Piero Manarolla & Co.
COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA E SVILUPPO
DEI SENTIMENTI DI APPARTENENZA
NELL’IMPRESA COMPLESSA
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INDICE:
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ″ 3
Cap. I – Il dibattito attorno ai concetti di organizzazione e comu-nicazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Cap. II – Modelli organizzativi e necessità comunicazionali . . . . . ″ 16
Cap. III – Un nuovo paradigma nella comunicazione d’impresa: la Comunicazione Organizzativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
″ 31
Cap. IV – Comunicazione organizzativa e valorizzazione delle ri-sorse umane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
″ 37
Cap. V – L’impiego della Comunicazione Organizzativa in due casi aziendali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
″ 44
Cap.VI – Le Risorse Umane tra appartenenza e controllo norma-tivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
″ 52
Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ″ 58
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ″ 61
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INTRODUZIONE
La letteratura presa in esame per questa ricerca è stata quasi interamente prodotta
nel corso dell’ultimo ventennio, e comprende sia testi di sociologia
dell’organizzazione che studi organizzativi a carattere aziendale. In effetti, è
proprio a partire dagli anni ’80, ed ancor più dal decennio successivo, che le
imprese cominciarono a considerare la comunicazione interna uno strumento
essenziale per gestire la competizione, diventata globale, e la crescente
complessità organizzativa. Da più parti (Invernizzi, 2000; Trabucchi, 1991;
Fiocca, 1994) si è messo in relazione questo accresciuto fabbisogno di
comunicazione sul fronte interno con la diffusione di modelli organizzativi a
“ rete”, il cui funzionamento è basato più su “processi” che su gerarchie.
L’ambito del lavoro è quindi quello delle imprese, intese come organizzazioni
complesse, dotate di un capitale “umano” che ha occhi, orecchie e cervello e che,
con il passare delle generazioni e con l’aumentato livello di scolarizzazione, ha
preso sempre più coscienza del proprio ruolo. Guarderemo alle imprese come
soggetto di civilizzazione, mantenendo quindi quella prospettiva sociologica così
ben definita da Strati (1998, p. 43-44) che afferma: “[…] la sociologia
dell’organizzazione è una disciplina che guarda alle organizzazioni ponendo
l’accento sulla società che in esse viene costruita e ricostruita e sulla sua rilevanza
anche al di là dei confini organizzativi. […] Il sociologo, allora, studia la vita
sociale in esse, ossia le relazioni sociali che, nella quotidianità organizzativa,
vengono costruite e ricostruite […] nonché le ragioni per cui l’organizzazione, da
strumento, diviene luogo di formazione di forme di coesistenza sociale quotidiana
delle persone”.
Nel I° Capitolo, utilizzando alcune categorizzazioni, vedremo come il concetto di
“comunicazione” si sia evoluto all’interno delle imprese e come i termini
“comunicazione” ed “organizzazione” siano stati utilizzati dalla sociologia
dell’organizzazione e dalla letteratura specializzata. In particolare cercheremo di
stabile un confine tra queste due definizioni che, in contesti aziendali, appaiono
spesso intimamente legate tra loro (Romano - Felicioli, 1992).
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Nel II° Capitolo analizzeremo le esigenze comunicazionali di alcuni tra i più noti
modelli organizzativi in relazione al “contratto”, o “patto d’impresa”, che si
stabilisce tra azienda e lavoratori, e cercheremo di tracciare il percorso evolutivo
della comunicazione interna durante il XX secolo.
In questi primi due capitoli i termini “comunicazione interna”, “comunicazione
aziendale” o anche semplicemente “comunicazione”, di per sé abbastanza
generici, verranno utilizzati per indicare tutta l’attività comunicativa svolta dal
management ed indirizzata ai collaboratori di un’impresa, con l’obiettivo di
rafforzare la cultura aziendale e creare aggregazione intorno agli obiettivi
strategici dell’impresa stessa. Come vedremo in seguito, alcuni autori si sono
riferiti a questa attività comunicativa utilizzando anche il termine di “marketing
interno” (Trabucchi, 1991).
È solo in tempi relativamente recenti, come dicevamo in apertura, che con il
crescere della complessità organizzativa, legata anche all’espansione delle
imprese su mercati sempre più globali, emerge l’esigenza di coordinare tutta la
comunicazione aziendale, sia questa interna, esterna o di marketing. Si assiste così
allo sviluppo di politiche comunicazionali ampie ed integrate, rivolte a tutti i
soggetti in qualche modo legati alla vita dell’organizzazione, che porteranno alla
formazione del nuovo paradigma della “comunicazione organizzativa”, di cui ci
occuperemo nel III° capitolo.
Nel capitolo successivo introdurremo il tema della “motivazione” delle risorse
umane e, più in particolare, dello sviluppo del senso di appartenenza nelle
organizzazioni complesse. Vedremo come una adeguata comunicazione interna,
nel frattempo divenuta “organizzativa”, diretta alla generalità dei dipendenti ma
anche ai partner esterni ed al mercato, possa risultare determinante per colmare la
diffusa incertezza che la necessità di un cambiamento permanente ha portato
all’interno del mondo del lavoro, dove le mutate condizioni economiche non
consentono più alle aziende di sottoscrivere il vecchio patto “sicurezza e stabilità
contro fedeltà”.
Nel V° capitolo osserveremo, con riferimento a due studi di caso riportati dalla
letteratura, le interdipendenze tra comunicazione organizzativa e motivazione dei
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lavoratori nell’operatività quotidiana di due grandi realtà industriali. E come il
costante presidio delle esigenze di informazione e di comunicazione interna,
esterna ed istituzionale, possa consentire alle imprese di sviluppare nei propri
collaboratori sentimenti di appartenenza, di identità e di condivisione con la
mission aziendale.
Dopo aver illustrato la grande importanza della comunicazione organizzativa
quale strumento di aggregazione attorno agli obiettivi strategici dell’impresa e
quale veicolo per lo sviluppo di forti sentimenti di appartenenza nei lavoratori,
nell’ultimo capitolo cercheremo infine di identificare i possibili aspetti negativi ed
i rischi che una forte cultura aziendale può comportare, sia nei confronti dei
dipendenti che degli obiettivi di business della società. In particolare, come
vedremo, il fattore di rischio è rappresentato dalla tendenza delle culture aziendali
“forti” a trasformarsi in “controllo normativo”, sostituendo il meccanismo di
controllo gerarchico-burocratico con una forma più sottile e più subdola, in grado
di interferire con la sfera privata e con l’autonomia personale dei lavoratori.
Obiettivo e conclusione della ricerca è fornire un aggiornamento ed uno spunto di
riflessione sull’impatto che la comunicazione interna ed organizzativa ha nei
confronti del rapporto dialettico azienda-dipendenti, e sull'importanza che la
stessa riveste quale strumento di ausilio nella gestione ordinaria e straordinaria
dell'impresa moderna.
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I
IL DIBATTITO ATTORNO AI CONCETTI DI ORGANIZZAZIONE E COMUNICAZIONE In questo capitolo passeremo in rassegna i principali approcci teorici al tema della
comunicazione, vista come modalità organizzativa, mettendo a confronto le
definizioni ed i contenuti più significativi evidenziati dai diversi autori. Faremo in
particolare riferimento alle tre categorizzazioni proposte da Emanuele Invernizzi
(2000), cercando di arricchirle attraverso il ricorso ad alcune delle metafore
esemplificative indicate da Linda Putnam (1996). Il ricorso alla metafora è
ricorrente negli studi sulle organizzazioni ed è probabilmente legato alla vastità ed
alla complessità dei fenomeni organizzativi: Strati (1998, p. 82), nel proporre la
“metafora dell’ipertesto”, sottolinea che la relazione tra individui e organizzazione
è interattiva, “[…] cioè nessuno è fermo, né l’individuo né l’organizzazione”.
L.R. Pondy (1995), a proposito della continua tensione tra spinte al mutamento e
tentativi di preservare la tradizione che attraversa gli studi organizzativi, osserva
come la capacità della metafora di trasmettere ad un tempo diversi significati,
“[…] ne fa lo strumento ideale per esprimere contemporaneamente l’esigenza del
cambiamento e quella della continuità […]”. Nel contesto del presente lavoro, la
metafora viene utilizzata come strumento per produrre un’analisi a più livelli della
vita organizzativa e per tentare di far luce sulla “confusione” tutt’ora esistente
attorno al termine “comunicazione”, all’interno degli studi di organizzazione
aziendale. A proposito di questa confusione, Ruth Smith, citata da Putnam (1996),
indica tre modalità di interrelazione tra organizzazione e comunicazione:
1. Relazione di contenimento, che vede la comunicazione come contenuta
entro una struttura organizzativa reificata, materialistica. G. Bonazzi
(1999, p. 18) chiarisce il significato del termine “reificato” in contesti
organizzativi: “Il problema nasce dal fatto che soltanto gli individui e non
le organizzazioni possono avere degli obiettivi. Se si ammettesse che le
organizzazioni stabiliscono in quanto tali i propri obiettivi equivarrebbe a
reificare le organizzazioni, cioè a supporre che esse dispongono di una
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«mente collettiva», che pensa e decide a somiglianza delle menti dei
singoli individui”.
2. Relazione di produzione, che esamina il modo in cui le organizzazioni
producono comunicazione, o la comunicazione produce organizzazione.
Sotto questo aspetto le organizzazioni non sono viste come semplici
contenitori dove avviene un’attività comunicativa ma, piuttosto,
comunicazione e organizzazione possono “prodursi” a vicenda, lasciando
aperto il dilemma se una delle due abbia un’esistenza prioritaria rispetto
all’altra, o se entrambe si sviluppino in maniera concomitante.
3. Relazione di equivalenza, che tratta comunicazione e organizzazione come
due processi isomorfi, come un’unità monastica, ovvero come lo stesso
fenomeno espresso in modi differenti.
Veniamo ora alle seguenti tre categorizzazioni indicate da Invernizzi (2000):
quella “Classica”, di Krone, Jablin e Putnam che, come vedremo in seguito,
costituisce un punto di riferimento obbligato; quella, più recente, di Eisenberg e
Goodall; ed infine quella di Shockley-Zalaback, caratterizzata da un livello di
astrazione superiore alle due schematizzazioni precedenti. Ciascun approccio
definisce i contenuti più significativi dell’attività di comunicazione e le diverse
modalità con le quali la comunicazione entra in relazione ed influenza le
organizzazioni. All’interno di queste categorizzazioni Invernizzi (2000) mette
particolarmente in risalto a) - il rapporto che si instaura tra i soggetti del processo
comunicazionale; b) - il canale usato e c) - il tipo di interazione che si determina.
L’attenzione posta su questi tre aspetti è funzionale all’obiettivo di Invernizzi, che
è quello di giungere ad una nuova categorizzazione in cui ricomprendere tutti i più
significativi contributi delle precedenti e che, come vedremo, sarà realizzata
proprio intersecando tra loro il tipo di interazione esistente tra i soggetti-attori del
rapporto comunicazionale ed il modo di interpretare e costruire la realtà
organizzativa. L’idea di fondo, che condividiamo, è che la comunicazione, da
strumento marginale per il supporto dell’immagine aziendale, stia diventando una
componente indispensabile per il funzionamento dell’impresa.
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LA CATEGORIZZAZIONE CLASSICA DI KRONE, JABLIN E PUT NAM
Descritta nell’Handbook of Organizational Communication del 1987 rappresenta
una sintesi molto completa dei contributi emersi fino alla fine degli anni Ottanta.
Viene definita “classica” perché costituisce il criterio più consolidato di
rappresentare le diverse interpretazioni della comunicazione organizzativa e il suo
rapporto con la gestione e lo sviluppo organizzativo. Identifica i seguenti quattro
approcci di base:
A. APPROCCIO MECCANICO
E’ riconducibile a questo approccio tutto quel filone di studi che considera la
comunicazione umana come un semplice processo di trasferimento di contenuti da
mittente a destinatario. Elementi del processo sono:
a) Il messaggio
b) Il canale comunicativo utilizzato
Si sottintende un rapporto lineare e causale fra il contenuto del messaggio e la
percezione che dello stesso avrà il destinatario. Quali fattori di disturbo si
considerano il “rumore” e le “interruzioni” che si possono verificare lungo il
canale comunicativo, ma non le caratteristiche personali e culturali del ricevente,
che viene sempre considerato permeabile da un messaggio giunto “fedelmente” a
destinazione.
Per descrivere meglio questo approccio ci viene in aiuto la metafora del
“condotto” (conduit metaphor). Il condotto rappresenta il canale attraverso il
quale i messaggi vengono convogliati all’interno di un’organizzazione. In questa
accezione, comunicare equivale quindi a trasmettere messaggi in modo lineare,
unidirezionale, mentre l’organizzazione può essere vista come un recipiente cavo
che ospita i sistemi comunicazionale ed informativo. I vocaboli che segnalano il
ricorso alla metafora del condotto sono “inviare”, “scambiare”, “trasmettere”,
“comunicare”. Malfunzionamenti sono possibili quando le informazioni non
vengono ricevute dai destinatari (che sono soggetti passivi del processo), o
quando le informazioni ricevute non riflettono le intenzioni del mittente. Esempi
di ricerche riconducibili alla metafora del condotto sono quelle che indagano
l’adozione di nuove tecnologie comunicative, che comparano tra loro i diversi
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mezzi di comunicazione, oppure ancora che studiano l’uso dei canali formali ed
informali di comunicazione.
B. APPROCCIO PSICOLOGICO
Questo approccio si focalizza sulla capacità di codifica del messaggio da parte del
mittente e sulla corrispondente decodifica da parte del ricevente. Entrambi, sia pur
involontariamente, ricorrono a “filtri concettuali” che risiedono nell’apparato
cognitivo e che influenzano la formulazione e la percezione del contenuto dei
messaggi. Soltanto se vi è similitudine tra “filtri” del mittente e del destinatario il
messaggio arriverà a destinazione. L’approccio psicologico assume quindi come
oggetto privilegiato di studio il ricevente e le sue modalità di interpretazione dei
messaggi.
Possiamo associare questo approccio alla metafora della “lente” (lens metaphor)
che considera la comunicazione equivalente ad un processo di filtraggio che
cerca, recupera ed instrada le informazioni. L’immagine dell’organizzazione che
si ricava da questa metafora è quella di un occhio che scruta, vaglia e trasmette.
Diversamente dalla metafora del condotto, mittente e ricevente sono parte attiva
nel processo, mentre continua a sussistere la relazione di contenimento della
comunicazione entro l’organizzazione, esattamente come l’occhio contiene la
lente che filtra e vaglia le informazioni. Le ricerche in comunicazione
organizzativa influenzate dalla metafora della lente variano da studi sui flussi
delle informazioni, a lavori più recenti sulla percezione delle incertezze
ambientali e sulle nuove tecnologie comunicazionali.
C. APPROCCIO INTERPRETATIVO-SIMBOLICO
In questa prospettiva, che si fonda sull’assunzione di base dell’interazionismo
simbolico, la comunicazione assume una rilevanza molto maggiore rispetto ai due
approcci precedentemente illustrati. Si riconosce infatti agli individui la capacità
di modellare la realtà sociale attraverso la loro capacità a comunicare. La realtà è
interpretata attraverso un continuo processo di attribuzione di significati, anche
simbolici, che gli individui fanno rapportandosi costantemente tra di loro
nell’ambito dell’agire comunicativo. Secondo questo approccio, il processo
comunicativo funziona quando c’è “congruenza” nella base culturale dei soggetti
coinvolti, così da facilitare il loro consenso sui significati veicolati dal messaggio.
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La metafora che riteniamo più adatta ad esemplificare questo approccio è quella
del “simbolo” (symbol metaphor), dove la comunicazione funziona come
creazione, manutenzione e trasformazione di significati. In questa metafora,
l’aspetto simbolico della comunicazione è il soggetto principale, mentre
l’interazione sociale è il soggetto secondario. Un simbolo è qui inteso come un
segno complesso che “sta per” o suggerisce qualcos’altro attraverso associazioni o
convenzioni. La comunicazione è quindi “interpretazione” attraverso la
produzione di simboli che rendono il mondo intelligibile, mentre la vita nelle
organizzazioni è paragonabile ad un’attività letteraria di interpretazione dei
simboli presenti nel paesaggio organizzativo. Tra gli studi che si affidano alla
metafora del simbolo ricordiamo quelli sulla costruzione e mantenimento delle
culture organizzative e quelli sui significati condivisi.
D. APPROCCIO DELL’INTERAZIONE SISTEMICA
Si riferisce alla teoria generale dei sistemi, e considera la comunicazione come un
insieme di comportamenti che deve essere analizzato nel suo complesso, senza
scomposizione in singoli eventi. Si esaminano le sequenze di comportamenti
comunicazionali che hanno luogo in diversi periodi di tempo, per definirne
categorie e forme. Questo approccio, che ha il pregio di analizzare le componenti
del processo nella loro interezza, non considera né “filtri concettuali” né le
complesse modalità di formazione e decodifica del messaggio evidenziate
dall’approccio interpretativo-simbolico.
LA CATEGORIZZAZIONE DI EISENBERG E GOODALL
Rappresenta la riflessione più recente ed è particolarmente interessante perché
mette in evidenza l’intenzionalità dell’azione comunicazionale dei soggetti
organizzativi ed i possibili effetti che ne derivano dal rapporto con i vincoli
strutturali dell’organizzazione. Anche in questo caso vengono identificati quattro
approcci:
A. COMUNICAZIONE COME TRASFERIMENTO D’INFORMAZIONI
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Questo approccio è sostanzialmente analogo a quello “meccanico” della
categorizzazione di Krone, Jablin e Putnam.
B. COMUNICAZIONE COME PROCESSO TRANSNAZIONALE
E’ simile all’approccio “psicologico” della precedente categorizzazione e
sottolinea la difficoltà di fare una distinzione precisa tra emittente e ricevente,
oltre all’importanza del feed-back.
C. COMUNICAZIONE COME CONTROLLO STRATEGICO
Interpreta la comunicazione come un mezzo che si rende disponibile ai soggetti
per il controllo del loro ambiente. Secondo questo approccio la comunicazione è
quindi orientata ad un fine, e non deve necessariamente essere “etica” o orientata
alla diffusione di tutte le informazioni disponibili in un determinato contesto.
D. COMUNICAZIONE COME BILANCIAMENTO TRA CREATIVITÀ E COSTRIZIONE.
È l’approccio proposto dagli autori, che definiscono la comunicazione
organizzativa come il processo di elaborazione e di soluzione della tensione tra
creatività individuale e costrizioni organizzative. È un approccio molto vicino a
quello interpretativo simbolico presentato da Krone, Jablin e Putnam.
LA CATEGORIZZAZIONE DI SHOCKLEY-ZALABAK
Questa categorizzazione, che a differenza dalle precedenti non tenta di
sistematizzare i diversi approcci comunicazionali, è particolarmente interessante
perché si propone di individuare due sole modalità di vedere ed interpretare la
comunicazione organizzativa, in base agli obiettivi che la stessa si propone:
A. APPROCCIO FUNZIONALE
Ha finalità prevalentemente analitico-descrittive e studia come la comunicazione,
vista sottoforma di una rete di messaggi complessa, multicanale, agisce nel
contesto organizzativo. Fattori come la “distorsione” e “l’intensità” dei flussi
comunicazionali richiedono una scomposizione logica del processo complesso in
componenti più elementari. Individua 3 finalità della comunicazione aziendale: 1)
- quella organizzativa, destinata a chiarire le aspettative dell’organizzazione nei
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confronti dei suoi membri (normalmente attraverso manualistica, newsletters,
formazione); 2) - quella tesa a sviluppare le relazioni, che intende integrare gli
individui nel loro ambiente di lavoro sviluppando sentimenti di appartenenza nei
lavoratori; 3) - quella per facilitare il cambiamento, che intende aiutare
l’adattamento delle attività lavorative all’evoluzione in corso all’interno
dell’organizzazione.
B. APPROCCIO CENTRATO SUL SIGNIFICATO
Studia la comunicazione dal punto di vista dell’interazione umana per capire
come la realtà organizzativa venga formata, prescindendo dalle modalità con cui
la stessa si realizza. Qui la comunicazione organizzativa è vista come un processo
per generare realtà condivise, attraverso le attività di:
1. organizzare e decidere dove, adottando esplicitamente il cognitivismo
radicale di Weick, comunicare e organizzare sono considerati processi quasi
coincidenti (una chiara esposizione del pensiero di Weick si trova in
Bonazzi, 1999, p. 144-174);
2. influenzare gli altri, per creare e cambiare eventi organizzativi influenzando,
attraverso la comunicazione, i soggetti destinatari;
3. generare cultura, dove si analizza il linguaggio, il gergo specialistico ed i
simboli di un determinato contesto organizzativo per individuarne il terreno
comune simbolico e per capire il processo attraverso il quale si generano
realtà organizzative uniche.
Possiamo associare a questo approccio la metafora della “prestazione”
(performance metaphor), incentrata su interazione e significato. In questa
metafora con “performance” ci si riferisce a processi e ad attività, più che a
risultati, mentre l’interazione sociale diviene il punto focale per le ricerche di
comunicazione organizzativa. La comunicazione infatti, secondo questa prospet-
tiva, và vista come una serie di scambi interconnessi, del tipo “messaggio –
feedback – risposta” oppure “azione – reazione – aggiustamento”; in altre parole,
come una continua serie di segnali, senza un chiaro inizio e una chiara fine.
Compito dello studioso è di agire come un detective, alla ricerca di costrutti
organizzativi, basandosi sulla raccolta di voci, storie ed episodi, scavando dentro
sequenze di vita, forme di socializzazione e significati, dove l’interazione sociale
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è radicata. Modelli, attribuzioni di senso, folklore e racconti verbali e non verbali
da parte dei soggetti (storytelling) rappresentano tre filoni diversi, ma collegati,
della performance metaphor.
UNA VISIONE D’INSIEME
Invernizzi (2000, p. 42-49) aggrega in una matrice a 2 variabili tutti gli approcci
sopra illustrati e tenta una lettura d’insieme. Le variabili utilizzate sono: a) il tipo
di interazione esistente tra i soggetti del rapporto comunicazionale e b) la
funzione attribuita agli atti comunicazionali nei confronti della realtà
organizzativa. La prima variabile misura l’interazione tra emittente e ricevente ed
indica se si tratta di un rapporto di causa-effetto (quando è possibile una
distinzione precisa tra i due soggetti) o di tipo interattivo (quando la distinzione
non è possibile). La seconda variabile riguarda il modo con cui gli atti
comunicazionali modificano la realtà organizzativa, e distingue tra atti
intenzionali tesi a modificare una realtà percepita come oggettiva, ed atti risultanti
dal continuo processo di interazione dei soggetti organizzativi entro una realtà
percepita in continua evoluzione.
MODO DI COSTRUIRE LA REALTÀ ORGANIZZATIVA
Intenzionale e fattuale Processuale e Simbolico
� Meccanico
� Trasferimento delle Informazioni
� Controllo strategico
� Psicologico
� Sistemico Interattivo
� Transnazionale
� Funzionale
� Interpretativo -Simbolico
� Bilanciamento tra creatività e costrizione
� Centrato sul significato
RAPPORTO TRA GL I ATTORI
Causa-Effetto
Interattivo
A B
C D
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Brevemente, la prospettiva A) fornisce una visione semplificata del sistema
comunicazionale, considerando i singoli atti secondo le intenzioni dell’emittente,
all’interno di un processo dove il ricevente non ha la possibilità di intervenire.
La prospettiva B) combina una visione del rapporto tra gli attori percepita sempre
secondo le intenzioni dell’emittente, in un contesto organizzativo di tipo
processuale e simbolico, dove trova collocazione solo l’approccio del “Controllo
Strategico”.
La prospettiva C) combina un rapporto tra gli attori di tipo interattivo in un
ambiente percepito come intenzionalmente modificabile attraverso interventi
comunicativi mirati. In questa prospettiva assumono importanza i “filtri”
concettuali degli operatori ed i “feed-back” del ricevente.
Infine la prospettiva D), la più interessante ai fini del presente lavoro, che
combina il rapporto di tipo interattivo tra emittente e ricevente con una
concezione dell’ambiente di tipo processuale, in continua evoluzione. In questa
prospettiva risulta enfatizzato il ruolo organizzativo della comunicazione, in grado
di modellare la realtà sociale circostante, di creare coesione e unità d’intenti,
sostituendo procedure e regolamenti che tendono a ridursi sempre più nelle
imprese moderne. Questo è particolarmente vero nelle organizzazioni più
complesse, come quelle a rete, dove i soggetti hanno maggiori gradi di libertà e
compiti spesso non semplici, né predefiniti.
È evidente il tentativo di Invernizzi di porre le diverse prospettive esaminate in
chiave diacronica, lasciando emergere il crescente supporto che la comunicazione
è in grado di fornire per il raggiungimento degli obiettivi che un’organizzazione
complessa si propone. In particolare appare evidente come nelle realtà
organizzative più semplici, gestite secondo il modello gerarchico - burocratico,
anche una prospettiva di tipo “A” della comunicazione possa funzionare bene. Al
contrario, in organizzazioni più complesse, solo le prospettive “C” e “D” possono
consentire di interpretare correttamente i percorsi comunicazionali e le loro
conseguenze.
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I limiti della categorizzazione proposta da Invernizzi (2000) risiedono nel fatto di
aver considerato la comunicazione ed il suo sviluppo come un fenomeno a sé
stante, senza verificarne i collegamenti con lo sviluppo organizzativo.
Cosa questa che faremo nel corso del prossimo capitolo.
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II
MODELLI ORGANIZZATIVI E NECESSITÀ COMUNICAZIONALI
In questo capitolo descriveremo brevemente alcune teorie organizzative, scelte
senza la pretesa di essere esaustivi, ma cercando piuttosto di seguire un percorso
logico che, partendo dal taylorismo, affronti in chiave evolutiva aspetti
comunicazionali e valorizzazione delle risorse umane all’interno di ciascun
modello.
L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO DI FREDERIC K
TAYLOR
Collocata storicamente agli inizi del ‘900 l’OSL, secondo una definizione data
dallo stesso Taylor, consiste di un certo numero di principi generali di vasta
portata, dentro una ben definita concezione teorica, che può venire applicata in
varie maniere. La concezione teorica di cui parla Taylor è in realtà piuttosto
generica e si fonda sull’equazione “maggiore rendimento = maggiore benessere
per tutti”. Ovvero nel provocare, attraverso l’aumento della produttività
conseguente all’introduzione dell’OSL, una abbondanza tale da rendere superfluo
il conflitto sociale attorno alla divisione del surplus. Per ottenere risultati ottimali,
la direzione d’impresa deve assumersi in prima persona i compiti organizzativi e
non lasciarli agli operai, che devono limitarsi a seguire in modo scrupoloso e
sistematico le mansioni che gli sono state assegnate.
Secondo la sintesi proposta da Bonazzi (2000) i principi del taylorismo sono
sostanzialmente quattro:
1. Lo studio scientifico dei metodi di lavorazione, che è la parte più nota
dell’opera di Taylor e si propone di rilevare nel dettaglio contenuti, tempi e
metodi di lavoro (MTM).
2. Selezione e addestramento scientifico della mano d’opera, che comprende
anche la ricerca della giusta collocazione di ciascun lavoratore all’interno
dell’impresa, in base alle caratteristiche ed attitudini individuali;
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3. Intima e cordiale collaborazione tra dirigenti e mano d’opera, che serve sia
come valvola di sfogo, per restituire una dimensione umana al lavoro
disumanizzato dall’introduzione di metodi scientifici, che come deterrente
nei confronti della sindacalizzazione;
4. Ristrutturazione dell’apparato direttivo, che affronta il problema della
scarsità di uomini con alte capacità di comando e propone di risolverlo
elevando il numero di quadri intermedi. Questi avranno campi di
competenza ristretti ed ancorati a norme e procedure stabilite dalla Direzione
centrale.
LE COMPONENTI DI COMUNICAZIONE NEL TAYLORISMO.
In base agli assunti teorici su cui è fondata l’OSL si può dire che l’unico tipo di
comunicazione richiesta per il funzionamento del modello sia quella, totalmente
verticalizzata, necessaria per dare disposizioni e per informare i dipendenti su
regole e procedure. Invernizzi (2000) individua due distinte esigenze
comunicazionali all’interno del Taylorismo. La prima esigenza, implicita,
riguarda la comunicazione per la legittimazione ed il funzionamento
dell’organizzazione: viene normalmente effettuata in forma scritta e detta regole
generali, definisce i compiti, le responsabilità e le modalità di esecuzione del
lavoro. Esempi sono il mansionario, le circolari, gli ordini di servizio. La seconda
esigenza, esplicita, riguarda l’attivazione della collaborazione della manodopera
che, in base alle parole di Taylor stesso, deve “essere incoraggiata a discutere
con i dirigenti su qualsiasi controversia in cui si possa incorrere sia nello
stabilimento che fuori[…] soprattutto è desiderabile che i superiori parlino agli
operai ponendosi al loro livello”. Questa seconda esigenza, sia pur fondata, come
osserva Bonazzi (2000), su un rozzo ma efficace paternalismo, è anticipatoria di
quella che emergerà dalla scuola delle Relazioni Umane, come vedremo in
seguito.
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LA SCUOLA DELLE RELAZIONI UMANE
La scuola delle Relazioni Umane ha origine da ricerche svolte da Elton Mayo tra
il 1927 ed il 1932 per conto della Western Electric Company di Chicago. Queste
ricerche partirono dai risultati di un esperimento, attivato in precedenza dalla
compagnia, per determinare il grado di connessione tra illuminazione nello
stabilimento e rendimento degli operai, esperimento che aveva finito per
dimostrare aumenti della capacità produttiva anche in presenza di condizioni
ambientali peggiorate, disorientando i dirigenti. Mayo ed i suoi collaboratori
svolsero un enorme mole di ricerche all’interno della Western Electric: le
conclusioni, che costituiscono i cardini dell’ideologia delle “Relazioni Umane”,
possono essere sintetizzate come segue:
a) Importanza del fattore umano, ovvero del complesso dei fattori psicologici
che condizionano il comportamento dei soggetti, costituendo un retroterra
regolato da pulsioni non rispondenti ai criteri di razionalità ipotizzati dal
taylorismo. Mayo insiste quindi sulla necessità per l’impresa di tenere conto
del “fattore umano”, adoperandosi per creare un ambiente di lavoro
socialmente gradevole e armonico.
b) L’anomia della società industriale, nel senso Durkheimiano del termine, che
Mayo vede affrontabile anche attraverso la funzione integratrice della
fabbrica, promossa a istituzione secondaria, in grado di offrire programmi
sociali che facciano superare ai dipendenti possibili tentazioni conflittuali.
c) L’organizzazione informale, quindi norme non scritte, spesso elaborate da
piccoli nuclei di lavoro, che hanno il potere di condizionare fortemente
l’operato dei lavoratori. Lavoratori che, molto spesso, sviluppano sentimenti
di fedeltà ed appartenenza nei confronti del gruppo, al punto da anteporre le
esigenze del gruppo stesso alle proprie.
I risultati delle indagini condotte dagli studiosi delle relazioni umane hanno
lasciato un segno profondo nella pratica aziendale e negli stili di gestione del
trentennio successivo, nonostante le loro conclusioni siano state in seguito
seriamente messe in discussione.
19
LE COMPONENTI DI COMUNICAZIONE NELLA SCUOLA DELLE RELAZIONI UMANE. Le relazioni umane inducono un forte sviluppo della comunicazione
interpersonale, soprattutto quella di tipo informale, e sottolineano la grande
influenza della comunicazione sui comportamenti organizzativi dei soggetti. A
differenza del taylorismo sottolineano inoltre l’importanza del feed-back da parte
dei lavoratori. Ma quello che appare più importante, anche ai fini del presente
lavoro, è la possibilità di impiegare la comunicazione informale per integrare la
comunicazione formale, favorendone la corretta interpretazione, migliorandone
l’accuratezza e riducendone le distorsioni.
I MOTIVAZIONALISTI E LE TEORIE DI REALIZZAZIONE DEL LA PERSONALITÀ
La scuola motivazionalista, che si è sviluppata soprattutto negli Stati Uniti tra gli
anni 1960 e ’70, rappresenta il primo vero tentativo di superare i principi della
scuola Classica e propone adattamenti organizzativi, basati su una nuova e più
complessa antropologia dei bisogni dell’uomo, volti ad aumentare la motivazione
dei lavoratori. Rappresenta altresì un sostanziale superamento delle Relazioni
Umane in quanto rivendica (Bonazzi, 2000, p. 98) “[…] mutamenti reali nei
contenuti del lavoro e non soltanto interventi manipolatori sulla psiche umana”.
La tesi dei motivazionalisti è che i fini dell’organizzazione possano essere tanto
più proficuamente perseguiti quanto più sono soddisfatte le esigenze di crescita
personale dei soggetti.
Vediamo ora quali siano i bisogni di autorealizzazione umana e gli strumenti
operativi per soddisfarli suggeriti alle imprese dai principali esponenti della
scuola motivazionalista.
LA SCALA DEI BISOGNI DI ABRAHAM MASLOW Maslow distingue le seguenti cinque categorie di bisogni umani, legati all’attività
lavorativa e collocati lungo una scala gerarchica:
1. I bisogni fisiologici, legati alle necessità di sussistenza nel breve periodo;
2. I bisogni di sicurezza, legati alle necessità a medio-lungo termine;
20
3. I bisogni sociali, legati alla necessità di un ambiente sociale gradevole;
4. I bisogni dell’ego, legati all’autostima ed al riconoscimento sociale del
proprio status;
5. I bisogni di autorealizzazione, legati all’esigenza di un lavoro che consenta
all’individuo di esprimere la propria personalità.
Secondo Maslow, per motivare i propri collaboratori, il management di
un’impresa dovrà adoperarsi per soddisfare i bisogni di ordine direttamente
superiore rispetto a quelli già soddisfatti.
Senza addentrarci in una disamina completa del modello, osserviamo
l’allargamento della funzione del lavoro che lo stesso comporta rispetto alla
scuola Classica, e le esigenze comunicazionali implicite quanto meno nella
soddisfazione dei bisogni di ordine superiore, quali quelli di autostima e di
autorealizzazione.
IL CONFLITTO TRA INDIVIDUO E ORGANIZZAZIONE SECONDO CHRIS ARGYRIS Per Argyris l’evoluzione dallo stato infantile a quello maturo di ciascun individuo
comporta alcuni cambiamenti fondamentali, quali il passaggio da uno stato di
passività e di dipendenza ad uno di attività e relativa indipendenza; da una
posizione subordinata nella famiglia e nella società ad una di uguaglianza; da una
mancata consapevolezza di sé a una crescita di autocoscienza e di controllo su se
stesso.
Le caratteristiche delle organizzazioni basate sulla scuola Classica sono tali da
richiedere soggetti più vicini allo stadio infantile che a quello maturo, e questo
può creare situazioni di conflittualità o stati psicologici di difesa da parte del
lavoratore. Per uscire da questo stato di cose Argyris propone quindi una radicale
trasformazione dei compiti lavorativi, organizzando il lavoro in gruppi
relativamente autonomi, che si autogestiscono in modo partecipativo e
democratico, lasciando spazi di decisione per i singoli e consentendo lo
svilupparsi di forme di leadership naturali. Su queste basi Argyris matura la sua
teoria dell’apprendimento organizzativo, che concepisce l’organizzazione come
un “costrutto cognitivo”, dove i soggetti concorrono attivamente a modificare il
21
modo di vedere la realtà utilizzato dall’organizzazione. Il concetto di
“apprendimento organizzativo” apre importanti prospettive per la comunicazione
sottolineando la necessità di diffondere all’interno dell’impresa quelle esperienze
e quelle conoscenze che possono essere utilizzate per far crescere tutta
l’organizzazione. Percorrendo questa strada (Invernizzi, 2000, p. 94) “si arriva
fino alla comunicazione dei valori guida aziendali, che assume una valenza
strategica per motivare e coinvolgere le persone, oltre che per fornire a tutti una
guida e dei riferimenti all’agire organizzativo”.
“IGIENE” E MOTIVAZIONE SECONDO FREDERICK HERZBERG Ammesso che il livello più alto di sviluppo della personalità corrisponda al
bisogno di autorealizzazione previsto dalla scala di Maslow o alla condizione di
“maturità” indicata da Argyris, occorre comunque prendere atto che nelle
organizzazioni lavorano anche individui che sono soddisfatti di compiere lavori
subalterni e non ambiscono a maggiori responsabilità. Herzberg riconosce questo
aspetto, ed elabora una teoria fondata sulla distinzione tra due classi di fattori: da
un lato i cosiddetti fattori “igienici” o esterni al lavoro, che riguardano l’ambiente
fisico dove si svolge l’attività, l’ambiente sociale, la remunerazione; dall’altro
lato troviamo i fattori “motivazionali”, legati al contenuto dell’attività lavorativa,
e quindi capaci di procurare una crescita psicologica in chi lavora. Secondo
Herzberg i fattori igienici non sono suscettibili di procurare una effettiva
soddisfazione ed il loro miglioramento può soltanto portare ad una minore
insoddisfazione. Per ricavare una reale soddisfazione dall’attività lavorativa
occorre dunque intervenire sui fattori motivazionali, come esemplificato dal
seguente diagramma:
Fattori di Igiene Fattori di motivazione
- 0 + Insoddisfazione Soddisfazione
Sulla base di questa classificazione, Herzberg distingue quindi i lavoratori tra
“ ricercatori di igiene” e “ricercatori di motivazione”, attribuendo solo ai secondi
la capacità di provare una reale soddisfazione sul lavoro. L’obiettivo del
22
management diventa dunque quello di dare ai ricercatori di motivazione mansioni
ed incarichi tali da permettere loro di realizzarsi e di progredire.
Dal punto di vista comunicazionale questo modello è interessante perché consente
di elaborare due possibili strategie: una mirata a contrastare l’insorgere di
insoddisfazione (ad esempio attraverso comunicati di tipo funzionale, in supporto
ai processi produttivi e gestionali, oppure attraverso organigrammi e mansionari);
l’altra relativa alla vita dell’azienda, alle sue più importanti iniziative ed ai suoi
programmi, volta a creare soddisfazione attraverso attività che sviluppino
sentimenti di appartenenza e di identificazione con i valori guida dell’impresa.
I MOTIVAZIONALISTI: OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
La scuola Classica individuava nella soddisfazione dei bisogni primari la leva a
disposizione delle organizzazioni per motivare i dipendenti. Al principio della
razionalità economica la scuola delle Risorse Umane aggiunse quello dei bisogni
psicologici, che possono essere soddisfatti attraverso una relazione “calorosa” con
il management. La strada dei motivazionalisti è più ricca e articolata, arrivando a
proporre un radicale superamento dell’organizzazione tradizionale del lavoro, ed
introducendo la comunicazione come potente strumento di gestione e come
componente essenziale dei ruoli lavorativi. Il limite dei teorici motivazionalisti,
secondo Bonazzi (2000, p.116) è il silenzio sulla variabile tecnologica, che
permette sì di sviluppare analisi brillanti, prescindendo però dai problemi posti
dalla specificità delle mansioni e delle organizzazioni. Secondo questo autore
quindi, il vero superamento “dell’afflizione taylorista” va trovato nelle possibilità
offerte dal progresso tecnologico, piuttosto che nella ricerca volontaristica di
modelli alternativi.
TEORIE DELLE CONTINGENZE E TEORIE DEI PROCESSI DECISIONALI
Queste teorie nascono entrambe dal paradigma sistemico, ed affrontano il
problema di come gestire l’incertezza e l’ambiguità provenienti dall’ambiente che
circonda l’organizzazione. Vengono considerate congiuntamente in quanto
mostrano necessità simili di supporto comunicazionale.
23
LA TEORIA DELLE CONTINGENZE – JOAN WOODWARD Le teorie delle contingenze si riferiscono principalmente all’influenza delle
variabili tecnologiche e di quelle ambientali. In particolare il lavoro di Woodward
studia le connessioni tra strutture organizzative e variabili interne, tra tecnologia
produttiva e struttura aziendale.
Nel 1965 la Woodward condusse una ricerca su cento imprese inglesi del South
Essex, finalizzata a scoprire le ragioni degli scostamenti dei diversi modelli
organizzativi adottati dalle imprese, rispetto al modello ottimale indicato dalla
scuola Classica. La ricerca non condusse ad alcun risultato apprezzabile fino a
quando la Woodward non decise di distinguere le imprese adottando la tecnologia
produttiva come variabile indipendente. In tal modo la ricercatrice individuò tre
principali classi di imprese:
a) imprese addette alla produzione di singole unità o piccole serie, dove le
competenze professionali, spesso di tipo manuale, sono diffuse sia tra i capi
che tra gli operatori di livello inferiore. Qui i rapporti con il vertice sono
spicci e informali e il controllo gerarchico è ridotto al minimo;
b) imprese addette a produzioni di massa o di grande serie, dove l’attività
produttiva è regolata dai principi tayloristici e dove si concentrano le
maggiori tensioni sociali. Qui le squadre operaie sono molto ampie e le
competenze professionali sono concentrate nei livelli medio-alti del
management, che svolge un ruolo di sorveglianza e di controllo;
c) imprese di produzione a ciclo continuo, dove l’attività produttiva è di tipo
processuale, automatizzata e governata da supporti informatici.
Da queste evidenze, la Woodward giunse ad un’importante conclusione: le
aziende di maggior successo sono quelle che adottano caratteristiche
organizzative congruenti con la loro tecnologia produttiva (principio della
consonanza). Un secondo aspetto rilevante delle scoperte della Woodward è che,
in base alla classe di appartenenza, varia la sequenza delle tre funzioni
fondamentali delle imprese. Nelle imprese che lavorano su piccole serie la
sequenza è: mercato -> sviluppo -> produzione; in quelle che lavorano su
produzioni di massa è: sviluppo -> produzione -> mercato; infine in quelle a
ciclo continuo la sequenza è: sviluppo -> mercato -> produzione.
24
LE COMPONENTI DI COMUNICAZIONE
La teoria delle contingenze prende in considerazione le interazioni e gli scambi
comunicazionali tra l’organizzazione e l’ambiente esterno. In effetti, secondo
questa teoria, l’organizzazione dovrebbe costantemente interrogare il mondo
circostante ed i settori di interesse per anticipare le tendenze dei mercati, per
sondare le esigenze dei consumatori e per aggiornarsi su innovazioni tecnologiche
e scoperte scientifiche. Le informazioni raccolte dovrebbero essere quindi
convogliate in modo strutturato all’interno dell’organizzazione stessa, per
consentirle di adattarsi ai mutamenti ambientali.
Oltre a raccogliere informazioni utili a sviluppare una corretta comunicazione
interna, l’organizzazione dovrà anche curare e mantenere un flusso comunicativo
verso l’esterno, volto ad influenzare ed a sensibilizzare enti ed altre
organizzazioni rilevanti. Gli strumenti normalmente utilizzati per la raccolta e per
la diffusione di informazione nei confronti del mondo esterno variano da indagini
di mercato ad attività di lobbying, da verifiche sulla soddisfazione della clientela a
veri e propri benchmark. Il modello di comunicazione adottato deve, in altre
parole, rispecchiare la tipicità di queste organizzazioni; inoltre, secondo Invernizzi
(2000, p. 113), deve essere basato sul principio della massima “coerenza” fra tutti
gli elementi del sistema organizzativo e del sistema di comunicazione, in modo da
coordinare tra di loro le diverse parti che compongono l’organizzazione-sistema
con l’ambiente circostante.
LA RAZIONALITÀ LIMITATA DEI PROCESSI DECISIONALI – HERBERT SIMON Nei decenni centrali del XX secolo, Herbert Simon introdusse il
comportamentismo in campo organizzativo, spostando l’oggetto di analisi dai fini
e dalle funzioni delle organizzazioni, ai comportamenti umani che hanno luogo
all’interno delle organizzazioni. Secondo Simon (1967) l’attenzione va posta sulle
“decisioni giornaliere” che i soggetti prendono continuamente all’interno delle
organizzazioni, piuttosto che sui “ruoli” prescritti dagli organigrammi. Queste
decisioni non possono essere sempre considerate totalmente razionali perché
l’uomo, per limiti dovuti alla sua stessa natura, quali l’impossibilità di considerare
contemporaneamente molte variabili, i condizionamenti sociali e culturali ecc., è
25
soggetto ad una razionalità “limitata” e, normalmente, si accontenta di soluzioni
soddisfacenti. Simon (1967) ritiene quindi che occorra capovolgere l’approccio
della scuola Classica e rinunciare alla ricerca di principi universali e razionali per
spiegare l’agire dell’homo oeconomicus. Lo studio del comportamento
organizzativo dovrà focalizzarsi sull’analisi delle decisioni, definita dal
continuum mezzi-fini, che Simon (1967, p. 263-295) studia distinguendo tra
giudizi “di fatto”, che indagano l’adeguatezza dei mezzi, e giudizi “di valore”, che
indagano la desiderabilità del fine.
Desideriamo a questo punto richiamare tre aspetti del pensiero di Simon che
riteniamo particolarmente importanti per il prosieguo del presente lavoro:
1) Le Organizzazioni come correttivo ai limiti della razionalità umana.
Qui Simon, ampliando le tesi di Chester Barnard, descrive le organizzazioni
come lo strumento più efficace per integrare e coordinare il comportamento
umano, mantenendo la razionalità ad un livello alto. Quindi, affinché le
persone possano porsi degli obiettivi complessi, occorre che possano
attingere ad un repertorio di programmi già disponibili, che costituiscono il
patrimonio di esperienza dell’organizzazione. La disponibilità di modelli e
schemi prestabiliti all’interno delle organizzazioni consente inoltre di ridurre
l’incertezza che deriva dalla mancanza di prove sicure sulla validità dei dati
raccolti (pensiamo ad esempio a dati di mercato, a proiezioni dei consumi
ecc.): si decide allora in base ad altri indicatori, sostitutivi delle prove certe,
ai quali i calcoli e le esperienze precedenti, codificate dall’organizzazione,
conferiscono un significativo grado di accettabilità.
2) La distinzione tra Autorità ed Influenza.
Rispetto all’affermazione che gli uomini, in genere, obbediscono in base al
principio dell’autorità, Simon obietta sostenendo che solo una piccola parte
dei comportamenti umani risponderebbe a questo principio, accettando di
conformarsi agli ordini e mettendo a riposo le proprie facoltà critiche. Al
contrario, secondo Simon, la grande maggioranza dei comportamenti umani
sarebbe regolata dal principio di “Influenza”, secondo il quale chi agisce è
d’accordo, almeno a grandi linee, con chi comanda.
3) Equilibrio tra contributi forniti dai singoli ed incentivi.
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Le organizzazioni sono alimentate dalle prestazioni dei singoli partecipanti, i
quali forniscono il loro contributo fino a quando gli incentivi ricevuti in
cambio dall’organizzazione vengono percepiti di valore pari, o superiore,
rispetto a quanto individualmente erogato. Simon precisa che la maggior
parte degli incentivi attesi dai singoli è di natura non materiale, quali ad
esempio prestigio, sicurezza, crescita professionale, senso di appartenenza,
familiarità con l’ambiente ecc.
LE COMPONENTI DI COMUNICAZIONE
I tre aspetti della teoria di Simon qui sopra richiamati indicano chiaramente anche
le esigenze di comunicazione del modello: un uso accorto della comunicazione
organizzativa può infatti essere vitale per contenere i fattori limitanti la
razionalità, diffondendo adeguatamente il patrimonio di esperienze
dell’organizzazione riguardo la catena mezzi-fini. In altre parole, incertezza ed
ambiguità possono venire drasticamente ridotte attraverso processi di
interpretazione e condivisione delle informazioni, volti a creare un comune
background di conoscenze all’interno di tutta l’organizzazione.
In secondo luogo, la comunicazione dei valori guida e dei fini generali di ciascun
progetto contribuirà a creare conoscenza ed informazione rispetto agli obiettivi
dell’organizzazione, stimolando la condivisione degli scopi in base al principio di
“ Influenza”, piuttosto che far leva sull’imposizione secondo il principio di
“Autorità”.
Infine, sarà sempre la comunicazione interna ed istituzionale a fare da fondamento
e a radicare nell’organizzazione quei valori immateriali quali la sicurezza, il
prestigio ed il senso di appartenenza, percepiti come ricompense nello scambio
“contributi contro incentivi”.
Osserviamo da ultimo come sia la teoria delle contingenze che la teoria della
razionalità limitata vedano nella comunicazione un processo complesso e
finalizzato a risolvere questioni di fondamentale importanza strategica all’interno
delle organizzazioni, quali il cambiamento del contesto di riferimento,
l’adeguamento delle strutture, l’introduzione di nuovi sistemi di gestione ecc.
Entrambe le teorie, inoltre, introducono l’idea che la comunicazione della
“mission” e dei valori guida dell’organizzazione debba essere estesa a tutti i
27
soggetti, anche a quelli appartenenti ai livelli più bassi, come base per una
comune cultura organizzativa, indispensabile per gestire al meglio le situazioni di
ambiguità informativa.
IL MODELLO DELL’IMPRESA-RETE
Rappresenta una delle più recenti acquisizioni nel campo degli studi organizzativi,
al punto che ci si dovrebbe chiedere se i contributi degli studiosi che hanno
trattato questo argomento costituiscano già un corpo di conoscenze tali da poter
essere considerate un modello organizzativo. La nostra risposta è positiva, come
quella di Trabucchi (1991), Di Raco-Santoro (1996), Butera (1997), Invernizzi
(2000, p. 141-165) cui ci riferiremo nel presentare le caratteristiche principali del
modello. Un modello, quello dell’impresa-rete, che si propone di governare realtà
ambientali talmente complesse, mutevoli, ed in contrasto tra loro da richiedere
tutti i contributi più importanti delle teorie precedenti, così da risultare a sua volta
complesso e, talvolta, contraddittorio.
Per definire le basi teoriche e le premesse del modello, Invernizzi (2000) isola i
seguenti cinque concetti:
1. Rete organizzativa come interpretazione dei cambiamenti in corso nelle economie industriali.
Secondo questo primo presupposto, la necessità dell’organizzazione a rete
deriva dai cambiamenti in corso nelle economie industriali, nella
globalizzazione dell’economia mondiale, nella difficoltà di prevedere la
domanda di nuovi prodotti e la loro obsolescenza, nella richiesta di
personalizzazione di prodotti e servizi, nei rapidi cambiamenti degli
ambienti politici e della forza lavoro. Tutti fattori questi che richiedono
velocità, flessibilità, capacità di sfruttare le opportunità, e che contrastano
quindi con un’organizzazione di tipo gerarchico-burocratico.
2. Centralità delle relazioni come elementi costitutivi della rete organizzativa.
Le relazioni rappresentano l’elemento centrale delle organizzazioni a rete,
che possono anche essere descritte, con una metafora, “aggregati di
relazioni”. Contrariamente alle interazioni, che definiscono l’aspetto
immediato e dinamico dei rapporti, le relazioni esprimono un carattere
generale e di lungo termine.
28
3. Reciprocità tra prestazione e controprestazione come condizione di equilibrio nel lungo periodo.
Nell’organizzazione a rete l’equilibrio tra prestazione e controprestazione si
realizza nel corso dell’intera relazione di scambio, quindi nel lungo periodo,
e non in modo istantaneo come invece avviene sul mercato.
4. Auto-adattabilità dell’organizzazione a rete.
Il modello organizzativo a rete, contrariamente all’organizzazione di tipo
burocratico, deve essere in grado di costruire connessioni interne ed esterne
ad hoc, per affrontare con flessibilità ed adattabilità un nuovo problema, non
appena questo si presenta.
5. Relazione tra diffusione delle reti organizzative ed il bisogno di sviluppare e condividere il sapere.
La rete organizzativa consente di creare un’osmosi tra relazioni interne ed
esterne, necessaria a sintonizzarsi sulle linee evolutive del proprio ambiente
di riferimento. La rete serve infatti a garantire ai soggetti che ne fanno parte
la disponibilità di sapere innovativo, condiviso fra un numero elevato di
interlocutori (knowledge management).
DEFINIZIONE DI IMPRESA-RETE E FABBISOGNI DI COMUNICAZIONE
L’impresa-rete è un soggetto economico caratterizzato da fini propri, organizzato
attorno a componenti identificabili e gestibili, ma dai confini labili e più ampi
rispetto all’impresa tradizionale. L’elemento regolatore dei processi aziendali non
è la struttura organizzativa ma sono le relazioni tra soggetti d’impresa oppure tra
imprese. L’impresa-rete è, al tempo stesso, caratterizzata da un alto grado di
accentramento riguardo il controllo delle risorse strategiche, e da un alto grado di
decentramento riguardo le operazioni produttive.
La struttura dell’impresa-rete è composta da nodi, da connessioni, da strutture e da
proprietà operative (Butera, 1997, p. 64-70).
I “nodi” o “sistemi” sono entità orientate ai risultati, autoregolate, capaci di
cooperare con gli altri e di interpretare gli eventi esterni: sono entità vitali, ossia
capaci di una condotta autonoma, quali una business unit, una direzione
funzionale, un gruppo di lavoro. Nell’impresa-rete ciascun nodo è dotato della
29
capacità di raggiungere risultati, coniugando un forte orientamento ai risultati con
un’elevata flessibilità strutturale.
I legami tra nodi sono detti “connessioni” e comprendono, tra l’altro, lo scambio
di informazioni scritte e orali, indispensabili per creare relazioni e per sviluppare
sentimenti di appartenenza.
Le “strutture” possono essere gerarchiche, operative, informative, sociali, ma
devono essere tutte compatibili tra loro. Esempi di strutture sono un
organigramma, una rete locale, un servizio tecnico.
Infine, le “proprietà operative”, ovvero i dispositivi che consentono all’impresa di
funzionare, che comprendono il linguaggio, i valori, le procedure, i sistemi di
incentivazione.
Dal punto di vista della progettazione, Butera (1997, p. 60) distingue tra impresa-
rete naturale, quando all’interno della struttura organizzativa operano “nodi” ad
alto livello di autoregolazione, capaci di cooperare tra loro in vista di fini comuni,
e impresa-rete governata, quando soggetti imprenditoriali provvedono
intenzionalmente a progettare e gestire tale sistema.
Il fabbisogno di comunicazione di tutte queste quattro componenti dell’impresa-
rete, stante la complessità strutturale appena descritta e le necessità di integrazione
delle componenti stesse, è decisamente elevato. La comunicazione, inoltre, risulta
cruciale per il funzionamento e lo sviluppo di altre due caratteristiche
fondamentali dell’organizzazione:
1. L’autoadattabilità della rete, ovvero la sua capacità a mantenere e
sviluppare un fortissimo legame con l’ambiente esterno, sostenuta attraverso
la comunicazione istituzionale, la comunicazione di prodotto, la pubblicità;
2. La centralità delle relazioni, in particolare delle relazioni di tipo
cooperativo, dove le parti hanno obiettivi tra loro dipendenti, fondati sulla
reciprocità “prestazione-controprestazione”, che viene sostenuta attraverso
lo sviluppo della comunicazione interpersonale e di codici linguistici
comuni. Per supportare adeguatamente questa attività comunicazionale
risultano molto utili le moderne tecnologie informatiche, in particolare le
cosiddette ICT (Information & Communication Technologies) che
comprendono la posta elettronica, i supporti multimediali e quelli per il
30
lavoro di gruppo. Oltre alla comunicazione elettronica occorre non
dimenticare l’importanza della comunicazione “faccia-a-faccia”,
particolarmente adatta a sostenere la consistenza delle relazioni, a chiarire
ruoli ed identità dei partecipanti e a gestire le situazioni di ambiguità.
Occorre infine sottolineare un ultimo aspetto, e precisamente la relazione “clienti-
fornitori”, che nel processo di lavoro dell’impresa a rete assume la natura di
scambio comunicazionale. In effetti, il buon fine di un processo, in passato
identificato con l’output materiale di un determinato bene, è oggi concepito in
termini di soddisfazione del cliente: l’attenzione si è quindi spostata sulla
cooperazione cliente-fornitore e sui sottostanti “impegni”. Analizzando l’attività
di un’impresa-rete, si può dire che oggi manager e professional impiegano la
maggior parte del loro tempo in attività comunicative quali promettere, definire ed
assolvere impegni. La comunicazione diventa così motore dello sviluppo
dell’organizzazione, ed uno degli elementi costitutivi delle nuove forme di
impresa.
31
III
UN NUOVO PARADIGMA NELLA COMUNICAZIONE D’IMPRESA: L A COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA Nel capitolo precedente abbiamo presentato, in chiave evolutiva, le esigenze
comunicazionali di alcune tra le principali teorie organizzative. Abbiamo anche
potuto osservare che, trattandosi di comunicazione a supporto della gestione e
dello sviluppo organizzativo, la componente “interna” risulta essere prevalente.
Di comunicazione “esterna” abbiamo cominciato a parlare concretamente soltanto
esponendo la teoria dell’impresa-rete, dove abbiamo visto come un alto grado di
coerenza tra comunicazione interna ed esterna sia estremamente importante per il
coinvolgimento e la fidelizzazione di tutti i nodi, in cui sono compresi clienti,
fornitori, ed il sottostante sistema degli impegni.
Nella letteratura d’impresa contemporanea (ci riferiamo in particolare ai testi editi
da EGEA citati in bibliografia) possiamo osservare un atteggiamento decisamente
favorevole all’integrazione tra comunicazione di marketing, orientata al mercato e
comunicazione interna, rivolta prevalentemente a dipendenti e stakeholders.
Alcuni autori (Amigoni, 1991; Colombo-Comboni, 1991; Decastri, 1991; Corvi-
Fiocca, 1996) indicano nell’identità aziendale la matrice comune che lega tra loro
queste due aree della comunicazione d’impresa, divenendo un elemento di
continuità e di coerenza; una sorta di “pay-off” che ancora la comunicazione alle
specificità di ciascuna azienda, rafforzando i messaggi diretti verso l’interno
dell’organizzazione ma anche fornendo un’identità inconfondibile alle attività del
marketing, differenziate e legate all’evoluzione di prodotti e servizi.
La forzata liaison tra comunicazione interna, esterna ed identità aziendale ha
ormai portato all’affermazione di un nuovo paradigma che Invernizzi (2000, p.
191) definisce della “Comunicazione Organizzativa”. Sostenendo presupposti
analoghi, Fiocca (1994), Bodega (1996) e altri preferiscono invece parlare di
“Comunicazione Integrata”, volendo con questa definizione indicare “[...]
l’esigenza di considerare la comunicazione secondo una prospettiva di
integrazione, finalizzata ad evitare che i messaggi e i contenuti della
32
comunicazione aziendale si sviluppino seguendo percorsi non coordinati e che,
così avvenendo, si creino le premesse di patologiche situazioni di confusione nei
rapporti tra azienda e ambiente e in quelli interni all’azienda stessa […] Qualsiasi
azione di comunicazione, infatti, se non possiede il requisito dell’integrazione con
le altre azioni e, più in generale, con la generale politica di comunicazione
dell’impresa, rischia, quantomeno, di risultare scarsamente efficace ed efficiente”
(Fiocca, 1994).
In seguito, per le finalità del presente lavoro, ci riferiremo alla prima delle due
definizioni: infatti, pur condividendo degli identici presupposti, il concetto di
“comunicazione organizzativa” ci pare meglio supportato teoricamente e molto
meglio collocabile in un contesto sociologico rispetto a “comunicazione
integrata”, che riteniamo invece più “spendibile” in ambito economico.
Il nuovo paradigma risponde al bisogno di ricomprendere in un unico concetto
tutta l’attività comunicazionale (interna, esterna e di prodotto) necessaria alla vita
e allo sviluppo delle imprese che, alla luce della crescente complessità
organizzativa, per funzionare efficacemente, devono inevitabilmente disporre di
un supporto comunicazionale ampio e integrato. Attraverso la comunicazione
organizzativa l’impresa promuove inoltre la propria trasparenza, rendendo
espliciti i propri valori guida, i propri principi etici e la cultura di riferimento; tutti
elementi questi che vengono oggi considerati delle vere e proprie risorse
immateriali, spendibili sia sul fronte interno che sui mercati di riferimento.
I seguenti fattori sostengono l’esigenza del nuovo paradigma della comunicazione
organizzativa:
- L’evoluzione concettuale delle prospettive della comunicazione, da un
modello meccanico ad uno interpretativo-simbolico, in grado di interagire
con l’ambiente circostante, di cui si è detto al Cap. I;
- I bisogni di comunicazione via via più complessi, rilevabili dall’evoluzione
delle diverse teorie organizzative, di cui si è detto al Cap. II;
- Il progressivo cambiamento dei pubblici di riferimento e l’estensione del
numero delle relazioni, che oggi coprono anche l’ambiente sociale
(comunicazione istituzionale), i portatori di capitale (comunicazione
33
COMUNICAZIONE
ORGANIZZATIVA
economico-societaria), i dipendenti ed i collaboratori (comunicazione
interna);
- La criticità economica, laddove il rapporto costo/beneficio risulta essere
nettamente più favorevole ad un approccio comunicativo integrato, tra
l’altro sicuramente più efficace, come cercheremo di dimostrare nei capitoli
seguenti. A questo proposito vale la pena di ricordare che la comunicazione
deve ormai essere considerata una componente strutturale dell’impresa
moderna, perché relazioni e forme di cooperazione rappresentano sempre
più una componente centrale del suo funzionamento.
La comunicazione organizzativa può dunque essere definita (Invernizzi, 2000, p.
195) “[…] l’insieme dei processi strategici e operativi, di creazione, di scambio e
di condivisione dei messaggi informativi e valoriali all’interno delle diverse reti di
relazioni che costituiscono l’essenza dell’organizzazione e della sua collocazione
nell’ambiente”. Nel processo comunicazionale sono coinvolti tutti i collaboratori
interni ed esterni dell’azienda e tutti i soggetti in qualche modo interessati alla vita
dell’organizzazione, clienti e fornitori inclusi. La comunicazione organizzativa
veicola e mette in condivisione con tutti questi soggetti la missione, la cultura e i
valori d’impresa; favorisce inoltre la visibilità, tanto all’esterno quanto all’interno,
delle attività, delle politiche e dei cambiamenti in corso nell’organizzazione.
La comunicazione organizzativa raggruppa e integra, dunque, tutti i processi
comunicazionali necessari alla vita e allo sviluppo dell’impresa, come di seguito
graficamente esemplificato:
Comunicazione Esterna di Marketing
Comunicazione Economico -Societaria
Comunicazione Istituzionale
Comunicazione
Interna
34
Le ragioni dell’integrazione, già brevemente accennate, sono dipendenti sia dalle
caratteristiche stesse della comunicazione d’impresa, che oggi assume il ruolo
strategico di “collante” dell’organizzazione (Fiocca, 1994), con il suo corollario di
tempi e costi, sia dalle caratteristiche peculiari delle singole imprese, quali la
dimensione, il tasso di sviluppo, il numero e le caratteristiche dei dipendenti,
l’articolazione geografica delle unità produttive e dei mercati di riferimento e, non
da ultimo, il settore in cui opera.
Invernizzi (2000) individua le seguenti cinque proposizioni operative che
rappresentano e rivelano i contenuti più significativi del paradigma della
comunicazione organizzativa. Ne verifica poi la validità attraverso l’analisi di
alcuni studi di caso su imprese nazionali ed internazionali, ed attraverso una
“survey” su un campione rappresentativo di grandi imprese italiane svolta da
Assolombarda.
1. Tutte le iniziative di comunicazione devono essere riferite ai valori guida
aziendali. I valori guida, specifici ed eticamente fondati, possono essere
derivati dalla storia dell’impresa oppure definiti dal top-management e
devono essere esplicitati in modo che tutti li possano comprendere. Entra in
gioco qui il molto dibattuto concetto di “cultura organizzativa”, di cui
riportiamo la definizione data da E. Schein (1995): “La cultura
organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato
gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi
problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno
funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali
da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire,
pensare e sentire in relazione a quei problemi”. La diffusione dei valori
guida strategici rappresenta un obiettivo importante della comunicazione,
forse il più importante. Esiste infatti una convergenza di fondo intorno
all’affermazione che le possibilità di successo di un impresa siano legate
all’esistenza di una cultura forte e condivisa. Il coinvolgimento di tutti i
collaboratori nel raggiungimento degli obiettivi di impresa risulta motivante
e capace di attivare sentimenti di appartenenza, rispondendo al “bisogno
35
insopprimibile delle persone di appartenere a qualcosa di cui essere
orgogliosi” (Invernizzi, 2000).
2. Occorre realizzare un’elevata coerenza, e possibilmente sinergie, tra tutti
gli atti comunicazionali rivolti verso l’esterno e quelli rivolti verso l’interno
o gestionali. La coincidenza di contenuti tra comunicazione esterna e
comunicazione interna, oltre ad evitare incongruenze, rafforzerà le relazioni
impresa-dipendenti, facendo in modo che questi ultimi non si sentano
scavalcati o trascurati dalla loro società. Importanti esempi sono costituiti
dalle iniziative con le quali i dipendenti vengono resi partecipi delle
caratteristiche innovative di nuovi prodotti in fase di lancio sul mercato, in
modo che gli stessi dipendenti, convinti della bontà del prodotto, possano
contribuire a rafforzarne la propaganda. Allo stesso modo, la comunicazione
verso l’esterno di importanti fatti riferiti alla gestione interna, come
l’adozione di sistemi di “qualità totale”, potrà contribuire sia a migliorare la
visibilità dell’impresa verso l’esterno che a rafforzare le relazioni con il
personale.
3. E’ indispensabile supportare tutti i processi di innovazione organizzativa e
tutti i cambiamenti rilevanti, con piani di comunicazione adeguati a farli
conoscere e condividere dalla maggior parte degli interessati. In particolare
va sottolineata l’importanza determinante della comunicazione organizzativa
per gestire con successo processi aziendali straordinari, come fusioni ed
acquisizioni. Il motivo di tale importanza è che cambiamenti rilevanti
all’interno di organizzazioni complesse, per essere reali, devono essere
condivisi e capiti da tutte le persone, anche da quelle che operano ai livelli
gerarchici inferiori. Nel capitolo V° riporteremo un esempio di corretta
gestione della comunicazione durante il processo di ristrutturazione e
sviluppo di Fiat-New Holland.
4. E’ vitale diffondere le competenze di comunicazione interpersonale fra tutti,
dai top manager agli operatori, e mantenere un costante aggiornamento sui
temi della comunicazione. Abbiamo visto come manager e collaboratori di
un’impresa vengano a trovarsi in una catena di relazioni che vede ciascuno,
a turno, assumere o chiedere il rispetto di “impegni”: la competenza
36
fondamentale di cui devono disporre gli attori organizzativi è la
comunicazione interpersonale. La survey Assolombarda e gli sudi di caso
dimostrano un consistente aumento delle forme di comunicazione
interpersonale, quali convention e riunioni a cascata tra managers e
collaboratori, oltre ad una accresciuta attenzione verso programmi di
formazione volti ad incrementare le capacità relazionali dei collaboratori .
5. E’ sempre più importante che il top management attui un presidio strategico
della comunicazione, mentre un presidio operativo dovrebbe essere
mantenuto da parte delle strutture deputate alla gestione dell’apparato
comunicazionale. Per presidio strategico della comunicazione si intendono il
coinvolgimento diretto del top management nelle modalità di governo della
comunicazione e la collocazione dell’ente preposto in posizione gerarchica
elevata. La survey Assolombarda, svolta su un campione rappresentativo di
aziende, dimostra un forte movimento in questa direzione, oltre al sempre
più frequente ricorso a tecniche manageriali evolute in ambito comunicativo,
quali audit sui bisogni di comunicazione, istituzione di un piano di
comunicazione, monitoraggio sulle attività svolte e sui risultati conseguiti.
Come indicato dall’ultima proposizione, solo la comprensione ed il
coinvolgimento diretto del top management nei processi comunicazionali
potranno garantire al paradigma teorico di assumere rilevanza strategica,
diventando un potente strumento operativo a disposizione delle organizzazioni
complesse.
37
IV
COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA E VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE UMANE Nel II° capitolo abbiamo osservato come le diverse teorie organizzative, che si
sono succedute nel corso del XX secolo, abbiano attribuito sempre più importanza
al fattore umano. Si è infatti passati dall’approccio Taylorista, che abbiamo
definito “paternalistico”, alla scuola delle Relazioni Umane, incentrata sullo
studio dei fattori psicologici che condizionano il comportamento dei soggetti.
Abbiamo successivamente visto come i motivazionalisti tentarono un vero
superamento della scuola Classica, ponendo la loro attenzione sui bisogni
dell’uomo e sugli strumenti per aumentare la motivazione dei lavoratori e come,
in seguito, Herbert Simon abbia invitato a rinunciare alla ricerca di principi
universali dell’agire organizzativo, spostando l’attenzione sui comportamenti
umani e sulla razionalità delle “decisioni”. Ci siamo infine soffermati sulla
complessità delle organizzazioni a rete con l’uomo, una volta di più, al centro del
reticolo organizzativo e del sistema degli “impegni”.
Lo studio della documentazione raccolta ai fini del presente lavoro ci porta ad
osservare che il crescente rilievo attribuito all’individuo, in quanto “attore” del
processo organizzativo, sia oggi da considerare un reale convincimento del mondo
imprenditoriale, e non già una pratica manipolatoria di massa. Il tentativo di
spiegare il mutamento di clima nelle imprese con un mero calcolo di convenienza
economica, ovvero con una diversa valenza attribuita all’uomo in quanto “fattore
di produzione”, appare infatti estremamente riduttivo. I mutamenti sociali e
culturali che si sono verificati nell’ultimo secolo nel mondo Occidentale
(pensiamo soltanto all’aumentato livello di scolarizzazione, ai diritti sindacali ed
alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa), hanno ridotto le distanze ed
aumentato la consapevolezza negli individui, in modo tale da rendere non più
ipotizzabili vasti fenomeni di manipolazione delle coscienze. A questo proposito
ci sembra importante citare il conosciutissimo “IBM Credo”, che mette al primo
posto “Il rispetto per l’individuo: un’attenzione costante ai diritti del singolo
38
all’interno dell’organizzazione”, ed anche un passo di un documento della società
“3M”, dedicato alla comunicazione interna, dove l’allora Presidente William
McKnight scriveva: “A mano a mano che la nostra attività cresce, è necessario
delegare le responsabilità e incoraggiare le persone ad esercitare la loro
iniziativa. Questo richiede grande tolleranza[…] Si faranno degli errori, ma se
una persona è sostanzialmente giusta, gli errori fatti non saranno seri nel lungo
termine, come gli errori management che vuole essere dittatoriale e pretende di
dire a chi opera sotto la sua autorità esattamente come deve essere fatto il suo
lavoro”.
Secondo Franco Amigoni (1991) “L’uomo quindi, che è diventato il perno
dell’impresa, che innova, che sviluppa competenze, che la impersona, e quindi ne
forgia l’immagine, deve sentirsi tutt’uno con l’impresa stessa e con tutti coloro
che in essa operano […] Quale che ne sia il motivo, si sente la necessità di
utilizzare al massimo il potenziale di originalità di ogni persona, e di coordinarne
il comportamento attraverso meccanismi di identificazione”.
Quali sono gli strumenti a disposizione dell’impresa complessa per accelerare ed
istituzionalizzare i processi di identificazione degli individui ? Come diffondere e
radicare l’identità aziendale ? Come gestire il cambiamento del “patto d’impresa”
nell’epoca della globalizzazione, quando lo scambio “fedeltà e impegno contro
stabilità e sicurezza del posto di lavoro” non è più praticabile ?
Non crediamo esistano risposte semplici a queste domande, né che si possa
banalizzare la complessità. La tesi che vogliamo qui sostenere è che il fattore
critico, per affrontare con successo la complessità interna e la mutevolezza dei
mercati globali, sia la capacità di sviluppare nei lavoratori sentimenti di
appartenenza e di identificazione con la “mission” aziendale. E che la
comunicazione organizzativa, così come definita nel precedente cap. 3, sia il più
potente strumento a disposizione dell’impresa moderna per riuscire in questo
intento.
Il primo elemento che portiamo a sostegno di questa tesi sono una serie di
interviste effettuate da Amigoni (1991) a top managers di aziende di successo:
seppure con sfumature diverse, emerge una identità di vedute riguardo il fatto che
39
l’informazione ampia, opportunamente gestita, costituisca un potente strumento
per creare quel forte legame tra l’azienda ed i suoi collaboratori che è una delle
caratteristiche delle imprese vincenti. In un’intervista si legge: “[…] non deve
assolutamente succedere che i nostri dipendenti abbiano informazioni sulla loro
azienda dai giornali: questo li fa sentire degli estranei: stiamo molto attenti a che
siano informati per primi”. Nelle realtà più evolute ci si rende quindi conto che
un’ampia diffusione delle informazioni genera identificazione con l’azienda e
senso di appartenenza nei dipendenti. Ed ecco che la comunicazione abbandona la
tradizionale distinzione tra interna ed esterna, diventa “organizzativa”, mentre la
rilevanza dell’ente comunicatore viene ribadita dall’organigramma gerarchico.
Dalla survey condotta da Invernizzi (2000, p. 385) risulta che nel 64% dei casi
analizzati esiste una dipendenza diretta tra ente di comunicazione e Direzione
Generale e che, se si considera anche il primo livello gerarchico intermedio,
questa percentuale sale all’ 87%.
Un secondo elemento, che conferma la tendenza delle imprese evolute ad
utilizzare la comunicazione organizzativa per sviluppare sentimenti di
appartenenza, è il crescente successo del concetto di “marketing interno”.
Trabucchi (1991) indica il contesto nel quale questo termine nasce:
- competitività estremamente aggressiva e su scala mondiale, che costringe le
imprese a continue innovazioni di processo e di prodotto;
- forte necessità di flessibilità organizzativa, che comporta strutture
decentrate, a rete, policellulari (la rete diventa il nuovo paradigma
organizzativo) e di personale altrettanto flessibile, creativo, capace di
assumersi responsabilità;
- dipendenti culturalmente più preparati, socialmente più sensibili ed esigenti,
che non si sentono semplici esecutori, che vogliono essere soddisfatti dal
proprio lavoro e che pretendono dall’azienda chiarezza, trasparenza ed un
rapporto maturo;
- ambiente esterno sempre più complesso, con interlocutori sempre più
numerosi ed esigenti, con organizzazioni dei consumatori sempre più potenti
e capillari e con attenzioni costanti da parte di media e pubblica opinione.
40
Di fronte a queste esigenze il marketing interno propone di rivisitare la gestione
classica del personale, per costruire un sistema organizzativo che lasci emergere
creatività e potenzialità in tutte le persone a tutti i livelli, sviluppando
coinvolgimento e senso di responsabilità. Mentre la comunicazione organizzativa
diventa lo strumento di management indispensabile per agire in queste situazioni,
è occasione permanente di rapporto e contatto, e permette di adattare
continuamente l’organizzazione alle sfide dell’ambiente.
Desideriamo approfondire ulteriormente questo concetto, che riteniamo centrale
per il presente lavoro.
Si comincia a parlare di marketing interno quando l’impresa si rende conto che,
oltre a produrre e vendere beni e servizi destinati ai propri clienti, deve anche
soddisfare il bisogno di lavoro e di realizzazione dei propri dipendenti. In altre
parole, quando concepisce l’insieme dei suoi collaboratori come destinatari di
un’azione di scambio, e quindi come mercato. Il marketing interno trasforma il
dipendente in cliente, in consumatore che ha i suoi bisogni, le sue attese, che va
ascoltato, analizzato, segmentato in base agli interessi lavorativi e professionali.
Siamo di fronte ad un rovesciamento di prospettiva rispetto alla concezione
tradizionale delle risorse umane: dalla logica della gerarchia si passa alla logica
del mercato. La differenza fondamentale tra le due logiche è che per la prima
l’azienda è “data”, e deve essere accettata come tale dal dipendente, mentre per la
seconda l’azienda è costruita anche sulla base delle esigenze del dipendente-
cliente. Gestire il personale secondo una logica di marketing vuole quindi dire
attivare tutti gli strumenti aziendali che possano favorire lo sviluppo di sentimenti
di appartenenza e di identificazione del dipendente con il proprio lavoro, e che
adeguino il clima organizzativo e relazionale alle esigenze di tutti gli operatori,
stimolandone la partecipazione attiva verso gli obiettivi di business. La capacità di
“vendere” sul mercato interno, la soddisfazione-motivazione del personale
diviene, per l’impresa, un requisito fondamentale per vendere su quello esterno.
La formula sarà: “dipendenti soddisfatti = clienti soddisfatti”, dove la
soddisfazione per il personale deriverà dalla sua identificazione con gli obiettivi
dell’impresa.
41
Se l’obiettivo per il marketing interno è il pieno coinvolgimento dei diversi
operatori aziendali, la comunicazione ne diventa l’elemento portante,
presentandone le ragioni, i “perché”, i vantaggi le finalità. Si tratta di una
comunicazione che ha abbattuto il muro che separa interno ed esterno; è
orizzontale, organizzativa, e vuole informare tempestivamente i dipendenti
riguardo tutti i fatti aziendali nuovi; si basa sui reali bisogni dei destinatari;
laddove è possibile segmenta l’audience globale dell’azienda; favorisce la
visibilità dell’intera azienda e fa chiarezza sulle sue strategie, sulla sua missione, e
sui suoi obiettivi ultimi. La comunicazione organizzativa sviluppa sentimenti di
appartenenza veicolando una visione “comune” dell’azienda che dice alle persone
perché lavorano insieme, che dà significato, anche in senso psicologico, alle loro
azioni, che stimola le capacità di comprendere i problemi dell’impresa anche al di
là del proprio settore operativo.
Un ulteriore elemento che ci consente di osservare l’interazione tra
comunicazione organizzativa e senso di appartenenza è rappresentato dalle
situazioni di gestione del cambiamento. Nell’attuale contesto economico il
cambiamento è da considerarsi quotidiana regola di sopravvivenza per le imprese
e non più, come in passato, un evento straordinario. Secondo Bodega (1996) i
processi di cambiamento possono articolarsi in:
- Cambiamenti strutturali, legati ad aumenti o riduzioni dimensionali delle
attività, anche a seguito di fusioni;
- Scelte di razionalizzazione, che possono comportare fenomeni di
outsourcing;
- Priorità orientate verso la riduzione del personale o la ri-progettazione
(downsizing);
- Relazioni interorganizzative, quantità, qualità e tipologie di comunicazione,
quando le scelte di cambiamento coinvolgono anche altri attori, come
clienti, fornitori, compagini sindacali e richiedono un impiego intensivo e
differenziato di comunicazione;
Per affrontare adeguatamente il tema del cambiamento occorre richiamare un altro
interessante concetto, in cui ci siamo costantemente imbattuti nella fase di ricerca
bibliografica, e che nell’ambito del presente lavoro è già stato introdotto parlando
42
dei valori guida della comunicazione organizzativa (Cap. III°, p. 35). Si tratta del
concetto di “cultura organizzativa” o “cultura aziendale”, di seguito anche
semplicemente “cultura”.
La cultura, come insieme di valori e di conoscenze condivise nell’azienda, è un
prodotto tipicamente sociale che a volte, inconsapevolmente, influenza e modifica
in modo sostanziale gli aspetti economici e gestionali dell’impresa. Nella
definizione di Maurizio Decastri (1991), che prende spunto dai lavori di Jacques e
Pettigrew, la cultura è “[…] l’insieme di valori, norme, tradizioni, simboli,
credenze, riti, miti relativo ad un gruppo, ad un aggregato sociale, ad una
categoria di individui, trasmesso mediante meccanismi di apprendimento su base
sociale […] A livello più specificamente organizzativo, la cultura può essere
intesa in via sintetica come la «personalità storica» del sistema organizzativo che
suggerisce al singolo individuo i comportamenti ritenuti giusti e buoni”. Entro i
confini dell’organizzazione la cultura determina i modi concreti di azione, le
attività cui dedicarsi con maggiore intensità, le informazioni che hanno maggiore
rilevanza ai fini gestionali, le categorie di persone che godono di maggiore
considerazione nell’organigramma gerarchico. La cultura come concezione e
modo di vita dell’azienda, come insieme di valori e di conoscenze, come substrato
di quella caratteristica distintiva dell’impresa che nel III° capitolo abbiamo
definito “identità aziendale”. Bodega (1996) sostiene che la possibilità di dare
luogo ad un reale cambiamento dipende soprattutto dalla capacità di cambiare i
concetti di base della cultura aziendale; i progetti di cambiamento devono quindi
considerare a priori quale cultura risulti funzionale alla nuova situazione e come
possa essere concretamente sviluppata.
Lo strumento principe per agire sulla cultura aziendale è concordemente indicato
da Decastri (1991) e Bodega (1996) nella comunicazione organizzativa (o
integrata). La comunicazione fornisce spiegazioni e legittimazioni al
cambiamento e lo mette in relazione con le norme, i valori e le aspettative dei
dipendenti. L’efficacia della comunicazione si fonda sulla sua capacità di rendere
significativa l’attività aziendale per tutti i collaboratori, non modificando il loro
comportamento ma la loro percezione. “Questi significati, se condivisi, danno ai
membri dell’organizzazione un senso di appartenenza e di identità, delimitano
43
l’organizzazione rispetto al suo ambiente e contribuiscono al controllo e
all’impegno di coloro che operano all’interno di essa” (Bodega, 1996). Sempre a
proposito del rapporto tra cultura, comunicazione e gestione del personale
Decastri (1991) scrive: “[…] è possibile individuare una strada per andare oltre il
tradizionale rapporto di scambio persona-azienda in cui è prevalente, se non
esclusivo, il contenuto economico/contrattuale e iniziare a considerare in modo
più consapevole tutti quegli aspetti sociali quasi sempre tralasciati […] la persona
è motivabile anche e, forse, in maggior misura mediante ricompense sociali
(bisogni di appartenenza, socialità, stima/status)”.
A conclusione di un’indagine avviata su 11 grande aziende per studiare la
gestione dei processi di cambiamento in realtà complesse, Domenico Bodega
(1996) osserva: “Le aziende che hanno adottato politiche consapevoli di
comunicazione delle scelte di cambiamento hanno migliorato le relazioni con la
comunità finanziaria, con la pubblica opinione e con gli attori istituzionali e
aumentato l’attenzione e la visibilità verso le azioni delle organizzazioni. Si è
inoltre costatato l’aumento della motivazione dei dipendenti, del consenso e della
consapevolezza sul significato delle scelte da compiere e compiute, dell’impegno
nella realizzazione di processi di cambiamento”. Viceversa, un basso livello di
comunicazione depaupera l’organizzazione dell’unità fondamentale di pensiero e
azione tra i membri della compagine aziendale, e toglie senso alle finalità ed agli
obiettivi del processo di cambiamento culturale.
44
V
L’IMPIEGO DELLA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA IN DUE CASI AZIENDALI In questo capitolo riporteremo due esempi particolarmente interessanti che
testimoniano l’importanza della comunicazione organizzativa a fini gestionali e
motivazionali, all’interno di realtà aziendali complesse.
IL CASO IBM SEMEA
Gli elementi di questo esempio sono stati riassunti dallo “studio di caso” svolto da
Invernizzi - Mazzei (Invernizzi, 2000, pp. 293-301) e testimoniano un percorso
atipico di sviluppo della comunicazione organizzativa, rispetto a quello più
tradizionale che normalmente comincia con l’introduzione della comunicazione di
prodotto, prosegue con la comunicazione esterna, e vede infine lo sviluppo della
comunicazione interna. In realtà, nel caso IBM, si osserva una istituzionalizza-
zione anticipata della comunicazione interna rispetto a quella esterna;
comunicazione interna che diventa strumento centrale di gestione strategica e di
visibilità dell’impresa anche verso l’esterno.
Il processo di istituzionalizzazione della comunicazione interna comincia in IBM
già negli anni ’60, cioè un’epoca in cui la maggior parte delle imprese si limitava
alla comunicazione di prodotto, ed è riconducibile anche alla tipologia dell’offerta
IBM, a quel tempo limitata a prodotti specialistici.
La società, che disponeva di una estesa rete di venditori composta tutta da
dipendenti, si rese conto che questi, oltre a costituire un canale di comunicazione
di prodotto, costituivano anche una formidabile occasione di comunicazione
“person-to-person” per la visibilità dell’impresa. Per poter svolgere al meglio
questo ruolo, per poter essere “portatori” di visibilità esterna, i dipendenti
dovevano essere adeguatamente motivati ed informati, e lo strumento cui IBM si
affidò per integrare uno stile di gestione aziendale già basato sulla valorizzazione
delle risorse umane, considerate il principale asset dell’azienda, fu proprio quello
della comunicazione interna. Nelle parole di un manager della direzione del
personale IBM “…più una persona si accorge che l’azienda si preoccupa di
45
informarla, più è partecipe della vita e degli obiettivi dell’impresa e trae da questo
la spinta a comunicare anche all’esterno in modo corretto e secondo le linee guida
definite dall’impresa. I dipendenti IBM parlano con tale convinzione e
accuratezza della loro azienda che, agli occhi degli esterni, sembrano tutti alti
dirigenti”.
Da questa convinzione nasce la tradizione IBM di una comunicazione completa,
precisa e tempestiva verso i dipendenti. La comunicazione riguarda tutti gli eventi
che coinvolgono l’impresa, siano essi positivi o negativi. È completa ed offre
strumenti di approfondimento. Privilegia i dipendenti come destinatari, tant’è che
viene fornita loro prima di essere divulgata all’esterno. Predilige i canali di
comunicazione diretti tra vertice aziendale e destinatari, senza passare attraverso
intermediari.
Gli strumenti utilizzati dall’impresa per comunicare sono sostanzialmente la posta
elettronica, che supporta il 95% della comunicazione che si realizza fra tutti i
dipendenti IBM nel mondo, un foglio informativo quotidiano chiamato “OnDesk”
e le bacheche, particolarmente curate e poste in punti di grande passaggio. Le
conferenze stampa vengono fatte negli Stati Uniti ad un orario concordato, che
consenta alla direzione italiana di fornire in prima persona le notizie provenienti
dal Corporate, evitando che in Europa i dipendenti apprendano le notizie dai mass
media.
Con questi strumenti IBM ha preparato e formato i dipendenti ad essere portatori
di visibilità all’esterno ed ha costruito la forza del proprio marchio, che risulta tra
i primi dieci più conosciuti al mondo.
In tempi recenti, con l’esplosione del mercato dell’informatica individuale, la
strategia di comunicazione IBM ha naturalmente dovuto ricorrere a strumenti di
comunicazione di massa che garantiscano il contatto con una vasta popolazione di
potenziali clienti, non raggiungibili attraverso contatti personali. Anche la
struttura organizzativa della società è stata adeguata costituendo unità operative
specializzate a seconda dei prodotti e dei mercati, configurando in tal modo
un’impresa-rete. Il sistema della comunicazione organizzativa diventa dunque più
articolato: la comunicazione interna conserva quel ruolo centrale che la
caratterizzava già in passato, mentre la comunicazione esterna viene sviluppata
46
attraverso strumenti e iniziative diverse, sia di tipo mediato, sia di tipo
interpersonale. E’ stata costituita una Direzione comunicazioni e relazioni esterne,
che fornisce lo strumento organizzativo per sostenere e rinforzare reciprocamente
i flussi di comunicazione interna ed esterna.
Anche in questa mutata realtà organizzativa e di mercato, come osservano
Invernizzi e Mazzei, la struttura comunicazionale di IBM rimane quindi
focalizzata sulla centralità della risorsa umana e contribuisce a sviluppare in tutti i
dipendenti un fortissimo senso di appartenenza, elementi questi che la storia della
società ha provato essere straordinari strumenti di gestione e di sviluppo
aziendale.
IL CASO NEW HOLLAND
Gli elementi di questo caso sono tratti da “Il ruolo della comunicazione nel
processo di ristrutturazione e sviluppo di New Holland”, di Marco Brogi (1996).
New Holland, una società che si occupa di meccanizzazione agricola, è il risultato
dell’acquisizione operata da FIAT nel Maggio 1991 su Ford New Holland e della
successiva fusione di quattro aziende: Fiatagri, Fiat-Allis, Fiat-Hitachi e, appunto,
Ford New Holland.
La fortissima contrazione del mercato delle macchine agricole, che si è verificata
tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta e le razionalizzazioni
necessarie per integrare tra loro queste quattro aziende, hanno comportato
notevoli cambiamenti nella struttura organizzativa originaria delle incorporate e
nei loro meccanismi operativi. Un’imponente cambiamento lo ha vissuto anche
l’attività comunicazionale dell’azienda che, secondo Brogi (1996), “[…] si è
radicalmente trasformata e ha assunto un ruolo fondamentale nel percorso di New
Holland verso il successo”. Al momento dell’acquisizione esistevano infatti
all’interno della nuova società tre enti che si occupavano di comunicazione. Nella
seconda metà del 1991 si decise che questi tre enti diventassero uno, a cui
avrebbero fatto capo, su scala mondiale, tutti i processi decisionali in materia di
comunicazione.
47
IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE
Per stessa ammissione del management di New Holland, il ruolo della
comunicazione esterna, da principio, fu molto limitato. Si dovette infatti, a causa
delle difficili condizioni economico-finanziarie, concentrare tutti gli sforzi di
comunicazione esterna unicamente sul prodotto, che venne promosso e supportato
in modo puntuale e preciso, cercando di fronteggiare i concorrenti. Le attività
realizzate furono sobrie, ma tutte efficaci e di altissima qualità. La strategia
seguita fu quella di comunicare solamente lo stretto necessario, gestendo ad alto
livello ogni singola attività e ricercando costantemente coerenza ed efficacia.
Anche dal punto di vista della comunicazione istituzionale tutte le attività vennero
limitate a quelle ritenute quasi obbligatorie: in pratica ci si limitò a diffondere le
notizie riguardanti l’operazione di acquisizione, sottolineando le tradizioni delle
aziende che si erano combinate, i rispettivi punti di forza e le strategie di sviluppo.
Sul piano della comunicazione interna, invece, fu necessario svolgere un notevole
lavoro sul piano dell’integrazione, della motivazione del personale e dell’identità
aziendale. L’acquisizione di Fiat su Ford New Holland era guardata con sospetto
dai dipendenti delle due società che non vedevano valide motivazioni per una tale
operazione, in un momento così critico per il mercato delle macchine agricole. Un
grande sforzo di comunicazione interna andava quindi compiuto nel tentativo di
dissipare questi timori e ricreare velocemente una forte motivazione, diffondere
senso di appartenenza e unitarietà di valori.
“La perdita di credibilità e di immagine da parte di un’impresa in crisi […] può
interessare anche i pubblici interni alla stessa. […] Quando questo accade la
comunicazione interna si trova di fronte ad enormi difficoltà causate proprio
dalla diffidenza e dalla rassegnazione che molto spesso prende il personale. È in
queste situazioni che la comunicazione interna si fa quanto mai vitale per la
sopravvivenza dell’azienda, diventando lo strumento principale da utilizzare per
creare (o meglio ricreare) la maggior coesione possibile, una grande determina-
zione ed un forte senso di appartenenza” (Brogi, 1996).
48
Nei confronti del management la decisone adottata fu quella di comunicare i fatti,
le decisioni e le scelte compiute dall’alta direzione nel modo più diretto e
semplice possibile, con un approccio top-down dovuto anche alla necessità di
ridurre al minimo i tempi per le decisioni, ma cercando di spiegare apertamente le
motivazioni di ogni singola decisione. Per diffondere in maniera chiara e rapida la
“voce” del Comitato Esecutivo e del CEO, nel Dicembre 1991 si decise di avviare
la produzione e distribuzione di un video mensile con il titolo di “On the Move”,
destinato ad informare dirigenti e quadri (con obbligo per questi ultimi di
riproiettarlo in sede allargata) circa i risultati, le decisioni prese, le opportunità che
si fossero presentate, i punti più critici da affrontare, le strategie perseguite.
Nel Luglio del 1992 venne effettuato un censimento delle esigenze di
comunicazione percepite dall’organizzazione, con particolare riferimento a colletti
bianchi e operai. Dall’indagine emerse che, in genere, i dipendenti sentivano la
mancanza di una forma di comunicazione strutturata, che si indirizzasse ad un
target molto più ampio e si integrasse con il video mensile. Si decise quindi di dar
corso al lancio di una rivista intitolata “The World of New Holland”, prodotta
centralmente, con un linguaggio volutamente tarato verso il basso e diretta a tutto
il personale dell’azienda.
Lo sforzo fatto immediatamente dopo, non essendo la nuova società né Ford né
Fiat, fu quello di cercare i valori comuni da trasmettere, in modo che fossero un
punto di riferimento per ogni scelta e decisione dell’azienda. I valori emersi con
maggiore determinazione furono la lotta contro il “magma” (concetto con cui
l’azienda volle identificare tutte le mille forme dell’inefficienza e su cui costruì
uno specifico piano di comunicazione), la correttezza, la trasparenza, la sobrietà
ed i comportamenti. Riguardo a questi ultimi, il vertice aziendale fece condurre
uno studio per cercare di individuare i comportamenti più utili a veicolare
messaggi significativi. Grazie a questo studio i dirigenti compresero la forza
comunicativa dei comportamenti stessi e, pur consapevoli di non avvantaggiare
direttamente il business, rinunciarono a viaggiare in prima classe sull’aereo oltre a
ricorrere, quando possibile, all’uso del mezzo pubblico invece che all’autista. Un
altro comportamento giudicato estremamente significativo fu la “presenza”: i
dirigenti di primo livello presenziarono sempre a qualsiasi evento o
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manifestazione significativa che accompagnava la vita dell’azienda. I
comportamenti si dimostrarono estremamente importanti anche durante la
gestione di operazioni delicate come il “downsizing” o “ l’outplacement”, laddove
si cercò sempre di scegliere le opzioni più “morbide” per gli interessati. Nelle
parole di Brogi (1996) “Tutto questo ha finito inevitabilmente col creare un forte
senso di appartenenza ed un coinvolgimento del personale che si è ripercosso con
successo nell’impegno profuso in ogni attività svolta e nella partecipazione e
fiducia dimostrate nei confronti dell’azienda”.
L’impegno nella ricerca di valori in cui identificarsi, portato avanti insieme
all’operazione di ristrutturazione, costituì uno degli sforzi più grandi verso
l’integrazione aziendale. Secondo Brogi (1996) “I risultati hanno iniziato ad
arrivare per New Holland proprio perché tutti i dipendenti hanno gradualmente
assimilato la nuova cultura aziendale trasmessa e comunicata, ed hanno iniziato
a credere fermamente nei valori che la componevano […]”.
Un altro grandissimo sforzo, compiuto sempre a livello di comunicazione, fu
quello di mettere a punto con la massima attenzione e diffondere in modo
capillare la mission, ovvero la sintesi di tutti i valori fondamentali dell’azienda.
Riportiamo qui di seguito la mission di New Holland, così come elaborata dal
management, che in poche frasi racchiude e sintetizza gran parte delle tesi
sostenute durante questo lavoro. Ci riferiamo in particolare al recente sviluppo di
forme di comunicazione aziendale integrate, “organizzative”, che veicolano e
mettono in condivisione con clienti, fornitori e partner la cultura e i valori
dell’impresa complessa, spesso organizzata secondo modelli “a rete”.
LA MISSION
New Holland intende essere
Un’organizzazione flessibile, agile, innovativa
Guidata dal cliente,
Le cui persone insieme a concessionari, fornitori e partner,
Siano orgogliose di lavorare
Per assicurare alla Società
Il miglior posizionamento a livello mondiale
Nell’ “agricultural and industrial equipment business”.
50
LA COMUNICAZIONE FUORI DALLA CRISI
Contrariamente alle previsioni dei concorrenti e grazie soprattutto all’impegno
profuso da tutti i propri collaboratori, New Holland riuscì non solo a mantenere la
propria posizione di mercato, ma a guadagnare quasi ovunque. La comunicazione,
sia interna che commerciale, subì per prima gli effetti di questo mutato clima
aziendale e cominciò a parlare in positivo, divenendo più curata dal punto di vista
estetico e più ricca di contenuti, senza però mai trascurare i temi dell’integrazione
e della diffusione dei valori aziendali.
“On the Move” e “The World of New Holland”, anch’essi ri-stilizzati,
continuarono la loro funzione volta a favorire la coesione, l’unitarietà, il senso di
appartenenza dei collaboratori, cui si aggiunse una nuova sfida: combattere la
tendenza a “rilassarsi”, a “sedersi” sui successi ottenuti, mantenendo alta la
tensione emotiva che fino ad allora aveva consentito una formidabile spinta alla
Società.
Dal punto di vista della comunicazione istituzionale, che venne rimessa in moto,
desideriamo segnalare un evento di straordinaria portata. Stiamo parlando della
Convention di Londra del 1994 dove, non senza correre rischi, New Holland riunì
i propri dealer, sia di estrazione Ford che Fiat, oltre ai principali fornitori di
materie prime, ed ai rappresentanti di tutta la stampa economica, finanziaria ed
agricola del mondo. L’operazione ebbe un grande successo, sia perché i dealer
ancora convinti di essere totalmente Fiat o totalmente Ford realizzarono di
appartenere all’unica realtà “New Holland”, sia perché l’azienda trovò l’occasione
di rafforzare la propria immagine interna ed esterna, riaprendosi alla
comunicazione istituzionale e riportando la propria identità all’attenzione della
stampa mondiale.
Lasciamo le conclusioni alle parole di Brogi (1996) “In questo processo di
ristrutturazione, di integrazione e di sviluppo, il ruolo della comunicazione è stato
di assoluta centralità: solamente puntando su un’informazione sobria, corretta e
veloce è stato possibile ottenere un elevato impegno da tutti i dipendenti ed i
collaboratori, ricostruire una chiara identità aziendale, ritrovare un’immagine
unitaria sia esternamente, sia internamente, e raggiungere, in tempi brevi, risultati
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di eccellenza sul piano organizzativo, economico-finanziario, commerciale e
competitivo. […] il risultato finale è stato un’organizzazione più piatta, agile ed
efficiente, ed un personale fortemente motivato, soddisfatto e caratterizzato da un
forte attaccamento alla propria azienda”.
52
VI
LE RISORSE UMANE TRA APPARTENENZA E CONTROLLO NORMATIVO Nei capitoli precedenti abbiamo visto come la comunicazione organizzativa,
opportunamente gestita, possa divenire un potente veicolo di integrazione delle
risorse umane e di rafforzamento della cultura aziendale. Prendendo spunto dal
viaggio etnografico di Gideon Kunda (2000) all’interno di una grande impresa
statunitense dell’Hi-Tech, vorremmo ora soffermarci sugli effetti “indesiderati”
che una forte cultura aziendale può portare con sé, sia in termini di emarginazione
per chi non ha potuto trovare una collocazione come membro a pieno titolo
dell’impresa, sia in termini di dissonanza cognitiva per chi, pur trovandosi nella
condizione di “membro effettivo”, sente il proprio spirito critico limitato o
addirittura soppresso dai meccanismi di controllo reciproco.
Del concetto di cultura aziendale si è detto nei capitoli III e IV. Ma cultura non
significa solo quell’insieme di regole implicite ed esplicite che, opportunamente
sostenute da specifici interventi comunicazionali, guidano il comportamento dei
lavoratori; significa anche il veicolo attraverso il quale essi tentano
coscientemente di influenzare il comportamento e l’esperienza degli altri
lavoratori che li circondano, “comunicando” a loro volta l’approvazione o la
disapprovazione del gruppo. Qualora questo secondo aspetto venisse
istituzionalizzato da parte del management, la cultura potrebbe divenire “[…]
qualcosa che implica le stesse attività di un’opera di ingegneria – ricerca,
progettazione, sviluppo, manutenzione […]” (Kunda, 2000).
La letteratura d’impresa contemporanea è ricca di studi che illustrano metodi e
tecniche comunicazionali per plasmare i dipendenti ad immagine e somiglianza
dell’azienda, e per aumentarne l’efficienza. Tutti questi lavori hanno conferito una
straordinaria valenza manageriale al concetto di “cultura aziendale forte”, ma
hanno anche sollevato qualche perplessità negli studiosi riguardo ad una delle
tendenze di questa cultura forte, che è stata definita “controllo normativo”.
53
IL CONTROLLO NORMATIVO
Vediamo la cosa più da vicino: il controllo normativo rappresenta un tentativo di
incanalare gli sforzi dei membri dell’organizzazione controllando le esperienze, i
pensieri ed i sentimenti che guidano la loro azione. In presenza di controllo
normativo i lavoratori agiscono nell’interesse dell’organizzazione senza esserne
costretti, e senza essere spinti da un tornaconto economico; piuttosto, essi sono
spinti da un impegno interiore, dal senso di appartenenza, da una forte
identificazione con gli obiettivi aziendali, da una soddisfazione intrinseca con il
proprio lavoro. L’impresa, in questa prospettiva, ottiene un risultato collettivo di
elevata qualità grazie agli sforzi e alle capacità di iniziativa dei propri dipendenti,
e li ricambia offrendo loro un ambiente di lavoro positivo e collaborativo, che
offre all’individuo l’opportunità di realizzare se stesso.
Si direbbe quindi che ci troviamo di fronte ad una prospettiva illuminata: dopo il
controllo fondato sulla proprietà e sull’autorità che, come abbiamo visto nel II°
capitolo, è stato decisamente superato dalle scuole di pensiero successive al
Taylorismo, ecco che il controllo normativo si propone come soluzione per i
dilemmi organizzativi delle imprese, risolvendo il conflitto tra organizzazione ed
individuo e sradicando il problema dell’alienazione dei lavoratori.
Secondo i sostenitori di questa prospettiva, le forme di organizzazione basate sul
controllo normativo hanno un forte potenziale liberatorio e consentono di mettere
lo sviluppo e la crescita personale al servizio degli obiettivi aziendali. Il controllo
normativo è quindi visto come un appello alle potenzialità degli individui che,
opportunamente indirizzate attraverso un processo strutturato di educazione,
consentono alla persona di crescere, svilupparsi e maturare.
In contrapposizione rispetto a questa promessa di “salvezza del sé”, si levano voci
critiche che mettono in guardia dai rischi di una “perdita dell’anima”. Richard
Edwards, citato da Kunda (2000, p. 25), sottolinea l’insidiosa influenza delle
organizzazioni sulla vita personale ed emotiva dei loro membri come segue: “[…]
i lavoratori devono assicurare all’azienda non solo una giornata di duro lavoro, ma
anche il loro comportamento nella sfera privata e i propri stessi sentimenti […] il
controllo tende a trasformarsi in un sistema molto più totalitario […] non basta
54
più lavorare sodo e chinare il capo: ora l’azienda «attenta ai sentimenti» pretende
l’anima del lavoratore, o almeno la sua identità”. Altre critiche sono state rivolte
all’intrinseca instabilità del controllo normativo visto che prima o poi, secondo
alcuni studiosi, la Direzione delle grandi aziende non potrà che tradire la lealtà e
l’impegno su cui si fonda la prospettiva.
Siamo quindi in presenza di opinioni divergenti che hanno generato un dibattito
tutt’ora molto attuale, vista anche la scarsità di dati empirici al riguardo: il
controllo normativo è una forma di tirannia o una tendenza liberatoria ?
L’AMBIENTE DELLA “TECH”
Le osservazioni che seguono sono tratte dall’esperienza vissuta da Kunda (2000)
dentro la “Tech”; in quanto tali non sono universalmente valide ma, vista la
profondità dell’analisi svolta, riteniamo possano essere un buon completamento
per il presente lavoro. In effetti, quella della “Tech” è una realtà talmente
dinamica da poter quasi essere definita un “laboratorio organizzativo”. L’azienda
venne fondata negli anni ’50 da un gruppo di ingegneri che, basandosi sul modello
delle “Relazioni umane”, tentarono di stimolare l’impegno e la dedizione dei
dipendenti attraverso la realizzazione di un ambiente a misura d’uomo fondato su
due principi: l’interesse individuale e la sicurezza del posto di lavoro. La struttura
organizzativa della Tech, azienda che nel corso degli anni ha raggiunto
dimensioni ragguardevoli è, nelle parole di Kunda (2000, p. 44) “[…] un sistema
sociale vasto e complesso che sfugge a qualsiasi tentativo di semplificazione”.
Dall’analisi degli organigrammi aziendali possiamo distinguere una struttura a
matrice, su cui si innesta una fitta rete di rapporti informali. La disposizione
architettonica dell’ambiente di lavoro è concepita in modo da incoraggiare la
comunicazione ed il confronto faccia a faccia, minimizzando le differenze di
status ed accentuando le somiglianze.
L’importanza attribuita alla cultura come principio organizzativo si traduce in un
notevole sforzo da parte della direzione per esplicitare, codificare e diffondere una
versione ufficiale dell’ideologia aziendale, accompagnata da consigli su come
convivere con essa. Il modo con cui questa ideologia viene diffusa è incessante,
55
ripetitivo, ed indirizzato sia all’interno che all’esterno dell’azienda. Molteplici
sono anche i luoghi ed i mezzi utilizzati per la diffusione: bacheche, posta
elettronica, discorsi ufficiali, bollettini, seminari di orientamento, ma anche
interviste rilasciate alla stampa e collaborazioni con università. Le metafore
utilizzate per caratterizzare la Tech come sistema sociale richiamano l’immagine
della “grande famiglia” o anche altre istituzioni di grande portata morale, quali la
religione o la scienza.
Nei confronti dell’esterno la Tech viene presentata come un’impresa che ha una
missione da svolgere: vengono usate immagini che suggeriscono l’esistenza di un
obiettivo chiaro, legittimo, accettato incondizionatamente.
A livello interno il concetto di “cultura” viene inteso in opposizione a “struttura”:
le forme tradizionali di controllo, legate all’organizzazione burocratica, sono
relegate ad un ruolo di sostegno, mentre il vero controllo è affidato alla pressione
esercitata dai colleghi, all’interiorizzazione della disciplina che si riflette negli
orientamenti, negli atteggiamenti e nelle emozioni dei membri. Si tende a
sorvolare sugli incentivi economici mentre, secondo Kunda (2000, p. 113), “[…]
le vere ricompense consistono nel senso di comunione, di appartenenza, di
partecipazione alla comunità costituita dall’impresa”. Pertanto, l’ideologia
organizzativa della Tech definisce chiaramente un sistema di controllo normativo,
dove l’influenza della direzione nella creazione e perpetuazione di valori condivisi
è massiccia e nemmeno tanto velata. I rituali di presentazione della cultura Tech
sono caratterizzati da un utilizzo accentrato ma sottile e forse anche subdolo del
potere simbolico, visto che un controllo esplicito sarebbe in contraddizione con la
proclamata democraticità dell’ideologia stessa. Tuttavia, l’esistenza di un
meccanismo di controllo affiora chiaramente da una serie di episodi di dissonanza
cognitiva, configurabili come piccoli “drammi sociali”. L’onnipresente cultura
Tech aiuta comunque a superare lo sbandamento e a prevenire ogni dissenso reale,
strutturando e definendo come ludiche quelle occasioni in cui vengono espresse
alternative all’ideologia formale. Il singolo è continuamente circondato e soggetto
al controllo degli altri membri che, per favorire i propri interessi, agiscono da
portavoce e da tutori dell’ideologia aziendale. In sintesi possiamo quindi dire che
l’essenza del controllo burocratico, in regime di controllo normativo, non muta: è
56
semplicemente trasposta dalla struttura dell’organizzazione alla sua cultura, dal
comportamento dei membri alla loro esperienza.
LE IMPLICAZIONI MORALI DEL CONTROLLO NORMATIVO
Rispetto all’individuo, osserviamo due aspetti che caratterizzano la cultura del
controllo normativo nella Tech.
Innanzitutto una segmentazione del personale in base al diverso grado di
inclusione nella cultura: nell’organizzazione sociale della Tech esistono
“cittadini” a pieno titolo, che detengono un rango elevato all’interno della
comunità aziendale, e sono agenti primari della vita culturale e dei rituali ad essa
legati, oltre ad appartenere alla categoria retributiva più elevata. Ma esistono
anche altri “cittadini”, soggetti ad un sistema di controllo utilitario basato su
incentivi economici, scettici riguardo il fatto che l’ideologia aziendale possa
riguardarli in qualche modo. In questa polarizzazione tra membri centrali e
marginali, i primi devono accettare un “sé” organizzativo definito in modo
preciso; i secondi devono accontentarsi di un “sé” ridotto ai minimi termini.
Esistono infine anche lavoratori temporanei, passibili di rottura immediata del
rapporto, che non hanno nessuno dei diritti propri dei lavoratori dipendenti.
Il secondo aspetto riguarda l’impatto del controllo normativo sui membri che
abbiamo appena definito “centrali” e che sono soggetti a quel fenomeno che
Merton, citato da Kunda (2000, p. 251), ha definito “ambivalenza sociologica”,
ovvero una lotta contro il ruolo che l’ideologia cerca di inculcare. In altre parole,
mano a mano che questi membri migliorano la loro posizione ed ambiscono ad
aumentare il loro status, vengono assoggettati ad un controllo normativo sempre
più intenso, e rischiano una perdita di autonomia personale. Anche tra i membri a
pieno titolo ritroviamo dunque un “sé” ambivalente, indeciso, ironico, in guerra
con se stesso.
Rispetto all’impatto del potere delle imprese e della loro cultura “forte” sulle
interazioni tra società civile ed individui, si rilevano le seguenti tre fonti di
preoccupazione.
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In primo luogo, l’impatto del potere aziendale sui membri “a pieno titolo”, che
come abbiamo visto rappresenta una “trappola culturale” in cui sono sottilmente
associati seduzione e coercizione, nella maggior parte dei casi, anche se non si
risolve con la “cattura” dell’anima del lavoratore, ne mina continuamente le
fondamenta: così la finzione diventa realtà e la capacità dell’individuo di
costruirsi una vita ed un sé indipendenti dall’influenza dell’impresa risulta
comunque diminuita.
Un secondo motivo di preoccupazione riguarda la sorte degli “extraculturali”,
ossia di coloro che restano emarginati dalla cultura e diventano “non-persone”,
come ad esempio i lavoratori temporanei. E’ chiaro che queste persone occupano
veramente una posizione che comporta marginalità: non appartengono né alla
cultura in cui operano né ad una cultura esterna. Con una suggestiva metafora
Kunda (2000, p. 267) ha paragonato questi individui a dei “senzatetto”, costretti a
dipendere dalla magnanimità degli estranei.
Infine, il terzo motivo di preoccupazione riguarda la possibile incorporazione
delle forti culture d’impresa dentro la più generale cultura sociale. Visioni del
mondo come quella sviluppata dagli ingegneri della cultura Tech appaiono
applicabili, al massimo, alle attività economiche nei momenti di congiuntura
favorevole. “Ma, se tutti i cittadini fossero spinti ad aderire ad un ethos di questo
tipo, nel lungo periodo potrebbero risultarne minate le basi stesse della vita
collettiva” (Kunda, 2000, p. 268).
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CONCLUSIONI Nella fase di raccolta del materiale bibliografico utilizzato per questa ricerca ci
siamo imbattuti in una vasta mole di studi destinati alle imprese, tutti in qualche
modo afferenti ai temi della comunicazione aziendale e della motivazione dei
lavoratori. Tra questi titoli abbiamo successivamente isolato quelli in cui i due
soggetti principali del presente lavoro (la comunicazione organizzativa e lo
sviluppo di sentimenti di appartenenza) venivano trattati in interazione tra loro.
L’idea di base, era quella di far emergere dal complesso tessuto organizzativo che
caratterizza le interazioni tra grande impresa, lavoratori e ambiente circostante dei
nessi positivi tra comunicazione interna e motivazione dei lavoratori. In altre
parole, quei “[…] valori organizzativi che in queste situazioni sono importanti”
(Strati, 1998, p. 88).
Durante la stesura del lavoro abbiamo anche dovuto prestare particolare
attenzione a non tradire la prospettiva sociologica, sconfinando in campi riservati
ad altre discipline, quali l’economia o la psicologia.
In questo capitolo conclusivo desideriamo quindi, in primo luogo, riassumere
brevemente il senso del nostro lavoro rispetto all’idea iniziale e, in secondo luogo,
accertarne la sua collocazione in ambito sociologico.
Riguardo al primo quesito, dobbiamo innanzitutto chiederci se la persona umana
sia sempre al centro del reticolo organizzativo della grande impresa, in particolare
dell’impresa-rete, che sta diventando il modello organizzativo di default
nell’epoca della globalizzazione. A questa domanda possiamo rispondere in modo
decisamente positivo, sia alla luce dell’evoluzione del pensiero organizzativo post
Taylorista, sia alla luce delle caratteristiche intrinseche dell’impresa-rete e del
sottostante sistema degli “impegni”, che abbiamo presentato nel II° capitolo.
Accertata la centralità dell’uomo in veste di risorsa per le imprese, abbiamo quindi
potuto verificare, anche con l’aiuto di alcuni studi di caso, come la comunicazione
interna, nel frattempo divenuta “organizzativa”, possa venir considerata, ancor più
dell’incentivo economico, un cruciale strumento di motivazione per i lavoratori,
stimolando in loro sentimenti di appartenenza e di identificazione con gli obiettivi
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dell’azienda. Appartenenza ed identificazione che la comunicazione stimola
facendo leva anche sul più vasto universo della “cultura aziendale”, laddove il
rischio sottolineato da Gideon Kunda (cap. VI) è che forme deleterie di controllo
normativo possano semplicemente sostituirsi alle precedenti forme di controllo
burocratico, rendendo tirannico ciò che si vorrebbe invece liberatorio.
Verificata l’esistenza di un forte legame positivo tra comunicazione organizzativa
e appartenenza dei lavoratori, ci possiamo adesso domandare se il nostro
argomento di studio, così come appena esposto, sia collocabile in ambito
sociologico. Alla luce della definizione di sociologia dell’organizzazione data da
Strati (1998, p. 47) “[…] proprio in quanto disciplina, ha come oggetto di studio
la società dentro e fuori le organizzazioni ed è contraddistinta dal guardare alle
relazioni sociali cui le collettività danno vita tra l’ambito particolare in cui viene
svolta l’analisi e la società nel suo complesso […] Un processo che ha confini
labili, che rende la sociologia dell’organizzazione una disciplina aperta piuttosto
che un insieme strutturato di conoscenze, permeabile ai contributi delle altre
discipline […]”, la risposta ci sembra possa essere ampiamente positiva. Anche il
tipo di domande che ci siamo posti rientrano a pieno titolo tra quelle che, secondo
Strati (1998, p.95), il sociologo dell’organizzazione si deve porre: Come
l’organizzazione motiva i suoi membri? Come ne ottiene l’impegno? Come crea
un clima cooperativo in una struttura essenzialmente competitiva? Come affronta i
cambiamenti ambientali? Come ottiene legittimazione sociale? Come assicura il
controllo senza gli effetti alienanti sulle persone?
Le risposte che abbiamo dato a queste domande non sono, ovviamente, esaustive.
Di sicuro non si affrontano complessi cambiamenti ambientali e non si motivano i
dipendenti semplicemente comunicando. La comunicazione organizzativa è uno
strumento, un mezzo divenuto particolarmente potente dopo aver integrato
comunicazione interna, esterna ed istituzionale; ma affinché dispieghi la sua
efficacia deve essere curata da un management competente, affiancata da scelte
gestionali consapevoli e da risorse adeguate, anche in termini di prodotto. E deve
forse poter contare, come tutte le attività in ambito economico, anche su un po’ di
fortuna.
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Non pensiamo comunque di aver affondato l’argomento in modo scontato. Al
contrario, riteniamo che si possa considerare la comunicazione organizzativa un
approccio molto innovativo alla gestione delle aziende, uno strumento che tutte le
imprese evolute dovrebbero saper padroneggiare per valorizzare adeguatamente
quella che è tornata ad essere la loro risorsa principe: la persona umana. A questo
proposito, e con l’obiettivo di dare attualità al nostro discorso, riportiamo una
parte di una recentissima intervista a Pasquale Pistorio, il manager che ha portato
la St Microelectronics dal 25° al 3° posto nella graduatoria mondiale dei
produttori di semiconduttori. L’intervista è stata pubblicata da “Il Sole-24 Ore”
del 1° Maggio 2002. “…Noi facciamo di più: formiamo e motiviamo
continuamente i nostri lavoratori e, soprattutto, li mettiamo al centro
dell’azienda. Ecco il concetto fondamentale che sarebbe bene ripetere in una
giornata importante come il 1° Maggio. I lavoratori non sono più un fattore di
produzione, i lavoratori sono gli attori dell’azienda. La conseguenza è ovvia: un
lavoratore formato e ben motivato si traduce in un vantaggio competitivo
inestimabile…”.
In tempi in cui l’approccio alle risorse umane è ancora pervaso da termini quali
“downsizing”, “ outsourcing”, “ impiegabilità” e “outplacement”, recuperare
l’uomo e porlo al centro della platea aziendale ci sembra veramente molto.
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