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Cl v al area di progetto

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ITAS D’ ANNUNZIO AREA DI PROGETTO V AL A.S. 2011-2012
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ITAS D’ ANNUNZIO

AREA DI PROGETTO

V AL

A.S. 2011-2012

“Chiesa e Stato, religione, scienza e società nell’Italia moderna e contemporanea”

DOTTRINA SOCIALE E POLITICA

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Fin dai tempi più remoti la Chiesa è sempre stata coinvolta nella vita sociale. Sono stati molti i papi a riprendere la questione nel corso della storia, in primis Pio IX il quale, con il Non expedit, aveva di fatto proibito ai cattolici di partecipare alla vita politica. Papa Leone XIII con la Rerum Novarum del 15 maggio del 1891 aveva incoraggiato i cattolici ad assumere un ruolo attivo in ambito sociale in modo da porre un argine alla diffusione delle dottrine socialiste. Con la salita al soglio pontificio di papa Pio X i cattolici furono sollecitati a creare alleanze a livello amministrativo con i liberali moderati.

All’inizio del nuovo secolo stavano quindi crescendo nel mondo cattolico nuovi orientamenti, che si allontanavano dall’impostazione di carattere essenzialmente caritativo che caratterizzava l’azione sociale dei cattolici. La Chiesa quindi, volle partecipare attivamente alla vita politica assumendo un ruolo attivo e autonomo. Pio XI respinse il comunismo come prassi e dottrina contraria alla visione cristiana, criticò il corporativismo fascista, ma non condannò il socialismo democratico. Inoltre nel 1937 con Divini Redemptoris egli mise in evidenza gli errori del comunismo ateo nel momento in cui negava Dio, l’anima immortale e la vita futura. Successivamente nel 1963 con il Pacem in Terris di Giovanni XXIII spicca il concetto di collaborazione politica; il papa, infatti, affermò che non bisogna confondere errore con errante.

In seguito papa Paolo VI ebbe un ruolo rilevante in quanto distinse diversi socialismi; in primo luogo il “socialismo utopistico” che ebbe origine nei primi decenni del XIX secolo e propose una soluzione alla questione sociale, fondata quasi esclusivamente su idee astratte. In secondo luogo, il sindacalismo che nacque nel primo Ottocento in Inghilterra e provocò la reazione all’isolamento degli operai in seguito all’abolizione delle precedenti associazioni. In Italia quest’ultimo arrivò intorno al 1890 e subì due evoluzioni: la prima passò dalla fase dell’illegalità per la soppressione delle organizzazioni professionali a quella di tolleranza e riconoscimento giuridico, la seconda da società di mutuo soccorso assunse sempre più carattere di organizzazione di resistenza al capitalismo e di rappresentanza delle classi operaie nella stipulazione di contratti di lavoro. Il comunismo i cui principi fondamentali si ritrovano nel “Manifesto del partito comunista” nel 1848, si rifà al proletariato di classe di contro al dominio borghese. Questo si identifica nel leader Karl Marx il quale si oppose allo stato liberale e borghese e si allontanò dal sentimento religioso.

All’interno del panorama storico appena descritto si configura la Dottrina sociale e politica della Chiesa. Questa rappresenta il pensiero cristiano incentrato sulla gestione della vita pubblica all’interno di uno stato. Essa non intende in nessun modo privilegiare un determinato partito, semplicemente invita il governo, che ha in mano le redini del popolo, ad agire in modo equilibrato, prestando attenzione a coloro che ne hanno più bisogno. La Chiesa esorta i politici a seguire alcune regole, la più

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importante tra esse è il riconoscimento della libertà di un uomo, che deve poter progettare la sua esistenza senza vincoli che glielo impediscano. La Dottrina, infatti, individua nella socialità l’elemento fondamentale dello sviluppo della personalità del singolo e se viene a mancare il rispetto di tale principio, la politica automaticamente si tramuta in totalitarismo. Tuttavia la Chiesa non vuole in nessun modo tutelare un partito, bensì interviene nel momento in cui il sistema governativo agisce non prendendo in considerazione i valori morali.

Alla base di questo documento redatto dall’istituzione religiosa, ci sono però vari fattori di natura storica, che durante l’Ottocento hanno fatto scaturire la reazione degli ecclesiastici. Il progresso tecnico e l’affermazione della borghesia hanno prodotto un aumento del benessere delle classi dominanti e contemporaneamente lo sfruttamento degli operai, che oppressi dalla miseria, conducono una vita molto difficile. Questo processo può essere riassunto con il termine di liberalismo economico ed evidenzia la separazione tra morale, quindi il rispetto per l’uomo, e l’idea capitalistica di quest’ultimo, che viene considerato non in quanto essere umano, ma come ingranaggio per lo sviluppo del sistema economico all’interno della società. A questo proposito la Chiesa, di fronte ad una vasta e sempre più grave condizione di miseria, intervenne inizialmente condividendo i valori borghesi, ma in seguito si rese conto di sbagliare e lo dimostrò tramite la stesura della Rerum Novarum, documento che si occupa di tutelare i diritti dell’uomo.

La Rerum Novarum, pubblicata nel 1891, è la prima enciclica sociale in senso moderno. In essa il Papa affrontò i temi del lavoro e del salario, delle nuove ideologie, della proprietà privata e dei ruoli dello Stato, del diritto di associazione dei lavoratori e dei diritti della famiglia. La Rerum Novarum ha avuto il merito, tra l'altro, di impostare la Dottrina Sociale della Chiesa nel suo complesso, dando forma ai suoi principi fondamentali, che sono tutti presenti anche se non esplicitamente espressi. Questo documento ebbe origine con l’intenzione di criticare le illusioni del socialismo e gli abusi del capitalismo e, dunque, per tutelare gli operai contro le manovre dell’assenteismo statale a favore dei ricchi nel corso della seconda metà dell’800. Questo periodo storico manifestò un esponenziale sviluppo industriale ed economico degli stati. Lo sfruttamento della manodopera era molto diffuso a favore degli imprenditori che si arricchivano considerando l’operaio uno strumento di lavoro piuttosto che un individuo. Ciò determinò un interesse della Chiesa per le questioni sociali ed inoltre un primo passo di conciliazione tra Stato e Chiesa. Il diritto alla proprietà privata è uno tra i punti più importanti temi trattati nell’enciclica. In questo contesto l’uomo è posto al centro di ogni cosa e di ogni attività. Viene rivalutata la dignità del lavoro poiché è attività dell’uomo nonché un suo bene. L’essere umano, attraverso il lavoro, può trasformare la natura e realizza se stesso a favore di un buon sviluppo della società nazionale e familiare. Il lavoro dunque è necessario per procurarsi ciò che è utile alla vita di ogni singolo individuo. L’enciclica promuovendo quest’idea si pose come alternativa alla dottrina socialista che impediva al lavoratore di investire il proprio guadagno; secondo l’enciclica limitando la libertà si limitano il

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diritto e la speranza dell’uomo che non potendo migliorare il proprio stato sociale è infelice e succube del lavoro stesso. E’ bene evidenziare comunque che l’intenzione della Chiesa non era quella di aderire ad un partito politico piuttosto che un altro, ma il suo obiettivo era quello di evidenziare l’importanza della morale e del rispetto reciproco tra le persone.

Nella Rerum Novarum è dedicato inoltre spazio anche al valore della famiglia, descritta come piccola società domestica, anteriore a ogni civile società e per questo motivo con diritti e obbligazioni indipendenti dallo stato. Viene specificato che è considerato errore grande e dannoso l’intervento dello Stato nelle dinamiche familiari poiché queste dipendono per legge inviolabile al capofamiglia e, solo nel caso questo non sia in grado di gestire quanto possiede è ammesso l’intervento dello stato. Per quanto riguarda la proprietà privata questa è definita diritto di natura poiché risultato del privilegio di ragione e intelligenza che l’uomo possiede e che lo distingue dal bruto.

L’uomo inoltre è da sempre stato contemporaneamente “homo politicus” e “homo religiosus”. Per questa ragione la questione sul rapporto, e di conseguenza anche la separazione, fra la religione (o meglio la Chiesa) e la politica è tuttora attuale. La politica e la religione sono da sempre interdipendenti; in diversi periodi storici infatti la Chiesa dominò in campo politico, intervenendo nelle decisioni in maniera sostanziale. La domanda che ci dobbiamo porre è: Quanto la Chiesa può e deve essere presente nelle attività politiche? Il ruolo della Chiesa è religioso non politico e /o economico, tuttavia la sua missione religiosa non si limita a diffondere il Vangelo, ma include il rinnovamento e il progresso di tutto il mondo. Questa “missione” della Chiesa giustifica l’attività politica fornendo “una fonte d’impegno, una direzione e forza per stabilire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge di Dio”. La Chiesa deve trasmettere i valori etici che arricchiscono una nazione, perciò deve essere, costruttiva e innovativa portando “la luce e la salute” in un ambente troppo spesso corrotto. Questa, ideologicamente, quindi potrebbe fungere da punto di contatto dove le persone di differenti punti di vista politici e morali si riuniscono per parlare, per dissentire con rispetto, per scoprire insieme le cause delle loro differenze cercando di trovare un’intesa comune, imparando gli uni dagli altri.

Nello stato contemporaneo i cittadini partecipano al governo del paese attraverso il voto. La maggior parte di questi appartiene a partiti politici, movimenti, sindacati e altre organizzazioni simili che si basano sulle varie dottrine politiche e diversi punti di vista. Queste organizzazioni cercano di ‘ordinare’ la vita sociale secondo le convinzioni politiche dei loro membri, avendo come uno degli obiettivi mantenere o riformare il potere nello stato. Esercitando poteri conferiti a loro dal voto popolare durante le elezioni, le organizzazioni politiche hanno di conseguenza potere nel campo esecutivo e legislativo. La presenza nella società di diverse, talvolta opposte convinzioni politiche e di interessi discordanti genera lotta politica ,che viene condotta sia con metodi legittimi e moralmente giustificati e che con metodi a volte in contraddizione con le norme e la morale cristiana.

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La Chiesa, secondo il comandamento di Dio, ha il compito di mostrare interesse per l'unità dei suoi figli e di occuparsi del mantenimento della pace e dell’armonia nella società.

“Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo”.Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.Questo è un celebre detto attribuito a Gesù e riportato nei vangeli sinottici, che

viene interpretato variamente e considerato un insegnamento sull’obbedienza alle autorità civili. In conclusione la politica e la Chiesa non saranno mai “completamente” separate, nonostante svolgano il loro ruolo cercando di non occuparsi del compito che non le appartiene. Esse comunque continuano da sempre influenzarsi essendo indispensabili per l’uomo e la sua presenza nella società.

Chiara Frausin Sara Furlan

Giada RoncolatoVedrana Starcevic

IL SENSO CRISTIANO DEL LAVORO

Il tema del lavoro viene affrontato nelle Sacre Scritture e successivamente anche i papi, attraverso le loro encicliche, hanno espresso la loro posizione in merito.

«Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela». In queste parole, tratte dal libro della Genesi 1,28, è racchiusa la concezione cristiana del lavoro; l’uomo ha ricevuto la terra da Dio Creatore e la deve sfruttare con intelligenza, in modo da usufruire dei suoi beni positivamente. Il lavoro quindi rappresenta, nella visione biblica, un dovere morale, anche se esso non viene considerato l’unica dimensione dell’attività umana, che deve essere integrata dalla preghiera e dal riposo; per questo motivo il lavoro non deve assorbire tutte le energie, ma deve lasciare spazio allo svago, alla famiglia. Il lavoro è visto come uno strumento di crescita e maturazione per l’uomo: infatti, anche Cristo stesso durante i suoi anni a Nazareth lavorò come carpentiere. Inoltre, l’apostolo Paolo si vantava di guadagnarsi da vivere con la propria attività. Nelle sue lettere egli esorta i cristiani a lavorare onestamente e con impegno, facendone un uso morale; per questo motivo egli scrive: «Chi non vuol lavorare neppure mangi» 2Ts 3, 10.

L’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII la prima a trattare la questione sociale divenne modello per le altre encicliche sociali. La Chiesa sentì la necessità di affrontare il tema del lavoro in quanto, nel corso dell’Ottocento, si erano fortemente inaspriti i rapporti tra borghesia e proletariato e quest’ultimo, poiché lavorava in pessime condizioni, chiese maggiori diritti per tutelarsi.

Il pontefice si rivolge al socialismo e ha il coraggio di denunciare le intollerabili condizioni di vita degli operai, causate dal modello capitalistico dell’Ottocento; infatti, la classe operaia, che in questo periodo vive in una situazione di miseria e sfruttamento da parte dei padroni, si lascia coinvolgere dall’ideale di rivoluzione.

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La Chiesa, finora alleata con la borghesia dominante, si schiera dalla parte dei più poveri della sua epoca cercando di concedere loro più diritti per una vita migliore. Inoltre ricerca le cause del malessere sociale e le individua nel rifiuto della fede e nella progressiva laicizzazione. In questo processo i valori vengono stravolti giungendo al pensiero che l’industria e il capitale siano il fine e l’uomo il mezzo.

La Rerum Novarum, dunque, difende la dignità dei lavoratori dal capitalismo liberale e dal socialismo marxista anche se considera le disuguaglianze sociali inevitabili: «togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile».(14)

La Chiesa, in contrasto all’ideologia socialista, difende il diritto alla proprietà privata con cui l’uomo può conquistare la libertà, l’autonomia e la responsabilità. Chi non ha proprietà può ottenerle con il lavoro, in modo da procurarsi i beni indispensabili per sé e per la propria famiglia. Questo è un diritto che rientra nel Bene comune che lo Stato ha il compito di realizzare; Leone XIII afferma, però, che esso deve intervenire entro certi limiti con delle leggi che possano contribuire al benessere di tutta la società.

«Il Governo deve intervenire nella difesa della proprietà privata non solo dei capitalisti ma anche degli operai e deve tutelare i lavoratori garantendo un salario equo permettendo a tutti di mantenere se stesso e la propria famiglia. Il giusto guadagno, inoltre, può essere utilizzato dal cittadino per poter acquistare una proprietà raggiungendo la propria indipendenza» (35).

La Rerum Novarum condanna il lavoro minorile e quello delle donne, considerate «per natura per i lavori domestici» (33). Bisogna dunque tener conto del tipo di lavoro, dell’età e delle condizioni degli operai. Oltretutto, papa Leone XIII afferma che c’è la necessità di introdurre il riposo festivo «consacrato dalla religione» (32).

Il lavoro, dunque, è personale, per cui è proprietà dell’operaio, ma è anche necessario poiché è l’unico mezzo che l’uomo ha per vivere.

Con questa enciclica la Chiesa cerca quindi di assumere un ruolo attivo nella trasformazione della società; il messaggio papale, infatti, invita i cristiani ad associarsi per condividere, comunicare e collaborare.

Lo Stato non può impedire o vietare la nascita di queste associazioni, ma può solamente opporsi a quelle che danneggiano il bene comune, come quelle anticristiane che basano la loro lotta per la giustizia sulla violenza e sullo sciopero ad oltranza. Il pontefice suggerisce la formazione di società confessionali, ma, esprimendosi nel documento in forma interrogativa, non trova una soluzione, lasciando il discorso in sospeso; tuttavia l’apertura di Leone XIII consentirà la nascita di sindacati di orientamento cristiano e delle società di mutuo soccorso.

Nell’enciclica il papa ha un atteggiamento paternalista ed evangelico che risulta poco adatto ai cambiamenti radicali della società. Per esporre le sue idee e le sue proposte utilizza il metodo deduttivo, non l’analisi, partendo da concetti astratti, dalla natura delle cose, per dedurre i principi e i criteri.

Nella Rerum Novarum viene inoltre trattato il rapporto che intercorre tra la famiglia e la vita economica, che è particolarmente significativo e si basa

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principalmente sul lavoro domestico, poiché da lungo tempo la casa viene considerata un centro di vita e produzione.

La famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l'ordine socio-etico del lavoro umano; tale diritto si fonda sulla relazione che intercorre tra la persona e il suo diritto a possedere il frutto del proprio lavoro e riguarda non solo il singolo come individuo, ma anche come membro di una famiglia. Inoltre il lavoro è essenziale perché rende possibile la fondazione di una famiglia e condiziona anche il processo di sviluppo di una persona.

La famiglia può offrire un contributo alla realtà del lavoro educando al senso del lavoro tramite sostegni di fronte alle scelte professionali o mediante le grandi risorse di solidarietà che essa possiede.

Per tutelare questo rapporto tra famiglia e lavoro, un elemento da apprezzare e salvaguardare è il salario familiare, ossia un salario sufficiente a mantenere e a far vivere dignitosamente la famiglia.

Nel rapporto tra famiglia e lavoro, una speciale attenzione va riservata al lavoro della donna in famiglia, il cosiddetto lavoro di cura; la donna deve essere socialmente riconosciuta e valorizzata, anche mediante un corrispettivo economico almeno pari a quello di altri lavori.

Un’altra enciclica significativa è la Laborem Exercens di Giovanni Paolo II del 1981 scritta in occasione del novantesimo anniversario della Rerum Novarum. Il papa scrive che «La Chiesa è convinta che il lavoro costituisca una dimensione fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla Terra» (4), per questo motivo gli uomini dovrebbero revisionare il senso del lavoro, che implica una più equa ridistribuzione del reddito, della ricchezza e del lavoro stesso per far sì che vi sia occupazione per tutti.

«Il lavoro è un bene per l’uomo perché mediante il lavoro egli non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo» (9).

Queste parole chiariscono che la rinuncia del lavoro è un vero e proprio peccato contro Dio, in quanto l’uomo lavorando può migliorare la sua esistenza sulla Terra e dare sostentamento a se stesso e ai suoi familiari. L’atteggiamento del cristiano di fronte al mondo deve essere, quindi, essenzialmente attivo.

Nell’enciclica Giovanni Paolo II riprende il concetto biblico del lavoro: infatti, egli scrive che «l’uomo, mediante il suo lavoro, partecipa all’opera del Creatore e, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa» (n. 25).

A tal proposito è famosa la frase di Madre Teresa di Calcutta «Io sono come una piccola matita nelle Sue mani, nient’altro. E’ Lui che pensa, è Lui che scrive».

Per Giovanni Paolo II il problema del lavoro è la chiave della questione sociale; lo è soprattutto per il suo carattere soggettivo e personalistico, ma anche per la sua relazione con la famiglia, la nazione e la società umana. Intorno al lavoro si crea così una solidarietà umana che abbraccia passato e presente ed allo stesso tempo è aperta al futuro.

Nell'epoca dell'industrializzazione la solidarietà si è formata attraverso le classi operaie, opposte ai datori di lavoro, per le condizioni in cui si trovavano

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generalmente i lavoratori, e ha generato la lotta di classe; il lavoro e il capitale devono invece essere associati in nuove forme di partecipazione, con la conseguente ammissione all'uso e alla proprietà dei beni della terra in misura adeguata alla dignità di ogni uomo per il principio della destinazione universale dei beni.

Il lavoro è inteso come un'attività transitiva, cioè tale che, prendendo inizio nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno, suppone cioè uno specifico dominio dell'uomo sulla terra e a sua volta conferma e sviluppa questo dominio. A questo proposito l'affermazione posta all'inizio della Bibbia «soggiogate la terra» ha un ruolo centrale: indica, infatti, tutte le risorse che la terra nasconde in sé e che, mediante l'attività cosciente dell'uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate.

Il lavoro, quindi, è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dalle altre creature, la cui attività, connessa al mantenimento della vita, non può considerarsi lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie. Così il lavoro porta dentro di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità che determina la sua qualifica interiore e ne costituisce la sua stessa natura.

«Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nelle condizioni presenti nell'umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Dio, la possibilità di partecipare nell'amore all'opera che Cristo è venuto a compiere».

Il messaggio, che nell'ultima parte dell'enciclica Laborem Excersens Giovanni Paolo II dona ai cattolici del mondo, è quello di considerare e vivere il lavoro come un'occasione tramite la quale è possibile avvicinarsi a Dio. La Chiesa, come ricorda il pontefice, considera suo dovere coltivare la spiritualità del lavoro, perché è un'attività alla quale l'uomo partecipa in modo personale e specifico; il lavoro è quindi prima di tutto espressione dell'associazione dell'uomo all'opera creatrice di Dio, nonché unione alla figura di Cristo che ha fatto esperienza del lavoro e a cui ha dato dignità. Inoltre l'uomo deve imitare Dio sia lavorando che riposando, dato che Egli ha voluto presentargli la sua opera creatrice sotto forma del lavoro e del riposo. Quest'ultimo però non deve essere inteso in senso riduttivo, come mera sospensione della fatica umana.

«Esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel riposo che il Signore riserva ai suoi servi ed amici».

Si tratta quindi di un riposo che manda alla rigenerazione spirituale dell'uomo.

Giuseppe ColomboFederica Crasnich

Jessica FormosoGiorgio Poian

Elena VittorLA LIBERTA’ EDUCATIVA

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Sempre più spesso nella nostra società si riscontrano comportamenti maleducati ed incivili, soprattutto da parte dei più giovani, che a volte portano addirittura a conseguenze gravi. In questi casi, allora, sorge spontanea la domanda “Ma dove è finita l’educazione?”. In realtà, prima di domandarsi la causa della mancanza di educazione da parte delle nuove generazione ed additare le famiglie come responsabili, è necessario capire cosa sia veramente l’Educazione.

Prendendo in considerazione la Lettera alle famiglie di Giovanni Paolo II emerge che l’educazione si basa su due principi fondamentali: il primo secondo il quale l’uomo è chiamato a vivere nella libertà e nell’amore, il secondo che sostiene la realizzazione dell’uomo attraverso il dono sincero di sé. Tale educazione si può conseguire solo attraverso una reciproca comunione basata su un rapporto profondo tra educatore ed educando che permette la partecipazione di entrambi alla verità e all’amore.

Come sostengono gli articoli 26,3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, 30 della Costituzione Italiana e nel documento del Concilio Vaticano II, Gravissimum Educationis, il compito di educatore spetta in primo luogo alla famiglia, la quale necessita, però, di un saldo supporto da parte della Scuola, della Chiesa, della società e dei mass-media. L’obiettivo finale è quello di ottenere un’educazione totale tramite lo sviluppo della personalità dell’individuo in tutti i suoi aspetti al fine di conferirle un carattere critico e indipendente.

Alla famiglia spetta il compito di trasmettere al ragazzo «i contenuti e i valori che compongono nel suo insieme la cultura di una data nazione», anche se ciò può venire a mancare nel momento in cui si manifesta una difficoltà di dialogo tra le generazioni adulte ed i giovani quali portatori di aspirazioni, di rinnovamento, ma anche di insicurezza per l’avvenire. Questa situazione può portare spesso a gravi conflitti, rotture e atteggiamenti rinunciatari soprattutto da parte delle nuove generazioni, i quali incidono, quindi, negativamente sulla loro educazione, ostacolando l’acquisizione di valori e il riconoscimento di un’autorità nella figura dei genitori.

Per ciò che concerne il ruolo che la Chiesa ha assunto in ambito sociale, emerge la figura di Don Bosco, un contadino artigiano diventato prete, che creò il “sistema preventivo” nell’educazione dei giovani ed il movimento salesiano che opera oggi in tutto il mondo. Secondo il suo punto di vista, l’educazione non è il “risolvere problemi”, ma mettersi in gioco per condividere la vita e cercare il bene dell’altro nell’Amore e nella Verità. Per quanto riguarda il contributo alla società, egli si impegnò nella costruzione dell’Italia unita facendo crescere persone veramente adulte nella vita e nella fede. Don Bosco insistette molto sull’“assoluta moralità” dei maestri, sostenendo, infatti, che solo un maestro che vive i valori di cui parla è credibile. Inoltre egli non si limitò a teorizzare tali concetti, ma si impegnò anche a metterli in pratica al fine di migliorare l’aspetto educativo della società. Tra i documenti più importanti lasciatici da Don Bosco ricordiamo la “Stipula dei Contratti

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di Lavoro d’Apprendistato”, la quale tratta della problematica inerente ai ragazzi che crescono e diventano uomini imparando un mestiere e concentra la sua attenzione sul fatto che essi non sono né servi né strumenti inanimati. In particolare, sostiene il documento, un contratto di lavoro affronta diverse questioni fondamentali come ad esempio l’attenzione per la mole di lavoro, per l’effettivo insegnamento dell’arte, per il salario e per le ferie. Si nota quindi l’importanza che Don Bosco attribuì alla persona piuttosto che al gruppo.

Lisa FacchinettiRoberta Petullà

Alessandra SainConsuelo Tessarin

DIRITTI E DOVERI

“In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili.” (5) - Pacem in terris, Papa Giovanni XXIII

La religione cristiana tratta fin dalla sua nascita problematiche etiche e sociali, offrendosi sempre, nello specifico, di riflettere sui doveri e sui diritti del cristiano all’interno della comunità a cui appartiene. Tuttavia, negli ultimi due secoli, a causa dei relativi cambiamenti socio-economici, la Chiesa ha stabilito di valorizzare i principi religiosi rendendo l’insegnamento più dinamico: nel corso della storia, infatti, si sono succedute fasi che hanno portato ad una visione critica dei principi del Cristianesimo, e rispetto a tutto ciò la Chiesa ha sempre dovuto prendere posizione. Per questo la dottrina cristiana è considerata metastorica, poiché i suoi insegnamenti possono essere applicati ad ogni epoca; inoltre la Chiesa non assume alcun punto di vista riguardo all’uomo ma pone l’accento sul rapporto tra l’uomo e Dio.

Così, diventa chiaro che l’uomo, in quanto essere razionale e dotato di intelletto, possiede alcuni valori universali, ovvero non contestabili o giudicabili, e tra questi i diritti propri e di conseguenza degli altri, che sono insiti e propri della stessa natura umana. Ma la Chiesa, assodato che i diritti appartengono alla dignità umana, trova un’altra ragione più profonda: la dignità dell’uomo si basa sulla vocazione di essere figlio di Dio, in quanto sostiene che Cristo ha rifondato la dignità e i diritti umani al fine di privilegiare l’interlocuzione con Dio. Il riconoscimento di tali diritti è estraneo al contesto storico e geografico, in quanto crea le basi comuni della convivenza sociale; ma i diritti naturali sono inevitabilmente collegati ai doveri: nella stessa persona un diritto specifico equivale al relativo dovere di un’altra persona di rispettare quel diritto, in quanto appartiene non solo al singolo individuo ma a tutta

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l’umanità. Perciò non basta affermare un diritto per renderlo universale, ma è necessario che tutti aiutino a creare e a garantire effettive condizioni sociali, economiche e politiche grazie alle quali tale diritto possa venir riconosciuto e rispettato.

Il contributo più significativo a riguardo è datato 11 aprile 1963: in questa data viene pubblicata l'enciclica Pacem in terris, due mesi prima della morte del suo autore Giovanni XXIII. Questa enciclica suscitò subito viva attenzione,poiché fu la prima enciclica rivolta non solo ai cattolici, bensì a "tutti gli uomini di buona volontà”; essa rappresentò un evento storico e diede nuovo impulso alla dottrina della Chiesa sulla pace.

La situazione internazionale dell'epoca era dominata dalla minaccia nucleare provocata dalla guerra fredda, che vedeva partecipi le due grandi potenze Stati Uniti e Urss, e fu proprio grazie (o perlomeno questa ebbe grande importanza) all’enciclica Pacem in terris e all’affermazione in essa dell’universalità del valore della pace, che i leader Kennedy e Krusciov rinunciarono allo scontro.

Ne è prova la stessa struttura dell’enciclica: uno dei elementi più innovativi è infatti la categoria dei "segni dei tempi", indicante quei fatti e quei fenomeni che contraddistinguono e caratterizzano le diverse epoche che l'umanità attraversa. Essi sono una specie di ponte tra la Chiesa e l'umanità intera, che permettono di vedere le trasformazioni sociali e politiche in un'ottica più evangelica. L'apice di tutta l'enciclica è, infine, nella distinzione tra i "movimenti storici e finalità economiche, sociali, culturali e politiche" e le ideologie, "false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell'universo e dell'uomo". Queste righe aprono al Vaticano uno spazio alle relazioni con i Paesi dell'Est e con i movimenti marxisti che stanno oltre la cortina di ferro.

La pace per Giovanni XXIII non è soltanto uno stato di relazioni tra paesi ma interessa tutti i rapporti tra gli uomini; per questo egli esamina anche i diritti dell'uomo, il disarmo e identifica nella verità, la giustizia, l'amore e la libertà le condizioni essenziali per la pace.

La prima parte dell’enciclica (in tutto ve ne sono cinque), tratta “L’ordine tra gli esseri umani”, dove vengono definiti i differenti diritti e gli equivalenti doveri del singolo all’interno di una comunità, elencati e specificatamente trattati in un contesto universale, oltre che evangelico.

Tra i diritti fondamentali vengono ricordati il diritto ad un tenore di vita dignitoso, quantomeno nelle sue necessità essenziali, “al rispetto della sua persona, […], alla libertà e alla ricerca del vero”, alla formazione culturale come professionale e al lavoro, dove questo sia tutelato e garantito nelle norme della giustizia ed equità. Vi è poi un punto di fondamentale importanza, soprattutto per l’attualità del suo contenuto:

“Gli esseri umani hanno il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato; e quindi il diritto di creare una famiglia, in parità di diritti e di doveri fra uomo e donna; come pure il diritto di seguire la vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa.” (9)

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Così, come si hanno diritti di equità in ambito economico e sociale, questi devono essere garantiti anche nell’ambito politico e giuridico, poiché “l’uomo, come tale […], è e deve essere e rimanere il soggetto, il fondamento e il fine [della vita sociale]”. Ma ciò non può valere se non vi vengono associati, nel modo più stretto, i doveri impliciti che ogni diritto reclama per essere attuabile all’interno di una società di molti, perché “la convivenza fra gli esseri umani, oltre che ordinata, è necessario che sia per essi feconda di bene. Ciò postula che essi riconoscano e rispettino i loro vicendevoli diritti ed adempiano i rispettivi doveri […].”

Ma l’aspetto fondamentale è che i doveri possono essere validi solo in un contesto di appresi valori morali e spirituali, e pertanto “nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà”; ancora più importante è il messaggio di Giovanni XXIII che vede il momento storico maturo proprio per la realizzazione di un mondo egualitario di diritti e doveri reciproci e rispettati.

Nella seconda parte, sul rapporto tra uomo e autorità, quest’ultima viene definita come data per natura, e quindi da Dio, oltre che necessaria ad una adeguata regolazione della società “per il raggiungimento di un fine comune”, ossia la concretizzazione dei diritti-doveri degli uomini. Ma ciò è possibile soltanto se l’autorità è “postulata dall’ordine morale” e attua essa stessa nel rispetto della dignità umana e al fine del bene comune. Questi “sono tenuti ad attuarlo nel riconoscimento e nel rispetto dei suoi elementi essenziali e secondo contenuti postulati dalle situazioni storiche.”

Il bene comune, che varia in base a gruppo etnico e momento storico, ma persiste nell’essere un “oggetto essenzialmente correlativo alla natura umana”, si identifica principalmente nella realizzazione come dei bisogni materiali, così di quelli spirituali del singolo in relazione alla società di cui è parte integrante.

"Tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compito dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere", cosicché quest’ultimo deve non solo tutelare i diritti, ma anche contribuire a creare quella società dove adempiere i rispettivi diritti e doveri sia reso possibile e diventi addirittura naturale, dove questo sia esteso a tutti gli individui per rispettivi meriti e caratteristiche. Per fare ciò, la comunità umana ha bisogno non solo di un’organizzazione giuridico-politica, ma anche, cosa fondamentale, di una suddivisione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che si limitino in modo reciproco. E’ altresì necessario che il singolo si renda partecipe della vita pubblica al fine di rendere l’ambiente della pubblica amministrazione sempre rinnovato e adatto alle esigenze della società per la quale opera. Infine, riguardo l’anno 1963, ma ancora attuale, è il dato di fatto che:

“ gli esseri umani, nell’epoca moderna, hanno acquistato una coscienza più viva della propria dignità: coscienza che, mentre li sospinge a prendere parte attiva alla vita pubblica, esige pure che i diritti della persona — diritti inalienabili e inviolabili — siano riaffermati negli ordinamenti giuridici positivi; ed esige inoltre che i poteri pubblici siano formati con procedimenti stabiliti da norme costituzionali, ed esercitino le loro specifiche funzioni nell’ambito di quadri giuridici.”

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La terza e quarta parte trattano rispettivamente i rapporti fra le comunità politiche ed i rapporti degli esseri umani e delle comunità politiche con la comunità mondiale.

Bisogna innanzitutto riconoscere che le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggette di diritti e di doveri; i rapporti tra le comunità politiche sono regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà, secondo la stessa legge morale che regola i rapporti fra i singoli esseri umani. Le persone che rappresentano le comunità politiche non possono venire meno alla propria dignità né alla legge morale al fine di operare per il bene comune.

"L’ordine tra le comunità politiche ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell’ordine naturale e da lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili…”.

Nella Pacem in terris Giovanni XXIII presenta la "verità" come punto iniziale che regola i rapporti fra le comunità politiche, le quali possono differire tre loro nel grado di cultura e civiltà o di sviluppo economico, ma hanno ognuna il diritto all’esistenza e al proprio sviluppo secondo le sue possibilità. Inoltre viene sottolineato come non ci siano esseri umani superiori od inferiori per natura, ma tutti gli esseri umani sono uguali per dignità naturale. Di conseguenza non ci sono neppure comunità politiche superiori o inferiori per natura.

Il secondo punto tramite cui si regolano tali rapporti è dato dalla "giustizia" secondo cui, qualora nascessero contrasti d’interessi, essi andrebbero risolti con la reciproca comprensione. È inoltre evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma alla luce della ragione; e cioè nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante. Quest’ultima comporta che le comunità politiche economicamente sviluppate instaurino rapporti di multiforme cooperazione con le comunità politiche in via di sviluppo economico (da “Mater et magistra”).

Per quanto riguarda i rapporti esseri umani - comunità politiche rispetto alla comunità mondiale, l'enciclica afferma che lo sviluppo della comunità e delle economie nazionali è pressoché impossibile senza un'apertura all'economia mondiale. Date le premesse, è inevitabile ed indispensabile la creazione di poteri, al momento inesistenti a motivo di una loro deficienza strutturale, che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale; ciò riguarda in ultima analisi anche il raggiungimento del bene comune universale.

Per questi motivi anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona.

“I poteri pubblici della comunità mondiale non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici delle singole comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su piano mondiale, di un ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi

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cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza”.

Si auspica infine che l’ONU, che segna un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale, si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti sia nelle strutture che nei mezzi, per adempiere a tutti quei compiti necessari al conseguimento della pace internazionale.

Sono passati quasi cinquant’anni da quando l’enciclica è stata pubblicata; la guerra fredda è finita, il Muro di Berlino è crollato, insieme a molti altri muri costruiti da ideologie troppo chiuse in sé stesse. Il mondo sta cambiando, ora come non mai, dall’economia alla politica, a livello sia di paese singolo (come succede in Africa), sia di comunità internazionali, come l’Unione Europea. Eppure, molti dei messaggi dell’enciclica di papa Giovanni XXIII rimangono tutt’ora attuali ed auspicabili, poiché non raggiunti come obiettivi, seppur recepiti.

Ed è molto interessante notare come, sebbene il contesto storico sia variato, il messaggio fondamentale del valore universale che la pace detiene è rimasto fisso ed immutato, come forse il più alto che l’umanità detenga e che si deve impegnare a rispettare e conservare.

Anna AndreevaGiulia Ianniello

Enrico GerinEmsada MehicThomas Pirona

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO

Il riconoscimento dei diritti della persona è antico e collegato alla formulazione e al rispetto delle leggi. L’idea di diritto alla vita esteso a ogni individuo, indipendentemente dalla condizione economica, sociale e culturale, basato quindi sul principio che tutti gli uomini sono uguali poiché dotati di ragione, nasce nel XVIII secolo, portato dalla cultura dell’Illuminismo. Infatti in seguito all’industrializzazione e quindi al rafforzamento della classe borghese, per la quale la libertà aveva una grande importanza, ebbe inizio un periodo storico illuminato dalla ragione, la quale doveva essere libera da pregiudizi. La luce, simbolo di questa corrente culturale, era un elemento tradizionale dell’iconografia cristiana, simboleggiava la divinità e il bene: dei principi morali religiosi vennero quindi adottati da un movimento laico o contrario al ruolo conservatore della Chiesa. Le libertà di cui gli uomini hanno diritto di godere, però, perché non sfocino in sopraffazioni di alcuni uomini su altri, hanno bisogno di essere limitate dalle leggi, perciò importante era l’istituzione dello Stato che le facesse rispettare. I diritti considerati innati erano quelli alla vita e alla libertà, che portarono poi alla formulazione di molti altri.

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Una delle prime costituzioni basate su questi principi fu la Dichiarazione dei Diritti americana (dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna) del 1776, che partiva appunto dal presupposto che tutti gli uomini nascono uguali, sviluppando poi i diritti di vita, libertà, felicità, sicurezza, ecc. Da questa prese spunto la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che fu approvata durante la Rivoluzione Francese, il 26 agosto 1789, e che portava gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, i tre principali diritti. Altri furono aggiunti con la Costituzione dell’anno I, del 24 giugno 1793; questa non entrò mai in vigore ma ebbe una grande importanza ideologica in Francia come all’estero.

Una formalizzazione ufficiale e con valenza mondiale di questi diritti inalienabili fu fatta però solo il 10 dicembre 1948 a New York dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Questa necessità si ebbe in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale erano state commesse atrocità nei confronti dell’umanità, a causa del disconoscimento e del disprezzo dei diritti umani. Essi sono da allora protetti da norme giuridiche, basate su condizioni formulate in modo che siano tutelati, per quanto possibile, il rispetto dell’individuo e della sua dignità.

Alla base della Dichiarazione stanno alcuni presupposti ideologici e culturali:1. L’unicità di ogni uomo che, libero e uguale agli altri, possiede dei diritti

inerenti alla sua natura; questi diritti gli devono essere riconosciuti e non gli vengono attribuiti da nessuno, essendo già connaturati a lui.

2. La libertà come condizione di sviluppo della persona e della società in cui vive. 3. La famiglia come nucleo fondante la società e soggetto di educazione dei figli.

(art. 16 - 155).4. La socialità della persone umana che si apre agli altri offrendo e ricevendo

aiuto e, nello stesso tempo, contribuendo ad edificare la società. Dunque il punto di partenza è la dignità dell’uomo (art. 29 – 153).

Questi punti tematici sono essenziali per il rispetto e la realizzazione dei diritti umani stessi, poiché costituiscono la base di questo importantissimo documento. Essi, assieme ad altri aspetti della vita umana, sono stati, prima analizzati e poi raggruppati in degli articoli, i quali nel complesso formano l’intero testo della Dichiarazione ed ora ne prenderemo in considerazione alcuni particolarmente rilevanti, che riguardano i presupposti della loro creazione, comparandoli ad un testo religioso, per poter evidenziarne somiglianze e differenze.

1. Il primo presupposto è indicato immediatamente nel primo articolo della Dichiarazione, dimostrandone così l’incredibile importanza.

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.» (articolo 1 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo).

Anche la Chiesa prende la sua posizione al riguardo e anch’essa ritiene che il diritto alla vita e della libertà siano quelli che più di tutti sono intrinsechi nell’uomo stesso, poiché gli appartengo perfino dalla nascita. Ecco qui una citazione:

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“La promozione della dignità umana implica anzitutto l'affermazione dell'inviolabile diritto alla vita, dal concepimento sino alla morte naturale, il primo tra tutti e condizione per tutti gli altri diritti della persona. […] Il riconoscimento effettivo del diritto alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa è uno dei beni più alti e dei doveri più gravi di ogni popolo che voglia veramente assicurare il bene della persona e della società.”1

2. Il secondo punto mette in evidenza la possibilità di sviluppo per l’uomo all’interno della società: infatti nell’articolo 25 della Dichiarazione, esso è espresso esplicitamente, lasciando trasparire le condizioni indispensabile che un uomo dovrebbe avere, affinché possa costruirsi una vita propria, avendo il diritto di lavorare, di avere una giusta retribuzione per la propria attività, ad organizzarsi in sindacati, ecc.

“Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.[…]”2

La Chiesa, nel Compendio esprime in maniera ridotta gli stesse considerazioni fatte nell’articolo 25, ma in ogni caso ne riconosce l’importanza. «[…] il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari[…]» (art. 155). Il terzo tema affrontato è quello riguardante il nucleo famigliare, il quale deve assicurare serenità al suo interno e di conseguenza anche alla società stessa, poiché essa è formata da tutti i gruppi famigliari, inoltre la famiglia deve essere il frutto della libera decisione dei coniugi.

La Dichiarazione Universale afferma che

“Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.” (art. 16)

1 Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, art. 553

2 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art 25

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Il parere della Chiesa coincide con quello della Dichiarazione, sottolineandone però maggiormente gli aspetti morali e quindi anche i comportamenti da attuare.

Giovanni Paolo II ne ha tracciato un elenco nell'enciclica Centesimus annus :

“il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; [...] il diritto a fondare liberamente una famiglia e ad accogliere ed educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona”

come affermato nell’art. 155 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa.3. L’obiettivo dell’articolo 29, il quale riflette le idee del quarto presupposto, deve

essere quello di perseguire il pieno sviluppo della personalità, promuovere il rispetto, la tolleranza, la comprensione a l’amicizia tra i popoli. Inoltre deve essere permesso all’individuo di fruire della vita culturale e artistica delle varie comunità.

“Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.”3

La Chiesa tende, ovviamente, a trattare prevalentemente dei diritti dell’uomo in ambito religioso, per esempio nell’articolo 153 de Compendio viene riconosciuta la dignità umana, ma in funzione di un atto puramente religioso, ovvero dal dono che ci è stato fatto da Dio e che, solo lui come tale, poteva regalarci.

“La radice dei diritti dell'uomo, infatti, è da ricercare nella dignità che appartiene ad ogni essere umano. Tale dignità, connaturale alla vita umana e uguale in ogni persona, si coglie e si comprende anzitutto con la ragione. Il fondamento naturale dei diritti appare ancora più solido se, alla luce soprannaturale, si considera che la dignità umana, dopo essere stata donata da Dio ed essere stata profondamente ferita dal peccato, fu assunta e redenta da Gesù Cristo mediante la Sua incarnazione, morte e risurrezione.”4

3 Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, art 29

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Fino ad ora sono stati approvati numerosi documenti contro la discriminazione, il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, la schiavitù, la tratta degli esseri umani, il lavoro forzato, la difesa dei diritti degli stranieri, dei rifugiati, degli apolidi, dei lavoratori, della donne, dei bambini, delle famiglie, dei combattenti, dei prigionieri, ecc. Alla Dichiarazione hanno seguito numerosi incontri, trattati, conferenze, che hanno cercato di verificare fino a che punto questi diritti fossero salvaguardati e soprattutto hanno creato nuove garanzie per tutelare queste libertà fondamentali.

Greta BraidottiPiera Fattor

Martina Mori

4 Compendio della dottrina sociale della Chiesa, art. 153

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L’ETICA E LA FILOSOFIA

COME NASCE L'ETICA?

La riflessione filosofica sull'etica comincia in Grecia nel V secolo a.C. Con i Sofisti e Socrate e si sviluppa nell'opera di Platone. Tuttavia è Aristotele a usare per primo il sostantivo “ethos” il cui significato è abitudine. Secondo Aristotele il fondatore dell'etica come scienza è Socrate in quanto fu il primo a cercare delle definizioni generali delle virtù etiche. Infatti il termine virtù con Socrate si riferisce alla disposizione dell'animo umano a compiere il bene e a condurre una vita virtuosa.

Egli sostiene che alla base di questa ci sia la conoscenza, poiché quando si è compreso che il bene è il vero fine della vita è la scelta di una condotta moralmente buona.

L'etica è già parte della filosofia che si occupa del comportamento umano, cioè l'insieme dei principi che ispirano un determinato codice di comportamento.

Tali criteri dell'agire morale si suddividono in: criterio dell'utile, criterio di Platone, ossia quello che comprende i valori oggettivi, universali e immutabili, e criterio di Aristotele, che individua la razionalità come criterio di orientamento pratico.

Se non fosse possibile individuare dei principi etici universali, non sarebbe possibile ragionare in termini di bene e male e ognuno dovrebbe decidere di volta in volta come comportarsi. Tali riflessioni inducono spontaneamente a ricercare le definizioni di tali concetti, impresa rivelatasi non semplice.

Fin dalle origini infatti l'uomo si è interrogato su cosa sia il male e quale sia la sua natura; nel corso dei secoli ha poi cercato di darsi delle risposte elaborando varie teorie. Prendendo in considerazione quelle cristiane è possibile distinguere due modi di concepire l'idea di male: il primo oppone il male in relazione al bene, il secondo lo considera invece come un'entità a sé stante.

Nel caso della prima teoria, originatasi già durante il Medioevo, il male viene preso in considerazione dal punto di vista di opposto del bene, dunque la sua definizione finisce per dipendere da quella di quest'ultimo facendo sì che la parola “male” assume il significato di diminuzione o assenza di bene. Questa concezione di male da un lato fornisce un'idea chiara di cosa sia il male stesso, ma dall'altro lo fa dipendere dal bene, lo priva cioè di un'esistenza propria in quanto se non ci fosse il bene non esisterebbe neanche il male; questa chiave di lettura si rivela perciò inefficace al fine di dare una definizione di tale concetto. E' necessario pertanto ricercare un'altra possibile spiegazione all'idea di male prendendo in considerazione una teoria elaborata dal Cristianesimo moderno e contemporaneo. Questa visione conferisce al male un significato autonomo che lo rende parte di una realtà positiva in quanto esiste indipendentemente dagli altri enti, assume cioè un ruolo di “posto” (dal greco “positum”) e non di “opposto”. In questo senso si può affermare che il male costituisca assieme al bene una sorta di dualismo morale regolato dagli stessi due

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principi indipendenti, bene e male appunto, i quali sono in eterna lotta fra loro. Bene e male perciò non dipendono l'uno dall'altro, bensì dal libero arbitrio, costituente della libertà umana e si manifestano perciò in base alle scelte dell'uomo.

Questa visione presuppone però un percorso razionale alla definizione dell'etica. Questo spiega il motivo per cui sia i filosofi più antichi come Platone e Aristotele, ma anche quelli più recenti come Cartesio, Kant o Hegel, si limitassero ad una considerazione dell’etica e della morale strettamente legata alla dimensione razionale.

Tale modello viene messo in discussione da filosofi come Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. Nietzsche, per esempio, ritiene che l’etica nella sua forma razionale sia responsabile dell’occultamento della vera essenza dell’uomo, cioè il dionisiaco, e Kierkegaard addirittura avverte come necessario un superamento dell’etica in direzione di una dimensione religiosa che lega il singolo al divino in una modalità tale da apparire eticamente 'paradossale e scandalosa' ma che sola può garantire quella realizzazione esistenziale che risulta preclusa alla dimensione etica come si era venuta storicamente e tradizionalmente affermando.

Questi filosofi quindi rifiutano l’idea secondo cui la razionalità garantisca all'etica una qualche autosufficienza e ne ricercano perciò la ridefinizione o il superamento.

L'ETICA SECONDO I FILOSOFI DEL NOVECENTO

SCHOPENHAUER

Secondo il filosofo Schopenhauer una duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale, che consente di oltrepassare le manifestazioni fenomeniche della volontà rendendo l'uomo consapevole delle dolorose conseguenze a cui essa conduce ed implica un impegno pratico a favore del prossimo. A tal proposito il filosofo indica due modi per trascendere la realtà fenomenica liberandosi così dal dolore: nel primo caso l'uomo cessa di considerare se stesso come individuo contrapposto ad altri e comincia ad operare in modo da far convergere il proprio Io e quello dei suoi simili, riconoscendo la sua volontà come espressione della volontà universale che accomuna tutti gli esseri. Tale obiettivo può essere conseguito limitandosi a non compiere azioni che possano ledere la volontà degli altri: si ha così l'affermazione della virtù della giustizia, che si realizza nel diritto. La seconda via per conseguire tale obiettivo può essere intrapresa attraverso la carità, cioè la volontà di fare del bene al prossimo: tale virtù comporta un sentimento di compassione che può nascere solo in colui che, riconoscendo il proprio dolore come analogo a quello degli altri, supera l'egoismo.

La virtù della giustizia e della carità si limitano a negare la volontà individuale eliminando il conflitto tra uomo e uomo.

KIERKEGAARD

Per Kierkegaard l'etica corrisponde ad una delle tre fasi della vita umana, in particolare egli pone la fase etica tra quella estetica e quella religiosa.

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Per accedere alla fase etica, sostiene il filosofo, è necessario passare attraverso il senso di disperazione prodotto dalla superficialità caratterizzante la vita estetica. La disperazione, infatti, pone l'uomo davanti ad una scelta che lo responsabilizza e lo fa accedere dunque allo stadio etico. La responsabilità è, infatti, uno degli elementi caratterizzanti la fase etica ed è simbolizzata dalla figura del marito quale emblema del soggetto che sottomette la propria individualità alle regole della famiglia e della società. La vita etica si rispecchia quindi nel modello di vita borghese in cui le priorità sono il matrimonio, la famiglia e il lavoro che costituiscono così la quotidianità dell'individuo borghese. Il rischio di questa quotidianità caratterizzante la fase etica è la caduta nel conformismo che conduce al pentimento e al senso di colpa causati da una vita incentrata sul proprio Io.

NIETZSCHE

Durante la seconda fase della vita di Nietzsche, definita Illuministico-critica, il filosofo si occupa dell'opera di decostruzione della morale, la quale implica un'analisi della tradizione morale dell'Occidente, della quale il filosofo ricerca le origini.

In particolare egli paragona le norme della morale tradizionale ad una maschera, dietro a cui l'uomo nasconde la sua natura, caratterizzata dalla debolezza e dalla mediocrità.

Nietzsche, adottando il metodo genealogico, si occupa dell'origine psicologica dei comportamenti etici e dei valori morali e ciò gli permette di individuare due tipi di morale: quella “degli schiavi” e quella “dei signori”.

La prima è definita morale del risentimento, prodotta, secondo la sua teoria, da uomini mediocri, incapaci e repressi. Secondo Nietzsche, infatti, questi uomini, consapevoli della propria impossibilità di essere eroici, predicano l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, la rassegnazione e l’ascetismo, ossia tutti i principi meschini e tipici di una società conformista e omologata. A questi valori, però, Nietzsche contrappone quelli su cui si fonda la “morale dei signori”, tipica del mondo classico ed espressione dell’aristocrazia. Secondo la visione nietzscheana l’eliminazione di questa morale è stata provocata dall’avvento della religione ebraico-cristiana. La morale del coraggio, della forza e dell’orgoglio viene, infatti, sostituita da quella dell’umiltà e dell’obbedienza. In particolare Nietzsche attribuisce agli ebrei la colpa di questo sovvertimento dei valori, in quanto li considera un popolo con una maggiore vocazione sacerdotale rispetto alle altre religioni.

In seguito questi valori sono stati introiettati di Romani attraverso la diffusione del Cristianesimo e ciò ha permesso alla “morale degli schiavi” di diventare il fondamento della cultura occidentale. A ciò contribuisce anche il Cristianesimo, il quale impone il senso di colpa e del peccato creando così una massa di persone represse che, a causa della loro frustrazione, si sono rivelate spesso dispotiche e aggressive.

HEIDEGGER

Secondo Heidegger l’esistenza dell’uomo non è fissa, immobile, predeterminata, ma

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è possibilità e libertà, quindi l’uomo può trascendere la contingenza. Tale progettualità costitutiva dell’uomo può trovare realizzazione in due modi differenti, uno autentico e uno in autentico.

L’esistenza in autentica è la situazione in cui la pre-comprensione del mondo che caratterizza l’esserci diventa adesione acritica e spontanea ad un certo contesto storico-sociale, all’opinione accettata da tutti, alla modalità comune di intendere le cose e di rapportarsi ad esse. Tale situazione comporta un decadimento dell’uomo al modo di essere delle cose, cioè una sua rinuncia alla scelta e alla libertà con l’inevitabile caduta del soggetto nella deiezione, ossia nella banalità del quotidiano.

Il passaggio dall’esistenza in autentica a quella autentica è conseguibile attraverso il sentimento dell’angoscia che rende l’uomo consapevole del nulla su cui è fondata la propria esistenza. Infatti la vita autentica è la forma di esistenza in cui l’uomo si riconosce come essere per la morte, accettando così la propria finitezza. Solo scegliendo di anticipare la morte l’uomo può condurre la propria esistenza nella piena coscienza che il suo orizzonte di vita è limitato e riesce quindi a non disperdersi nel vuoto dell’esistenza deietta.

Lisa Facchinetti

Roberta Petullà

Alessandra Sain

Consuelo Tessarin

LA FECONDAZIONE ASSISTITA

La capacità di riprodursi è fondamentale per gli esseri umani: uno dei più profondi desideri umani, infatti, è quello della riproduzione e dell’accudimento dei figli. Si comprende dunque perché gli uomini hanno da sempre tentato di combattere l’infertilità utilizzando qualsiasi espediente (formule, riti magici, offerte propiziatorie, preghiere religiose…), fino a che i progressi della ricerca medico- scientifica non hanno consentito la messa a punto dei trattamenti moderni, come ad esempio la fecondazione assistita. Questa si divide in fecondazione assistita intra-corporea (o in vivo), in cui l’intervento tecnico sostituisce solo l’atto sessuale, poiché il seme viene introdotto nel corpo della donna prima di essere fecondato; e fecondazione assistita extra-corporea (o in vitro), in cui oltre all’atto sessuale si rimpiazza anche l’unione dei gameti (la cellula uovo femminile e lo spermatozoo maschile), dato che il seme viene fecondato in provetta e solo successivamente trasferito nel corpo della donna.

Ciascuna di queste due forme può essere definita omologa, se entrambi i gameti provengono dalla coppia che richiede l’intervento, o eterologa, quando almeno uno dei due gameti proviene da una persona esterna alla coppia.

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L’utilizzo di queste moderne tecniche di concepimento però ha sollevato molti problemi morali posti sulla basa dell’etica della sacralità della vita. Se si crede infatti che la vita sia un dono di Dio e come tale sia sacra, cioè intoccabile, allora viene spontaneo pensare che l’uomo non abbia il diritto di appropriarsi del processo riproduttivo.

Secondo la dottrina cattolica, nel matrimonio l’atto sessuale e la procreazione sono inscindibili, quindi è chiaro che la fecondazione assistita viene vista come qualcosa che spazza questa unità, poiché consente di avere figli senza avere rapporti sessuali. Chiunque sostenga questa opinione è convinto che un figlio sia un dono e che bisogna rassegnarsi se non arriva. Chi invece sostiene l’etica della qualità della vita, ritiene che il controllo del processo riproduttivo sia lecito e rappresenti un progresso per la società.

Un altro problema e punto di distanza delle due prospettive etiche riguarda la produzione in eccesso di embrioni necessari per il funzionamento della fecondazione in vitro che sono destinati a morire e che potrebbero essere utilizzati nella ricerca. Innanzitutto il termine embrione designa l'organismo che si forma dal momento del suo annidamento nell'utero materno, allo stadio di circa 100-120 cellule (dopo due mesi di vita viene definito feto). La difficoltà sta nello stabilire se questo possa essere considerato un essere umano; secondo la fede cristiana lo è, mentre il pensiero laico pone la formazione dell’individuo in uno stadio successivo a quello embrionale.

In Italia la legge che serve a regolare la fecondazione assistita fu approvata nel 2004. Essa presenta ambiguità, e alcuni punti furono in seguito modificati o dichiarati illegittimi. Come espresso nell’art. 1, essa consente la procreazione medicalmente assistita al fine di venire incontro a quei problemi di sterilità o infertilità, però secondo alcune condizioni previste dalla legge.

Innanzi tutto questa opzione deve essere presa in considerazione solamente nel caso in cui non ci siano altre soluzioni possibili per risolvere i problemi di sterilità o infertilità; inoltre è vietato il ricorso a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo, che quindi prevedono la provenienza di almeno un gamete da un donatore, una persona esterna alla coppia (art.4). La legge consente di sottoporsi a tecniche di fecondazione artificiale a coppie coniugate o di fatto, di sesso diverso, maggiorenni e in età fertile; esclude perciò omosessuali, single e donne in età avanzata (art.5). Fu poi estesa anche a coppie affette da patologie geneticamente trasmissibili.

Il Capo VI della legge indica le misure di tutela dell’embrione. Vieta qualsiasi sperimentazione su embrioni umani, specifica poi che ricerche cliniche e sperimentali sono consentite solo se volte alla salute dell’embrione stesso. È vietata perciò la crio-conservazione, ma allo stesso tempo viene vietata anche la soppressione di embrioni, Infatti nella legge n. 194 del 22 maggio 1978 è espressamente dichiarato che lo Stato “tutela la vita umana dal suo inizio”. La crio-conservazione è comunque consentita, per breve tempo, nel caso in cui gli embrioni prodotti, che non devono comunque

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essere superiori a tre, non possano essere immediatamente impiantati per problemi di salute della donna, imprevisti al momento della fecondazione.

Ci furono negli anni seguenti alcune modifiche alla legge: a tutela della donna si considerò incostituzionale impiantare tutti gli embrioni prodotti, si aprì così il problema della possibilità di crio-conservazione di embrioni in sovrannumero. Questi embrioni possono rimanere congelati fino a cinque anni, dopodiché vengono soppressi, violando il diritto alla vita sancito dalla Costituzione. Per risolvere questo problema fu deciso che gli embrioni in sovrannumero possono essere congelati solo se c’è un’intenzione della coppia di impiantarli poi entro i cinque anni. Fu anche pensata la congelazione dei gameti per unirli poi al momento dell’impianto, ma questa tecnica non presenta risultati soddisfacenti. Inoltre in Italia sono vietate le indagini prenatali sull’embrione per vedere se questo presenta difetti genetici: questa è una delle cause per cui molte coppie italiane si rivolgono a strutture estere.

Questi problemi di bioetica vengono poi affrontati in maniera differente da ogni credo religioso.

La Religione Cristiana afferma che Dio ha legato il concepimento a una coppia formata da un uomo e una donna, che si uniscono in un atto fisico ma soprattutto spirituale, al fine di procreare. Questa unione non deve essere spezzata. Inoltre, l’uomo non si deve sostituire a Dio nel processo riproduttivo, violando il principio della sacralità della vita. Tutto ciò, sommato al problema della conservazione degli embrioni in sovrannumero, potenziali esseri umani, porta al rifiuto da parte della Chiesa Cattolica di ogni tipo di fecondazione artificiale o donazioni, escludendo quella omologa in rari casi. È inoltre un modo per rifiutare la strumentalizzazione del figlio, che non deve essere prodotto ma generato. La Chiesa Protestante, riguardo questi temi, accetta tutte queste pratiche per coppie eterosessuali, rifiutando solamente, assieme a Chiesa Cattolica, Ortodossa, Ebraismo e Islam, l’affitto dell’utero a pagamento. Chiesa Ortodossa, Ebraismo e Islam rifiutano qualsiasi tecnica eterologa e donazione. Per quanto riguarda l’inseminazione post mortem, ovvero conseguente alla morte del padre, essa è rifiutata da Chiesa Cattolica e Protestante in quanto creerebbe un orfano.

Per quanto riguarda le religioni orientali Induismo, Confucianesimo e Buddhismo, la prima condanna la pratica, perché non ritiene lecito manipolare la natura e creare disordine nella creazione di Dio, mentre le altre due lasciano la decisione al singolo individuo.

L’ABORTO

Un altro problema molto discusso nella nostra società è quello dell’aborto. In passato l’atteggiamento nei confronti dell’aborto rivelava in realtà la presenza di una doppia morale: considerato immorale e condannato dalla legge, veniva però largamente praticato in modo clandestino. A partire dal anni ’60 del secolo scorso si cominciò a parlare apertamente della legittimità dell’aborto, fino a giungere, in molti

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paesi, alla sua legalizzazione. Ma le discussioni relative alla sua liceità sono ancora oggi più che mai vive. Discutere di aborto significa porre la questione fondamentale dell’inizio della vita umana. Il frutto del concepimento è un essere umano, ed è dinamicamente orientato a diventare una persona umana, caratterizzata da una coordinazione interna delle attività cellulari e molecolari. Questa coordinazione indica che l’embrione umano, anche nelle precocissime fasi, ovvero quando viene ancora considerato pre-embrione, non è un semplice aggregato di cellule ontologicamente distinte, ma un “individuo”, e come tale è caratterizzato anche da una continuità che, dalla fusione dei due gameti, origina una nuova vita, un nuovo ciclo vitale. Anche la stessa vita psichica inizia al momento del concepimento.Questo dimostrerebbe quanto la vita prenatale incida nei suoi diversi aspetti in maniera considerevole sul successivo sviluppo dell’essere umano. Molti popoli orientali sono talmente consapevoli di queste influenze da far partire l’età di un bambino non dal momento della nascita, ma da quello del concepimento. Il bambino prima di nascere è ormai considerato un essere umano dotato di capacità sensoriali e motorie, che gli permettono di mettersi in relazione direttamente con la madre e anche con il mondo esterno. Il feto può, quindi, gioire ma anche soffrire oltre che apprendere e ricordare. Le esaltanti scoperte sulle raffinate capacità del feto da una parte ci entusiasmano ma dall’altra ci pongono seri compiti di protezione e tutela della sua salute. Dunque il problema etico si pone non solo all’inizio della vita, ma anche intorno al concetto di persona: non è sufficiente sapere quando inizia la vita dell’embrione, ma piuttosto quando l’embrione diventa una persona. Va da sé che la scienza non può stabilire se e quando la vita o la persona possono essere definite tali; questo sarà il compito dell’etica, della psicologia e del diritto. Al di là o la al di qua di queste condizioni si porrà la possibilità o meno di praticare l’aborto, che sarà o meno interruzione della vita (o dell’esistenza di una persona).

Analizziamo ora il problema dal punto di vista degli scienziati, i quali concordano nell’individuare l’inizio dell’esistenza umana intorno al 14°-16° giorno quando, con la formazione dell’asse cranico, l’embrione diventa un’entità distinta. Tuttavia esistono diversi punti di vista scientifici:

1.non esiste un momento in cui la vita ha inizio, i gameti sono vivi come qualunque altro organismo.

2.con la fecondazione, quando i patrimoni genetici dei due genitori si fondono, dunque dopo circa 10 ore.

3.dopo 14 giorni; si definisce fase pre-embrionale il periodo precedente, perché fino a che non si impianta nell’utero, non si sa che cosa ne sarà dell’embrione, se per esempio darà vita a due o più gemelli.

4.dopo 27 settimane, col manifestarsi dell’attività cerebrale.

5.dopo 25 settimane, quando il feto può vivere separato dalla madre.

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6.al momento della nascita, quando subentra la capacità di riconoscere il sé dal non sé.

Nonostante le ricerche scientifiche per individuare il punto esatto da cui far partire la vita di una persona, non si è ancora giunti ad una verità universale, ma, anche se quest’ultima non dovesse esistere, è necessario portare avanti la discussione sulla definizione di persona, per decidere in modo più oggettivo possibile sulla legittimità dell’aborto. Attualmente è possibile distinguere due concezioni di persona:

1. la concezione funzionalistica, secondo la quale una persona esiste solo se manifesta qualità o funzioni, come il pensiero e l’autocoscienza, che possiamo chiamare razionalità o anima. In questo caso l’embrione, almeno fino a gravidanza avanzata, non è una persona. Essa è alla base della posizione, condivisa da molti laici, che considera il processo riproduttivo come un progetto, finalizzato alla creazione di un nuovo individuo. Solo quando si sviluppano le strutture cerebrali (4°-6° mese) e appaiono nuove funzioni come sensibilità e capacità di movimento, il feto diventa una persona, non prima.

2. la concezione sostanzialista (o personalismo ontologico), secondo la quale una persona è tale anche se non esercita queste funzioni. Lo è per “natura”, perché l’anima o la razionalità sono presenti nella sua sostanza anche quando non si manifestano. Dunque anche l’embrione è una persona.

A questo va aggiunta un’altra considerazione che potremmo definire di carattere “giuridico” (nel senso che riguarda i diritti di chi ancora non è nato): l’aborto viene praticato in base a una decisione presa sul feto da altri. Dunque la vita del feto dipende dalla decisione della volontà altrui e spesso questa scelta è derivata da ulteriori problemi, già presenti nel nucleo famigliare. Effettivamente vi sono alcune famiglie che scelgono di praticare l’aborto “forzatamente”, nel senso che ci possono essere situazioni già molto gravi, come difficoltà economiche, fondati timori per la propria salute e quella del bambino, situazioni di violenza, abbandono scolastico, ecc., le quali inducono a fare una scelta così drastica. Per questo motivo la condanna dell’aborto dovrebbe trasformarsi solamente in una decisione volontaria su base morale, rimuovendo quelle cause che, come quelle elencate precedentemente, possono influenzare la scelta dei genitori. Perciò all’aborto si potrebbero proporre vere e reali alternative, colmando i vuoti nel campo dell’istruzione, dell’educazione, della comprensione e dell’accoglienza; inoltre la medicina può fare moltissimo per correggere malformazioni e intervenire su malattie del nascituro. La società dovrebbe garantire tutela alla madre in difficoltà economiche e assistenza per i bambini appena nati con gravi handicap, ma purtroppo la carenza di sostegni sociali giustifica una scelta che si rivela un dramma anche per la donna stessa che vi ricorre.

Dal 22 maggio 1978, con le Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, in Italia è legale l’aborto. Prima della formulazione di queste leggi l’aborto veniva considerato un grave reato, per il quale

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erano previste sanzioni severe, esplicate nel Titolo X del Libro II del Codice Penale: l’aborto di una donna consenziente prevedeva infatti la reclusione da un minimo di due a un massimo di cinque anni per lei e per eventuali “complici”. Ci fu conseguentemente un graduale aumento di tolleranza, e nel 1975 fu accettato l’aborto in caso di grave pericolo per la vita della donna, fino ad arrivare a queste leggi. Esse, valide ancora oggi, affermano che l’aborto è possibile fino ai 90 giorni per motivi economici, sociali, familiari, di salute, ecc; dopo i tre mesi esso è consentito invece solamente quando la donna si trova a rischio di morte o quando è accertata una grave malformazione del feto. Queste leggi furono ideate comunque con la speranza di diminuire i casi di aborto, dando alle donne in difficoltà un aiuto e sostegno sociale, e soprattutto di fermare gli aborti clandestini. Le prese di posizione morale rispetto a questa legge sono state poi differenti. I biologi, per esempio, sanno che ciò che caratterizza l’individuo è il suo patrimonio genetico, ed esso si forma al momento dell’unione dei nuclei dei due gameti, con la fecondazione. Queste informazioni contenute nel Dna costituiscono infatti il programma di sviluppo dell’embrione, indicano quello che sarà il futuro individuo.

La Religione Cristiana vede l’aborto come la soppressione di una vita umana, e come un atto contro il volere di Dio. La Chiesa Cattolica condanna l’aborto volontario in ogni caso, quella Ortodossa lo accetta in caso di pericolo di vita per la madre, mentre la Chiesa Protestante lo ammette.

Per quanto riguarda l’Islam la posizione non è chiara, in quanto nel Corano non ci sono espliciti riferimenti sul tema; l’unica sicurezza che esso dà è che l’anima viene infusa durante il centoventesimo giorno, di conseguenza l’aborto è consentito entro i quattro mesi, e deve essere sempre motivato da situazione grave nella salute della donna o stupro. Esso viene comunque scoraggiato in quanto avere molti figli è obbligo morale.

Nell’ Ebraismo avere figli è una benedizione di Dio e compito dell’uomo, di conseguenza l’aborto è consentito solo in caso di pericolo per la madre, e recentemente è stato esteso anche in caso di malformazione del nascituro, violenza carnale e incesto. Esso è comunque consentito fino al quarantesimo giorno, quando il feto viene considerato una persona.

Il Confucianesimo condanna l’aborto come crimine nei confronti dello spirito del nascituro; il Buddhismo lo accetta in caso di pericolo per la madre o il bambino, ma anche in tal caso lo sconsiglia, promettendo una reincarnazione felice per la madre che si sacrifica; l’Induismo, che considera il feto dotato di coscienza, ammette solo l’aborto terapeutico

Braidotti

Fattor

Mori

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LA PENA DI MORTE

A partire dal periodo storico in cui gli uomini iniziarono ad costruire la loro vita aspirando alla formazione di una società giusta e organizzata, la pena venne utilizzata come metodo per punire chiunque si fosse opposto all’obiettivo di creare tale società.

Il concetto di pena, dunque, nasce proprio con l'istituzione della società. Essa si configura come giusta punizione per chi infrange le regole dettate dall'autorità costituita e si presenta innanzitutto come "legge del taglione", secondo cui è giusto infliggere al reo lo stesso male da questi provocato.

Nel corso dei secoli l’argomento venne più volte preso in considerazione e le riflessioni in merito portarono, almeno per alcuni Stati, a rivalutare le posizioni precedentemente favorevoli al riguardo.

Prima di passare ad un’analisi storica dell’evoluzione del concetto di pena di morte, è opportuno considerarne la posizione attuale di vari Stati a partire dall’ evento del 2007.

Quell’anno viene ricordato come un anno importante nel percorso abolizionista. Un anno cominciato in modo brutale con ancora negli occhi le immagini trasmesse in tutto il mondo dell’esecuzione di Saddam Hussein, avvenuta sul finire del 2006, e terminato il 18 dicembre con il voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Successivamente a questo avvenimento, la maggioranza dei paesi del mondo ha abolito la pena di morte: 104 sono stati i favorevoli alla risoluzione, 29 gli astenuti e 54 i contrari. Dati ancora più recenti dimostrano che la metà dei paesi del mondo ha abolito la pena di morte di diritto o de facto. Tra questi 72 paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, 13 paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati tranne per quelli eccezionali e per quelli commessi in tempo di guerra 21 paesi si possono considerare abolizionisti de facto: mantengono, quindi, la pena di morte, ma non eseguono condanne a morte da più di dieci anni.

In totale 106 paesi hanno abolito la pena di morte nella legge o nella pratica mentre 89 paesi mantengono la pena di morte, ma il numero dei paesi che eseguono condanne a morte è sempre più esiguo ogni anno.

Questo è stato motivo di soddisfazione per Amnesty International e per tutti coloro che si sono impegnati al fine di ottenere questo risultato. Ciò ha determinato un importante riconoscimento della tendenza mondiale verso l’abolizione, o comunque, verso la messa in discussione della sua applicazione.

Il dato fornito fa notare però che persistono diversi paesi contrari alla pena di morte o non del tutto favorevoli; in molti di questi infatti è prevista la pena capitale per reati considerati gravi, tra cui l’omicidio, mentre altri ritengono possibile la pena di morte anche per l’esecuzione di altri crimini violenti tra cui rapina,stupro o reati legati al traffico di droga. .

Dal punto di vista storico la pena di morte, inizialmente, era presente in tutti gli ordinamenti antichi. La pena capitale era prevista nella polis dell'antica Grecia, ad Atene nacque una concezione della pena non meramente vendicativa, bensì con finalità educativa, non certo verso il reo ma verso l'insieme della società. Nell'antica

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Roma il diritto penale pubblico prevedeva la pena di morte per l'alto tradimento e per gli atti sacrileghi. Accanto a questo, si trovava un diritto penale privato che lasciava spazio a forme di vendetta privata per certi tipi di delitti contro singoli individui. Durante il principato e l'impero, il ricorso alla pena di morte aumentò, soprattutto in funzione persecutoria contro il diffondersi della religione cristiana. Il problema della liceità della pena di morte, quindi, non è mai stato tale fino al secolo XVIII; costituisce un oggetto di discussione solo da un lasso di tempo relativamente breve. La pena di morte era considerata un mezzo per infliggere al criminale il massimo delle sofferenze, trasformandosi spesso in un supplizio per il condannato. I sostenitori affermavano che tale condanna doveva diventare esemplare e assolvere a una funzione preventiva in modo tale che, chiunque fosse intenzionato a compiere azioni illegali, doveva essere consapevole della punizione che lo aspettava.

La discussione sull’effettiva validità di praticare la pena di morte, invece, iniziò a partire dal 1764 quando Cesare Beccaria, influenzato dalle idee umanitarie dell’Illuminismo francese, pubblicò l’opuscolo “Dei delitti e delle pene” nel quale sosteneva l’idea della pena come un correttivo. La società, dunque, attraverso la condanna e le pene sancite, doveva cercare di recuperare il colpevole in modo tale che riflettesse sul danno sociale arrecato e potesse tornare a reinserirsi nella società come elemento non più negativo, ma utile. Dopo il periodo napoleonico il movimento abolizionista crebbe in tutta Europa e molti stati abolirono la pena di morte.

Sul piano religioso la posizione oggi ampiamente sostenuta, rispetto a questo argomento, invece può essere rappresentata dagli episodi contenuti nelle Sacre Scritture che evidenziano quanto la cultura cristiana sia sempre stata contraria alla pena capitale. Nella Bibbia Caino uccise il fratello Abele e Dio in questa situazione mise l’omicida di fronte alle sue responsabilità, ma vietò a chiunque di uccidere lo stesso Caino. E’ interessante tenere in considerazione, rispetto a questo avvenimento, il commento di Giovanni Paolo II : “ Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa giustizia di Dio” (da Evangelium Vitae,n.9).

Nel Vangelo si evidenzia l’episodio di una donna lapidata per adulterio, crudeltà a cui Gesù cercò di mettere fine affermando che “solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra”. Basandosi su queste riflessioni, papa Giovanni Paolo II si pose, in uno dei suoi frequenti appelli, contro stati che ancora al giorno d’oggi praticano la pena di morte con l’obiettivo di estirpare da qualunque società moderna l’idea di eliminare i problemi attraverso questi mezzi. Egli affermò infatti:”La società moderna possiede gli strumenti per proteggersi,senza negare ai criminali la possibilità di ravvedersi…la pena di morte e crudele e inutile”. Anche grazie alle predicazioni di papa Giovanni Paolo II, dunque, la riflessione attuale sulla pena di morte muove dall’idea che quest’ultima non sia un adeguato metodo di difesa della società contro la delinquenza..

Dal punto di vista etico il dibattito si articola sulla questione se la pena di morte sia giusta o utile. I sostenitori della pena capitale chiaramente affermano che questa è giusta poiché utile mentre chi ne chiede l’abolizione afferma, sostenuta dall’ideologia cristiana, che questa sarebbe ingiusta anche se fosse utile perché viola il diritto alla

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vita e il diritto a non essere torturati. L’idea che la pena di morte non serva a molto è in parte dimostrabile da studi e ricerche fatti, ad esempio negli Stati Uniti, dove, in alcuni stati in cui è prevista la pena di morte, il numero degli omicidi è più alto che negli stati in cui questa è stata abolita.

Negli Usa la pena capitale è prevista in 37 Stati su 50 e dal governo federale. A livello mondiale, gli Stati Uniti sono secondi solo alla Cina nel numero di condanne a morte inflitte ogni anno, e fino allo scorso marzo erano uno dei pochi Paesi che permettevano la pena capitale per reati commessi da minorenni: una pratica che la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale. I criteri di applicabilità della pena e i metodi di esecuzione sono decisi Stato per Stato. In linea di massima, tutti gli Stati che prevedono la pena di morte contano l’omicidio tra i reati punibili in questo modo, ma ci aggiungono varie aggravanti.

Alcuni Stati in teoria puniscono con la pena di morte reati come lo stupro di minorenni sotto i 12 anni, la rapina aggravata, il dirottamento di aerei. A livello federale sono teoricamente punibili con la pena capitale anche il tradimento della patria e lo spionaggio.

Dal momento della condanna all’effettiva esecuzione possono passare anche decenni: mentre il detenuto è rinchiuso nel death row ovvero “braccio della morte”, il suo processo può venire riaperto, a volte anche rovesciato completamente per la comparsa di nuove prove. Per quanto riguarda i metodi di esecuzione, è prassi ormai utilizzare l’iniezione letale, prevista in 37 Stati su 38. Il secondo metodo più utilizzato è la sedia elettrica, non più molto in uso rispetto agli anni passati. Teoricamente, alcuni Stati prevedono l’impiccagione, la fucilazione e l’uccisione in una camera a gas, ma dal 1976 a oggi l’iniezione letale è stata usata nell’80% dei casi e la sedia elettrica per un altro 18%.  L’ultima esecuzione mediante sedia elettrica risale al maggio 2004, l’ultima volta che fu usata la camera a gas fu nel 1999 e gli ultimi detenuti giustiziati mediante l’impiccagione e la fucilazione risalgono al gennaio 1996.Incrociando i dati delle condanne a morte e delle esecuzioni con quelli degli omicidi negli Usa, si scopre che la pena di morte viene inflitta in meno casi di quelli che si pensa: negli ultimi 30 anni la media è stata di un’esecuzione ogni 700 omicidi commessi.

Benchè il numero dei Paesi che prevedono la pena di morte sia dunque ancora molto alto, come constatato precedentemente, si può notare che la tendenza ad abolirla è ormai consolidata. Nel 2005 le Nazioni Unite dichiarano che l’abolizione della pena di morte è essenziale anche perché, in paesi come proprio gli Stati Uniti, essa è spesso praticata con frequenza anche come strumento di discriminazione; si corre infatti il rischio di mettere a morte un innocente che non ha le possibilità economiche per una difesa adeguata. A volte risulta sorprendente, infatti, come un popolo all’ avanguardia da molti punti di vista, possa concepire che centinaia di persone ogni anno vengano giustiziate con modalità spesso efferate .

Certo è, da tutto ciò traspare che, probabilmente, eliminando il singolo , non si elimina il problema o il male causato.

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Cercare di porvi rimedio tendendo ad un’ ideale di giustizia è dimostrazione d’intelligenza all’interno di una società e può aiutare a sperare in un futuro migliore. Lo Stato, che agisce razionalmente, ha un ruolo fondamentale e in quanto garante della giustizia, non deve mettersi sullo stesso piano di chi si macchia di crimini orribili.

Riflettendo con attenzione, le stesse leggi, nate con scopo di fungere da moderatrici della condotta degli uomini e espressioni della pubblica volontà , commetterebbero un crimine esse stesse se ordinerebbero un pubblico assassinio. Considerando che la personalità di ogni individuo è profondamente segnata dall'ambiente circostante, dagli eventi che si trova costretto ad affrontare e dagli eventuali disturbi mentali che lo affliggono,come può quindi la società, attraverso le proprie leggi, ritenere la sua morte indispensabile pur essendo, in un certo senso, corresponsabile di ciò che egli ha compiuto?

Beccaria ha affermato che la pena di morte non è altro che "la guerra della nazione contro un cittadino, perchè giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere" (Dei delitti e delle pene, paragrafo sulla Pena di morte).

Bisogna affrontare il problema in altro modo: cercare di intervenire alla radice della questione, ponendo sempre l’attenzione sul valore del recupero della dignità della persona come necessità prioritaria. All’interno di questa logica non serve a nulla colpire i singoli uomini perchè essi sono soltanto la dimostrazione di un male ormai presente da troppo tempo nella nostra società.

Purtroppo è comodo per alcuni sistemi politici agire a favore della pena di morte, infatti senza troppa fatica si riesce a dare, per esempio, anche attraverso i mass-media un'immagine , seppur falsata, di funzionalità dello Stato dove la punizione può avere un ruolo esemplare con l’illusione di distogliere da gravi reati.

L'esperienza di molti dimostra che "l'ultimo supplizio non ha mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la società"; infatti i criminali, prodotti della nostra società, vissuti probabilmente in condizioni precarie, non hanno assolutamente paura della morte o addirittura, distorti dalla passione o dal fanatismo o dall'ideologia, non vi pensano.

A conclusione di queste riflessioni forse non è altro che un'illusione la convinzione di alcuni di fare giustizia mantenendo ancora in vigore questa pena?

Pensiamoci come individui, come protagonisti di una collettività, come cittadini di un mondo che aspira sempre più ad essere globalizzato anche all’ insegna di valori comuni importanti nel rispetto della dignità umana.

FrausinFurlan

RoncolatoStarcevic

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L’UOMO E GLI ANIMALI

Il rapporto tra uomini e animali è sempre stato storicamente importante. Da quando gli antenati più remoti dell’Homo sapiens sapiens si sono eretti e hanno iniziato a camminare su due gambe, utilizzare bastoni appuntiti per cacciare e conciare pelli di animali per coprirsi dal freddo, ma soprattutto da quando le tribù nomadi sono diventate stazionarie ed hanno iniziato a coltivare vegetali ed allevare bestiame, l’uomo si è considerato superiore a qualsiasi altro abitante di questo pianeta, e pertanto libero di usufruirne secondo il suo bisogno o piacere. John Aspinall, fondatore di uno zoo nel sud dell’Inghilterra, disse che “la santità della vita umana è la sofisticheria più pericolosa mai propagata dalla filosofia, ed è anche fin troppo radicata, perché sottintende la non-santità di tutte le specie che non sono umane”. Il messaggio è chiaro, e oggigiorno fin troppo comprovato da fatti che ci circondano ogni giorno: animali su cui si prova l’efficacia delle creme di bellezza, animali costretti a condizioni impensabili in allevamenti intensivi, zoo e circhi, per non parlare di quelli tenuti in gabbia per esperimenti e ricerche scientifiche dei più svariati generi. Ora, il discorso si fa molto delicato nel momento in cui si entra in un campo tuttora molto dibattuto e sul quale non vi è una visione comunemente condivisa, per esempio riguardo quanti e quali sono i diritti degli animali, e quali invece i limiti entro i quali l’uomo può agire su di essi, dati gli strumenti di cui dispone. E, nel momento in cui l’uomo riconosce la sua superiorità, fondamentalmente basata sulle sue capacità intellettive, riconosce anche la responsabilità che egli ha, in quanto “superiore”, nei confronti non solo della sua specie, quindi l’umanità, ma anche dei vari ambienti in cui essa si trova a vivere, oltre che delle altre specie con le quali deve interagire in quanto parte del complesso sistema naturale.Organizzazioni come il WWF o PETA, sebbene molto conosciute e rispettabili nelle loro iniziative, sono pur sempre insufficienti a risolvere problemi così massicci e storicamente consolidati (tra l’altro fino a poco tempo fa nemmeno considerati quali problemi, considerazione già di per sé controversa), quali quelli presenti nel rapporto tra uomo e animali. E’ pur sempre vero, però, che vi è sicuramente una maggiore attenzione per il mondo animale oggigiorno, il che permette di nutrire qualche debole speranza per un futuro sviluppo nel rispetto delle altre specie.

Per quanto riguarda i circhi, per esempio, la crescente disaffezione del pubblico, prevalentemente costituito dai bambini, e l’offerta di intrattenimenti alternativi, denota una maggiore sensibilità animalista; negli ultimi anni, infatti, l’uso degli animali negli spettacoli circensi (leoni, tigri, elefanti, cavalli ma anche dromedari, zebre, canguri, rettili, pappagalli, gorilla scimpanzé, foche e addirittura squali e pinguini) è posto sotto accusa poiché ritenuta una manifestazione di violenza. Gli animali dei circhi, infatti, non hanno nulla in comune con i loro simili che vivono in natura: completamente snaturalizzati, privati nel modo più violento delle loro esigenze biologiche ed etologiche, ridotti ad automi e ridicolizzati per il nostro

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divertimento, conoscono solo la tristezza e il terrore. Le modalità di detenzione nei circhi, inoltre, sono drastiche in quanto spesso le condizioni igieniche sono scarse o nulle, le gabbie sono troppo piccole e costringono gli animali a compiere gli stessi identici movimenti all’interno di spazi ridottissimi. Anche i metodi di addestramento comportano frequenti percosse e l’assenza di acqua e cibo, causando inevitabilmente la morte di questi animali.L’Italia, con i suoi cento circhi, rappresenta uno dei paesi europei con la più alta concentrazione di spettacoli circensi. Eppure si tratta di uno spettacolo in costante declino: gli incassi diminuiscono (ricordiamo che il circo con animali è sovvenzionato col denaro pubblico e se non fosse per le sovvenzioni dello Stato molti circhi avrebbero già chiuso i battenti) e sono sempre di più i paesi nel mondo che hanno vietato (anche parzialmente) l’utilizzo degli animali nei circhi. Dall’altra parte, invece, l’Ente Nazionale Circhi continua a sostenere la bontà della presenza degli animali negli spettacoli: l’Ente, in sostanza, asserisce che dalla seconda metà del ‘900 in poi nei circhi di tutto il mondo è cambiato radicalmente il rapporto tra animali nati in cattività e addestratori. L’addestramento circense moderno sarebbe basato su una forma di rispetto reciproco e di collaborazione tra uomo e animale. Inoltre l’Ente Circhi ribatte che anche nell’addestramento moderno gli esercizi compiuti dagli animali si basano esclusivamente sui movimenti e posizioni conformi alla loro natura e al loro istinto, quindi assolutamente privi di forzature. Tutto ciò non viene assolutamente confermato da una delle più famose circensi italiane, Liana Orfei, che afferma «... poi ricomincia la storia con la carne, finché la belva si rende conto che se va su riceve dieci-dodici pezzettini di carne, se va giù la picchiano, e allora va su».Comunque in Italia, il Consiglio Regionale del Veneto ha di recente istituito una commissione, di cui fa parte anche l’OIPA, con l’obbiettivo di proporre un progetto di legge sul: “divieto di impiego di animali nei circhi e negli spettacoli viaggianti e per la promozione dello spettacolo circense”. Il chiaro progetto di legge regionale che si andrebbe delineando, prevede la dismissione degli animali dei circhi unitamente a sostegni economici e interventi di comunicazione a favore dei nuovi spettacoli senza animali (anche alla luce dell’ art. 727 del Codice Penale italiano che punisce chi adopera gli animali in giuochi, spettacoli o lavori insostenibili per la loro natura, valutata secondo le loro caratteristiche anche etologiche).Se si vogliono far conoscere veramente gli animali ai bambini, è meglio fargli vedere dei documentari, leggere dei libri o navigare su internet. Un’altra soluzione è quella di prenotare una visita guidata presso un centro per la tutela e il recupero di fauna esotica e selvatica, come il Centro di tutela fauna esotica e selvatica di Monte Adone, a Sasso Marconi, dove spesso finiscono gli animali sequestrati dal Corpo Forestale dello Stato per maltrattamento negli zoo e nei circhi. Questa è la direzione da seguire, l'unica civile.

Un recente rapporto stilato dalla Born Free Foundation nel 2011, invece, fa luce sulle condizioni degli animali negli zoo europei. Esso riguarda il rispetto della direttiva europea 1999/22 relativa al benessere animale negli zoo, ed è stato il risultato

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dell’esame di 25 zoo all’interno degli Stati membri. La situazione che ne è emersa è di un generale non rispetto delle direttive per mancanza di fondi ed attrezzature, fatto che ha mobilitato la Commissione Europea a intraprendere dei provvedimenti per cambiare lo stato delle cose.Si sono trovati così animali tenuti in condizioni igieniche inadeguate, animali pericolosi non protetti a sufficienza dal contatto con il pubblico, delfini e foche costrette ad esibirsi in più spettacoli al giorno. Molti zoo, peraltro, non partecipano ad alcun programma di conservazione e ricerca; si può trovare, invece, che nei recinti ci sia materiale che può causare tagli e ferite, che gli animali abbiano molte opportunità di fuga, che non vengano curati a sufficienza. L’acqua degli abbeveratoi, poi, dovrebbe essere mantenuta sempre fresca e pulita, ma in oltre il 50% degli zoo esaminati è risultata stagnante. E ancora attività educative inesistenti, recinti inadeguati, rischio di malattie per i visitatori dal contatto con gli animali, controlli scarsi sull’applicazione delle direttive UE, mancanza di licenze. Gli zoo, più in generale, dai più miseri a quelli che vantano ampi spazi a disposizione degli animali, sono pur sempre gabbie dorate, ed a prescindere dagli intenti educativi e dalla volontà di finanziare programmi di conservazione con i proventi, restano pur sempre discutibili per più di una ragione. Innanzitutto perché gli animali in cattività non si comporteranno allo stesso modo che allo stato selvatico: le tigri in cattività, per esempio, sviluppano ansia, mancando i grandi spazi in cui possono correre, come sarebbe per loro naturale fare. Se poi si pensa che animali esotici vengono catturati e spostati da una parte all’altra del globo per diventare le nuove star degli zoo e dei bioparchi, il quadro non è piuttosto felice, soprattutto in quei complessi dove le norme ufficialmente riconosciute come obbligatorie non vengono rispettate.

Altra grande denuncia mossa dagli animalisti riguarda gli allevamenti intensivi.Con allevamento intensivo o allevamento industriale si intende una forma di allevamento che utilizza tecniche industriali e scientifiche per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo e utilizzando il minimo spazio, tipicamente con l'uso di appositi macchinari e farmaci veterinari. La pratica dell'allevamento intensivo è estremamente diffusa in tutti i paesi sviluppati; la gran parte della carne, dei prodotti caseari e delle uova che si acquistano nei supermercati viene prodotta in questo modo. L'allevamento intensivo è una pratica che si è diffusa nel XX secolo (in Italia soprattutto a partire dal secondo dopoguerra) con lo scopo di soddisfare la crescente richiesta di prodotti di origine animale (in particolare carne, uova e latticini) abbattendone al contempo i costi, in modo da rendere questa categoria di prodotti adatta al consumo di massa. Se la riduzione dei costi unitari e la possibilità di produrre su scala industriale erano inizialmente gli unici fattori a influire sulle modalità e le tecniche impiegate nell'allevamento intensivo, in seguito queste sono state sottoposte a un continuo processo di revisione in funzione di considerazioni come la tutela degli animali, l'igiene e la qualità dei prodotti, l'impatto ambientale e via dicendo. Di conseguenza, le caratteristiche dell'allevamento intensivo sono cambiate nell'arco del ventesimo secolo, e possono presentare

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differenze anche notevoli fra diversi paesi. Importanti norme al riguardo sono state emanate dall' UE a partire dagli anni ‘90.La pratica dell'allevamento intensivo è oggetto di numerose critiche di ordine etico e salutistico, che provengono principalmente dal mondo animalista. Molti animalisti, infatti, sostengono che negli allevamenti intensivi le condizioni di vita degli animali sono sensibilmente peggiori di quelle degli animali allevati in modo tradizionale. I movimenti animalisti hanno attaccato diverse pratiche in uso negli allevamenti, alcune delle quali sono state in seguito rese illegali in alcuni paesi. Per esempio, sono stati denunciati casi in cui gli animali subivano regolarmente amputazioni, venivano cresciuti in ambienti talmente ristretti da causare atrofia muscolare, o erano tenuti al buio per tutta la vita.A prescindere dall'eventuale diffondersi di malattie, molti critici sostengono che la qualità delle carni e degli altri prodotti realizzati tramite allevamento intensivo è di qualità inferiore rispetto a quello ottenuto con tecniche tradizionali, per vari motivi legati alla differente alimentazione e al diverso stile di vita degli animali stessi.L'Unione Europea è intervenuta più volte legiferando in materia di allevamento intensivo. Ciò riguarda soprattutto l'uso di farmaci, che è soggetto a una precisa regolamentazione (per esempio, gli antibiotici possono essere impiegati solo in caso di malattia dell'animale, e la somministrazione di ormoni è vietata); le norme relative al benessere animale, che hanno lo scopo di impedire forme di trattamento degli animali giudicate particolarmente crudeli, come certi tipi di amputazioni o la costrizione in ambienti eccessivamente ristretti; infine, le condizioni igieniche degli stabilimenti e l'alimentazione degli animali, soggetti a determinate norme e restrizioni.

Infine, tra le diverse responsabilità che l’uomo si deve assumere riguardo la situazione odierna delle varie specie animali è l’estinzione. Ovviamente, le varie specie animali si estinguono naturalmente: cambiamenti climatici o semplice evoluzione della specie, oltre che moltissimi altri fattori possono portare a una lenta ma progressiva estinzione, oppure, per cambiamenti repentini o di proporzioni estese, ad un’estinzione addirittura improvvisa (si ricordi il caso dei dinosauri).Tantissime specie sono apparse per poi scomparire attraverso cinque momenti di estinzione di massa (l'ultimo 65 milioni di anni fa) che il pianeta nel corso della sua vita ha dovuto affrontare, durante i quali è scomparso ben il 95% delle specie conosciute. Ma, com'è vero che molte specie animali si sono estinte per cause naturali, è anche vero che, soprattutto negli ultimi due secoli, l’uomo ha avuto un ruolo non secondario nel determinare l’estinzione o, nel caso migliore, la massiccia decimazione di moltissime specie animali, oggi tutt’ora a rischio. Fortunatamente le organizzazioni sopra citate (WWF e PETA, ma anche le più svariate organizzazioni non-profit a livello locale) si occupano anche, tra le varie iniziative, della sensibilizzazione della comunità internazionale e del singolo cittadino, in modo da far comprendere il grave danno che l’azione dell’uomo sull’ambiente, ma soprattutto la sua convinzione di “superiorità”, hanno provocato non solo sulle singole specie, ma su interi fragili ed isolati ecosistemi (il caso più

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clamoroso riguarda le remote isole dell’Oceania). Ecco che, in tale contesto, diventano importantissime le leggi tese alla salvaguardia di specie animali in pericolo, soprattutto in quelle regioni del mondo in cui per cultura o tradizione, o semplicemente per ragioni economiche e commerciali, le popolazioni locali continuano a decimare le specie a rischio, provocando danni gravissimi ed a volte irreparabili all’ecosistema della regione in questione. Il principale punto di riferimento per questo è la IUCN Red List of Threatened Species, stilata dalla britannica IUCN Species Programme, è la lista di specie a rischio, secondo determinati criteri, e di specie estinte, di recente o in tempi più remoti, fornendo un quadro molto dettagliato e scientifico della situazione odierna della biodiversità a livello mondiale. E’ il punto di partenza, sotto molti punti di vista, per la salvaguardia delle specie tutt’ora a rischio, soprattutto in quei casi in cui questo stesso rischio è provocato dall’azione distruttiva dell’uomo, e continua ad esserlo per il diffuso bracconaggio, a sua volta provocato da motivi economici.

Sebbene sia molto difficile pensare di cambiare una mentalità radicata da secoli nell’uomo, cioè che le sue caratteristiche di essere pensante lo elevino al di sopra del resto delle specie naturali, è comunque molto importante almeno tentare di vedere il mondo sotto un’ottica diversa, dove l’uomo riesca a realizzare quanto egli in realtà sia uguale al resto delle specie del pianeta. E’ vero che le sue capacità e la sua curiosità ed inventiva lo hanno spinto a trovare modi di soddisfare i propri bisogni ben più complessi di quelli riscontrabili in natura nelle altre specie animali, ma è altrettanto vero che, nonostante ciò, l’uomo continua ad essere solo un elemento dell’ambiente naturale ed assolutamente non il perno centrale attorno a cui tutto ruota. E’ pertanto indispensabile, soprattutto vista la situazione odierna ed i problemi che si manifestano - cambiamenti climatici, inquinamento, disequilibri ambientali - prendere una decisa ed attiva posizione all’interno del progetto di salvaguardia della natura e delle specie animali che più hanno risentito dell’invasiva e addirittura violenta presenza umana.

Anna AndreevaGiulia Ianniello

Enrico GerinThomas PironaEmsada Mehic

MANIPOLAZIONE GENETICA

Il progressivo sviluppo della ricerca nel campo della biologia molecolare ha fornito un notevole contributo per la manipolazione genetica sia di piante, sia di animali, sia in campo umano, ponendo le basi per la nascita delle biotecnologie, grazie ai quali è possibile isolare, modificare o trasferire da un organismo all'altro determinate unità di

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informazione chiamate geni. Le potenzialità delle biotecnologie sono numerose: è previsto che saranno applicate in molti campi, dalla medicina alla produzione alimentare. L'applicazione delle biotecnologie alla sfera umana è argomento di forte attualità ed è fonte di numerose polemiche, dibattiti e riflessioni di carattere sia tecnico-scientifico sia filosofico, morale e religioso.

In passato il concetto di manipolazione genetica riferito all'uomo ha destato quasi sempre sospetto, rinviando al significato negativo di indebita manomissione di qualche livello della sfera personale. Ancora oggi è un termine fondamentalmente ambiguo, come tutte le denominazioni riguardanti l'uso di strumenti la cui valutazione morale dipende dall’intenzione e dagli effetti. Per questi motivi, lo sviluppo della biologia molecolare e delle biotecnologie è accompagnato, simultaneamente, da una grande fiducia e da preoccupanti timori. Se da una parte vengono coltivate grandi speranze in rapporto alla salute, con particolare riferimento alle possibilità terapeutiche di superare gravi patologie ereditarie (distrofia muscolare, fibrosi cistica, emofilia, diabete di tipo I, ecc), d'altra parte non si possono sottovalutare i timori di un uso distorto ed inaccettabile delle conquiste scientifiche.

La problematica sollevata dalle applicazioni della genetica in ambito umano ha contribuito notevolmente alla creazione della cosiddetta bioetica, una disciplina che si occupa della correttezza etica di qualsiasi attività che interferisca con il valore della vita, dell'integrità psicofisica, della salute e della qualità di vita della persona. Il problema non è quello di opporsi a priori al progresso scientifico, opposizione che del resto appare in alcuni casi impossibile, oltre che ingiustificabile, ma quello di capire quale siano i limiti di un comportamento eticamente corretto circa l'uso delle manipolazioni genetiche in ambito umano. Ogni intervento nel campo delle biotecnologie applicate all'uomo deve essere fatto non soltanto in modo da non nuocere alle future generazioni, ma anche in modo da rispettare la dignità dell'uomo stesso.

Volendo considerare la persona umana, dal punto di vista filosofico-religioso, come una totalità corpo-spirito, allora anche la dimensione corporea è da considerarsi una parte costitutiva e non accessoria, della dignità della persona ed in quanto tale non può essere trattata come oggetto o strumento per fini estranei alla sfera personale.

Anche le manipolazioni genetiche devono quindi essere guidate, giustificate o vietate a seconda delle conseguenze che ne derivano per il benessere globale della persona. Con questo non si vuole affermare che il corpo umano sia intangibile o che sia da sacralizzare: si vuole semplicemente rilevare che la dimensione fisica umana ha una propria rilevanza etica, della quale occorrerebbe tener conto quando si dispone di essa.

Se si accetta la concezione della persona come unità e totalità corporeo-spirituale, allora gli interventi manipolativi sull'uomo, in qualunque fase del suo sviluppo, dovrebbero muoversi nella linea della realizzazione di valori personali. Si possono dunque considerare leciti tutti quegli interventi che rispettano e promuovono la persona nella sua integralità e salvaguardano la sua individualità.

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Tali manipolazioni si caratterizzano e si differenziano per le specifiche finalità cui esse mirano e non possono quindi essere dichiarate indiscriminatamente illecite per principio, per il solo fatto che tutte modificano ad un livello molto profondo la struttura biologica umana. La manipolazione genetica terapeutica mira ad eliminare e a prevenire le malattie causate da un disordine genetico. L'intervento manipolativo è effettuato sostituendo il gene o il gruppo di geni che danno origine alla manifestazione patologica. La terapia genica offre anche altre nuove prospettive per potenziare le difese dell'organismo contro cancro e altri tumori maligni, AIDS, malattie autoimmuni ed infettive.

In linea di massima, la manipolazione genetica terapeutica non dovrebbe suscitare problemi di ordine etico, proprio perché strettamente curativa, a patto che sia sostenuta da una fondata speranza di successo e che ci sia una ragionevole proporzione tra i benefici che si spera di conseguire e i danni eventuali che l'intervento potrebbe provocare. Un'altra forma di manipolazione genetica è quella denominata alterativa. In questo caso si evidenziano difficoltà ed ostacoli insormontabili dal punto di vista etico, perché il mutamento indotto nel genoma mira ad alterare l'identità specifica della persona umana, esprimendo così un atteggiamento immorale di arbitrario dominio dell'uomo sull'uomo.

Simili interventi diventano però eticamente inaccettabili soprattutto perché contrari al diritto fondamentale di ogni essere umano alla propria identità, cioè ad essere se stesso, ma anche perché le immotivate modificazioni genetiche sarebbero trasmesse alle future generazioni, che resterebbero condizionate per scelta arbitraria di altri uomini.Questo tipo di manipolazioni porterebbe l'uomo a trovarsi nella riduttiva condizione di oggetto progettato e prodotto da altri uomini per obiettivi che nulla avrebbero a che fare con la promozione individuale o sociale della persona. Si può ipotizzare anche una terza forma di manipolazione genetica, chiamata migliorativa (o potenziativa). Questa mira a migliorare le condizioni biologiche dell'essere umano, eliminando i difetti genetici accumulatisi nel corso del tempo e potenziando il patrimonio di cui la persona è attualmente dotata (Si tratta dell'eugenetica: disciplina che si occuperebbe del miglioramento della razza umana attraverso la manipolazione dei suoi geni o attraverso l'incrocio selettivo delle razze migliori. Tale disciplina è oggi avversata in quanto il suo intento implicherebbe risvolti razzistici).

Si può concludere dicendo che, allo stato delle attuali conoscenze, qualunque manipolazione genetica che non si configuri come atto terapeutico, curativo o preventivo solleva perplessità per ora molto difficili da superare, perché ancora non si può ben valutare la gravità delle rischiose conseguenze, incluse quelle riguardanti le future generazioni. Chi lavora nel campo della genetica non dovrebbe lasciarsi andare alla tendenza di ridurre l'uomo ad un semplice insieme di meccanismi biochimici, quasi fosse un robot programmato per svolgere determinati compiti. L'uomo non è e non deve essere considerato una macchina il cui funzionamento è precostituito dai geni.

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È indispensabile che gli scienziati continuino a procedere con prudenza e a rispettare regole severe di sicurezza, interrogandosi di fronte ad ogni innovazione che si presenti. Avendo prima sollevato il problema riguardante la manipolazione genetica sotto un punto di vista etico-religioso, vogliamo ora presentare le posizioni assunte dalle diverse religioni riguardo l'argomento:

a. Opposizione fermissima dei cattolici, nella maggior parte dei casi, alle sperimentazioni genetiche. La confessione protestante ha una posizione di apertura verso i cibi transgenici, l'importante è che sia garantita la sicurezza per l'uomo.

b. Le posizioni dei rabbini a riguardo sono ancora molto varie e discordanti. Comanda la "Torah": «Dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». In base a questi versetti c'è chi ritiene che le manipolazioni genetiche siano lecite in assoluto. Altri che lo siano solo in casi ben specifici. Altri ancora che non lo siano per nulla. Non esiste quindi un magistero definito a riguardo.

c. Negli Stati islamici le biotecnologie sono tendenzialmente lecite. Non lo sono più quando i loro risultati vengono usati per scopi di vilipendio della dignita umana e quando portano a occasioni che potrebbero provocare danni o perdite a se stessi e agli altri. Manca ancora, negli Stati islamici, una legislazione ben definita.

d. L'induismo non ha espresso un giudizio unanime nei confronti della donazione e delle biotecnologie. In linea generale sembra però dimostrarsi favorevole, purché ogni ricerca sia sostenuta da principi etici morali e spirituali, fondamentali per uno sviluppo del benessere dell'uomo.

e. Il Buddismo non fornisce nessuna indicazione univoca riguardo alle tecnologie genetiche; la legge buddista dell'"eterno mutare" viene spesso interpretata a favore delle sperimentazioni nel campo dell'ingegneria genetica, per il fatto che non esistono sistemi di valutazione fissi nel tempo.

Vogliamo concludere dicendo che gli interventi manipolativi volti ad un miglioramento del genoma umano e alla guarigione da certe malattie sembrerebbero ineccepibili. Nonostante questo, però, c'è un alto livello di ipoteticità ed astrattezza perché non sono note a livello sia biologico sia sociale le possibili conseguenze per la persona direttamente interessata e per le future generazioni. Affrontando questo tema vengono posti interrogativi di non facile risposta: Quali aspetti del soggetto umano occorre conseguentemente potenziare? Un’operazione del genere non comporterebbe seri rischi di discriminazioni sociali, considerato che il miglioramento di alcuni potrebbe comportare svantaggi per altri, con conseguenti rischiosi squilibri sociali? Speriamo che a queste domande prima o poi si possa rispondere.

Pasini

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