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Commento e letture per i lettori del mese di febbraio · poi ce n’è un secondo, di cui il primo...

Date post: 25-Feb-2019
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2018 CLAUDIO Unità Pastorale Barbarano, Mossano. Commento e letture per i lettori del mese di febbraio ANNO B
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2018

CLAUDIO

Unità Pastorale Barbarano, Mossano.

Commento e letture per i lettoridel mese di febbraio

ANNO B

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V domenica del tempo ordinario04 febbraio 2018

Il brano odierno appartiene alla riposta di Giobbe (Gb6,1- 7,21) all’intervento del primo degli amici, Elifazda Teman. A sua volta, Elifaz aveva parlato inrisposta alla protesta di Giobbe (Gb 3,1-26). Giobbeaveva protestato contro la sofferenza inflittaglichiedendo la morte: se Dio gli sbarrava la strada daogni parte, che senso aveva più il vivere? Elifaz (Gb4,1-5,27) aveva argomentato pressappoco nel modoseguente: Giobbe, gli innocenti e gli uomini retti nonsono mai stati distrutti; al contrario, chi compie ilmale viene punito. Quindi se Dio, che trova difettiperfino negli angeli, ti fa soffrire, vuole dire chesicuramente hai fatto qualcosa di sbagliato. Dio con lasofferenza ti punisce, ti corregge, ma non per lamorte. Allora, invece di protestare, faresti meglio ainvocare il Signore, e ad accettare quanto lui fa di te:«C’è speranza per il misero, ma chi fa l’ingiustiziadeve chiudere la bocca» (Gb 6,16). A questoargomento Giobbe obietta innanzitutto che i suoiamici dovrebbero consolarlo piuttosto checontraddirlo («Voi pretendete di confutare le mieragioni, e buttate al vento i detti di un disperato», Gb6,26); poi che egli non vede in se stesso compresentile due realtà che per Elifaz invece sono intimamenteconnesse. Egli soffre in maniera molto grande, manon ha coscienza di aver rinnegato i decreti del Santo(Gb 6,10). Siccome non trova in sé colpa, non capisceperché debba soffrire. Giobbe interpreta la sofferenzache subisce non come correzione, ma comeingiustizia, come un assalto senza ragione da cuivorrebbe essere liberato, anche con la morte. Questaparadossalmente significherebbe non il castigo definitivo, ma la prova finale di un agire quanto meno incomprensibile daparte di Dio. I versetti che si leggono oggi ritornano sul tema della vita umana, breve, intrisa di sofferenze e di vanesperanze. Queste si rivelano come illusoria attesa di sollievo da cambiamenti che in realtà non sono altro che un passare dipena in pena. Per questo alla fine Giobbe chiede che Dio trovi al più presto una soluzione al suo caso, perché il tempo utilesta per scadere, la morte negherà definitivamente ogni altra prospettiva. Alla fine della sua risposta (che non si legge)Giobbe dice qualcosa di sorprendente: «Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, o custode dell’uomo? Perché mi hai preso abersaglio e sono diventato un peso per me? Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia colpa? Ben prestogiacerò nella polvere e, se mi cercherai, io non ci sarò!» (Gb 7,20-21). Egli sembra innanzitutto disgiungere peccato eoffesa a Dio; e poi, anche se il peccato fosse offesa a Dio, si domanda perché Dio debba correggere castigando: visto che,secondo quanto dice Elifaz, l’uomo è intrinsecamente manchevole (Gb 4,17-21), non sarebbe più semplice cancellare edimenticare il peccato? Perché punire chi in qualche modo inevitabilmente pecca? La sezione di testo che si legge oggi,anche avulsa dal suo contesto, presenta il dato immediato e condiviso da tutti della fatica del vivere, della sofferenza comeineluttabile contraddizione dell'anelito di felicità che ogni persona trova insito in sé. Tale sofferenza e scandalo, e Giobbechiede a Dio di sciogliere una simile contraddizione. Né deve sorprendere una presa di posizione così categorica.Nell’Antico Testamento l’uomo si ritrova partner immediato di Dio, e perciò quanto prova, nel bene e nel male, harilevanza assoluta. Per questo si sente autorizzato a chiedere conto a Dio degli stati di solitudine, angoscia, malattia cheattraversa e dai quali non sa se potrà mai liberarsi.

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Salmo responsoriale Sal 146Risanaci, Signore, Dio della vita. - Il Salmo 146sembra integrare la protesta della prima lettura usandoproprio quelle parole che Giobbe suo malgrado nonriesce a rivolgere a Dio. Posto nel contesto delle letturedi oggi sembra rinnovare la proposta di Elifaz, e cosìribattere alla confutazione di Giobbe: «Perciò, beatol'uomo che è corretto da Dio: non sdegnare lacorrezione dell'Onnipotente, perché egli ferisce efascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb5,17-18). Dio corregge per il bene, e chi si umiliadavanti a lui vedrà moltiplicarsi la propria prosperità, econ essa gli inni di lode. Di più: nelle parole del salmoviene evocato proprio l'argomento che Dio in personausa per convincere Giobbe: la contemplazione dellesue grandi opere. Dio continuamente manifesta la suasapienza e potenza: nella storia del popolo eletto, nellacreazione, nel proteggere dal cielo con le pioggel'attività agricola e nutrire cosi anche tutti gli animali.Questa visione non solo dovrebbe chiudere a Giobbe labocca («Ecco, non conto niente: che cosa ti possorispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlatouna volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, manon continuerò», Gb 40,4-5), la dovrebbe ancheriaprire nella lode, e riempire di ogni gioia perché«dolce è lodare il Signore». Il salmo rovescia il sensodi abiezione che Giobbe suo malgrado prova eproclama il vanto di essere popolo scelto da Dio fra

tutti gli altri, beneficiario privilegiato della sua azione vivificante e santificatrice. È forse inutile dire che la prima lettura eil salmo che le fa da contrappunto lasciano gli ascoltatori in qualche modo confusi: se è vero quanto dice Giobbe (e molti losperimentano concretamente), come, su quali basi esperienziali, diventa possibile innalzare a Dio la lode e ilringraziamento? I due testi stanno uno di fronte all'altro, entrambi con l'autorità della veloce parola di Dio, e chi li ascoltanon trova facilmente il filo che li cuce insieme.

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Nella vasta serie di temi della Prima lettera ai Corinzi ilbrano odierno si colloca all’interno della sezione cheparla del problema delle carni immolate agli idoli, sulquale Paolo era stato interrogato dai Corinzi stessi. Alcap. 8 egli introduce l’argomento, descrivendo alla finel’esito deleterio di un esercizio narcisistico della libertà diuna coscienza forte da parte di alcuni - libertà che Paolonon nega (si veda 1 Cor 8,4-6). Egli dice: «Ed ecco, per latua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per ilquale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli eferendo la loro coscienza debole, voi peccate controCristo» (8,11-12). E poi annuncia in modo solenne eanche provocatorio la sua scelta: «Per questo, se un ciboscandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne,per non dare scandalo al mio fratello» (8,13). A questopunto Paolo si immagina che tra gli ascoltatori si alzi unmormorio di confusione e forse anche di disapprovazione.Per questo rincara la dose adducendo quanto ha giàvissuto a Corinto: pur avendo il diritto di vivere delVangelo, diritto sancito da Gesù stesso, egli non se ne èavvalso, per non creare impedimenti alla fede dei suoiascoltatori. Infatti non era infrequente all’epoca il caso dipredicatori che usavano del loro talento per vivere allespalle di qualche persona abbiente, perfino soffiando loro ricchezze o posizione sociale. Facendosi mantenere dai suoiconvertiti Paolo avrebbe prestato il fianco a commenti o illazioni simili. Ma oltre a questo motivo, in qualche modoestrinseco ed accidentale, Paolo ne adduce uno sostanziale, quello che si legge oggi. Per lui annunciare il Vangelo non èqualcosa di cui vantarsi, un’azione generosa, un merito, una fonte di diritti. Al contrario, annunciare è per lui un doveregrave di cui deve rendere conto avendone ricevuto l’incarico, incarico che è anche segno di grande fiducia in lui da parte diDio. E trema all’ipotesi di non superare l’esame, di tradire la fiducia di Dio in lui. Ma questo è solo il primo esame. Perchépoi ce n’è un secondo, di cui il primo è parte: Paolo teme di non riuscire ad avere comunione, di non essere ritenuto degnodi partecipare al Vangelo che annuncia. Il Vangelo chiede una dedizione crescente, e Paolo si chiede che cosa possa fare dipiù per darne testimonianza. La risposta che trova a Corinto e quella di lavorare per essere economicamente indipendente eoffrire quindi il Vangelo gratuitamente, senza avvalersi dei diritti che il Vangelo gli conferisce. Questa gratuità nellapredicazione risponde quindi, da una parte, al desiderio di ringraziare Dio per l’incarico ricevuto, dall’altra, alla sceltaprudenziale di non essere di inciampo agli ascoltatori inserendo in loro il dubbio di predicare per il proprio vantaggio; e aldesiderio di guadagnare ad ogni prezzo quante più persone possibili alla fede in Cristo. Mentre Giobbe cerca di fuggiredalla prova, Paolo la cerca, o meglio, cerca il massimo del risultato nell’impresa in cui si identifica, e quindi si sobbarcavolentieri tutte le sfide che il suo ministero comporta. Mentre Giobbe si pone davanti a Dio e gli chiede conto della propriasituazione, Paolo fa sua fino in fondo la missione ricevuta, e non sente la propria prova come un ostacolo, ma anzi quasicome la conferma di adempiere bene il suo servizio. Alla triste domanda di Giobbe, «L’uomo non compie forse un duroservizio sulla terra?», fa eco il desiderio di Paolo: «Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io,insieme con loro».

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

La guarigione di persone malate è, nel vangelo di Gesù,uno dei segni della presenza del regno di Dio tra gliuomini. Guarendo le persone, nel corpo e nell'anima,Gesù si manifesta come il Salvatore, anticipa lapromessa di risurrezione per tutta l'umanità, presentenella sua risuscitazione: l’azione dello Spirito di Dio cherinnova la faccia della terra. La guarigione è l'anelito diogni ammalato, è l'anelito della creazione che sperimentail limite e la morte. La grande speranza di cuil'esperienza cristiana si fa portatrice, e che la distingue daogni altra forma di religione, è questa: una vita nuova,una pienezza di vita, la salvezza ad opera di Dio. Ilvangelo proclamato oggi nella liturgia conferma,attraverso tre quadri densi di significato, questoannuncio: Gesù è il nostro Salvatore, lui solo è illiberatore dal male che affligge l'umanità. Chi lo accogliecome tale e fa esperienza della sua presenza liberante sitrasforma in testimone di questa grande speranza di vita.La prima lettura, nel metterci a confronto con la biblicafigura di Giobbe, ci richiama alla consapevolezza dellanostra naturale fragilità e precarietà: un soffio è la nostravita terrena. Dio soltanto può essere la risposta al nostrointerrogarci sul senso ultimo dell'esistenza. Per questoPaolo, nella seconda lettura, sente come compitospecifico del cristiano l'annuncio del Vangelo: chi trovail senso della vita nel Vangelo non può non annunciarloanche a tutti gli altri che sono in ricerca.

Custodisci sempre con paterna bontà la tua famiglia, Signore, e poiché unico fondamento della nostra speranza è lagrazia che viene da te, aiutaci sempre con la tua protezione.

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VI domenica del tempo ordinario11 febbraio 2018

La Tôrah è costruita con preciso rigore logico: dopol’uscita dall’Egitto, la rivelazione al Sinai e laconclusione dell’alleanza, Mosè innalza la Tenda, il cuimodello è in cielo: il luogo santissimo, lo sgabello deipiedi del Signore da cui si effonde la sua gloria su tutto ilmondo. Il passo seguente è la “costruzione” di un popoloche corrisponda in santità al luogo dove incontra Dio. Lalegge diventa a questo punto il modello celeste a cui ilcomportamento di Israele deve corrispondere. Il libro deiNumeri poi descriverà l’assetto del popolo e la sua lungamarcia verso la Terra Promessa. Le leggi del Levitico siaprono con i precetti relativi ai sacrifici, in particolare ilsacrificio per il peccato che ristabilisce l’alleanza.Seguono le norme riguardo al puro e all’impuro, e inquesto contesto sono inserite le istruzioni da seguire nelcaso qualcuno presenti delle piaghe sulla pelle. Talinorme, da una parte, si collocano agli albori delleconoscenze mediche ed esprimono sostanzialmente lapaura che si verifichino episodi di contagio per malattiesconosciute e di difficile, se non impossibile, guarigione;dall’altra esprimono la preoccupazione di salvaguardarela purità del popolo, qualità che viene sentita necessariaper poter dire a se stessi di essere il popolo che Dio si èscelto e ha separato dagli altri popoli per mostrare inesso la sua santità, la sua trascendente alterità. Processianaloghi sono presenti in molte culture. Essi diconoinsieme un progetto di assolutizzazione del propriovalore, e lo scacco inevitabile su cui tale progetto siinfrange. Nessun popolo è perfetto a sufficienza, la realtà o la minaccia dell’impurità smentiscono ogni pretesa dipartecipazione alle perfezioni divine. Il breve testo odierno sulla lebbra (Lv 13,1-2.44-46) si inserisce nel contesto della piùvasta trattazione del puro e dell’impuro. Essa si apre con la catalogazione degli animali (Lv 11) e continua con le norme perla purificazione della puerpera (Lv 12). La trattazione dei casi di malattie della pelle è in realtà ben più vasta, occupandointeramente i cc. 13 e 14 del libro. Il brano riporta l’inizio delle parole di Dio a Mosè ed Aronne, che presentano in formanarrativa l’apparire di casi di “lebbra” e prescrivono quanto gli ammalati devono fare: presentarsi al sacerdote per unaverifica della qualità della loro malattia (Lv 13,1-2). Seguono le istruzioni sul comportamento che i malati devono tenere(Lv 13,45-46). Non si leggono nella liturgia di oggi gli altri casi elencati, che occupano più di quaranta versetti, eprecedono tali istruzioni. Una morte sociale. Il Signore in persona ordina al lebbroso né più né meno che una mortesociale. Il confronto con quanto ordina al profeta Ezechiele in occasione della morte improvvisa della moglie mostra chel’abbigliamento del malato di lebbra deve essere quello di chi è in lutto («Figlio dell’uomo, ecco, io ti tolgo all’improvvisocolei che è la delizia dei tuoi occhi: ma tu non fare il lamento, non piangere, non versare una lacrima. Sospira in silenzio enon fare il lutto dei morti: avvolgiti il capo con il turbante, mettiti i sandali ai piedi, non ti velare fino alla bocca, nonmangiare il pane del lutto», Ez 24,16-17). Fa contrasto la menzione delle vesti strappate, che lasciano vedere, a vergognadel malato, le sue piaghe; e il suo grido rivolto a chi potesse inavvertitamente avvicinarlo, grido che però suona anche diautocondanna, l’introiezione disperante di una malattia praticamente inguaribile che separa dal popolo eletto, dalla elezionedi cui il popolo gode. Nell’Antico Testamento la lebbra viene ritenuta, al pari di altre malattie, un castigo comminato perdei peccati commessi. Si possono ricordare Maria ed Aronne, puniti per la loro invidia (Nm 12,10); Giezi, servo di Eliseo,punito per la sua avidità menzognera (2 Re 5,27); il re Ozia, diventato lebbroso per aver offerto sacrifici nel tempio,usurpando il diritto esclusivo dei sacerdoti (2 Cr 26,21). Essa è virtualmente inguaribile, anzi, solo Dio può ristabilire insalute un lebbroso (si veda l’intercessione di Mosè per la sorella Maria, Nm 12,13), e questo sarebbe per lui come una

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risurrezione. Nel caso della lebbra la funzione del sacerdote è quella di garante della purità del popolo. Sua responsabilitàquindi è semplicemente quella di dichiarare, dopo attento esame, se si tratti davvero di una malattia che rende impuri, e diverificare che il lebbroso, dopo la guarigione, sia di nuovo puro e possa essere riammesso nella assemblea del popolo. Al dilà della varietà delle situazioni e dei rituali prescritti, tutto questo mostra semplicemente il desiderio delle tradizioni umanedi stabilire per se stesse la possibilità di un incontro stabile e sicuro con la divinità, incontro che al tempo stesso le consacricome mediazioni affidabili del divino per sé e potenzialmente per tutti. Tale desiderio è però destinato a fallire perché lamalattia prima e infine la morte escludono dal numero dei potenziali mediatori, né vale difendersi dichiarando impuri altri,finché non si viene raggiunti dal contagio, come da una inondazione che sale e sommerge tutto.

Salmo responsoriale Sal 31Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia. - Altono dolorante della prima lettura fa da contrappunto,nel Sal 31, la gioiosa proclamazione della beatitudinedi coloro a cui il Signore non imputa il peccato, malo copre e lo cancella. In questa preghiera diringraziamento il salmista racconta la sua esperienza,di come abbia avuto il coraggio di dichiarare alSignore la propria colpa, e ne sia stato liberatoottenendo, per la sua fiducia in lui, di essereristabilito nella giustizia. Per questo la proclama atutti, esortando tutti a fare come lui, ad avvicinarsi alSignore in modo da ottenere la beatitudine delperdono. Il versetto 2 verrà citato da Paolo in Rm 4,8per mostrare, sulla base della presenza del medesimoverbo greco nei due testi, che la giustificazione perfede di Abramo in Gen 15,6 include la remissione deipeccati. Nel salmo non viene comunque discussa lasequenza: lebbra - impurità - peccato. Dando forseper scontato che essa sia punizione per colpecommesse, si parla solo del peccato, e una ipoteticaconnessione affiora per il fatto che nella liturgia sonoconsiderati insieme. Tale scelta sembra suggerire cheoccorre risalire più spesso alla causa ultima di tutti ìmali presenti nel mondo, riconoscendo con lealtà la

pervasiva presenza del peccato, e cercare guarigione nell’Unico che può donare la giustizia.

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Il brano che si legge oggi rappresenta laconclusione perorante della lunga e articolataargomentazione paolina riguardo al problema se siapermesso o no mangiare carni immolate agli idoli.Dopo aver descritto il problema e proclamato la suadecisione di non mangiare carne in eterno se questoscandalizzasse un fratello dalla coscienza debole (1Cor 8,1-13), Paolo mostra le motivazioni di talescelta a partire dalla sua condotta riguardo al dirittoconferitogli dal Vangelo (9,1-14). Per nonscandalizzare nessuno egli non se ne avvale, anzisente di doversi impegnare al massimo per nonrischiare, dopo aver predicato il Vangelo, di venirneescluso (9,15-27). Allarga poi gli orizzonti deilettori sulla storia dell'antico Israele, mostrandocome non tutti quelli che erano usciti dall’Egittoerano poi entrati nella terra promessa, e questo acausa della loro infedeltà (10,1-13). Tornando poi alproblema delle carni offerte agli idoli, sulla base delsignificato del pasto sacrificale, mostra che chi lemangia rischia di mettersi in comunione con idemoni, sfidando Dio (10,12-22). «Non siate motivo di scandalo...». Solo dopo questa lunga argomentazione dà infinealcuni orientamenti pratici (10,23-30), che però, oltre a lasciare qualche margine di incertezza, potrebbero prestare il fiancoalla critica di proporre una morale sostanzialmente eteronoma, guidata non tanto da proprie convinzioni interne quanto dasituazioni, problemi, o previsti vantaggi altrui. Segue il testo della odierna liturgia dove, in negativo, Paolo chiede di nonscandalizzare nessuno; in positivo, di cercare il vantaggio del più gran numero possibile, e tutto questo anche a prezzo, seoccorresse, di dimenticare i propri legittimi diritti. Alla fine chiede a tutti di imitare Cristo, imparando da quanto egli fa perimitarlo (10,31-11,1). Se questa sia una morale eteronoma o meno dipende da che cosa si intende per proprio e altrui.Riguardo a questo Paolo risponde con un’altra domanda: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hairicevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1 Cor 4,7), domanda che da sola chiude l’argomento. Ma sequesto non bastasse, egli esorta ad avere il pensiero, il sentire di Cristo, il quale, pur essendo Dio, si svuotò di séincarnandosi e si umiliò facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,5-8). La vera autonomia è quindi essere vissutida Cristo, che ha posto la sua vita per noi (Gal 1,4; 2,20): «vivo, ma non più io, vive in me Cristo». Le brevi frasi paolineriscrivono l’antropologia e tracciano nuovi percorsi alla progettualità e all’agire umano: «... figli miei, che io di nuovopartorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,19). «... alla Chiesa di Dio». Nel brano, degna diattenzione particolare perché poco notata, è la frase: «Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesadi Dio». Per ogni persona umana l’appartenenza alla propria tradizione è qualcosa di sacro, a tal punto che per la difesa divite fisiche si scatenano al massimo delle faide, mentre per difendere le tradizioni, sacre o secolari che siano, si va inguerra. Paolo accetta e rispetta tale struttura umana, perché sa che solo Dio in prima persona potrà far sì che una persona(una alla volta) allo stesso tempo lasci e santifichi la sua appartenenza tradizionale, rivelando in lei il suo Figlio (Gal 1,15-16). Per questo chiede che la presenza dei cristiani sia in mezzo agli altri la più discreta possibile, e crei un rapportoliberante, un’appartenenza familiare, nella quale potrà lavorare la grazia. Quello che stupisce è l’invito a non essere discandalo alla Chiesa di Dio. Se la Chiesa è fatta tutta di gente come Paolo, che si fa tutto a tutti, greco con i greci, giudeocon i giudei, potrà essa, avrà essa il diritto di dar vita a una tradizione? Paolo risponde in modo affermativo, anzi chiede cheessa venga riconosciuta, che non riceva scandalo. Cosa di cui sembra invece che pochi si preoccupino: tutte le tradizionisono rispettate, almeno nominalmente, ma non ci si dà cura se la tradizione cristiana riceve colpi sempre più distruttivi.Mentre essa è il frutto storico, visibile, del rapporto con Cristo di generazioni di discepoli, una realtà preziosissima, ilmondo nuovo che prende forma dall’impasto delle tradizioni con la fede in Cristo. A distanza di secoli se ne vede tuttal’imponenza, sorprende che Paolo già ne senta l’importanza, negli anni tra la prima e la seconda generazione cristiana,quando tale concrezione si sta appena formando. Rimane vero comunque che il principio che forma, e che trasforma latradizione cristiana, è sempre lo stesso, l’imitazione di Cristo che si è fatto povero, da ricco che era, per arricchirci della suapovertà, dell’atto con cui si è svuotato di ogni sua ricchezza per conquistare noi.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

Anche la liturgia di questa domenica, come laprecedente, intende far prendere coscienza dellapotenza salvifica presente in Gesù, nella sua parola enella sua azione liberatrice dal male. Il richiamo allalebbra, nella prima lettura e nel brano di vangelo,diventa anche per noi linguaggio simbolico che ciparla del male onnipresente, in noi e attorno a noi. Eci parla, in positivo, della possibilità di trovareliberazione attraverso l'incontro con Gesù, che si è fattocarico delle nostre sofferenze per poter manifestare inesse l'amore e la grazia trasfigurante del Padre. Nelvangelo il lebbroso, incontrato e "toccato" da Gesù nelsuo corpo sfigurato dalla malattia, è chiaramentesimbolo dell'uomo sfigurato dal peccato. E perciò lasua guarigione è segno della compassione di Dio cheGesù rivela come sua missione verso l'umanitàsofferente. Gesù dunque offre la speranza che contrastail pessimismo della prima lettura, dove è descritta intermini duri la condizione dei malati di lebbranell'antichità: essa rendeva il malato persona "impura”poiché devastandolo nella sua integrità e vitalità fisicadiventava segno di un male interiore che lo escludeva

dalla comunità. ln certo qual modo possiamo connettere a questo tema anche l'ammonimento di Paolo, nella secondalettura, contro gli "scandali" che creano divisione nella comunità della chiesa. L'alternativa che può impedirecomportamenti escludenti è per lui il 'farsi imitatori" di Cristo.

O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tuaparola, rendici degni di diventare tua stabile dimora.

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Mercoledì delle ceneri14 febbraio 2018

Dal libro del profeta Gioele

Il profeta. Il testo liturgico è tratto da uno dei più misteriosi libri profetici della Bibbia. Contrariamente ad altri testi nonabbiamo alcuna informazione a riguardo del profeta e del periodo storico in cui visse. Alcune omissioni (il testo nonmenziona mai l’istituzione della monarchia e si riferisce soltanto alla tribù di Giuda); il riferimento ai Greci (cfr. 4,6) e lapresenza di citazioni tratte dal profeta Malachia hanno portato gli studiosi a datare questo testo nel periodo post-esilico. È ilmomento in cui la comunità fatica a ricostruire se stessa, a ritrovare la propria identità intorno ad un tempio ricostruitocome un’immagine sbiadita del tempio salomonico. Su questo sfondo il nome Gioele indica una professione di fede: «IlSignore è Dio», o come suggeriscono alcuni studiosi: «Dio è Dio». Penso che proprio in questa tautologia possiamoscoprire la sintesi del messaggio di Gioele. Affermare che «Dio è Dio» è, infatti, fare memoria della sua Presenza salvificanella storia del popolo dell’alleanza e testimoniare che Israele esiste solamente per questa grazia: «Il Signore è un rifugio alsuo popolo, una fortezza per gli Israeliti» (4,16). Il contesto. Sin dai primi versetti, l’attenzione del lettore è focalizzata suun evento di cronaca, un disastro naturale – l’invasione delle cavallette - interpretato come un castigo di Dio per i peccatidel popolo. Davanti a questa sciagura il profeta indica la necessità di intraprendere un cammino di conversione,riconoscendo che, persino in questo dramma, «Dio è Dio». Un fatto di cronaca diviene dunque l’occasione opportuna perguardare oltre, per reimpostare la vita personale e comunitaria attorno a ciò che davvero conta: la visita di Dio. Il giornodel Signore. Utilizzando una sorta di termine tecnico, Gioele parla del «giorno del Signore». Nel linguaggio profeticol’espressione indica un intervento decisivo e straordinario di Dio: i profeti sottolineano che sarà un giorno di tenebre (Am5,18-20) e di tristezza. Gioele assume questa concezione e la sviluppa integrando la drammaticità del momento (2,1.11;4,14-17) con la sua dimensione epifanica. Il «giorno del Signore» non sarà prerogativa d’Israele e non rappresenterà ilgiorno del trionfo delle divisioni umane di razze, popoli e culture. Esso sarà il momento in cui il cuore di tutti coloro chehanno saputo essere fedeli a Dio sarà rivelato. Questa consapevolezza trasforma il dramma in kairós, in tempo opportuno,un tempo donato per risollevare lo sguardo e imparare a leggere la vita nella prospettiva di Dio. Ciò emerge chiaramentedalla struttura del libro:1,5-2,17: dramma e conversione;2,18-4,21: promessa di perdono e del dono dello SpiritoIl nostro testo e posto tra la prima e la seconda sezione, come cardine di una struttura concentrica costruita attorno al giornodel Signore:A) 1,5-14: digiuno, assemblea, ecc.;B) 1,15-20: è vicino il giorno del Signore;

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B1) 2,1-11: viene il giorno del Signore;A1) 2,12-17: digiuno, assemblea, ecc.

Per comprenderlo dobbiamo leggere il contesto in cui è inserito. Anticipando una tematica moderna, il profeta enfatizzal’interrelazione tra il «grido della terra» e il «grido del povero»: «A te, Signore, io grido, perché il fuoco ha divorato ipascoli della steppa e la fiamma ha bruciato tutti gli alberi della campagna. Anche gli animali selvatici sospirano a te,perché sono secchi i corsi d'acqua e il fuoco ha divorato i pascoli della steppa» (1,19-20). La natura si ribella contro unpopolo peccatore: il peccato, penetrato nella storia umana, ne distrugge la bellezza e rende il cammino umano non soltantoinsignificante, ma privo di direzione. La soluzione offerta dalla parola profetica è un’assunzione di responsabilità: l’uomonon è solo spettatore tragico di questo dolore, ma ne è anche la causa. Per questo occorre passare da una ritualità esterioread una conversione autentica. Il rischio, infatti, è di trasformare azioni religiose, come il digiuno e la sacra assemblea, ingesti magici sostitutivi dell’assunzione delle proprie responsabilità e perciò incapaci di generare vita. Per questo il profetasupplica il popolo di intraprendere un viaggio interiore, verso la verità del proprio cuore: «Laceratevi il cuore e nonle vesti» (2,13). Ricordiamo che nell’antropologia biblica il cuore è la sede della memoria, dell’intelligenza, della decisioned’amare e di seguire il Signore. Purtroppo però il cuore d’Israele è duro come un diamante (Zc 7,12): deve esserecirconciso (Dt 30,6), spezzato o sostituito con un cuore nuovo (Ez 36,26). La motivazione di questo viaggio verso se stessiè relazionale: «…ritornate al Signore, vostro Dio»: YHWH non è soltanto Dio, ma il vostro Dio. Perché ciò accada, nonbasta una decisione individuale, ma la comunità tutta deve essere coinvolta». Nessuno è escluso: «Radunate il popolo,indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e lasposa dal suo talamo» (v. 16). È interessante l'enfasi su anziani, fanciulli e lattanti: si tratta di coloro che, esprimendol’impotenza e la fragilità, divengono immagine di che cosa è richiesto al popolo: riscoprire la propria impotenza,sperimentare che la salvezza non è conquista, ma dono. La stessa iniziativa del popolo di cercare il Signore è un atto diobbedienza alla Parola: il popolo può cercare Dio, perché Dio per primo si è posto in cammino per essere il Dio-con-noi,per abitare nel suo popolo. Forte di questa certezza, il profeta si rivolge a Dio ricordandogli che Israele è il suo popolo,scelto da lui e conservato in vita dalla sua promessa: «Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità alludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”. Il Signore si mostra gelosoper la sua terra e si muove a compassione del suo popolo» (2,17-18). Il popolo chiede dunque a Dio di continuare ad essereDio ed agire da Dio. L'invito al pentimento rivolto da Gioele alla sua comunità dà tuttavia voce al dubbio presente nelpopolo: «Chi sa che non cambi e si plachi e lasci dietro a sé una benedizione?» (2,13). Come condurre il popolo alla fiduciapiena nella bontà di Dio, rendendo la loro fede vera e operante? Gioele conduce la comunità ad assumere lo sguardo di Dio,contemplando il giorno del Signore come l’avvento di una risposta gratuita, straordinaria, totalmente salvifica. Non si trattadella semplice restaurazione del fragile equilibro infranto dalla calamità naturale e neppure di un perdono dato “sottocondizione”. Il profeta assicura un dono straordinario, il dono di uno spirito profetico (cfr. 3,1-5) che rivelerà il disegno diDio sulla storia. In questa luce diviene chiaro che il fatto che deve essere raccontato di generazione in generazione (1,3)non è 1’invasione delle cavallette, con il suo drammatico esito di morte e carestia, e neppure la possibilità di ritornaretramite il pentimento alla fede in Dio. Il fatto è proprio la straordinaria salvezza che Dio opererà, anzi sta già operando,attraverso il suo perdono e il dono dello Spirito, in attesa del pieno compimento di ogni promessa, nel giorno del Signore.

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salmo responsoriale salmo 50Perdonaci, Signore: abbiamo peccato. – Il Salmo 50 può essere diviso in due parti. La prima (vv 1-10) offre una profondariflessione sulla realtà del peccato, per ben 12 volte in 10 versetti il peccato è una realtà onnipresente, quasi ossessiva: èdipinto come una macchia e come un debito. Il salmo non attribuisce la responsabilità del peccato a forze esterne,trascendenti l’uomo, ma alla responsabilità umana. In questa situazione di tenebra esistenziale il salmista accoglie con gioiae gratitudine l’intervento totalmente gratuito di Dio: non soltanto lava il peccato e perdona il debito, ma opera una nuovacreazione, trasformando un cuore peccatore in un cuore capace di amare e di testimoniare la grande misericordia da cui èstato visitato.

Dalla seconda lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi

Salmo responsoriale sal. 50R. Perdonaci, Signore: abbiamo peccato

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;nella tua grande misericordiacancella la mia iniquità.Lavami tutto dalla mia colpa,dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,il mio peccato mi sta sempre dinanzi.Contro di te, contro te solo ho peccato,quello che e male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,rinnova in me uno spirito saldo.Non scacciarmi dalla tua presenzae non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,sostienimi con uno spirito generoso.Signore, apri le mie labbrae la mia bocca proclami la tua lode.

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Paolo, utilizzando un linguaggio diverso, proclama che il giorno del Signore annunciato dalla letteratura profetica si ècompiuto quando: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noipotessimo diventare giustizia di Dio» (5,21). Con queste parole l’apostolo vuole riportare lo sguardo della comunità diCorinto, una comunità ferita da divisioni interne, all’origine della propria fede e comunione: la croce di Cristo. Neltentativo di spiegare il significato della novità di vita scaturita dalla croce Paolo usa una varietà di metafore: sacrificio,maledizione, redenzione, conquista... L’uso di immagini diverse evidenzia come la croce sia un mistero che la menteumana non può comprendere. La lettura di oggi sviluppa una di queste metafore: la “riconciliazione”. Paolo supplica lacomunità di accogliere questa vita nuova: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (5,20). Iltono accorato di Paolo rivela al lettore che riconciliazione non è un concetto astratto, ma un’esperienza. Che cos’è dunque“riconciliazione” per Paolo? Riconciliazione non è il risultato dell'iniziativa umana e non scaturisce da una strategiadiplomatica o dalla buona volontà di singoli o gruppi. Riconciliazione è un dono, anzi è il dono di Dio, un Dio rivelatocome Padre. Lo stesso Dio che ha mandato il Figlio, che lo ha consegnato, ha riconciliato il mondo in lui. Riconciliazioneè un atto d'amore. La riconciliazione presuppone una relazione ferita, uno stato di ostilità o estraneità. Paolo afferma cheil mondo è stato riconciliato: le sue parole ci riconducono all’inizio della storia. Il libro delle origini (Gen 1-11) mostra unacontraddizione lacerante insita nella natura umana: la chiamata alla relazione e l’incapacità di viverla. Se, infatti, Gen 1-2descrive l’essere umano come un essere creato nella relazione (1,26) e per la relazione (2,23), Gen 3-11 tratteggia unaspirale di paura (3,8), violenza e progressivo isolamento che culmina nell’impossibilità stessa della comunicazione (11,7).L'essere umano, costitutivamente dialogico, sceglie di entrare in una dinamica di negazione dell’Alterità assoluta efondante di Dio-Padre (cap. 3) e dell’alterità prossima del fratello (cap. 4). A questo processo di alienazione, che continua acondizionare dolorosamente il cammino dell'umanità, Dio ha dato una risposta in Cristo: la riconciliazione. Paolo affermache il Dio di Gesù non è una divinità irata, ma è un Padre che nella fantasia dell’amore percorre ogni cammino possibileper rientrare in dialogo con le sue creature. Come ricorda la lettera agli Ebrei: «Dio, che molte volte e in diversi modi neitempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo delFiglio» (1,1-2). Riconciliazione non è un atto magico e non agisce in modo automatico. Come ogni dono di Dio, chiedela libera adesione umana. È una mano tesa, una porta aperta, un appello alla libera volontà umana. Per questo Paolosupplica la comunità di aprirsi al dono di Dio, di accoglierlo, di lasciarsi riconciliare con Dio, di permettere alla croce diCristo di divenire sorgente di vita nel cuore delle persone e nei rapporti comunitari. Riconciliazione, infine, è la vocazionee la missione di Paolo: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta... Poichésiamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2 Cor 5,20; 6,1). Soltanto dalla sequela delCrocifisso-Risorto nasce la missione, una realtà che non conosce perché, ma un unico assoluto per Chi. Missione non èprimariamente un impegno sociale e molte volte neppure un annuncio esplicito: missione è porre il fratello faccia a facciacon Cristo perché possa in lui incontrare il Padre. Missione è vivere l'incontro che ha cambiato la nostra esistenza. Missioneè lasciare che la mia e nostra vita diventi il luogo in cui Cristo può essere incontrato. Questo richiede una consuetudine divita con il Crocifisso-Risorto, un camminare con lui. Richiede il lasciarsi trasformare dalla forza del Vangelo, nellamentalità, nello stile di vita, nei criteri di giudizio, nella scala di valori, perché non si può testimoniare Cristo senzarifletterne l’immagine. Paolo ha sperimentato tutto questo. Per l’apostolo delle genti, missione è un lasciarsi conquistare daQualcuno che vuole condividere con noi il suo amore, la sua passione: il Padre e l’uomo, ogni uomo che attende lasalvezza. Missione è una necessità d’amore, una risposta d’amore totale ad un amore totale: solo chi si sente amatodall’amore incondizionato e inspiegabile, dall’amore fedele fino alla follia della croce, sperimenta l’impulso di renderepresente ed operante questo amore negli altri, in una vita che si rende dono, condivisione, presenza e consumazione fino almartirio. Per questo amore che lo consuma, Paolo supplica i Corinzi, e noi con loro, di lasciarsi riconciliare con Dio. Ilpeccato ha creato una frattura tra Dio e l'uomo, nella famiglia umana e nella stessa identità umana: riconciliare è risanare, èun ritorno all’unità delle origini, al disegno buono iscritto dal Creatore nella sua creatura e nella storia umana. Dio, nelFiglio, offre all’uomo un nuovo inizio, un percorso di riappropriazione della propria identità figliale, perché il Padre diGesù possa condurci alla stessa perfezione dell’amore manifestata nella croce.

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Dal Vangelo secondo Matteo

Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

All'inizio del nostro cammino quaresimale, le letture ci invitano ad abbandonare ogni forma di pietà apparente per tornareall'essenziale: la relazione con Dio. II vangelo ci invita ad entrare nelle profondità del nostro cuore, in questa stanza chiusadove possiamo essere veri, 'nudi,' di fronte al nostro Dio. La prima lettura ci invita a scrutare il nostro cuore, a lacerarlo.Lacerare il cuore indica non solo riconoscere il nostro peccato, ma permettere alla misericordia di Dio di invaderlo ericostruirlo. La seconda lettura ci indica l’esito di questo incontro con la misericordia: il dono di un cuore riconciliato,capace di assumere un TU nuovo: il TU del Figlio, del Cristo che vive in noi.

O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristianodi iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, peraffrontare vittoriosamente con le armi della penitenzail combattimentocontro lo spirito del male.

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I domenica di Quaresima18 febbraio 2018

La prima lettura è parte di un racconto moltoconosciuto: il diluvio universale (6,5-9,17). Si tratta diuna narrativa che Israele condivide con i paesi limitrofie che scaturisce probabilmente dalla memoria didevastazioni causate da alluvioni eccezionali. È unracconto attentamente strutturato seguendo unosviluppo concentrico che dalla violenza descritta neiversetti introduttivi (6,11-12) conduce all’alleanza ealla pace garantite da Dio attraverso un patto con ognicarne. Al centro della struttura non troviamo il diluvio,ma una relazione: «Dio si ricordò di Noè» (8,1).L’organizzazione retorica del testo rivela, dunque, cheil tema del racconto non è il diluvio, ma la salvezza, ladecisione di Dio di preservare la vita, di continuare acredere nella sua creazione. In questo contesto il verbozākār, ricordare, non indica semplicemente il contrariodi dimenticare, ma il prendersi cura, l’attenzioneamorevole, la grazia che offre e ri-offre vita. Il ricordodella relazione provoca la fine del diluvio, da cui unanuova creazione emerge dalle acque come eraaccaduto alle origini. Gen 8,20-22 anticipa il nostrotesto. Dio promette di non maledire più la creazione,pur nella consapevolezza che il male abita ormai nelcuore dell’uomo. Dopo aver creato il mondo (Gen 1),dopo aver ,posto nelle mani delle sue creature il donodella libertà (2-3), dopo aver constatato che la libertà èdivenuta uno strumento di morte e di violenza (4-6),Dio si “arrende”: distruggere la creazione non serve,occorre educare il cuore dell’uomo, perché da questocuore circonciso (Dt 30,6) possa nascere una creazionenuova. La volontà di Dio è esplicitata in 9,1-17, untesto che può essere diviso in due parti:

a) 9,1-7: la nuova situazione dell’umanità;b) 9,8-17: l’alleanza di Dio con la “nuova” creazione.In 9,1-7 troviamo una ripetizione della benedizioneoriginaria: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite laterra›› (Gen 9,1; cfr. 1,28). Tuttavia, il riferimento a«timore e terrore di voi», non presente nel cap. 1, esoprattutto la concessione al «cibarsi di carne» indicanoun cambiamento nelle relazioni e la distruzionedell’armonia originaria. Per limitare la violenza Diochiede il «rispetto del sangue» che dovrà tornare allaterra da cui la creazione è stata tratta. Nel caso in cui la

violenza produce la morte del fratello, Dio si pone dalla parte della vittima per chiedere vendetta. Il violento e immerso nelmale da lui generato: la violenza come un’onda di morte si riversa su colui che l’ha generata e sulla società che da essa èstata plasmata. In 9,8-17 raggiungiamo ciò che molti autori riconoscono come il centro teologico del nostro testo, l’alleanzache Dio stabilisce non soltanto con Noè e la sua famiglia, ma con ogni carne (9,13). Il termine ebraico berît è ripetuto perben 7 volte nel testo: non si tratta di un’alleanza condizionata o bilaterale; Dio solo si impegna a non distruggere mai piùl’opera delle sue mani. Memoria di quest’alleanza è l’arcobaleno, fenomeno naturale da sempre concepito come un ponte

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che collega il cielo e la terra. Nell’Antico Oriente era considerato l’arco delle divinità: segno della loro ira durante latempesta, viene posato come segno di pace al termine della stessa. Rileggere il testo sullo sfondo del periodo storico nelquale è stato redatto ci aiuta a percepirne la portata. Siamo nel periodo post-esilico ed il popolo d’Israele deve trovare unaragione alla tragedia immane che lo ha colpito: la distruzione della città santa e l'esilio. Perché Dio ha distrutto il suopopolo? Perchè la mano di Dio si è rivolta contro coloro che aveva creato? La risposta dell’autore sacro è lacontaminazione operata dalla violenza. Al termine del processo creativo Dio aveva contemplato il “suo” mondo: «Dio videquanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (1,31). Nelle mani dell’umanità questa realtà buona è entrata in unaspirale di corruzione e violenza che ha prodotto lontananza da Dio, morte del fratello e oppressione dell’altro. Il desideriodi essere Dio ha generato il possesso sfrenato e antagonistico. La morte di Abele (4,8), il grido di vedetta di Lamec (4,23-24) e la prevaricazione dei «figli di Dio» (6,1-4) sono tasselli in un mosaico di morte. Il diluvio scaturisce dal “dolore” diDio nel contemplare l’esito della creazione, lo scempio operato da coloro che ha posto nel suo giardino perché lo curasseroe servissero con la sua stessa forza mite e feconda. Eppure l’ira di Dio si ferma quando incontra la giustizia di un uomo:Noè. Mentre le acque si ritirano ponendo nelle mani di Noè un mondo nuovo, una nuova immagine di Dio e dell’uomo siconfigura. L’autore sacro sembra suggerire che il diluvio non ha cambiato l’umanità: nella stessa famiglia di Noè simanifesteranno segni di morte e la costruzione della torre rivela che il cuore dell'uomo non è mutato. Il diluvioparadossalmente non converte l’umanità, ma converte Dio. Il giudice adirato, che si pente della sua creazione (6,6),diviene un Padre capace di riconoscere la debolezza e la fragilità umana e di ricominciare un nuovo dialogo per cambiare ilcuore dell’uomo o almeno il cuore di alcuni di loro, perché possano testimoniare il progetto originario, quel seme dibellezza e desiderio di bene che rimane nascosto in ogni essere umano. Nel Nuovo Testamento le lettere di Pietro rileggonoil diluvio in prospettiva battesimale, come la seconda lettura ci permetterà di comprendere.

Salmo responsoriale Sal 24Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà. - IlSalmo 24 è uno dei salmi acrostici alfabetici. Scrittoprobabilmente in un contesto scolastico/didattico, ha loscopo di iniziare i discepoli al cammino della preghiera. Ilprimo passo suggerito dal maestro è riconoscere che lapreghiera è dono di Dio: per questo il maestro umano siritira, lasciando il discepolo faccia a faccia con il maestrodivino. Colui che conosce la mappa dell'esistenza, guiderài passi di chi cerca il suo volere verso di lui (v. 4). Sottol'arco eterno della bontà compassionevole di Dio si dipanal'arco della vita umana (vv. 6-7). Infatti, la condizione persperimentare la guida di Dio non è la santità: la bontà erettitudine del Signore si rivela proprio nell'indicare aipeccatori la via giusta (v. 8). La condizione è ladisponibilità a lasciarsi guidare (v. 9). In questo contestoumili e poveri non rappresentano soltanto una categoriasociologica, gli emarginati, ma una categoria teologica.Sono infatti coloro che si affidano a Dio riconoscendolocome il Signore della propria esistenza, coloro che silasciano condurre da lui verso la piena realizzazione della

propria umanità.

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Per comprendere il nostro testo dobbiamo porlo nelsuo contesto originario. La lettera si rivolge acomunità che stavano sperimentando forme diversedi esclusione ed ostilità a causa della loro fede inGesù Cristo (1,6-7; 2,18-20; 3,13-17; 4,1-6.12-19;5,10). Probabilmente non si trattava di unapersecuzione ufficiale da parte dell’Impero, ma diciò che potremmo chiamare una persecuzionesociale, provocata da sospetto e stupore verso unmodo di vivere “altro”, che rendeva i discepoli diGesù stranieri in seno alla propria famiglia cultura esocietà. Risentimento, ostracismo e abusi verbaligeneravano nei credenti un profondo senso dialienazione, di non-appartenenza e di isolamentosociale. La lettera è scritta per aiutare questecomunità a perseverare, ponendo dinanzi ai loroocchi l’esempio di Cristo. Vissuta con lui, anchequesta dolorosa situazione può trasformarsi inkairós, in tempo favorevole per l’annuncio: «Adorateil Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre arispondere a chiunque vi domandi ragione dellasperanza che è in voi» (1 Pt 3,15). Rispondendoall’insulto con la dolcezza e il rispetto, la comunitàmanifesterà la propria identità e verrà vendicata dalleproprie opere buone (2,16). Il brano offerto dallaliturgia ha la funzione di rinforzare questaconvinzione alla luce del Mistero pasquale. La sofferenza innocente del Cristo (3,18b) è presentata come fondamento dellasalvezza presente (3,18b-c) e come modello per l’innocente che soffre (cfr. 4,1). L’opera di Dio in Gesù - risurrezione,ascensione, glorificazione, intronizzazione alla destra di Dio - assicura la comunità dei discepoli che l’ultima parola sullastoria umana è la parola di Dio. Inoltre, conferma i credenti nella certezza della loro salvezza, gratuitamente donataattraverso il battesimo e la partecipazione alle sofferenze stesse di Gesù. La sofferenza non è dunque segno di maledizionee della lontananza di Dio, ma la via maestra per la partecipazione alla gloria stessa del Figlio. In questa luce il battesimoviene descritto come la porta d'ingresso alla gloria escatologica ed un segno del tipo di vita che la comunità credente èchiamata a vivere nel mondo. I discepoli del Crocifisso sono chiamati ad essere testimoni nella loro società, senzacompromettere la verità ma nel rispetto dell’altro: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una rettacoscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostrabuona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male...»(3,16-17). In questo contesto l’autore richiama la storia di Noè. Salvato dalle acque, quasi una prefigurazione di Mosè e deldestino d’Israele, segna un nuovo inizio, sancito da un’alleanza eterna offerta ad «ogni carne». Per la comunità diviene unesempio di obbedienza, il modello del giusto in ascolto della parola di Dio, salvato da una generazione violenta per la suafede (cfr. Eb 11,7). Il rapporto tra il tempo di Noè e il tempo della comunità è segnato dalla medesima «pazienza di Dio».La sottolineatura del numero otto, «...poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua» (3,20), rendeancora più pressante la connessione con il battesimo, sacramento dell’ottavo giorno, il giorno della risurrezione. Come Noèe la sua famiglia, anche la comunità salvata dalle acque nel legno della croce, ora attende il compiersi della pazienza di Dionella certezza che Colui che è sceso a portare l’annuncio di salvezza, persino a coloro che lo avevano rifiutato, vive ora alladestra di Dio ed ha il potere di condurre anche i suoi con lui.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

Il vangelo di Marco è un racconto che inizia neldeserto di Giuda e si conclude nel deserto della croce,dove Gesù muore nell’abbandono totale (14,50).Condotto dallo Spirito, Gesù vive nel desertol'esperienza della tentazione. Gesù è presentato daMarco come il nuovo Adamo che, nell'obbedienza alPadre, ricrea l’armonia originaria tra Dio e le suecreature e nella creazione stessa. La prima lettura ciricorda il disegno originario di Dio. Nel segnodell’arcobaleno, ponte di pace teso per sempre tracielo e terra, l'alleanza con la famiglia di Noè vieneofferta «ad ogni carne», ad ogni famiglia della terra.La seconda lettura, infine, assicura ad una comunitàperseguitata per la propria fede che questo destino dipace appartiene anche a loro. Le acque del battesimosono divenute per loro arca di salvezza, invocazionerivolta a Colui che, morto una volta, per sempre viveormai alla destra del Padre.

O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedia noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita.

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II domenica di Quaresima25 febbraio 2018

La prima lettura ci offre uno dei quadri più notie drammatici dell’Antico Testamento: ilracconto del sacrificio di Isacco, chiamato nellatradizione ebraica Akedah (legatura). Lanarrazione biblica, tuttavia, non pone al centrola figura di Isacco, ma Abramo ed il suorapporto con Dio. Il racconto inizia, infatti,comunicando al lettore che ciò che sta peraccadere è una prova, un test a cui Diosottopone il patriarca: «Dopo queste cose, Diomise alla prova Abramo» (22,1). Lo sfondo(vv. 1-2). «Dopo queste cose, Dio mise allaprova Abramo e gli disse: “Abramo!”. Rispose:“Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuounigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio diMòria e offrilo in olocausto su di un monte cheio ti indicherò”». L’inizio ricorda il primoincontro tra Dio ed Abramo (Gen 12,1).Ritroviamo infatti la stessa sequenza: unachiamata; l’eccomi di Abramo e l’invito amettersi in cammino. In 12,1 la voce divinachiede ad Abramo di lasciare ciò che costituivala sua identità - il padre, la casa, la terra - perseguire un Dio sconosciuto, fidandosi della suapromessa. Ora, la stessa voce chiede dicamminare verso un monte sconosciuto persacrificare a Dio il figlio Isacco, segno egaranzia del realizzarsi della promessa. Sedunque in 12,1 Dio chiede ad Abramo diabbandonare il proprio passato, in 22,1 glichiede di offrire in olocausto il proprio futuro.Mi sembra importante ricordare che l’attesa delfiglio ha segnato l’intera esistenza di Abramo edella moglie Sara (cfr. Gen 15,2-5;17,15-21;18,9-15), al punto che quando Dio sembravaincapace di realizzare la promessa, si sono sostituiti a lui generando Ismaele. Isacco non e soltanto il figlio, «il tuounigenito che ami» (22,2), il futuro di Abramo, la possibilità che il suo nome sia ricordato oltre la morte: Isacco è il dono di

Dio, il seme della promessa, l’inizio di unagenerazione numerosa come le stelle del cielo(15,5) e la polvere della terra (13,16; cfr. 22,17).La prova a cui Dio sottopone Abramo è dunqueuna scelta radicale tra il dono e la sorgente deldono; tra il figlio della promessa e il Dio che èall’origine della promessa. L’esecuzionedell'ordine (vv. 3-10). Alla parola di Dio segue ilsilenzio di Abramo, un silenzio riempito dal fare:si alza di buon mattino, sella l'asino, prende consé due servi e il figlio, prepara la legna per ilsacrificio e si mette in viaggio verso il territorio di

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Moria. Non conosciamo l’origine e l’esatta etimologia del termine, ma come accade in altre situazioni, il testo offreun’interpretazione del nome: «Il Signore vede» (22,14). Il toponimo riappare in 2 Cr 3,1 per indicare il luogo scelto daSalomone per l’edificazione del tempio. Nella letteratura patristica, a partire da Origene, è identificato con il Golgota, illuogo della crocifissione di Gesù. Dopo tre giorni di cammino il luogo appare in lontananza. Da questo momento Abramo eil figlio proseguono da soli: ciò che sta per accadere dovrà svolgersi solo tra Abramo, Isacco e Dio, senza altri testimoni...neppure l’asino. Nell’ultima parte della salita al monte, mentre Isacco porta la legna, padre e figlio «camminano insiemetutti e due uniti» - espressione che ritorna due volte nello spazio di tre versetti. Il silenzio si interrompe con un dialogo trapadre e figlio, un dialogo scarno, essenziale, in cui Abramo pronuncia nuovamente il suo: «Eccomi!». Tutto sembraconcentrarsi sulla domanda formulata da Isacco: «Dov’è l’agnello per il sacrificio?», alla quale Abramo replica: «Diovedrà». Nel silenzio che ritorna ad avvolgere la scena i due giungono al luogo indicato e gli eventi si susseguono a un ritmoincalzante: Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega Isacco e lo depone sull’altare, sopra la legna. Abramo compie igesti che sanciscono la sua rinuncia al dono di Dio: è ormai pronto a restituirgli il figlio della grazia. Abramo, legando ilfiglio sull’altare, lo lega a Dio sciogliendolo da se stesso: «Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suofiglio». L'intervento di Dio (vv. 11-12). Il messaggero di Dio interviene e sospende l’atto del sacrificio con una duplicechiamata, a cui Abramo nuovamente risponde: «Eccomi!». L’angelo ferma Abramo: «Non stendere la mano contro ilragazzo». L’angelo non si riferisce più ad Isacco come “figlio”, ma con un termine generico: «il ragazzo». Attraverso ilsacrificio non compiuto Isacco torna ad essere riconosciuto come “figlio di Dio”, riaccolto come un dono che nonappartiene ad Abramo, ma all’umanità. Dio, come padre, offre un sacrificio in riscatto del figlio (cfr. Es 13,12-15; 22,29;34,20; Nm 3,45; 8,17; 18,16; Lv 12,2-4), mostrando ad Abramo un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Ilnarratore commenta: «Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore vede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore vede”».Possiamo chiedere che cosa “Il Signore vede”. Dio vede il cuore di Abramo, vede il cuore di Isacco, e prontamenteinterviene, «si fa vedere» (altra traduzione possibile secondo una diversa vocalizzazione del testo masoretico) come il Dioche non vuole il sacrificio, ma l'ascolto: «Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. . .» (Sal 40,7). Ilsacrificio è, dunque, avvenuto pur non essendo stato compiuto. Isacco è rimasto in vita, e Abramo ritrova il figlio in unnuovo modo, quale dono di Dio, un dono che non gli appartiene, ma gli è stato affidato come “benedizione” per l’umanità.La promessa (vv. 15-18). «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuofiglio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo ecome la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nellatua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce». Nell’offerta del figlio, ri-ponendo lapromessa ed il proprio futuro nelle mani di Dio, Abramo ha sperimentato Dio con una modalità nuova. Se primaconsiderava Dio come un partner affidabile, ora sperimenta la presenza di un Dio a cui affidarsi anche nella piena oscurità:«dal Dio su cui può contare, di cui può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui» (C.M. Martini). La nuovaconoscenza di Dio conduce Abramo ad una nuova conoscenza di sé e del figlio: Abramo percepisce che occorre “restituire”il figlio, rinunciando a ciò su cui ha fondato la speranza della propria vita, per offrirlo a Dio da cui lo ha ricevuto. Comespesso accadde nella nostra vita e nella storia della chiesa, ciò che non è restituito si trasforma in un idolo: la speranza nonriposta in Dio, ma nel suo dono, diventa un ostacolo nel cammino di fede. Pensiamo, per esempio, a quante opere iniziatecome risposta alla chiamata di Dio in uno specifico momento storico hanno preso lentamente il posto di Dio, divenendo unidolo a cui sacrificare fratelli e sorelle, per mantenere in vita qualcosa che non ha più significato; oppure pensiamo a quantirinnovatori - sacerdoti, religiosi, laici - hanno distrutto la loro opera, o la vita delle persone a loro affidate, perché le hannolegate a sé, incapaci di ri-offrirle a Dio ritirandosi al momento opportuno. Gen 22 ci ricorda che il cammino del credente èuna progressiva offerta a Dio di ogni persona, ogni relazione, ogni progetto, ogni cosa, nella coscienza che «…tutto èvostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,22-23). Il Nuovo Testamento riprende il sacrificio di Isacco comemodello della fede obbediente di Abramo: «Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che avevaricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. Eglipensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19;cfr. Gc 2,21-23). La lettura patristica prosegue oltre e vede in Isacco il segno profetico del Figlio che nella pienezza deitempi sarà offerto “sul monte” come benedizione per l’umanità.

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Salmo responsoriale Sal 115Camminerò alla presenza del Signore nella terra deiviventi. - Il Salmo 115 è un canto dove la memoriagenera il ringraziamento: il salmista ripercorre lapropria esistenza, ricorda il dolore e l'impotenzasperimentata e l’azione liberatrice di Dio capace di"strappare” la sua vita dalla morte, i suoi occhi dallelacrime e i suoi piedi dal precipizio. Le due parti delsalmo iniziano con una proclamazione di amore e difede: «Amo il Signore» (v. 1); «Credevo/confidavo»persino quando la morte sembrava l'unico futuro. Lavicinanza della morte ha educato il salmista ariconoscere l'impotenza legata alla condizioneumana: la prova è divenuta per lui il luogodell'incontro, della rinascita, il luogo da cui unacreatura nuova è stata ridonata alla vita. Il salmistaora vive per la lode di Dio e per trasformare lapropria esistenza in un inno di gioia, un rendimentodi grazie, un'esistenza liberamente donata cometestimonianza della presenza dell'amore di Dio tranoi.

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Il testo è parte di una sezione che comprende i vv. 31-39, e che possiamo strutturare come segue:a) Domanda retorica (v. 31a)b) Ragionamento dimostrativo (vv. 31b-32)c) Tre domande e risposte (vv. 33-37)d) Conclusione: professione di fede (vv. 38-39)La domanda: «Che diremo dunque di queste cose?»(8,31), ricorre più volte nella lettera ai Romani (3,5;4,1; 6,1; 7,7; 9,14.30). A volte è utilizzata da Paoloper confutare un’idea considerata sbagliata. Tuttaviain questo testo crea un ponte con quanto presentato inprecedenza:a) L’amore di Dio «riversato nei nostri cuori permezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5).b) La prova dell’amore di Dio: «Ma Dio dimostra ilsuo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamoancora peccatori, Cristo è morto per noi» (5,8). OraPaolo conclude in crescendo, caratterizzando questoamore come universale, permanente ed assoluto. «Chediremo dunque di queste cose?» (8,31). «Se Dio è pernoi, chi sarà contro di noi? Egli, che non harisparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?». Paolo iniziaaffermando ciò che costituisce il centro della sua vita: l’amore “folle” di Dio. Paolo ritorna su questo concetto in tutte le suelettere: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,10). È un amore che lo affascina e commuove; un amore tantovasto e profondo da «sorpassare ogni conoscenza» (Ef 3,17-19). L’icona di questo amore assoluto e incondizionato è lacroce del Figlio. La croce rivela il Padre come il Dio «per noi», poiché «Egli [...] non ha risparmiato il proprio Figlio ma loha dato per tutti noi» (Rm 8,31-32). Se questo Dio è per noi, dalla nostra parte, chi può essere contro di noi? Chiaramentenessuno. È interessante notare che per esprimere questo concetto, Paolo non utilizza la preposizione metá (con), ma hypér(per): Dio per Paolo non è soltanto “con” noi, ma è “per” noi, in nostro favore, dalla nostra parte. Paolo esprime la stessafiducia cantata nei salmi del suo popolo: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me.Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 23,4); «Il Signore è per me, non avrò timore: che cosa potrà farmiun uomo? Il Signore è per me, è il mio aiuto, e io guarderò dall’alto i miei nemici» (Sal 118,6-7). Il Dio proclamato daPaolo non è dunque indifferente o contro l’umanità come altre divinità antiche: è un Dio-per-noi, l’Emmanuele. L’apostoloprosegue elaborando il concetto: Dio ha manifestato quest’amore perché non ha risparmiato, ma ha consegnato suo Figlio.La prima affermazione allude all’episodio del sacrificio d’Isacco: nel testo Dio elogia la fede di Abramo perché non harifiutato il suo unico figlio (Gen 22,12.16). Paolo non sembra approfondire questa idea, ma afferma la seconda: «haconsegnato» (paradídōmi). Troviamo lo stesso concetto in 4,25: «il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostrecolpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione». Paolo ribadisce dunque che la croce non è stato un “incidente dipercorso”. La scelta di condannare a morte Gesù è scaturita dall’odio umano, da una giustizia manipolata e perversa, mal’amore del Padre ha trasformato un gesto di odio in un atto d’amore, nell'offerta della propria vita, in perdono senzariserve. E tutto questo, afferma Paolo, è «per noi», per la stessa umanità che ha crocifisso il Figlio. Dinanzi a questo amore,il cuore di Paolo prorompe in una professione di fede: se Dio ha già fatto questo, se ha già donato il Figlio, come dubitareche dall'essere-con-lui scaturirà ogni bene per il discepolo del Figlio? I beni evocati da Paolo sono oggetto delle tredomande retoriche che propone all'attenzione del proprio lettore: non accusa, ma giustificazione; non condanna, ma graziaed un nuovo inizio garantito dalla risurrezione ed intronizzazione del Figlio alla destra del Padre. Questo figlio intercedeper coloro che ha reso suoi, custodendoli nelle prove, difendendoli in ogni avversità per condurli a condividere la sua stessagloria (8,30). Per questo Paolo termina la sua arringa con un elenco comprensivo di tutto ciò che i credenti stannosopportando per amore del Cristo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione,la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamoconsiderati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati». Inuna società dove forze occulte e divinità intermediarie oscuravano la gioia di appartenere a Cristo generando paura neinuovi credenti, Paolo prosegue il suo canto dichiarando ciò in cui crede, ciò che ha cambiato la sua esistenza e gli hadonato un’identità nuova: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, népotenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostroSignore» (8,35-39).

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

La liturgia di questa domenica pone al centro dellanostra riflessione l'amore incomprensibile del Padre,mistero di luce che penetra e illumina il buio dellaviolenza e della morte. La prima lettura ci offrel'esempio di un padre umano, Abramo, e della sua fedeincrollabile nel Dio della promessa. Per questa fede, ilsacrificio (non compiuto) del figlio diviene sorgente dibenedizione per tutte le nazioni della terra. Il vangeloci manifesta la gloria del Figlio, l’amato. L'invito adascoltarlo accompagna i nostri passi, mentreintraprendiamo con lui il cammino verso il monte delsacrificio, il Golgota. La seconda lettura ci presental’amore del Padre divino rivelata nell’offerta del Figlio.Il sacrificio compiuto alimenta la nostra speranzamentre camminiamo nel buio della storia portando nelnostro cuore un seme di risurrezione.

O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amatoFiglio, nutri la nostra fede con la tua parola epurifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamogodere la visione della tua gloria.


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