione quindi dell'articolo 164, comma 3, c.p.c., il giudice fisserà una
22
nuova udienza "nel rispetto dei termini", ovvero a distanza quantomeno del
termine di comparizione applicabile alla fattispecie: le decadenze del convenuto
matureranno venti giorni prima di tale udienza (dieci nel caso che vi sia stata
abbreviazione dei termini e, seguendo la giurisprudenza di legittimità, nella
opposizione a decreto ingiuntivo ). (33)
Questo introduce alla tematica della in jus vocatio, come funzione degli atti
introduttivi. Al riguardo, un'apparente differenza tra il testo del primo comma del
nuovo articolo 183 e l'originario articolo 180, primo comma, si pone nel fatto che
mentre in quest'ultimo si faceva riferimento all'articolo 164 e all'articolo 167 tout
court, nell'articolo 183 "nuovo" il riferimento è all'articolo 164 "secondo, terzo e
quinto comma " e all'articolo 167 "secondo e terzo comma". L'articolo 167
secondo comma è evidentemente il corrispondente, dal punto di vista del
convenuto, dell'articolo 164 quarto e quinto comma dal punto di vista dell'attore.
Non crea problemi il fatto che dell'articolo 164 non sia stato richiamato il quarto
comma, in quanto il quinto comma, richiamato, è quello che prevede il
provvedimento che scaturisce dalla verifica di cui al quarto comma. Dunque,
applicando l'articolo 167, secondo comma, il giudice emette un provvedimento
simmetrico rispetto a quello derivante dalla nullità della citazione, e la situazione
rimane corrispondente al rito precedente, mutando soltanto le etichette
dell'udienza: prima si trattava di due udienze ex articolo 180, ora, se si deve
applicare l'articolo 183, secondo comma, di due udienze ex articolo 183. L'unica
differenza è l'accelerazione dovuta alla concentrazione di tutti gli incombenti,
potenzialmente, nell'udienza ex articolo 183: mentre nel rito precedente il
giudice avrebbe dovuto fissare per la trattazione un'altra udienza (il "vecchio"
183), ora si può procedere immediatamente, nell'udienza fissata ai sensi del
nuovo articolo 183, secondo comma, alla trattazione se i problemi riconducibili
al primo comma sono stati superati.
23
La norma fondamentale, in questa tematica, è proprio l'articolo 164. Senza
menzionarla espressamente, nella determinazione delle fattispecie di nullità
della citazione si fonda sulla tradizionale dicotomia in cui si sostanzia, sul piano
ontologico e teleologico, la citazione. (34)
Per quanto concerne la in jus vocatio, l'articolo 164 al primo comma indica le
fattispecie, che il giudice rileva d'ufficio disponendo una rinnovazione entro
termine perentorio che sana ex tunc, se il convenuto non si costituisce -
secondo comma -; se si costituisce, invece, - terzo comma - le nullità sono
sanate, quindi la verifica non deve svolgersi, come nel caso dell'art.291 c.p.c.,
ma in questa fattispecie, di maggior spessore rispetto a una nullità di notifica,
sopravvivono alla costituzione due casi di nullità relativa (già richiamati quale
presupposto di uno specifico istituto di rimessione in termini, come logicamente
comporta il loro contenuto), quelli della violazione dei termini di comparizione e
dell'omesso avvertimento dell'art.163, comma 3, n.7.
Le nullità del primo comma sono identificate, ovviamente, richiamando in modo
più o meno esplicito la norma che detta il contenuto della citazione, l'art.163
c.p.c. L'art. 163, comma 3, n. 1, c.p.c. prescrive l'indicazione in citazione del
tribunale dinanzi al quale la controparte è chiamata: incide dunque su tale
funzione in esame, dando luogo a nullità, la non identificazione del tribunale, ex
art.164, comma 1( per esempio nel caso in cui nello stesso atto siano stati
indicati uffici giudiziari diversi, così da rendere assolutamente incerto quello
adito). L'articolo 163, comma 3, n. 2 impone poi l'indicazione delle parti e
l'omissione o assoluta incertezza di tale indicazione è pure prevista dall'articolo
164, comma 1, come nullità della vocatio. Si è osservato in dottrina che tale
vizio potrebbe però incidere anche sulla editio actionis, in quanto la
identificazione delle parti, insieme a quella di petitum e causa petendi significa
identificazione dell'azione. Ma è logico che prima di identificare l'azione si debba
24
risolvere il profilo di instaurazione del contraddittorio come in jus vocatio.
Seguendo il principio della conservazione e quello, specifico per la nullità, del
raggiungimento dello scopo, la giurisprudenza ha ritenuta valida la citazione
anche in mancanza di alcune indicazioni relative alle persone fisiche ( come
residenza, domicilio o dimora ) purché, anche utilizzando il contenuto dell'atto
nella parte espositiva, non sussista incertezza sull'identificazione.
Quanto alle persone giuridiche(35) sono intervenute di recente le Sezioni Unite
che nelle sentenze n. 4810 e 4814 del 2005 hanno affermato che la nullità
quanto al requisito ex articolo 163, comma 3, n. 2, deriva dall'incertezza
sull'organo della persona giuridica dotato del potere di rappresentanza, e non
dall'incertezza sul nome del suo titolare ( così sciogliendo, come si vedrà infra,
anche il problema della di illeggibilità della firma ). (36)
Sulla stessa linea da ultimo S.U. ord. 1 ottobre 2007 n.20596 insegna che "in
tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, la persona fisica
che ha conferito il mandato al difensore non ha l'onere di dimostrare tale sua
qualità, neppure nel caso in cui l'ente si sia costituito in giudizio per mezzo di
persona diversa dal legale rappresentante e l'organo che ha conferito il potere di
rappresentanza processuale derivi tale potestà dall'atto costitutivo o dallo
statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo
consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e quindi spetta a loro fornire la
prova negativa. Solo nel caso in cui il potere rappresentativo derivi da un atto
della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale, spetta a chi agisce
l'onere di provare l'esistenza di tale potere. " La contestazione della
legittimazione inoltre deve essere tempestiva ( Cass. n. 13669 del 2006 e n.
8442 del 2002 ).
Altra ipotesi di nullità della in jus vocatio è la mancanza della data. Infatti
l'articolo 164, comma 1, (che rimanda implicitamente all'art.163, comma 3, n.7)
25
prevede la nullità della citazione se manca l'indicazione della data dell'udienza
di comparizione ( nella copia notificata: Cass. 2003 n. 6017 ) . A ciò sono state
equiparate, dagli interpreti, l'indicazione erronea o la presenza di più date,
purchè naturalmente sussista incertezza sulla data di comparizione (per
esempio, Cass. 2004 n. 15498 ). È tipico, in questo senso, l'esempio della
citazione per l'anno precedente (Cass. 2002 n. 12546). Secondo
l'interpretazione preferibile, (in questo senso Cass. 2003 n. 6017, contrastante
con Cass. 2002 n. 12546) l’obbligo di lealtà del convenuto di non profittare di
errori di controparte del tutto riconoscibili e quindi non lesivi dei suoi diritti non
giunge al livello dell'onere di attivarsi in cancelleria per venire a conoscenza
della data.
Infine l'articolo 164, comma 1, indica quali ulteriori casi di nullità della citazione
l'assegnazione di termine di comparire inferiore a quello di legge e la omissione
dell'avvertimento dell'articolo 163, comma 3, n. 7. Questi due casi, come già
accennato, si differenziano da quelli appena esaminati quanto agli effetti di
invalidità che producono. Le conseguenze della nullità ex articolo 164, comma
1, sono infatti diverse a seconda che il convenuto si costituisca oppure no.
Partendo dall'ipotesi in cui non avvenga costituzione, la conseguenza, come si
legge nell'articolo 164, comma 2, dopo il loro rilievo inevitabilmente d'ufficio (
non essendo costituita la parte legittimata a segnalarlo come eccezione), è la
rinnovazione entro termine perentorio, fissando un'altra udienza ai sensi
dell'articolo 183, comma 2. Gli effetti della rinnovazione retroagiscono.
Anzitutto va rilevato che il termine concesso dal giudice, ai sensi dell'articolo
307, comma 3, c.p.c. non può essere inferiore a un mese né superiore a sei
mesi. Si ricorda che l'attuale testo dell'articolo 307 risale alla legge 1950 n. 581;
a sua volta il testo dell'articolo 163 bis, prima della riforma degli anni '90,
indicava come termine massimo di comparizione 180 giorni, per il caso in cui il
26
luogo della notificazione si trovasse in altro Stato, e come termine minimo trenta
giorni. Dunque vi era coincidenza tra la gamma dei termini di comparizione e il
termine che poteva assegnare il giudice ex articolo 307. L'articolo 8 della legge
1990 n. 353 sostituì il primo comma dell'articolo 163 bis riducendo il termine
massimo a 120 giorni ( sempre per il caso che la notifica dovesse effettuarsi
all'estero ). A sua volta la riforma del 2005, e specificamente l'articolo 2, comma
1, della legge 2005 n. 263, ha modificato i termini di comparizione partendo da
un minimo di 90 giorni a un massimo di 150 ( salva l'abbreviazione fino alla
metà del comma 2, rimasto immutato ). È il caso di riflettere su come il termine
perentorio ex articolo 164, comma 2, c.p.c., in combinato disposto con l'articolo
307, comma 3, possa coordinarsi con i termini di comparizione. Se, infatti, la
rinnovazione della citazione deriva da una sua invalidità di grado tale da
renderla nulla, il destinatario della citazione deve essere posto, nella procedura
di rinnovazione, in una posizione non deteriore, sul piano del diritto di difesa,
rispetto a quella che la legge gli assegna quando la citazione viene subito
effettuata validamente. Ciò tanto più considerato che, comunque, una qualche
deminutio rispetto alla situazione completamente fisiologica è già stabilita dalla
legge tramite la retroattività della sanatoria ( per cui una citazione nulla, se
seguita da una citazione valida, esplica comunque gli effetti sostanziali e
processuali dalla sua notificazione ). Appare ragionevole dunque che il giudice
non conceda un termine inferiore ai 90 giorni per la notifica in Italia, tranne,
ovviamente, se si è verificata la fattispecie di cui all'articolo 163 bis, comma 2,
c.p.c.; potrebbe altrimenti prospettarsi anche un profilo di illegittimità
costituzionale rispetto agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Occorre poi chiedersi che cosa accade se la rinnovazione non avviene entro il
termine perentorio concesso dal giudice. L'articolo 164, comma 2, dispone per
tale ipotesi che il giudice ordini la cancellazione della causa del ruolo, con
27
conseguente estinzione ex articolo 307, comma 3. Secondo una interpretazione,
perché si realizzi la fattispecie estintiva occorrerebbe - nell'ipotesi in cui il
convenuto si sia comunque costituito - che la parte interessata, cioè appunto il
convenuto, eccepisse tempestivamente l'estinzione. Tale interpretazione non è
del tutto convincente, perché l'articolo 164, comma 2, rinvia specificamente
all'articolo 307, comma 3, senza peraltro richiamare il quarto comma, e
soprattutto dispone direttamente che il giudice ordini la cancellazione della
causa del ruolo, indicando l'estinzione come conseguenza di tale cancellazione.
Se il giudice ha obbligo di cancellare immediatamente la causa dal ruolo, è
difficile individuare un residuo spazio per attività processuale delle parti. Inoltre,
non richiamando come si è detto il comma 4 dell'articolo 307, la disciplina
specifica dell'articolo 164 indica l'estinzione come conseguenza ex lege, senza
richiedere che il giudice la dichiari, e stabilendo invece che il giudice emetta un
provvedimento dal contenuto diverso, cioè semplicemente la cancellazione della
causa dal ruolo, che si ripete dev'essere disposta subito d'ufficio, all'esito della
verifica della mancata effet tuazione della rinnovazione nel termine perentorio
assegnato. Diversamente opinando, del resto, la perentorietà del termine
verrebbe in effetti elusa. Tale interpretazione appare la più confacente
all’impostazione di semplificazione che come si è visto insegna la recente
giurisprudenza, eliminando gli appesantimenti formalistici per adeguare la
tradizione al concetto di ragionevole durata del processo.
La perentorietà del termine, tuttavia, in conformità con il principio, ormai
affermatosi, che non può gravare sulla parte il mancato perfezionamento di atti
per motivi ad essa estranei, non toglie che, se la rinnovazione della citazione
non va a buon fine per difetto della notifica non attribuibile al notificante, il
giudice debba ordinare la rinnovazione della notifica e, una volta raggiunto il
perfezionamento, si verifichi l'effetto retroattivo "sin dal momento della prima
28
notificazione ", cioè dalla notificazione della citazione nulla. Diverso appare il
discorso per l'ipotesi in cui la citazione rinnovata contenga di nuovo vizi tali da
renderla nulla sotto profilo della in jus vocatio. Poiché il vizio è attribuibile alla
parte stessa che doveva effettuare la rinnovazione, appare ragionevole ritenere
che essa abbia già consumato la sua possibilità di correzione, e che la
fattispecie sia quindi da equiparare alla mancata rinnovazione, con conseguente
cancellazione dal ruolo e immediata estinzione.
Si ricorda infine che la nullità della in jus vocatio, se non rilevata, può costituire
motivo di impugnazione. In tal caso il giudice di appello dichiara la nullità del
giudizio di primo grado e, dopo aver espletato davanti a lui le attività impedite
dalla nullità, deciderà la causa del merito (questa è la più logica delle soluzioni,
e la più conforme alle necessità di ragionevole durata del processo, ed è stata
affermata da Cass. 2004 n. 18571 ).
Si esamini ora l'ipotesi in cui il convenuto si costituisce. Questo ha effetto
sanante per i primi tre casi di nullità di cui all'articolo 164, comma 1, e trasforma,
invece, in casi di nullità relativa le ultime due ipotesi di detta norma (articolo 164,
comma 3). Tale disciplina conduce a ritenere, quindi, che il termine di
comparizione sia, in certa misura, nell'ambito del potere dispositivo del
convenuto, potere che viene esercitato tramite la scelta della costituzione o, nel
caso in cui questa scelta sia risolta in modo positivo, tramite l'esercizio
dell'eccezione in senso stretto di cui all'articolo 164, comma 3.
Proprio perché si tratta evidentemente di eccezione processuale in senso stretto
dovrebbe essere proposta nella comparsa di costituzione; ma, visto il contenuto
della eccezione - in sostanza, tale eccezione tutela l'impossibilità di una
costituzione tempestiva nel rispetto del diritto di difesa del convenuto -, si può
ritenere che sia proponibile in una comparsa di costituzione non tempestiva,
quindi anche nel caso di costituzione in udienza. Tardiva invece appare la
29
proposizione per la prima volta in udienza, in caso di mancata eccezione nella
comparsa di risposta, tranne nel caso in cui la costituzione avvenga in udienza,
perché in questa ipotesi vi è una contestualità che consente di qualificare tutto
"prima difesa ".
Nel caso poi in cui, essendo stata omessa la verifica della nullità, il convenuto si
costituisce sua sponte tardivamente e oltre l'udienza ex articolo 183 c.p.c.,
eccependo nella prima difesa le fattispecie che rientrano nell'articolo 164,
comma 3, ha diritto alla regressione del processo - con fissazione di nuova
prima udienza di trattazione ex artt. 164, comma 3, e 183, comma 2 - non
potendo superarsi la valutazione legislativa della meritevolezza di tutela della
fattispecie né tantomeno far gravare sulla parte l'omissione del giudice quanto
alla verifica in limine litis.
Sempre a proposito dei termini di comparizione, è stato poi sostenuto (37) che
se viene proposta con l'atto introduttivo un'istanza cautelare (come la
sospensione delle delibere condominiali o la provvisionale ex articolo 147 del
Codice delle assicurazioni; ma si consideri anche la fattispecie ex articolo 649
c.p.c. ) o anticipatoria (come la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex
articolo 648 c.p.c. o l'ordinanza ex artt. 186 bis e 186 ter c.p.c. ), il giudice può
procedere "alla fissazione di un'udienza anche senza il rispetto dei termini
minimi di comparizione ", udienza finalizzata esclusivamente a tali istanze, da
decidere comunque "all'esito della comparizione delle parti e previa
instaurazione del contraddittorio " salva l'emissione del decreto inaudita altera
parte nel caso di istanza cautelare. Per quanto riguarda l'istanza cautelare,
indubbiamente, potendo essere presentata anche ante causam, a fortiori può
essere fissata un'udienza per essa prima dell'udienza ex articolo 183 c..p.c. e, in
particolare, prima del decorso dei termini minimi di comparizione. ( Si ricordi,
peraltro, che qualora un convenuto non costituito si costituisca in un cautelare in
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corso di causa, la costituzione nell'incidente non vale automaticamente come
costituzione nel merito, ciò verificandosi, infatti, solo quando nella costituzione
viene presa una posizione compiuta anche riguardo a esso: Cass. 2005 n.
5904). Diversa, peraltro, appare la questione delle anticipatorie: la cognizione
sommaria non sostenuta da urgenza, come è l'ipotesi meramente anticipatoria,
non legittima una compressione del diritto di difesa di controparte come
oggettivamente è fissare un'udienza ad hoc prima del decorso dei termini minimi
di comparizione. D'altronde, la durata dei termini è stata scelta dal legislatore
come unità di misura temporale per un contraddittorio effettivo, e non formale:
convocare le parti per una udienza anteriore al decorso di tali termini realizza,
invece, un contraddittorio non conforme alla valutazione legislativa.
Nell'ipotesi cui il convenuto si costituisce tempestivamente, come si è visto,
sana la nullità della in jus vocatio, salva la possibilità del convenuto di ottenere
una nuova udienza nei casi dell'articolo 164, comma 3. Potrebbe però accadere
che in conseguenza degli altri vizi, non compresi nel comma 3 e sanati dalla
costituzione tempestiva, il convenuto sia incorso in decadenze: ciò non può
escludersi a priori, soprattutto con la riforma del 2005, per quanto riguarda la
proposizione delle eccezioni in senso stretto. Appare ragionevole, se si
verificasse una simile fattispecie, ricorrere all'articolo 184 bis c.p.c. in quanto la
sanatoria della citazione non estingue comunque il diritto di difesa della parte
citata.
La seconda funzione della citazione, come si è visto, è la editio actionis, la cui
nullità è disciplinata dall'articolo 164, comma 4 come omissione o assoluta
incertezza del requisito di cui all'articolo 163, comma 3, n. 3, oppure mancanza
di esposizione dei fatti di cui al 4 della stessa norma.
L'articolo 163, comma 3, n. 3, riguarda l'indicazione della cosa oggetto della
domanda; ciò è stato identificato dalla dottrina nel cosiddetto petitum mediato,
31
ovvero la situazione sostanziale dedotta in giudizio (38) , mentre il petitum
immediato, cioè il provvedimento richiesto, è stato ricondotto al n. 4. Ai fini della
editio actionis è l'omessa o assolutamente incerta indicazione dei fatti costitutivi
(e non delle ragioni di diritto, in quanto jura novit curia) a causare nullità,
considerati gli evidenti effetti ostativi all'esercizio del diritto di difesa di
controparte.
A proposito dei fatti costitutivi la dottrina ha elaborato la distinzione tra diritti
autodeterminati - i diritti che non possono esistere simultaneamente più volte
con lo stesso contenuto tra gli stessi soggetti: in questo caso, per la loro
identificazione i fatti costitutivi non avrebbero logicamente rilevanza ( incidendo
invece sul profilo probatorio ) - e diritti eterodeterminati - ovvero quelli che
possono sussistere con il medesimo contenuto più volte tra gli stessi soggetti: in
questo caso, i fatti costitutivi della causa petendi sono imprescindibili per
identificare il diritto. Nella prima categoria sono stati assunti i diritti reali e i diritti
della personalità; nella seconda i diritti di credito, la responsabilità
extracontrattuale ecc. Poiché l'articolo 164 sanziona con la stessa nullità
l'omessa indicazione dei fatti in tutte le azioni, in dottrina, per salvare l'utilità e la
logica della questa classificazione, si è fatto ricorso a una valorizzazione della -
non da tutti riconosciuta, si ricorda - terza funzione della citazione, quella
preparatoria, rilevando che il contatto fra il giudice e le parti nella udienza di
trattazione, che deve essere focalizzato sui punti controversi e solo su di essi,
non sarebbe proficuo se non fossero indicati i fatti costitutivi per qualunque tipo
di diritto (39)
Non è questa la sede per riflessioni dogmatiche. Si osserva soltanto che un
eccesso di analisi non dà utilità se non riconduce a una sintesi. Assumere che
l'indicazione dei fatti costitutivi, per i diritti autodeterminati, rileva solo sul piano
probatorio appare una lettura alquanto restrittiva, e perciò in qualche misura
32
confinante con il formalismo, della funzione "editio actionis": a che serve
identificare l'azione se ciò non consente contestualmente a controparte di
predisporre la propria difesa? Esponendo la propria azione, quindi, l'attore non
può esimersi, per rispettare i diritti di controparte, dall'indicarne i fatti costitutivi. Il
reale scopo e senso della editio actionis non è, per così dire, l'apposizione di
una etichetta su un contenitore ancora vuoto, bensì la tutela del contraddittorio
sul piano sostanziale, una volta che la in jus vocatio lo ha costituito dal punto di
vista formale. Dunque è logico, e coerente con le concrete scelte del legislatore,
concludere che l'unità di misura anche della nullità dell'editio actionis è pur
sempre il diritto di difesa del convenuto.
Se la nullità della in jus vocatio è sanata dalla costituzione del convenuto (
tranne, come si è visto, per inosservanza del termine per comparire e difetto di
avviso ai sensi del numero 7 dell'articolo 163 se il convenuto eccepisce), al pari
della nullità della notificazione, la nullità della editio actionis non è invece sanata
da tale costituzione. Inoltre, poiché si tratta di identificazione dell'azione, l'effetto
del procedimento correttivo ( rinnovazione della citazione o fissazione di
udienza per integrazione della domanda ) non può retroagire: dispone infatti
l'articolo 164, comma 5, che "restano ferme le decadenze maturate e salvi i
diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione ". (Si noti che la
riforma del 2005 ha ritoccato l'ultimo comma dell'articolo 164, sostituendo il
riferimento all'ultimo comma, con quello al secondo comma dell'articolo 183) .
Quali sono le conseguenze dell'inadempimento dell'ordine di cui all'articolo 164,
comma 5? Premesso che l'incipit di tale comma lascia intendere che il rilievo
della nullità possa avvenire anche d'ufficio ( "il giudice, rilevata la nullità.... "), si
osserva che il giudice assegna un termine perentorio, che anche in questo caso
deve trarsi dall'articolo 307, comma 3. Poiché, a motivo della nullità, il termine di
comparizione non ha potuto essere fruttuoso per la difesa del convenuto,
33
appare ragionevole svolgere le stesse considerazioni effettuate a proposito della
nullità della in jus vocatio quanto a misura del termine. Comunque alla
fattispecie appare pienamente applicabile, nonostante alcune incertezze
dottrinali, l'articolo 307, comma 3, laddove stabilisce che "il processo si
estingue... qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione... non vi
abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito... dal giudice che dalla
legge sia autorizzato a fissarlo ". È evidente che, nel caso di specie,
l'integrazione tramite fissazione di nuova udienza è del tutto equipollente, visto il
suo scopo, alla rinnovazione disposta per il caso di mancata costituzione. (40)
In caso di mancata costituzione del convenuto, se il giudice non ha verificato la
nullità nella prima udienza, ciò non gli toglie il potere-dovere di farlo
successivamente, perché la sua omissione non ha certo effetto sanatorio. Si
pone quindi la questione di cosa accade, nell'ipotesi in cui la nullità non sia stata
rilevata e non si sia ad essa provveduto in limine litis, agli atti processuali
frattanto compiuti. Appare ragionevole ritenere, visto anche il dettato del
secondo comma del nuovo articolo 183 - che a differenza del previgente
articolo 180 indica espressamente come esito di verifica ex articolo 164 la
fissazione di altra udienza di trattazione - che la nullità dell'atto introduttivo si
propaghi automaticamente su tutti gli atti compiuti prima del suo rilievo e che
pertanto, dopo la rinnovazione, altrettanto automaticamente il giudizio debba
regredire in limine litis. (41)
Quanto poi alle conseguenze, in sede di impugnazione, di una non rilevata
nullità della editio actionis, si ritiene siano riconducibili alla nullità della sentenza
impugnata.
L'omologo dell'art.164 c.p.c. per le conseguenze della carente editio actionis
della domanda riconvenzionale (è evidente che qui non vi è profilo di in jus
vocatio, essendo stato il processo già incardinato da controparte) è la seconda
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parte dell'art.167, comma 2, c.p.c., che indica come presupposto di tale carenza
l'omissione o assoluta incertezza dell' “oggetto” o del “titolo” della domanda,
prevedendo il rilievo anche d'ufficio e la conseguente assegnazione di termine
perentorio di integrazione, con effetto ex nunc. Ciò comporta, ovviamente, la
fissazione di ulteriore udienza ex art. 183, comma 2; e se l'integrazione non
viene eseguita, la nullità non sarà sanata, per cui, ovviamente, la domanda
riconvenzionale non potrà valutarsi nel merito. Come si è visto, la dizione è
diversa da quella dell'art. 164, comma 4, per cui si è prospettata anche una
lettura che nel “titolo” includa gli elementi di diritto della domanda. La questione
è discutibile. Premesso che la norma è di rara applicazione, va peraltro ricordato
che, se si adotta la lettura più conforme alle esigenze costituzionali di
semplificazione e celerità insite logicamente nel principio della ragionevole
durata valorizzando realmente, ai fini dell'ammissibilità della domanda
riconvenzionale, l'art. 36 c.p.c. e non circoscrivendo l'incidenza dei confini posti
da tale norma alle ipotesi in cui venga coinvolto l'aspetto della competenza,
l'identificazione del titolo inclusiva ab origine pure delle ragioni di diritto assume
un rilievo comprensibile nella domanda riconvenzionele. L'argomento può però
rovesciarsi, rilevando che a questo punto, per consentire all'avversario
l'esplicazione del diritto di difesa tramite domanda riconvenzionale ammissibile
ex art. 36 c.p.c., anche l'editio actionis della domanda principale dovrebbe
includere una chiara proposizione del titolo (a parte l'ipotesi in cui il titolo della
domanda riconvenzionale sia l'eccezione riconvenzionale). Questi profili
sfociano quindi nella trattazione, per cui non possono approfondirsi in questa
sede.
Un ulteriore profilo di verifica degli atti introduttivi concerne la difesa tecnica.
L'articolo 163, comma 3, n. 6, impone che nella citazione siano indicati il nome e
cognome del difensore e la procura,se già rilasciata.. Dal canto suo l'articolo
35
166 stabilisce che il convenuto (si prescinde qui dalle ipotesi in cui la difesa
tecnica non è necessaria ex articolo 82 c.p.c. ) si costituisce a mezzo di
procuratore e nel fascicolo che deposita deve essere inclusa la procura. Come è
noto, l'articolo 83 c.p.c. indica le modalità di conferimento della procura.
L'articolo 125 c.p.c., poi, stabilisce che la procura può essere rilasciata fino alla
costituzione, che nei processi introdotti con citazione è successiva alla notifica
di questa. Se la procura non è rilasciata entro tale termine, si verifica una nullità
insanabile della citazione, per consolidata giurisprudenza. (42)
Peraltro, se la parte si costituisce con la cosiddetta velina (quindi rinviando la
produzione dell'originale notificato, da eseguirsi entro dieci giorni dalla notifica)
(43), oppure se la copia notificata è priva di procura, la giurisprudenza ha
ritenuto sufficiente a dimostrare che la procura sia stata conferita prima della
notificazione l'annotazione "mandato sull'originale" o altra equivalente trascritta
a margine della copia notificata oppure l'indicazione nell'epigrafe della copia del
difensore come destinatario della procura speciale ( Cass. 2005 n. 6169 ).
Come si è detto, non è sanabile tramite alcuna ratifica il mancato conferimento
della procura oltre la costituzione ex articolo 125, comma 2, c.p.c.; la
giurisprudenza, quindi, ritiene ( non senza dissensi in dottrina ) che tale
fattispecie abbia una disciplina autonoma, non riconducibile all'articolo 182
c.p.c. che riguarda invece, prevedendone la sanatoria, il difetto di
rappresentanza, assistenza o autorizzazioni di chi la procura conferisce.
Nel caso di costituzione tramite difensore privo di jus postulandi - e qui entra in
gioco pure l'ipotesi della costituzione di convenuto senza la procura - la parte è
da ritenere contumace (44).
Qualora poi la firma di chi conferisce la procura sia illeggibile, le Sezioni Unite,
con le due pronunce del 7 marzo 2005 (4810 e 4814 ) hanno affermato che ciò
è irrilevante se il nome di chi ha firmato risulta dal testo della procura o dalla
36
certificazione di autografia, (45) o ancora dall'indicazione di una specifica
funzione che renda identificabile il suo titolare tramite i documenti di causa o il
registro delle imprese; in difetto di ciò, come pure quando non viene indicata la
funzione specifica, ma qualificato genericamente chi firma come "legale
rappresentante ", si ha una nullità relativa che controparte deve eccepire nella
prima difesa, così che l'interessato integri nella prima difesa successiva tale
carenza; e in difetto di integrazione, si avrà nullità della procura e inammissibilità
dell'atto relativo.
Nullità insanabile sussiste invece se manca la sottoscrizione dell'atto (Cass.
1978 n. 5077 ) oppure se la sottoscrizione è di una parte non autorizzata a stare
in giudizio personalmente.
Logicamente successiva verifica, che il giudice deve effettuare anche d'ufficio, è
quella della regolarità della costituzione delle parti ex articolo 182 c.p.c., per
quanto concerne rappresentanza, assistenza e autorizzazioni ( per esempio, per
i minori, per le persone giuridiche, per gli enti pubblici, per il fallimento )
invitandole a "completare o a mettere in regola gli atti e i documenti... difettosi ".
Il primo comma dell'articolo 182 appare interpretabile nel senso che il giudice
verifica la regolare costituzione delle parti (secondo una lettura anche sotto
l'aspetto fiscale) e la presenza dei documenti offerti in allegazione agli atti
introduttivi. Il nucleo centrale è però il secondo comma. Si ricorda che, mentre
con la legge 142 del 1990 per gli enti locali era necessario che il mandato alla
lite fosse accompagnato da una delibera della giunta, l'articolo 50 del t.u. enti
locali (d.lgs. 2000 n.267 ) ha modificato la normativa e conseguentemente le
Sezioni Unite, nella pronuncia 2005 n. 12868, hanno riconosciuto che lo statuto
del comune, o il suo regolamento se lo statuto a esso rinvia, possono affidare il
potere di rappresentanza in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori,
per cui solo dove manca una specifica disposizione in tal senso il sindaco
37
conserva la titolarità esclusiva del potere di stare in giudizio per il comune.
Per quanto riguarda il condominio, l'amministratore ne ha la rappresentanza
passiva in giudizio ex articolo 1131, comma 2, cod. civ. anche senza delibera
autorizzativa, tranne per le cause che non rientrano tra quelle che
l'amministratore può autonomamente proporre ai sensi del primo comma; il
secondo comma infatti ha come ratio solo favorire il terzo che agisce contro il
condominio consentendogli di citare soltanto l'amministratore e non tutti i
condomini, ma ciò non significa che l'amministratore sia legittimato a resistere in
giudizio senza autorizzazione dell'assemblea ( Cass. 2004 n. 22294 ). Quindi
nell'udienza ex articolo 183 c.p.c. il giudice dovrebbe verificare se la
controversia esula da quelle del primo comma dell'articolo 1131 cod. civ. per
disporre in tal caso la regolarizzazione tramite la produzione della occorrente
delibera.
Nell'ipotesi in cui il giudice abbia dato disposizioni ex articolo 182, comma 2
c.p.c. e queste non siano state adempiute, è logico ritenere che la causa debba
essere immediatamente trattenuta in decisione sulla questione di rito se
concerne l'attore ( la cui domanda dovrebbe dichiararsi inammissibile ); se la
questione riguarda il convenuto, se ne dovrà dichiarare la contumacia.
Anche recentemente la Cassazione ha valorizzato l'articolo 182 c.p.c.
affermando ( sentenza 8241 del 2006 ) che la mancata produzione delle
autorizzazioni necessarie da parte del legale rappresentante di un ente, se è
rilevata in sede di decisione, rende inammissibile la domanda, perché il potere
di invito alla legalizzazione ex articolo 182, comma 2, può esercitarsi soltanto in
fase istruttoria. Con un simile asserto appare coerente, sempre tra le pronunce
recenti della Suprema Corte, la sentenza 5515 del 2006 che ha ritenuto non
censurabile in sede di impugnazione il mancato esercizio del potere di invito alla
regolarizzazione; non del tutto coerente, invece, appare la coeva sentenza 8435
38
del 2006, secondo la quale, in caso di omesso deposito, questa volta, della
procura generale ad lites, il giudice deve, anche in sede di decisione collegiale e
anche in fase di appello, invitare la parte ex articolo 182, comma 1, c.p.c., a
produrre il documento, essendo tale produzione tale da sanare ex. tunc il
conseguente difetto di costituzione. A sua volta, il difetto di legittimazione
processuale del rappresentante è stato ritenuto sanabile in ogni stato in grado di
giudizio tramite la costituzione del soggetto legittimato che ratifichi anche
tacitamente l'operato del falsus procurator (Cass. n. 7879 del 2006 ).
Sempre logicamente preliminare alla trattazione e derivante dalla verifica del
contenuto degli atti introduttivi è il rilievo da parte del giudice dell'eventuale
difetto di giurisdizione nonché - e per questo scatta pure la barriera preclusiva
dopo l'udienza ex articolo 183 c.p.c.- dell'eventuale difetto di competenza per
materia, per valore o per territorio inderogabile. Riguardo alla competenza, va
segnalato che il suo consolidamento ha subito a sua volta un giro di vite dalla
riforma del 2005, analogo a quanto è accaduto per l'eccezione in senso stret to:
mentre quest'ultima era proponibile entro il termine assegnato nell'udienza ex
articolo 180 c.p.c., il profilo della competenza inderogabile rimaneva vitale fino
all'udienza successiva, quella di trattazione secondo il previgente articolo 183
c.p.c..; ora, la soppressione dell'udienza "anticamera" modifica il contenuto
dell'articolo 38, comma 1, c.p.c., per cui è da ritenere che anche questa verifica
faccia parte delle verifiche preliminari della fase introduttiva del nuovo articolo
183 c.p.c. Rientra pure nei rilievi preliminari, in quanto "non può essere eccepita
dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza" ex articolo 40, comma 2,
c.p.c., la questione della connessione.
Si tratta di aspetti che concernono una prima valutazione non formale del
contenuto degli atti introduttivi, correlata alla loro funzione di editio actionis. Su
questo piano si colloca un altro genere d'incombente, menzionato in via
39
espressa dall'art.183, comma 1: quello, che ora si approfondirà, dell'estensione
del contraddittorio.
6. L'estensione del contraddittorio necessaria e facoltativa
La verifica del litisconsorzio necessario deve effettuarsi d'ufficio, secondo il
contenuto della domanda, indipendentemente dalla condotta dei convenuti
(Cass. 2005 n. 10130 ). Si tenga conto infatti dell'art.101 c.p.c., che sottrae al
potere dispositivo delle parti la completezza del contradditttorio. La
determinazione di una fattispecie in cui si rende necessaria l'integrazione, poi,
può essere, nonostante l'esplicito dettato dell'art. 183, comma 1, inattuabile in
limine litis, occorrendo allo scopo integrazioni probatorie ( per esempio, nelle
cause di diritti reali o successorie occorre avere a disposizione certificati
catastali e/o certificati anagrafici storici.) Il giudice quindi attraverso questa
verifica entrerà nella vera e propria trattazione, chiedendo chiarimenti alle parti e
segnalando la necessità di integrazioni documentali. Al quarto comma l'articolo
183 dispone proprio che "il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati,
i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene
opportuna la trattazione ". Ciò dovrebbe avvenire, secondo la struttura
complessiva della norma, all'esito della fase preliminare dei primi due commi; se
però gli elementi agli atti non consentono di accertare l'esistenza di un
litisconsorzio necessario non integro, ma fanno concretamente emergere tale
eventualità, non può non applicarsi il quarto comma. Per chiarire la questione,
allora, e in particolare per la produzione dei documenti necessari, non appare
tuttavia idonea la sequenza dei termini di cui al sesto comma, essendosi ancora
su un piano preliminare di dubbia conformazione soggettiva del contraddittorio.
Appare pertanto ragionevole ritenere che il giudice inviti le parti al chiarimento,
40
anche documentale, necessario per risolvere questo aspetto, rinviando
eventualmente ad altra udienza sempre riconducibile però all'articolo 183,
comma primo, e magari autorizzando le parti a uno scambio ex articolo 170
c.p.c. di memorie sulla questione, con allegate produzioni.
Si coglie l'occasione per segnalare un ulteriore profilo di "svuotamento" inflitto
dalla riforma del 2005 all'art.180 c.p.c. Il testo previgente dell'articolo 180, al
comma 2, dopo avere enunciato l'oralità della trattazione davanti al giudice
istruttore, conferiva a questi il potere di autorizzare comunicazioni di comparse
ex articolo 170, ultimo comma. Il nuovo testo ha espunto questa previsione. La
conformazione letterale dell'articolo 170, ultimo comma, lascia però intendere
l'esistenza di un potere del giudice di autorizzare memorie anche al di là dei casi
espressamente previsti dalla normativa ( si noti in particolare l'inciso "in
qualunque stato e grado del giudizio "). Tale potere discende del resto anche
dalla lettura dell'articolo 175, comma 2, c.p.c. in relazione diretta al principio
costituzionale di contraddittorio, ovvero al diritto di difesa, essendo notorio che
la memoria scritta è strumento per il suo esercizio, e l'enunciazione dell'oralità
della trattazione, ex articolo 180 c.p.c., non può quindi intendersi come un
divieto dell'utilizzo di tale strumento, ma piuttosto come l'indicazione di una sua
programmatica eccezionalità. Si è di fronte, dunque, a un'ulteriore ipotesi di
interpretazione costituzionalmente orientata necessaria per stornare
un'apparente lacuna scaturita dal restyling del 2005.
Tornando al litisconsorzio necessario, non è ovviamente possibile in questa
sede analizzare i singoli casi alla luce delle normative sostanziali. Va peraltro
ricordato che, sul piano dei criteri generali, anche recentemente la Suprema
Corte ha dato indicazioni, insegnando che, a parte le ipotesi in cui è
espressamente previsto dalla normativa,(46) il litisconsorzio necessario si
verifica quando l'azione è diretta alla modifica o alla costituzione di un rapporto
41
plurisoggettivo oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile comune
a più soggetti ( sentenza 17027 del 2006 ) o anche quando la domanda è diretta
all'accertamento di un rapporto giuridico plurisoggettivo ( sentenza 7079 del
2006; peraltro, in caso di domanda di accertamento di usucapione, si è ritenuto
necessario il litisconsorzio fra comproprietari soltanto dal lato passivo e non dal
lato attivo ).
Anche in questo caso, il riscontro della fattispecie comporterà la fissazione di
udienza ulteriore ex art. 183, comma 2; e se il rilievo non è fatto in limine litis,
quando avverrà comporterà regressione del giudizio, per ovvi motivi di tutela del
pretermesso (è noto che le pretermissione integra il caso tipico di sentenza
inutiliter data). La pienezza di tutela che compete ad ogni litisconsorte
necessario si evince anche da una recente sentenza della Corte Costituzionale,
la n. 41 del 2006, che ha dichiarato illegittimo il combinato disposto degli articoli
38 e 102 c.p.c. laddove consentivano " di ritenere improduttiva di effetti
l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile proposta non da tutti i
litisconsorti necessari ". L'ingresso tardivo nel processo di un litisconsorte
pretermesso, quindi, comporta una regressione che può pervenire, a seconda
delle difese che concretamente egli riterrà di spiegare, a una fase addirittura
anteriore all'udienza ex articolo 183 c.p.c.: si ricorda infatti che quando l'udienza
avviene, è già scattata la preclusione per quanto riguarda l'eccezione di
incompetenza territoriale derogabile. La plurisoggettività, in sintesi, incide solo
sugli aspetti positivi di tutela, senza in alcun modo comportare alcuna deminutio
dei poteri processuali dei singoli.
Interessata ad adempiere all'ordine ex articolo 102 c.p.c. è ovviamente parte
attrice; se entro il termine perentorio - per la determinazione della cui durata si
applica l'articolo 307, comma 3, e possono riproporsi le considerazioni già
svolte sulla necessità di adeguamento da parte del giudice della sua
42
determinazione ai termini di comparizione, in modo da non collocare neppure il
litisconsorte in una posizione deteriore rispetto agli altri soggetti chiamati in
giudizio - l'ordine non è adempiuto, si applica l'articolo 307, comma 3, c.p.c., con
conseguente estinzione del processo che la parte interessata ( comma 4 ) dovrà
eccepire nella sua prima difesa (quindi, in concreto, la parte convenuta).
Ovviamente, se la in jus vocatio non è andata a buon fine per cause non
imputabili alla parte, si applicherà l'articolo 184 bis c.p.c. in relazione ai principi
generali della rimessione in termini. (47)
Occorre ora esaminare l'ipotesi di estensione del contraddittorio ex articolo 106
c.p.c.
L'incidenza su questo aspetto della riforma del 2005 è una delle questioni più
problematiche delle prime letture. Per meglio comprenderlo, è opportuno
anzitutto ricapitolare quello che si è finora esaminato. L'articolo 183 al primo
comma ricicla quello che nel rito precedente era l'udienza ex articolo 180; ne
deriva, se del caso, la fissazione di una ulteriore udienza ex articolo 183 come
stabilito dal secondo comma dello stesso. L'unica differenza tra il testo del primo
comma del nuovo articolo 183 e l'originario articolo 180, primo comma, sta nel
fatto che mentre in quest'ultimo si faceva riferimento all'articolo 164 e all'articolo
167 tout court, nell'articolo 183 "nuovo" il riferimento è all'articolo 164 "secondo,
terzo e quinto comma " e all'articolo 167 "secondo e terzo comma". L'articolo
167 secondo comma è evidentemente il corrispondente, dal punto di vista del
convenuto, dell'articolo 164 quarto e quinto comma dal punto di vista dell'attore.
Non crea problemi il fatto che dell'articolo 164 non sia stato richiamato il quarto
comma, in quanto il quinto comma, richiamato, è quello che prevede il
provvedimento che scaturisce dalla verifica di cui al quarto comma. Dunque,
applicando l'articolo 167, secondo comma, il giudice emette un provvedimento
simmetrico rispetto a quello derivante dalla nullità della citazione, e la situazione
43
rimane corrispondente al rito precedente. L'unica differenza è l'accelerazione
dovuta alla concentrazione di tutti gli incombenti, potenzialmente, nell'udienza:
ex articolo 183. La situazione rispetto al rito precedente appare invece diversa,
al di là del profilo della concentrazione, per quanto concerne l'articolo 167 terzo
comma. Tale norma non si pone in simmetria con l'articolo 164 perché non ha
niente a che vedere con le nullità, riguardando soltanto la chiamata del terzo da
parte del convenuto e collegandosi pertanto all'articolo 269 c.p.c.. Quest'ultimo
è stato oggetto a sua volta di riforma del quinto comma: "Nell'ipotesi prevista dal
terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima
udienza di trattazione, ma i termini eventuali di cui al sesto comma dell'articolo
183 sono fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo ".
Se si confronta questo testo con quello precedente emerge chiaramente che il
coordinamento ha riguardato soltanto la questione dei termini, sostituendo quelli
del novellato articolo 183, sesto comma, ai termini dell'articolo 183, ultimo
comma, e dell'articolo 184 nel testo precedente. Dunque questo intervento non
è significativo in rapporto al richiamo del terzo comma dell'articolo 167 da parte
del nuovo primo comma dell'articolo 183. Le opzioni interpretative sono dunque
due. O si ritiene che il rinvio al terzo comma dell'articolo 167 sia un "refuso"
tamquam non esset, oppure se ne traggono conseguenze applicative. In
quest'ultimo caso deve allora ritenersi che sia stato abrogato il meccanismo che
comportava lo spostamento di udienza con provvedimento a questa anteriore in
caso di chiamata di terzo richiesta nella comparsa di risposta: il provvedimento
deve ora assumersi nell'udienza ex articolo 183, per combinato disposto dei
commi primo e secondo di tale norma, comportando uno sdoppiamento
dell'udienza come accade per gli altri provvedimenti previsti in tali disposizioni.
Deve quindi ritenersi implicitamente abrogato, ex articolo 15 prel. in quanto
incompatibile con norma successiva, l'articolo 269, secondo comma, nella parte
44
in cui prevede che il giudice dispone con decreto lo spostamento dell'udienza,
dovendosi ora ritenere che disponga con ordinanza ai sensi dell'articolo 183,
secondo comma. Può invece ritenersi che il convenuto resti obbligato, pena
decadenza, a chiedere nella comparsa di risposta lo spostamento - ora
“sdoppiamento” - dell'udienza per la chiamata: vale a dire, ora, l'applicazione,
con ordinanza, dell'articolo 183, secondo comma.
Ma se la decisione sulla chiamata del terzo richiesta dal convenuto deve tornare
ad essere assunta in contraddittorio, come avveniva prima della riforma degli
ami 90, deve individuarsi una ratio per questa apparente “regressione” del
legislatore. La ratio, logicamente e tautologicamente, non può che individuarsi
nella tutela del contraddittorio, appunto; ma se l'attore può interloquire sulla
richiesta di chiamata avanzata dal convenuto, questo da un lato significa che -
affinché tale esercizio del diritto di difesa da parte dell'attore non sia
concretamente inutile - il provvedimento del giudice ( che infatti non è più
decreto ma ordinanza ) non si limiterà più a fissare automaticamente un'altra
udienza, come nel rito previgente, ma comprenderà anche un vaglio della
congruità della chiamata in rapporto alle difese del convenuto e in generale al
thema decidendi che emerge dagli atti introduttivi. Dall'altro, ciò comporta una
"deminutio” rispetto alla completa parificazione del convenuto all'attore per
quanto riguarda la facoltà di estendere il contraddittorio. I profili di problematicità
costituzionale invocati da chi sostiene che la riforma non abbia portato jus
novum in questo campo (rifacendosi alla nota Corte Costituzionale 1997 n. 80,
la quale aveva ritenuto ragionevole la insindacabile facoltà del convenuto nella
sua prima difesa di ampliare l'ambito soggettivo del processo per parificarne la
posizione a quella dell'attore) (48) devono però, ormai, confrontarsi con il nuovo
principio della ragionevole durata del processo. Rispetto a questo, infatti, si
misura l'effettiva “utilità” dell'esercizio del diritto di difesa attoreo sopra
45
evidenziato, in modo più che comprensibile tenuto conto della defatigatorietà di
certe chiamate introdotte come strumento di pura tattica processuale.
Si tenga presente che nel comma quinto dell'articolo 183 novellato si riproduce,
quanto alla chiamata del terzo ad opera dell'attore, senza modifiche il testo del
quarto comma dell'articolo 183 anteriore alla riforma del 2005. Si deve perciò
dedurre che le modalità della chiamata di terzo rimangono intatte e vi è un
“refuso”? O, quantomeno, la diversa formulazione dell'articolo 183 rispetto alla
chiamata chiesta dal convenuto e alla chiamata chiesta dall'attore - solo in
quest'ultimo caso si parla di autorizzazione e si prospetta un vaglio di merito
("se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto ") - implica che solo il
provvedimento relativo alla chiamata da parte dell'attore è una autorizzazione
mentre il provvedimento relativo alla chiamata da parte del convenuto non
comporta alcun vaglio che non sia quello della tempestività della richiesta? Una
simile lettura renderebbe ingiustificabile la modifica normativa, privandola
dell'unica ratio prospettabile. A questo punto, allora, varrebbe la pena di
sostenere l'alternativa più drastica, cioè che il riferimento all'articolo 167, terzo
comma, è un mero refuso, dato che applicarlo in tal modo: comporterebbe solo
un insensato aggravamento dei tempi processuali. Questa “correzione”
interpretativa della legge appare tuttavia veramente difficile da sostenere: non si
tratta, infatti, di una mancanza di coordinamento come, per esempio, se fosse
rimasta nel nuovo testo un'indicazione presente nel testo previgente, là
significativa e non più in quello attuale. Nel caso di specie, al contrario, si è
introdotto un elemento nuovo di esplicita specificazione rispetto al testo
precedente, introduzione quindi che dovrebbe avere un senso, in rapporto
anche al generale principio ermeneutico di conservazione. Appare quindi
difficilmente eludibile l'opzione che riconosce in tale inserzione una effettiva
modifica rispetto al sistema antecedente; modifica che, si ripete, appare
46
giustificabile solo in rapporto al diritto di difesa in combinato disposto con il
principio della ragionevole durata del processo. D'altronde, deve ricordarsi, chi
non ottiene l'autorizzazione alla chiamata rimane comunque tutelato dalla
possibilità di instaurare separatamente un altro giudizio contro il soggetto che
voleva chiamare. La difformità di dizione sopra evidenziata appare in questo
contesto superabile considerando che la formula del novellato comma quinto
dell'articolo 183 è tralatizia rispetto al testo previgente, mentre per quanto
riguarda la decisione sulla chiamata richiesta dal convenuto l'abrogazione
implicita dell'articolo 169, secondo comma, nella parte in cui concerneva il
provvedimento del giudice, fa sì che non si possa considerare "sopravvissuta"
alcuna connotazione di automatismo nel provvedimento in questione: non si
tratta più di decreto, ma di ordinanza, e ragionando in rapporto alla tutela
effettiva del diritto di difesa non si può quindi negargli un contenuto autorizzativo
in senso proprio.
A questo punto, se si ritiene che una facoltà sindacabile per il convenuto di
chiamare terzi costituisca una lesione del suo diritto di difesa e della sua parità
con l'attore, occorre trovare un supporto nella lettera del nuovo articolo 183
c.p.c. oppure attivare il vaglio di legittimità costituzionale: l'interpretazione
costituzionalmente orientata, infatti, rimane sempre interpretazione, e non
correzione. È d'altronde senz'altro più auspicabile, visto che, come appena
evidenziato, la lettera lascia spazi estremamente ridotti se non inesistenti (non
paiono condivisibili, per esempio, quelle letture secondo le quali l'articolo 183
menziona l'incombente della chiamata in causa per l'ipotesi in cui il giudice non
abbia provveduto prima, magari per un disguido di cancelleria: (49) più che una
lettura forzata, questa confligge con il principio di conservazione, essendo già
più che ovvio che il giudice che omette di provvedere su un'istanza non ne è poi
per questo esonerato), piuttosto che instaurare prassi forzate, rimettere la
47
questione al giudice delle leggi. (50)
Ad avviso di chi scrive, invece, non è incompatibile con i principi costituzionali
che il giudice, dal ruolo meccanico di puro "manovratore cronologico" che gli
attribuiva il sistema dello spostamento dell'udienza prima dell'udienza stessa,
ritorni ad essere investito di una funzione giurisdizionale, dirimendo l'esito del
contraddittorio delle parti tramite un vaglio dell'ammissibilità della chiamata. Si
tratta infatti, in ultima analisi, di un potere autorizzativo finalizzato non certo a
tarpare le ali al convenuto sotto il profilo della parità con la controparte, quanto
piuttosto ad apporre un filtro a iniziative processuali che, si ripete, potrebbero
essere – ed esserlo efficacemente, vista la durata dei termini di comparizione -
defatigatorie. Nell'interpretare poi il novellato articolo 111 Cost. occorre
ovviamente ricordare che sarebbe letto parzialmente se rapportato solo a un
obiettivo di accelerazione, senza tenere conto della natura di ciò che deve avere
la ragionevole durata, ovvero senza tenere conto dell'altra inscindibile parte del
canone, cioè del concetto di contraddittorio e dunque di difesa. Si potrebbe
allora affermare che viene leso il diritto di difesa del convenuto, perché questi
risulta privato della parità delle armi quanto alla estensione del contraddittorio?
Ma a ben guardare la chiamata del terzo non è un diretto strumento di difesa
verso l'attore, perché non si collegano processualmente tramite essa l'attore e il
chiamato: i rapporti processuali restano distinti. Non si tratta quindi di
estensione del contraddittorio nei confronti dell'attore come nei casi di cui agli
articoli 102 e 107 c.p.c., bensì dell'affiancamento di altro processo, così da
creare un simultaneus processus analogo alla fattispecie ex articolo 274 c.p.c.
Ma non vi è diritto al simultaneus processus, tanto è vero che quello ex articolo
274 c.p.c. (come quello ex artt. 103, comma 2 e 104, comma 2 c.p.c.) è un
potere discrezionale del giudice ( a parte ovviamente i casi di riunione ex lege ).
La tutela generale della sfera giuridica ( cioè non specificamente verso l'attore,
48
bensì tramite l'attuazione di un processo connesso " compensativo ") come si è
detto può ben essere esercitata dal convenuto, se la chiamata non è
autorizzata, instaurando tale processo in modo separato, nessuna preclusione
sorgendo infatti dal rigetto dell'istanza di chiamata, che ha contenuto
ontologicamente endoprocessuale. Se non vi è dunque lesione al diritto di tutela
processuale dei propri interessi sostanziali, non si vede perché il profilo
acceleratorio debba essere conculcato, dilatando i tempi e aggravando la
regiudicanda. Tant'è vero che queste chiamate sono gradate ( o espressamente
o comunque logicamente) rispetto alla linea difensiva del convenuto nei
confronti dell'attore, funzionando appunto non come difesa verso quest'ultimo,
bensì come "cautela "rispetto agli esiti della difesa suddetta. (51)
Un ulteriore profilo attinente alla chiamata del terzo è quella della cosiddetta
domanda trasversale, cioè la domanda che il convenuto dispiega nei confronti di
un altro convenuto ( è il caso più frequente ) oppure il chiamato nei confronti di
un altro chiamato, oppure ancora l'attore nei confronti del chiamato dal
convenuto o il chiamato nei confronti di un convenuto che non sia quello che lo
ha introdotto in causa. È evidente la caratteristica di trasversalità perché la
domanda viene rivolta nei confronti di un soggetto per così dire laterale rispetto
a quello che la propone, e dunque non collegato ad esso da un rapporto
processuale diretto: la questione si individua quindi dell'ammissibilità o meno di
una tale domanda senza avvalersi del meccanismo per la chiamata in causa di
terzo. Ulteriore interrogativo è se tale domanda sarà vincolata ai limiti delle
cosiddette domande riconvenzionali ( art. 36 c.p.c. ), considerato il fatto che
riconvenzionale non è, non essendo una domanda "di replica " nei confronti di
un soggetto che abbia già proposto una domanda verso chi fa la domanda
trasversale. Proprio perché non è "replica ", si potrebbe dire che non potrà mai
svolgere un ruolo affine a quello della reconventio reconventionis, e dunque il
49
termine per la proposizione dovrebbe coincidere con quello della tempestiva
costituzione della parte che la propone, non potendo essere introdotta nella
successiva fase di determinazione integrativa della regiudicanda di cui
all’udienza e ai termini ex art. 183 c.p.c.
Parte di questi problemi si spegne se si riconduce la proposizione della
domanda al meccanismo della chiamata di terzo, con le sue correlate
decadenze; se poi si aderisce alla tesi per cui nel nuovo sistema non esiste più
l'automatico spostamento di udienza, ma è ritornata la valutazione nel
contraddittorio dell'istanza di chiamata, per dare dei canoni a questo vaglio è
ineludibile l'articolo 36 c.p.c., in relazione anche ai principi costituzionali del
diritto di difesa e della ragionevole durata del processo intesi come presidio
della concentrazione e della celerità dello strumento processuale. Proprio per il
profilo della celerità si è ritenuto peraltro di ammettere la proposizione della
domanda trasversale senza richiedere chiamata, argomentando che la parte nei
cui confronti è diretta è già presente nel processo(52)
La giurisprudenza in tal senso, però, si muoveva nel rito anteriore alla
l.1990/353 (il cui articolo 29 modificò poi l'articolo 269 c.p.c.), che era intriso del
potere dispositivo delle parti, in un'ottica si può dire opposta a quella del rito
degli anni '90, da cui poi non si è discostato il legislatore del 2005. Se dunque le
parti potevano, con accettazione tacita del contraddittorio, dilatare ad libitum la
regiudicanda, vale a dire semplicemente non eccependo lo jus novum nella
prima difesa successiva alla sua introduzione, era logico anche ammettere la
proposizione di domande fra soggetti non collegati formalmente da rapporto
processuale, ma soltanto compresenti in un cumulo processuale o tutt'al più in
un litisconsorzio necessario. È chiaro che una simile struttura da un lato
valorizzava il potere dispositivo delle parti, formalmente, dall'altro
comprometteva sostanzialmente il loro diritto di difesa, aggirando la garanzia del
50
termine di comparizione ex articolo 163 bis c.p.c. da cui si ricava il termine a
difesa stricto sensu detraendone quello (che serve per la difesa di controparte)
per la costituzione tempestiva. Proponendo la propria domanda nella comparsa
di risposta senza chiedere la chiamata in causa del soggetto verso cui è diretta,
invece, si riduce il termine a difesa allo spazio temporale tra la costituzione
tempestiva e l'udienza ex articolo 183 c.p.c.
Viene in gioco altresì l’eliminazione nel rito del 2005 del termine ad hoc per
proporre eccezioni in senso stretto oltre all'udienza preliminare ex articolo 180
c.p.c.; la compressione del diritto di difesa della "controparte trasversale " si è
dunque incrementata. Alla luce del combinato disposto dei principi costituzionali
di celerità e di difesa ( ragionevole durata del giusto processo ), appare allora
preferibile l'orientamento che opta per l'utilizzazione del meccanismo della
chiamata di terzo. In quest’ottica peraltro il potere dispositivo non incide, perché
allora la proposizione della domanda deve avvenire con l'istanza di chiamata, e
non semplicemente con l'introduzione della domanda stessa nel proprio atto
costitutivo. Si crea così un rapporto processuale diretto che, avendo a
presupposto un'autorizzazione in contraddittorio, salvaguarda anche dalle
iniziative defatigatorie, raggiungendo un equilibrato contemperamento tra le
esigenze di difesa e le esigenze di celerità.
La questione della chiamata di terzo ex art. 106 c.p.c. si presenta, infine, in
modo particolare nel giudizio monitoriamente introdotto, dove, per quanto
riguarda la chiamata in causa ad opera dell'opponente, sussiste una dicotomia
tra la giurisprudenza di legittimità e una consistente giurisprudenza di merito. A
fronte dell’orientamento di quest’ultima, secondo cui l’opponente può ( e deve,
pena decadenza) chiamare direttamente il terzo nella stessa citazione con cui
instaura la fase di cognizione piena, quindi per la stessa udienza per cui chiama
l’opposto, la Suprema Corte, nella sentenza 2000, n. 8718, ha affermato che il
51
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non contempla alcuna "inversione
della posizione sostanziale delle parti ", e ciò ha “effetti non solo nell'ambito
dell'onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine
processuale "; non è pertanto compatibile con tale procedimento l'articolo 269
c.p.c. "che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa,... dovendo in
ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto"
l'ingiunzione, "non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto
istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la
domanda è diretta, così che l'opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di
convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell'udienza,
nonché quella di notificare l'opposizione a soggetto diverso dal creditore
procedente in ingiunzione ) deve necessariamente chiedere al giudice, con lo
stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al
quale ritiene comune la causa sulla base dell'esposizione dei fatti e delle
considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo ".(54)
Il ragionamento presenta, in effetti, alcuni profili non del tutto appaganti.
Anzitutto, si identifica la posizione sostanziale con la posizione processuale,
partendo però dalla premessa che non vi è inversione della posizione
sostanziale. Si è sempre ritenuto, invece, che questo tipo di giudizio sia
caratterizzato dalla non coincidenza tra posizione sostanziale e posizione
processuale, mantenendo quindi sul piano processuale l'incidenza della
posizione sostanziale solo in quello che vi è inscindibilmente connesso, vale a
dire l'onere della prova. Perché la posizione sostanziale debba invece "dilatarsi"
così da plasmare di sè tutta la posizione processuale la pronuncia allora lo
motiva laddove afferma che le parti non possono essere originariamente altre
che quelle del decreto ingiuntivo; si tratta però di una spiegazione che, all’epoca
in cui maturò questo arresto, pativa una certa impronta apodittica. Ancor meno
52
convincente era, nel vigore della normativa anteriore alla riforma del 2005, un
altro aspetto: precludere all'opponente, come convenuto sostanziale, la facoltà
di chiedere lo spostamento dell'udienza, e contestualmente precludergli anche
quella dell'attore, cioè citare direttamente. A questo punto l'opponente non ha
ruolo, né sostanziale né processuale, né di attore né di convenuto, e con l'atto di
opposizione deve chiedere al giudice una "autorizzazione" alla chiamata;
autorizzazione che, nel rito vigente all'epoca, non era prevista se non per la
chiamata dell'attore conseguente alle difese del convenuto, e quindi in un
contesto (l'udienza ex articolo 183 c.p.c.) di contraddittorio; contesto assente se
il giudice doveva, come pare dovesse desumersi da questa giurisprudenza,
emettere l'autorizzazione a seguito della citazione, prima quindi dell'udienza e,
se l'autorizzazione veniva concessa, fissandone un'altra. La giurisprudenza di
merito che si adeguò a questo orientamento di legittimità, infatti, trasformò
l'autorizzazione nel meccanico spostamento previsto per l'ipotesi di istanza di
chiamata di terzo proposta dal convenuto nella comparsa di risposta.
Non solo nella giurisprudenza di merito, ma pure in dottrina (55) questo
orientamento ha trovato resistenze.
A parte le argomentazioni logico-dogmatiche, tuttavia, decisamente difficile era
contrastare l'argomento a favore della tesi della giurisprudenza di legittimità
fondato sull'effetto pratico del contrasto: la creazione, cioè, di una incertezza del
diritto, per stornare la quale occorre adeguarsi alla Cassazione. (56)
Non è questa la sede per soffermarsi sull'effettivo potere normativo della
Cassazione del diritto vivente. Va solo ricordato che l'eventuale decadenza dalla
facoltà di chiamare un terzo, per l'opponente come per qualunque parte, ha
incidenza solo endoprocessuale ben potendo l'opponente instaurare una causa
separata nella quale, indubitabilmente come attore sostanziale e processuale,
citare il soggetto che voleva introdurre nel giudizio di opposizione a decreto
53
ingiuntivo, ottenendo poi, eventualmente, una riunione ( che comunque non
toglie l'autonomia ai rapporti processuali, autonomia che però sarebbe rimasta
anche se il simultaneus processus fosse partito sin dalla citazione in
opposizione ). Quanto poi alle ipotesi di correzione di una chiamata diretta in
citazione da parte dell'opponente che sono state proposte per "sanare" l'altro
lato dell'incertezza, non appare condivisibile quella dell'autorizzazione ex post in
forza del potere di cui all'articolo 107 c.p.c.,(57) essendo principio generale che i
poteri ufficiosi non possono essere esercitati per sanare le decadenze in cui
sono incorse le parti.
I termini della tormentata questione si sono ora modificati, per il “combinato
disposto” della riforma 2005 – letta nel senso del ripristino del potere
autorizzativo – e di un recentissimo arresto delle Sezioni Unite.
L’interpretazione contrastante con la giurisprudenza di legittimità partiva dal
concetto che il giudizio monitoriamente introdotto ha delle evidenti
particolarità,(58) ma la legge non lo delinea come contenitore di un unico
rapporto processuale, comprimendo e mutilando la qualità di attore
dell'opponente nel senso di inibirgli di citare altri soggetti contestualmente
all'opposto, ovvero di porre in essere un cumulo processuale.
Questa impostazione deve fare ora i conti con l’ordinanza delle Sezioni Unite
n.20596 del 1 ottobre 2007, che, abbandonando la prevalente tradizionale
lettura, ha affermato che la litispendenza del giudizio monitorio ha come
condizione la notifica del ricorso-decreto, ma non coincide con la notifica stessa,
bensì retroagisce al deposito del ricorso. Infatti, affermano le Sezioni Unite, "il
terzo comma dell'art. 643, c.p.c. deve interpretarsi nel senso che la lite
introdotta con la domanda di ingiunzione deve considerarsi pendente a seguito
della notifica del ricorso e del decreto, ma gli effetti della pendenza
retroagiscono al momento del deposito del ricorso". Ciò scaturisce
54
dall'applicazione al procedimento monitorio dei canoni dei procedimenti
instaurati con ricorso, vale a dire della regola che "per la costituzione del
processo è sufficiente che si realizzi il contatto tra due dei tre soggetti del
rapporto processuale, nulla rilevando che tale contatto abbia luogo fra le due
parti, come nei processi che iniziano con citazione, o tra una parte e il giudice,
come nei processi su ricorso "; e l'applicazione di tale regola non può essere
esclusa dal "fatto che, a differenza degli altri procedimenti su ricorso, nel
procedimento di ingiunzione il giudizio a cognizione piena è meramente
eventuale... perché, comunque, il diritto di difesa dell'ingiunto è garantito dalla
necessità che, per il verificarsi della litispendenza, con decorrenza dalla data del
deposito del ricorso, il ricorso stesso e il decreto debbono essere notificati”; e
infatti "la fondamentale funzione della notifica del ricorso e del decreto è di
provocare il contraddittorio ".(59)
Questo recentissimo insegnamento della Suprema Corte - che si inserisce
nell'ottica del favor creditoris cui la giurisprudenza di legittimità si è sempre
attenuta rispetto all'istituto monitorio - (60), dettato a proposito dell’art. 39 c.p.c.,
al contenpo introduce un elemento strutturale forte a sostegno della tesi, propria
della giurisprudenza di legittimità, che l'opponente deve chiedere
l'autorizzazione al giudice per chiamare il terzo, non potendo modificare di sua
mera iniziativa la struttura originaria del rapporto processuale. Seguendo questa
impostazione, la posizione dell'opponente non può più dirsi realmente
assimilabile a quella dell'attore processuale: il giudizio è incardinato con il
ricorso monitorio, per cui l'atto di citazione non lo instaura, ma semplicemente
completa il rapporto processuale aggiungendo ai due soggetti già presenti, cioè
il ricorrente-attore e il giudice, il terzo soggetto, cioè il convenuto. Deve ritenersi
che il deposito del ricorso non dà luogo soltanto al procedimento sommario di
ingiunzione, ma altresì al procedimento ordinario di opposizione all'ingiunzione,
55
anche se tale effetto è condizionato alla resistenza concreta della controparte,
che si manifesta nella notifica del suo atto difensivo, la cosiddetta citazione in
opposizione. Appare allora quantomeno asimmetrica l'introduzione di un terzo
da parte del convenuto tramite tale suo atto difensivo. Questo trova proprio un
riscontro nel nuovo testo dell'articolo 183, comma 1, laddove richiama l'articolo
167, comma 3, interpretato nel senso che la chiamata di causa è ritornata una
facoltà sub judice, e non un automatico strumento della “parità delle armi ". Oltre
a questo vi è da considerare il fatto che i termini di comparizione, ex articolo
645, comma 2, c.p.c., sono ridotti, in questo tipo di giudizio, della metà. La
riduzione, se l'atto che li assegna è in effetti la comparsa di risposta in un
giudizio già instaurato con ricorso al giudice, appare quanto mai razionale, alla
luce del principio della ragionevole durata (ciò peraltro dovrebbe incidere pure
sul contenuto del ricorso monitorio, che dovrebbe a questo punto avere i
requisiti di una piena editio actionis per consentire le difese del convenuto,
come ordinariamente accade per un ricorso che introduca un giudizio
ordinario),(61) mentre discutibile diventa quella giurisprudenza che affida alla
libera scelta della parte opponente l'utilizzo del dimezzamento, non reputandolo
obbligatorio. È evidente che se obbligatorio fosse, d’altronde, vi sarebbe un
ulteriore motivo per escludere la facoltà di chiamata diretta in questo peculiare
"atto di citazione", perché al terzo sarebbero imposti, pur essendo rimasto
estraneo alla fase monitoria, dei termini di comparizione ridotti rispetto a quelli di
un giudizio ordinario, a prescindere da qualunque concreta urgenza, con
evidenti riflessi sul suo diritto di difesa.
Nel contesto, allora, delle novità normative e giurisprudenziali appare ormai più
solida di quella con essa contrastante l’interpretazione della Suprema Corte in
ordine alla chiamata del terzo da parte dell’opponente, da effettuarsi quindi con
istanza in citazione ed autorizzazione, previo specifico contraddittorio,
56
nell’udienza ex art. 183 c.p.c., rientrando dunque anche questo incombente nel
novero delle verifiche preliminari e conseguendone la fissazione di udienza ex
art.183, comma 2, c.p.c.
NOTE (1)Ha definito "udienza aristotelica" quella delineata dal nuovo articolo 183 c.p.c. Stefani, Brevi note sulla novella al cubo, Relazione per gruppo di lavoro all'Incontro di studi La riforma del processo civile, Roma, 26-28 febbraio 2007 , 20. (2)Ci si permette di rinviare su questi aspetti a C.Graziosi, La nuova udienza di trattazione: una prima lettura, Riv.trim.dir.proc.civ.,2006, 954. (3) Con la riforma degli anni 90 l'art.80 bis att. c. p.c.,, introdotto dal d.p.r. 1950 n.857, prevedendo la remissione al collegio per la decisione - equivalente a precisazione di conclusioni per il giudicante monocratico - "anche nell'udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti", si è trovato a far riferimento all'udienza ex art.180 c.p.c. ma al tempo stesso a coesistere (o forse, appunto, soccombere) con l'art.183,comma1, c.p.c., da cui si poteva sfuggire solo se la natura della causa non consentiva la conciliazione. (4) Barbuto, Al giudice maggiori poteri di verifica, Guida al dir., 2005, 36, afferma che nel previgente rito la comparizione personale delle parti alla prima udienza di trattazione era sì obbligatoria ma "blandamente obbligatoria per l'assenza di sanzione"; e segnala come novità della riforma del 2005, "logicamente derivante dal nuovo regime di non obbligatorietà ", il fatto che "la mancata comparizione senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi del comma 2 dell'articolo 116 ". In realtà il previgente articolo 183, comma 1, indicava espressamente che la mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo era "comportamento valutabile ai sensi del secondo comma dell'articolo 116"; cosa che del resto si poteva già evincere dalla semplice lettura, di portata generale, di quest'ultima norma, laddove fa riferimento al contegno delle parti nel processo. (5) Con la riforma del 2005 di tale articolo - scrive A. Graziosi, Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo ordinario di cognizione, Rass. forense, 2006, 1533 - è stato "svuotato di ogni contenuto procedimentale e rimane a presidiare, un po' malinconicamente, il chiovendiano vessillo dell'oralità in un ambiente processuale ormai totalmente dominato dalla regola opposta ". (6) Definisce l'interrogatorio libero obbligatorio del previgente articolo 183 c.p.c. "in molte controversie... un'inutile perdita di tempo Scarselli, Brevi note sulle modifiche al codice di procedura civile previste dalla Legge n. 80 del 2005, Foro it., 2005, V, 174. Secondo Barbuto, cit., 36, invece, "è prevalsa la diffidenza verso il tentativo obbligatorio di conciliazione endo-processuale ", scelta non condivisibile "perché
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l'esperienza pregressa ha insegnato l'utilità, anche sotto il profilo psicologico, della obbligatorietà ex lege del contatto diretto fra le parti e il giudice nella fase iniziale ". Due opinioni esemplari dell'opposto approccio alla questione. Probabilmente, si nota per inciso, il punto sta proprio nella rilevanza del profilo psicologico: la pratica insegna che un tentativo obbligatorio di conciliazione in limine litis può essere proficuo nelle cause in cui o il valore economico è limitato oppure le parti sono presenti non tanto, per così dire, come soggetti solo economici quanto piuttosto come soggetti anche psicologici . A chi scrive non appaiono pertanto fondate,quanto meno in una certa misura, talune preoccupazioni/riprovazioni espresse, nelle prime letture del rito "competitivo" per l'eliminazione del passaggio obbligato conciliativo (cfr. per esempio Stefani, Brevi note, cit. ,5 ss., secondo il quale non è "culturalmente compatibile con la giurisdizione" il fatto che "la causa può essere decisa senza che la parte sostanziale incontri mai il suo giudice ", mentre la scelta del legislatore del 2005 avrebbe realizzato "non un processo improntato all'oralità ed alla speditezza" ma piuttosto "un processo ordalico e formale "). (7) Fabiani, Postilla minima sul rito societario dopo la legge 28. 12. 2005, n. 263, rileva come "a questo punto... le esigenze che avevano ideologicamente giustificato l'implementazione di un rito a cognizione piena speciale siano divenute ampiamente eccessive al cospetto di un rito ordinario che per effetto della - tendenziale e fisiologica - crasi tra udienza per gli adempimenti di cui all'articolo 180 c.p.c. e udienza di trattazione, si rivela oggi un giudizio estremamente concentrato, quasi al limite della sincope ". (8)La sopravvenienza di parti ulteriori, per intervento volontario o coatto, è stato uno dei temi scaturiti dall'articolo 70 ter att. c.p.c. maggiormente indagati dalla dottrina. Non è questa la sede per passare in rassegna le varie interpretazioni emerse; basti ricordare che la maggioranza degli autori esige il consenso del litisconsorte necessario (così Menchini, Il rito su accordo delle parti ai sensi dell'art. 70 ter att. c.p.c., Foro it. 2005, V , 210; Costantino, Modifica della fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Foro it., 2005, V, 103; Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 60; Cecchella, Commento all'art. 70 ter, in Il nuovo processo societario, a cura di Luiso, Torino, 2006, 628; Olivieri, La pluralità di parti nel processo a cognizione piena secondo il rito (necessario o concordato) del d.lgs.5/2003, www.judicium.it, sub 1; A. Graziosi, Appunti, cit., 1525 ss. (9) D'altronde la pluralità dei riti e la loro autonomia stanno avviando verso il superamento del concetto di rito ordinario (cfr. Corte cost. 1999 n. 191, secondo cui le difformità tra rito del lavoro e rito ordinario non consentono confronti nei quali sia ragionevole adottare uno dei due come modello per l'altro; e cfr. pure Cass. 2002 n. 14829 ). (10) Di conforme avviso Scarselli,op. cit., 173 s. Questo autore indica come suo "unico dubbio" il caso del litisconsorte necessario pretermesso "che non intenda aderire al rito societario già scelto dagli altri litisconsorti una volta chiamato in causa per
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integrare... ex art. 102 c.p.c. ": e lo risolve ritenendo che, anche in questo caso, il terzo chiamato in causa non abbia il diritto di far regredire il processo al rito ordinario, poiché la scelta del rito è rimessa, dalla legge, solo ad attore e convenuto, e poiché i riti sono equivalenti quanto alla tutela delle prerogative costituzionali. In realtà, solo quest'ultima argomentazione appare valida, quantomeno sul piano del dover essere: come si è detto, i riti devono tutti tutelare i principi costituzionali dettati per il processo. (Non si può sottacere, per inciso, che nel concreto potrebbe non esservi un'effettiva equivalenza sotto tale profilo tra un rito imperniato sulle preclusioni - dotato, sì, di un'uscita di sicurezza, ma stretta e impervia, qual è l'articolo 184 bis c.p.c. - e un rito che convoglia di nuovo le preclusioni nell'orbita del potere dispositivo delle parti, di più o meno consapevole esercizio a seconda della qualità della difesa tecnica, in un'ottica processuale che giustamente è stata definita "liberista "; eppure, paradossalmente, anche blindata in confronto al rito ordinario, perchè, come si è visto, da questo si può uscire, dal societario mai). La prima argomentazione, invece, non tiene conto del fatto che il litisconsorte necessario non può equipararsi a un chiamato in causa, essendo parte del rapporto principale al punto che, se la pretermissione non viene "corretta ", la sentenza sarà inutiliter data. Non può quindi ritenersi che il litisconsorte necessario, di per sé, non abbia le stesse prerogative di attore e convenuto: che poi non possa fare regredire il processo "disfando" l'accordo di scelta del rito tra essi intercorso trova fondamento, come si è detto, solo nel fatto che va tutelata la ragionevole durata del processo qualora non vi sia - e in questo caso non c'è -alcuna concreta lesione del diritto di difesa. (11)Cfr.Tiscini, Il rito convenzionale: note a margine dell'art. 70 ter att. c.p.c.,www. judicium.it, la quale rileva che finora la scelta del rito era riservata alla parte che introduceva il giudizio e si giustificava in relazione a una maggiore celerità nell'ottenimento di un titolo esecutivo. Non si può non osservare che, non offrendo oramai il rito societario alcun vantaggio nè di sommarietà nè di celerità rispetto al rito ordinario tradizionale, la ratio della norma appare individuabile nel conferimento al rito societario di una potenzialità tendenzialmente omnicomprensiva, che la pratica, peraltro, ha disatteso. (12) Un vero e proprio negozio giuridico processuale, come lo definisce Menchini, cit., 204; in dottrina è stato paragonato agli accordi sulla deroga della competenza o della giurisdizione ( anche da ciò deducendo la non necessità del consenso delle parti non originarie ) per sottolineare la legittimità costituzionale del rito elettivo (si veda ancora Menchini,op.loc.cit. che inoltre osserva come semmai "meno convincente è la limitazione delle possibilità di scelta, ossia il non avere posto sul medesimo piano i due riti ( nell'ottica del legislatore oramai entrambi ordinari ), lasciando alle parti la libertà di optare per l'uno o per l'altro relativamente a tutte le controversie per legge sottoposte ad uno di essi "; sul punto cfr. pure A. Graziosi, op.loc.cit., secondo il quale quello che lascia perplessi non è l'affidamento della scelta del rito alle parti, ma piuttosto "l'aver scelto il rito societario come unica alternativa a quello ordinario ", trattandosi
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d'altronde "di uno strumento ancora non metabolizzato dalla prassi giudiziaria ". (13) Cfr. in tal senso De Cristofaro, Il nuovo processo civile "competitivo" secondo la l. 80/2005, www. judicium.it, sub 2; Tiscini, cit., sub 4, secondo la quale nell'udienza non sarebbe neppure applicabile l'articolo 181 c.p.c.; Consolo, Competizione sì, ma più che altro fra riti e fra legislatori processuali (sulla legge n. 80/2005), Corriere giur., 2005, 894, e Menchini,cit., 207; ritiene invece che l'udienza non si debba tenere Costantino, op.cit.,104, secondo il quale, se al momento della costituzione dell'attore emerge la sua proposta ex articolo 70 ter si dovrebbe designare il giudice soltanto decorso il termine per l'accettazione del convenuto. Sempre a proposito della designazione del giudice, è stato addirittura ipotizzato in dottrina - cfr.Costantino,op.loc.cit., e Cecchella, cit., 627 - che dovendo avvenire dopo l'iscrizione della causa al ruolo da parte dell'attore potrebbe influenzare la scelta del convenuto. Fortunatamente la pratica pare aver lasciato "sulla carta" questi problemi. Va peraltro rilevato che ogni eventuale incidenza della nomina del giudice istruttore sulla ipotetica scelta societaria delle parti potrebbe agevolmente essere fronteggiata tramite una regola tabellare per cui, quando verrà presentata l'istanza di fissazione d'udienza e il presidente dovrà nominare, ex articolo 12 d.lgs. 2003 n. 5, il giudice relatore, questi coincida con l'originario giudice istruttore; analogamente a quanto accade in certi uffici giudiziari quando un procedimento, iniziato erroneamente con rito ordinario e quindi cancellato dal ruolo dal giudice istruttore, "ritorna" tramite l'istanza di fissazione d'udienza. Naturalmente in questo caso non si tratterà di giudice relatore in senso proprio, essendo il processo monocratico, ai sensi dell'articolo 18 d.lgs. 2003 n. 5. (14)Così S.U. ord.1 ottobre 2007,n.20596 (15)Così la recente ordinanza 20 giugno 2007,n.14355, con la quale, significativamente, la Sezione tributaria della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite, in un'ottica appunto semplificatoria e di raggiungimento dello scopo di tutela del diritto di difesa, la questione della notifica dell'atto d'impugnazione a una pluralità di parti tramite una sola copia al procuratore che le rappresenti tutte, anziché, secondo la interpretazione affermata da S.U. 1997 n. 9859, tramite tante copie quante sono le parti; sulla stessa linea di valore semplificatorio del principio del novellato articolo 111 Cost. cfr. S.U. 2006 n. 13916, 2005 n. 23220, e 2004 n. 10963, nonché Cass. 2006 n. 24856, richiamate come precedenti anche dalla suddetta ordinanza. (16) Secondo Santangeli, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile ordinario alla luce delle recenti riforme,www.juducium.it, sub 2, l'elencazione delle attività di verifica riversata dall'abrogato comma 2 dell'articolo 180 c.p.c. nel primo comma del nuovo articolo 183, un tempo "indispensabile per attribuire una parvenza di contenuto ad una udienza dettata esclusivamente per ovviare ad un verificarsi delle preclusioni ritenuto troppo repentino, appare oggi probabilmente superflua, perché è naturale che l'udienza di apertura di un processo non possa iniziare che con una verifica dell'esistenza dei requisiti necessari perché il giudice possa giungere fino a rendere una pronuncia, ed addirittura pericolosa laddove non si comprenda che l'elenco
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dei controlli richiamati è puramente esemplificativo (v. ad es. l'art. 83 ter disp. att. c.p.c. ) ". Ma che l'elenco non sia tassativo non è dubitabile, e corrisponde, si ripete, all'interpretazione che si era già affermata per il previgente articolo 180 c.p.c. (17) Anche se a ciò, si rileva per inciso, potrebbe non apparire del tutto coerente l'istituto della riunione ai sensi dell'articolo 273 o dell'articolo 274 c.p.c.; già più sensibile a questo profilo appare l'articolo 40, comma 2, seconda parte, c.p.c. A proposito poi della riunione ex articolo 274 si segnala la modifica, ad opera del d.lgs. 2006 n. 40, dell'articolo 151, comma 1, disp.att.c.p.c., che ha aggiunto alla fattispecie di riunione "quasi obbligatoria" ( eccettuate, infatti, ancora le ipotesi in cui renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo ) delle controversie in materia di lavoro, di previdenza e assistenza, le "controversie dinanzi al giudice di pace ", ponendo inoltre, a conclusione del comma, le seguenti frasi: "In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e immotivate ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello." La norma è palesemente dettata per le cosiddette cause seriali e la valutazione della sua applicabilità, ragionevolmente, dovrebbe a sua volta espletarsi in limine litis. (18) Si rileva per inciso che il prolungamento dei termini grazie al sabato vale per gli "atti processuali ", e non per i provvedimenti giurisdizionali. Incide però indirettamente sul termine per il deposito delle sentenze nel caso in cui il termine per la replica scade di sabato, spostando il dies a quo per il deposito della minuta al martedì successivo. (19) Caponi, La nuova disciplina delle notificazioni a mezzo del servizio postale ( art. 149, terzo comma, c.p.c.), Relazione all'Incontro di studi Il punto sul rito civile, Roma 13-15 marzo 2006, passim. (20) Cass. 1997 n. 6481; l'articolo 3, comma 2, d.lgs. 2003 n. 5 prevede, al contrario, che la costituzione, se vi sono più convenuti, avvenga entro dieci giorni dall'ultima notifica. (21) Così Cass. 2005 n. 14085. Osserva poi Caponi,op..cit. 7: "Ricollegare l'osservanza del termine alla consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario è certamente uno strumento utile, ma risolve un solo problema, quello determinato da una causa non imputabile che determini semplicemente la tardività del perfezionamento di un procedimento di notificazione tempestivamente avviato. In tutti gli altri casi deve soccorrere la rimessione in termini. " (22) Va ricordato che l'articolo 291 c.p.c. riguarda la possibilità di rinnovazione di notificazione nulla e non di notificazione inesistente: Cass. 2004 n. 4900. (23) Balena, Le preclusioni nel processo di primo grado, Giur. it., 1996, IV, 267. (24) Cass. 1993 n. 5817. Sempre a proposito di improcedibilità dell'appello, si ricorda che questa non può derivare dalla mancata produzione della sentenza impugnata, ma se il contenuto di questa non è desumibile dagli atti l'appello diventerà inammissibile: Cass. 2003 n. 10404; sulla mancanza della sentenza v. anche Cass. 2005 n. 15206. (25) Da ultimo Caponi, Sul termine di costituzione del giudizio di opposizione al decreto
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ingiuntivo ( artt. 645, 647 c.p.c. ), Corriere giur. 2006,727 ; cfr. anche Balbi, Improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo, diritto alla difesa e inadeguatezza del termine di costituzione del debitore opponente, Giur. it., 1998, 2087 . (26) Così Caponi, op.ult.cit., 731: "l'art. 645, comma 2 c.p.c....va letto esattamente per quello che dice: esso prevede la riduzione a metà dei soli termini di comparizione ( come effetto automatico, ipso iure ) ed esclude pertanto... la riduzione a metà dei termini di costituzione ". (27) La giurisprudenza, si ripete, è consolidata (si veda già, p.es., Cass. 1980 n. 1975). Da ultimo si ricorda Cass. 2006 n. 13252 per cui, in caso di opposizione tempestiva ma costituzione tardiva dell'opponente - esattamente come nel caso di opposizione tardiva e costituzione tempestiva dell'opponente - l'opposto non può formulare istanza ex articolo 647 c.p.c., da intendersi invece limitata alle fattispecie di mancanza di opposizione o mancanza di costituzione dopo l'opposizione. Come in questi casi, l'efficacia del decreto è la stessa, ma essendosi comunque incardinato il processo in contraddittorio, la definizione del giudizio deve avvenire con sentenza - e il decreto può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo ex articolo 648 c.p.c. - perché l'opposizione deve essere dichiarata inammissibile (nell'ipotesi di opposizione tardiva) o improcedibile ( nel caso di costituzione tardiva ) d'ufficio sul presupposto che sul decreto ingiuntivo si è formato un giudicato interno, essendo il giudizio di opposizione uno sviluppo della fase monitoria. ( Si rileva per inciso, a proposito dell'articolo 648 c.p.c., che l'affermazione della sua applicabilità pare abbastanza discutibile, trattandosi di causa di evidente pronta soluzione ). (28) La giurisprudenza in questione prescinde da una visione puramente letterale della norma optando invece per una visione sistematica che ( a parte i riferimenti ai lavori preparatori, di opinabile incidenza ) collega il termine di comparizione a quello di costituzione, "sintonizzandone" la durata come emerge dal combinato disposto degli articoli 163 bis, comma 2, 165, comma 1, e 166 c.p.c. Questa impostazione è stata censurata (Caponi, op.ult. cit., 729 s. ) sostenendo da un lato che il dimezzamento dei termini è obbligatorio perché deriva da una esigenza di celere riconduzione di un procedimento avviato inaudita altera parte al canone ordinario, "esigenza generale ed astratta "sottratta" sia alla disponibilità delle parti, che del giudice", dall'altro che l'abbreviazione ex articolo 163 bis, comma 2, sarebbe come struttura e funzione diversa dalla riduzione del termine di comparizione ex articolo 645, derivando la prima da concrete e specifiche ragioni di urgenza da valutarsi dal giudice, la seconda genericamente dalla peculiarità della fattispecie processuale dove già le parti avrebbero avuto modo di presentare i propri argomenti difensivi. Questa comparazione dei due istituti abbreviatori, tratta da Cass. 1995 n. 4719 (che ne ha dedotto la problematica soluzione dell'applicabilità dell'ulteriore abbreviazione ex articolo 163 bis alla fattispecie di opposizione all'ingiunzione ), non appare completamente convincente, in quanto da un lato l'esperienza insegna che le reali, piene argomentazioni difensive sono dispiegate dall'opposto nella comparsa di risposta, ma soprattutto, dall'altro, non
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si vede la differenza ontologica tra due strumenti finalizzati all'urgenza semplicemente perché in un caso l'urgenza è valutata come sussistente dal legislatore e nell'altro caso è valutata come sussistente dal giudice. Più convincente è l'ulteriore rilievo che nel caso dell'articolo 645 non vi è necessità di controbilanciare a favore del convenuto la riduzione del suo termine di comparizione tramite il dimezzamento del termine attoreo di costituzione, perché il convenuto è "in una posizione difensiva soltanto dal punto di vista formale ": invero, anche se completerà la "discovery " delle sue difese nella comparsa di risposta, di solito (a parte cioè le eventuali domnde riconvenzionali dell’opponente) l'opposto è colui che “attacca”, non colui che si difende. Da questo punto di vista appare in certa misura carente di logicità la correlazione innestata dalla giurisprudenza di legittimità tra i due tipi di termini nonostante il dettato dell'articolo 645, considerato anche il fatto che lo stesso comma secondo che indica il dimezzamento dei termini di comparizione comincia con il richiamo alle "norme del procedimento ordinario ". E ciò può agevolmente intendersi proprio nel senso che la seconda parte del comma ( che infatti inizia con un limitativo "ma") circoscrive l'ampiezza del rinvio, istituendovi una eccezione ben determinata nel suo contenuto e quindi non interpretativamente dilatabile: ubi voluit dixit. (29) Non appare condivisibile la lettura che identifica nell'articolo 294 c.p.c. lo strumento di rimessione in termini qui applicabile - Balbi, Inattività dell'intimato ed esecutorietà del decreto di ingiunzione, Riv. dir. proc., 1979,40 -, se non altro perché l'opponente si costituisce, per cui non è qualificabile come contumace. Si dà atto peraltro che questa dottrina è anteriore all'introduzione nel sistema dell'articolo 184 bis c.p.c. ( 30) Significativo per prossimità è l'intervento della Cassazione a sezioni unite n. 10216 del 2006 che, applicando il già ricordato principio - frutto della depurazione di oggettività appena evidenziata - della distinzione tra il momento di perfezionamento della notifica per il notificante e quello di perfezionamento per il notificato ( cfr.Corte Cost. 477 del 2002, 28 e 97 del 2004, 154 del 2005 ), afferma che se l'atto è stato consegnato per la notificazione all'ufficiale giudiziario nel termine perentorio previsto e la notifica non si è perfezionata per un problema insorto nella fase affidata all'ufficiale giudiziario, è possibile la rinnovazione della notifica; e ciò è stato addotto per legittimare il notificante-opponente a decreto ingiuntivo all'opposizione ex articolo 650 c.p.c. (31) Cfr. M.Criscuolo, Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva, Relazione all'Incontro di studi Il punto sul rito civile, Roma, 13-15 marzo 2006, 19 s., secondo il quale è "opportuno che il giudice valuti, prima di adottare il differimento..., se con lo stesso non attui un'impropria rimessione in termini del convenuto, fattispecie che, se non dettata dalla legge, comunque appannerebbe l'immagine di imparzialità e terzïetà che deve sempre caratterizzare l'operato del giudice ". (32) Nella giurisprudenza precedente si veda anche Cass. 2004 n. 16501, che richiama S.U. 1998 n. 1099. Tra le eccezioni in senso stretto di rito, si annoverano le eccezioni di
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incompetenza di territorio derogabile, l'eccezione ex articolo 164, comma 3, ex articolo 215, comma 1, n.2, di estinzione ex articolo 307 comma 4, di difetto di legittimazione processuale rispetto alla titolarità in concreto del rapporto ( Cass. 2002 n. 4318 ), l'eccezione riconvenzionale, l'eccezione di difetto di giurisdizione per il convenuto straniero, l'eccezione di clausola compromissoria. Quanto alle eccezioni di merito in senso stretto, si ricordano le eccezioni di prescrizione ( articolo 2938 cod. civ. ), di compensazione ( articolo 1242 cod. civ. ), di annullamento ( articolo 1442 cod. civ. ), di rescissione ( articolo 1449 cod. civ. ), di inadempimento ex articolo 1460 cod. civ., dei vizi della cosa acquistata ( articolo 1495 cod. civ. ), di vizi ex articolo 1667 cod. civ., di escussione del debitore principale a favore del fideiussore ( articolo 1944 cod. civ. ), di divisione tra più fideiussori ( articolo 1947 cod. civ. ), di escussione preventiva del patrimonio sociale a favore del socio ( articolo 2268 cod. civ. ), di ritenzione (artt. 748,975,1006, 1502 e 2756 cod. civ. ), di usucapione ( articolo 1165 cod. civ. ) e di decadenza ( articolo 2969 cod. civ. tranne per le decadenze che comportano l'improponibilità di azione in materia indisponibile: per esempio azione di disconoscimento ex articolo 244 cod. civ. ). (33) Su questi argomenti si tornerà infra, a proposito delle nullità della citazione. (34) Secondo un orientamento dottrinale esiste una terza funzione, quella di atto preparatorio della prima udienza ( cfr. Proto Pisani, La nuova disciplina della nullità dell'atto di citazione, Foro it., 1991, V, 178 ). Non è questa, ovviamente, la sede per vagli dogmatici; appare necessario e sufficiente osservare che la funzione preparatoria della prima udienza è insita nella editio actionis, se questa è effettuata in modo completo e corretto. (35)Sul requisito dell'assoluta incertezza anche per esse come presupposto della nullità v. Cass. 2004 n. 8344 . (36) Se l'atto viene notificato a una persona non più esistente, non è nullo ma a sua volta inesistente. Il regime dell'inesistenza è però applicato per la persona fisica deceduta, non ammettendosi in tal caso alcuna sanatoria integrando il contraddittorio nei confronti degli eredi ( Cass. 2001 n. 11688 ). Nel caso invece di persona giuridica, cessata per incorporazione, la giurisprudenza riteneva sanante la successiva costituzione della società incorporante. Essendosi poi sostenuto che nel nuovo diritto societario la fusione per incorporazione non è più causa di interruzione, le Sezioni Unite ( ordinanza 2006 n. 2637 ) hanno affermato che, ex articolo 2505 bis cod. civ., la fusione per incorporazione non provoca l'estinzione della società incorporata, e parimenti la fusione paritaria tra società non crea un nuovo soggetto, ma realizza l'unificazione tramite l'integrazione reciproca delle società, per cui il soggetto giuridico mantiene la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo. (37) Criscuolo, cit., 27 s. (38) Cfr.Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 1999,7. (39) Così Proto Pisani, cit., 206; aderisce sostanzialmente Criscuolo, Le verifiche, cit., 14, secondo il quale "questa spiegazione trova poi nuova linfa nell'irrigidimento delle
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preclusioni per il convenuto... in quanto se in precedenza, prima del maturare della preclusione relativa alle eccezioni in senso stretto, vi era comunque una possibilità di contatto con il giudice, e quindi nel contraddittorio delle parti si sarebbe potuto sollecitare una migliore chiarificazione degli aspetti in fatto del diritto azionato, oggi invece la preclusione scatterà venti giorni prima dell'udienza di cui all'art. 183 ". (40) contra Trib. Roma 23 luglio 1998, secondo il quale non è prevista alcuna sanzione processuale per la inottemperanza dell'ordine di integrazione. (41) Non appaiono condivisibili quegli orientamenti dottrinali che tendono a negare l'automatismo della regressione, evidenziando, per esempio, che la contumacia può essere stata una tattica del convenuto e quindi esigendo che questi dimostri la incolpevolezza della sua mancata costituzione. Il legislatore, infatti, sancendo una fattispecie di nullità ha indicato - creando sostanzialmente una presunzione juris et de jure - una lesione del diritto di difesa, idonea pertanto a giustificare una regressione, e conseguentemente anche una maggiore durata, del processo. Analogamente, come si è visto, dovrebbe accadere nel caso di costituzione tardiva per le nullità di in jus vocatio che sopravvivono alla costituzione . (42) Tra le recenti cfr. p.es. Cass. 2004 n. 16474). (43) Termine non perentorio, per cui la sua violazione sarebbe mera irregolarità: Cass. 2004 n. 23027. (44) Cfr. Cass. 2004 n. 19652, proprio per il caso del convenuto. (45) La certificazione di autografia da parte del difensore può apporsi non solo subito dopo la firma della procura, ma anche in chiusura dell'atto cui la procura accede e senza formule sacramentali: S.U. 2005 n. 25032. (46) Una recentissima ipotesi di litisconsorzio imposto da espressa norma si ravvisa nell'articolo 140, comma 4, del Codice delle assicurazioni (d.lgs. 2005 n. 209. (47) Per un caso di proroga del termine dell'integrazione del contraddittorio ex articolo 102 c.p.c. v. Cass. 2004 n. 2292 (48) "Per verificare che sia garantita alle parti un'identità di trattamento, la comparazione dei poteri ad esse attribuiti deve essere eseguita con riferimento ad uno stesso strumento processuale, il quale, nella fattispecie, è da individuarsi nell'atto in cui ciascuna parte espone introduttivamente le proprie ragioni: in questo momento le parti devono essere poste in grado di compiere le medesime attività con eguali poteri. Ed in effetti, nell'indicato momento, la posizione dell'attore, che può liberamente scegliere i soggetti da convenire in giudizio, è del tutto corrispondente a quella del convenuto, a cui è esattamente e correlativamente riconosciuta la facoltà di chiamare in causa qualsivoglia terzo, al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda essere garantito ": così afferma la sentenza, peraltro anteriore al novellato articolo 111 della Costituzione. (49)In questo senso p.es. Santangeli, op. loc. cit. (50) Ex multis, focalizza chiaramente la questione A. Graziosi, op.cit., 1532 s., secondo il quale per risolvere la questione esistono "soltanto due vie: o si ritiene che
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l'introduzione del rinvio al 3^ comma dell'art. 167 c.p.c. ad opera della riforma del 2005 sia frutto di un refuso... e quindi non si considera... o si ritiene che, a dispetto di quanto scritto nel testo di legge, la norma richiamata non è l'articolo 167, comma 3^, c.p.c., bensì l'articolo 269, comma 2^, c.p.c. ". (In effetti, si osserva per inciso, se si deve andare "a dispetto di quanto di scritto nel testo di legge ", ci si orienta per la prima strada, quella che reputa il richiamo un vero e proprio refuso da correggere. Che vi sia invece contrasto con la lettera nella seconda strada è discutibile, in quanto il richiamo all'articolo 269 è "contenuto " logicamente nel richiamo all'articolo 167, che lo menziona.) Tutto ciò considerato, l'autore conclude che "autorizzare il giudice ad un controllo preventivo ( e non solo a posteriori ex art. 272 c.p.c. ) sulle istanze di chiamata in causa, servirebbe ad evitare quelle, non infrequenti, effettuate a scopo puramente defatigatorio o, peggio ancora, quelle dirette a conseguire obiettivi processualmente illeciti ( quale ad esempio quello, purtroppo non ignoto al costume giudiziario, di chiamare in causa un potenziale teste avversario al solo fine di precludergli la possibilità di deporre ). " ( 51) In ultima analisi, il rapporto accessorio ha una natura cautelare, non nel senso, ovviamente, di urgenziale, bensì nel senso più lato di tutela in relazione non a una lesione concreta (come è proprio di un’iniziativa giurisdizionale per così dire ordinaria) bensì a un rischio, non astratto ma già esistente. Mentre nel cautelare in senso proprio il periculum è rappresentato da un illecito, e la tutela è integralmente proveniente dal giudice, in questo “cautelare lato sensu” la cautela sfocerà solo eventualmente in un provvedimento giurisdizionale ( se infatti la linea difensiva verso l'attore regge, non vi sarà provvedimento di merito nel rapporto processuale accessorio: questo genere di processo simultaneo è comunque non paritario quanto ai rapporti processuali, potendo l'esito dell'uno assorbire l'altro, come già si è notato a proposito della ontologica gradualità dei rapporti). Superiore quindi è il peso dell'iniziativa della parte, che parzialmente si autotutela in modo preventivo predisponendo la prossimità cronologica della garanzia/ manleva tramite simultaneus processus; e ulteriore differenza rispetto al cautelare in senso proprio parte dal fatto che mentre quello è oggetto di cognizione sommaria, questo si avvale della cognizione piena. (52)In questo senso Cass. n. 12558 del 1999, che invoca proprio i "principi di economia processuale e di concentrazione dei giudizi " ponendo come limite soltanto la proposizione in una costituzione tempestiva. Conformi Cass. 1980 n. 2848 e 1971 n. 894. (53)Cfr. Luiso, Diritto processuale civile,cit., 1999,20, e Trisorio Liuzzi, La difesa del convenuto e dei terzi nella nuova fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, Giur. It., 1996, IV, 86. Contrari Ronco, Appunti sulla domanda proposta da un convenuto contro l'altro, Giur. It., 1999, 2290; Camastri, Sulla riconvenzionale di altro convenuto, Giur. merito, 2002, 1222; Breggia, Rifondazione normativa o prassi virtuose per accelerare la fase introduttiva del processo civile di cognizione? Giur.it., 2004,1328. In giurisprudenza a favore della "libera trasversale " Trib. Milano 19
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giugno 1997; Trib. Napoli 20 settembre 2001; Trib. Lucca 14 gennaio 2002; per la chiamata di terzo invece Trib. Torino 16 marzo 1999. (54) Cfr. altresì le sentenze 2002 n. 3156 e 2003 n. 1185. (55) Infatti la dottrina nettamente prevalente si è finora schierata per l'altra impostazione: cfr., per esempio, Mandrioli, Diritto processuale civile, III, Torino, 2002, 218; Di Rosa, Il procedimento di ingiunzione, Milano, 2002, 333; Valitutti -De Stefano, il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 2000,292. ( 56) Così, per esempio, Breggia, op.cit.,1333. (57) In questo senso Dalmotto, nota a Trib. Milano 19 dicembre 1995, Giur. It., 1997, I, II, 272. (58) Si coglie l’occasione per ricordare che caratteristico del rito monitorio era anche il dubbio interpretativo sulla parte a cui doveva essere assegnato il termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d'ufficio nell'udienza di cui al previgente articolo 180 c.p.c., vista la discrasia tra la posizione processuale e quella sostanziale delle parti. Avendo la riforma del 2005 abrogato questa sorta di appendice dell'atto introduttivo del convenuto, il problema più non si pone: essendo convenuto sostanziale, tutte le eccezioni in senso stretto l'opponente dovrà riversarle nella citazione. (59) Cfr. già Cass. 1998 n. 3316, per cui l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo non introduce un giudizio autonomo di impugnazione del decreto, bensì costituisce un mero atto di impulso processuale introduttivo di una fase successiva ed eventuale di verifica e d'accertamento a cognizione piena del procedimento iniziato a cognizione sommaria senza contraddittorio. (60) Il principio è stato affermato per l'ipotesi di proposizione, davanti a giudici diversi, di giudizio monitoriamente introdotto e di speculare giudizio di accertamento negativo, con evidenti conseguenze ex articolo 39 c.p.c.; le Sezioni Unite hanno ritenuto che far prevalere il deposito del ricorso sulla notifica della citazione dell'altro giudizio presidia "evidenti esigenze di giustizia... consistenti nella necessità di evitare che la tutela ottenuta dal creditore sia messa nel nulla non per effetto dell'accertamento in contraddittorio dell'inesistenza delle condizioni processuali per la concessione del decreto ingiuntivo o, nel merito, delle ragioni creditorie, ma per il mero fatto che il debitore si sia affrettato a precedere... magari al solo scopo di ottenere la dichiarazione di nullità e la cancellazione dell'eventuale ipoteca giudiziale ". Non si può certo negare che tali esigenze di giustizia sussistano; va peraltro anche osservato, con il massimo rispetto per le valutazioni della Suprema Corte, che, prima della notifica ex articolo 643 c.p.c., il preteso debitore ( a questo stadio nulla è ancora accertato ) può non sapere dell'esistenza del giudizio monitoriamente introdotto per cui la sua iniziativa di notificazione della citazione di un giudizio non si può leggere automaticamente come strumento sleale per far naufragare l'iniziativa processuale del preteso creditore. Eppure, con questo sistema rischiano di restare sempre a suo carico le spese di tale giudizio. Mentre l'impostazione tradizionale applicava qui il canone cuius commoda ejus incommoda, ponendo questo rischio a carico del soggetto che già era favorito
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dall'ordinamento perché poteva ottenere una pronuncia giurisdizionale inaudita altera parte, ora questo controbilanciamento, in forza di una sorta di presunzione negativa a carico del preteso debitore, più non sussiste. E a parte poi rimane il problema di quella ipoteca giudiziale menzionata nella ordinanza che deriva dalla concessione dell'esecutorietà al decreto ex articolo 642 c.p.c. e, qualunque siano i presupposti più o meno legittimi sulla base dei quali è stata concessa, non può essere incisa ex articolo 649 c.p.c. né dalla stessa sentenza (cfr. invece, per esempio, l’ articolo 669 novies, comma 3 ), dovendosi attendere il giudicato. Su questa tematica si consenta di rinviare a C,Graziosi, La tutela cautelare delle garanzie patrimoniali e la lesione della reputazione commerciale del debitore, Relazione all'Incontro di studi Pubblicità e tutela dei diritti, Roma 14-16 luglio 2003, 25 ss. ( 61) Si ricordi infatti che l'opposizione a decreto ingiuntivo si distingue anche quanto alla facoltà di proposizione di domande riconvenzionali da parte dell'opposto, limitata alla reconventio reconventionis proprio dalla sua posizione di attore sostanziale, come da consolidata giurisprudenza.