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In occasione della festa di compleanno di Casa Betania 2015, cheporta il nome ‘Cammini di dignità’, desideriamo farvi un dono: una

buona lettura.

Si tratta di brani selezionati per un momento della festa che ab-biamo chiamato “Parole e musica”. Attraverso questi due linguaggi altiabbiamo voluto condividere la conoscenza ma soprattutto le emozioniche possono suscitare alcune condizioni di vita dell’Uomo di oggi. E que-sto allo scopo di accrescere in ognuno di noi la speranza che un mondomigliore sia possibile per tutti, anche laddove la dignità della persona,uomo, donna, bambino, viene calpestata.

Sono brani di persone che hanno visto con i loro occhi e con la lorosensibilità o che hanno vissuto sulla loro pelle la sofferenza di chi vieneconsiderato un peso, una nullità, uno strumento di piacere, uno schiavo.E queste persone si sono fatte interpreti di questa sofferenza mostran-doci una strada, tracciando un cammino per riconoscere a chi è statanegata una dignità che gli appartiene da sempre.

Il primo brano è la lettera che Don Tonino Bello ha scritto per un gio-vane ladro ucciso in un conflitto a fuoco. Un fratello dimenticato a cui,a soli 22 anni, è stata rubata la dignità di uomo dall’indifferenza di unasocietà intera.

Nel secondo, Don Ciotti sottolinea il messaggio di pace che Don To-nino ci ha testimoniato con la sua vita e ci invita a guardare i volti dellepersone e a chiamarle per nome. Solo così possiamo scoprire che, perl’arricchimento di tutti, le persone non si affrontano, ma si incontranoin un atteggiamento di reciproco rispetto.

Il terzo brano è il racconto amaro di un giovane operaio che descrivele condizioni di lavoro in una fabbrica rumena. Una fabbrica che produceoggetti che verranno venduti anche nel nostro Paese a basso costo,ma al carissimo prezzo di una totale disumanizzazione della personae dell’imbarbarimento della società.

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Casa Betania, 14 giugno 2015

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Il quarto brano è la testimonianza di Chiara Corbella, la madre co-raggio che ci testimonia come la vita ha un valore in sé, qualunque siala condizione, il modo, il tempo e il luogo in cui si viene alla luce e chela vera luce è quella dello sguardo amorevole dei genitori verso il figlioanche se questo sguardo ha la durata di un attimo.

Il quinto è intitolato “Un grido di dignità” ed è stato scritto da SuorRita Giaretta, una suora orsolina del Sacro cuore di Maria. Suor Rita ciracconta la sua esperienza tra le donne del carcere femminile di Ca-serta, l’emozione di un incontro che lascia il segno e che produce cam-biamento.

Il sesto brano è un breve ma amaro resoconto di come vivono la loroinfanzia la maggior parte dei bambini in Paesi lontani come il Pakistane il Nepal: bambini resi schiavi dall’insensibilità degli adulti, sfruttati ederubati di ogni più elementare diritto che rende la vita umana degnadi questo nome.

Infine, alcuni stralci del discorso che Papa Francesco ha tenuto, loscorso anno, al Parlamento Europeo, a chi ha il dovere e il potere di eli-minare le disuguaglianze, riparare alle ingiustizie e restituire all’uomoquella dignità con cui Dio ha costituito ogni sua fibra.

Buona lettura!Buoni cammini di dignità!

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Cammini di dignità

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Ero all’inizio del mio ministero episcopale, quando abbiamo ce-lebrato la Giornata della gioventù. Il giorno dopo hanno am-

mazzato un giovane. Io l’ho saputo da un ritaglio di giornale. Nonera stato identificato. Ho telefonato al cimitero e ho parlato con ilcappellano. “L’hanno portato qui e domani lo seppelliamo”. Il giornodopo sono andato al cimitero e ho voluto celebrare le esequie.

Nessuna campana suonava per questo giovane; aveva ventidueanni. Poi sono andato a vedere colui che l’ha ammazzato: un me-tronotte. L’aveva ucciso perché era un giovane ladro. Comunquequando sono tornato a casa ho scritto questa lettera: “Ho saputoper caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mihanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina e sono venutodi buon’ora al cimitero a celebrare le esequie per te. Ma non ho potuto pronunciare l’omelia perché alla mia Messa nonc’era nessuno, solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alleorazioni.

E il vento gelido che scuoteva le vetrate. Sulla tua bara, neppureun fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, nep-pure un rintocco di campana. Ho scelto il Vangelo di Luca, quellodei due malfattori crocifissi con Cristo, durante la lettura mi è parsoche la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: “Gesù, ri-cordati di me!...

Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, aventidue anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che rotolavanel fango con te! Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che possochiamarti ladro tranquillamente senza paura che qualcuno mi de-nunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome. Tunon avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello, oggi, però,sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai è troppo tardi, questodolcissimo nome. Mio caro fratello ladro, sono letteralmente di-strutto. Ma non per la tua morte. Perché stando ai parametri co-dificati della nostra ipocrisia sociale forse te lo meritavi. Hai sparatotu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente e lui si è difeso.

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Casa Betania, 14 giugno 2015

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E stamattina quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi hadetto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, conquei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, devemantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di unanno e mezzo.

No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per latua squallida vita.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva in-giustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera,generosa e contraddittoria che discrimina, che rifiuta, che non siscompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tuttodalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tantagente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senzaistruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza accantoa te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco! Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano in-giustamente ucciso le nostre comunità cristiane che, sì, non sonovenute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hannoofferto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organiz-zano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi,ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovonoassistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che ce-lebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nelcuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbruttito che è fosco comeil tuo, che ha cessato di battere per sempre.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevoingiustamente ucciso anch’io, che l’altro giorno, quando c’era laneve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro chemandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo dipredica.

Perdonaci, Massimo. Il ladro non sei tu. Siamo ladri anche noiperché prima ancora della vita, ti abbiamo derubato della dignitàdi uomo. Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo vistovivere, morire e seppellire.

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Perdonaci se, ad appena otto giorni dall’inizio solenne dell’annointernazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sven-turato, il primo estratto conto della nostra retorica.

Addio, fratello ladro. Domani verrò di nuovo al Camposanto, esulla tua fossa senza fiori in segno di espiazione e di speranza ac-cenderò una lampada”.

Tratto da: La pace come ricerca del volto di Don Tonino Bello

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L’attenzione agli altri, a tutti gli altri, ha attraversato la vita didon Tonino. Li ha sempre chiamati per nome, quei volti, li hafatti conoscere anche a noi perché sono diventati anche un po’ no-stri amici. Perché i suoi scritti, le sue testimonianze, i suoi interventici hanno consegnato quei nomi.

Chiamare per nome, dare un nome, vuol dire dare dignità allepersone. E oggi troppi parlano di casi, di numeri, di utenti. No! Dob-biamo ridare nome alle persone. Chiamare per nome, per incon-trare sempre le persone prima, per poi affrontare i problemi e nonviceversa.

Perché oggi sono troppi quelli che affrontano le persone. Invecele persone si incontrano. I problemi si affrontano. E Tonino questoce l’ha testimoniato con quella sua coerenza evangelica. Noi tuttiche siamo qui, io credo sentiamo nella nostra pelle che dobbiamoimpegnarci di più.

Chiamando per nome, guardando in faccia le persone. Ognunocominciando dalle azioni minori, nel suo contesto, nella sua realtà,per creare le condizioni perché tutte le persone siano libere.

La libertà di tutti si gioca sul terreno dei diritti e della giustizia.Dobbiamo fare in modo che nessuno debba dipendere da altri, dasostanze o da forme di schiavitù, di sfruttamento. Questa trasver-salità di attenzione agli altri, agli ultimi è cresciuta nell’arco del suocammino di prete e di vescovo, ma il cambiamento, e ce lo dice di-rettamente e indirettamente, è stato, e lo è anche per noi se lo vo-gliamo, di più nel faccia a faccia con le persone. Le persone cicambiano.

E poi ci parla di Bartolo. Ma Bartolo non è di Molfetta, non è dellaPuglia. Dove l’ha scovato don Tonino? E’ un mio amico -dice-.Quando andate a Roma, vicino all’Editrice Ancora, proprio sulla si-nistra, ci sono dei cartoni sul gradino. La sera Bartolo si copre conquei cartoni. E’ da anni che sta lì. Quei cartoni per me sono unostensorio. Avete capito? Egli dice: quei cartoni per me sono unostensorio. All’interno ci sono frammenti di santità perché Dio si

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Cammini di dignità

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prende cura anche di Bartolo. Ecco il faccia a faccia. Ecco il salto che ci catapulta in avanti perché in tutte le storie

delle persone c’è il frammento di Dio. E’ questa coerenza, questaradicalità, questa dimensione profonda che Tonino ci ha offertonella sua umiltà, nella sua straordinaria ordinari età delle cose.Ecco il valore del suo messaggio.

Chiede ad ognuno di essere capaci di fare e di vivere questa coe-renza con il Vangelo. Di non dimenticarci che Dio si prende cura ditutti. ”

Don Ciotti

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“Vedo il mondo da dietro questa macchina di catena di mon-taggio e pensavo ad alcune cose da condividere con voi con

quello che per facilità chiamerò terzo mondo e vi scrivo da questomio mondo che per facilità chiamerò primo mondo, io cittadino ru-meno perché lavoro in una delle tante fabbriche rumene dove fac-ciamo la merce che poi andrà in tante parti del terzo mondo, nelvostro mondo, per la precisione la merce che arriva poi nei ma-gazzini ordinati e puliti del vostro terzo mondo di ikea e in tantealtre parti! Ma poi a che serve dire che sono rumeno, ho la stessafaccia di un cinese o africano o sudamericano o indiano o europeoo chissà cosa altro, la stessa pelle e vita di ogni vita che conoscecosa vuol dire non il gusto del lavoro che ti permette di vivere condignità, con la schiena dritta, libero, ma di quel tipo di lavoro cheper semplicità chiamerò schiavitù e non chiamerò più lavoro!

Si lo so che la merce che arriva da voi è pulita e ordinata, non hapecche, non ammette sbavature, anche perché ha la perfezione ela monotonia e l’assenza di vita, di creatività, di gusto che ha ogniprodotto fatto in catena di montaggio! Arriva così da voi ma parteda noi in altro modo, e il modo è la modalità della schiavitù! Si loso che è una parola pesante ma questa è la realtà! 12 ore in con-tinuo a fare gli stessi gesti, obbligati dalla domanda degli ordini ri-cevuti di consegna, 12 ore ininterrottamente a fare gli stessi gesti,anzi no perdonatemi con una pausa in complessivo di 45 minuti,con i capi che non parlano con te ma urlano e non è perché ci sonole macchine che fanno rumore, ma perché credono di avere davantia loro numeri, oggetti, animali! Si lo so scusatemi il vostro bon tonma questa sera uscito dalla mia fabbrica ho dimenticato le buonemaniere! Che vita è questa? Ah, dimenticavo, il tutto per un salarioche non arriva a 250 euro...ecco direte, lo sapevo che si andava aparlare di soldi. ..ma anche il tenore di vita sarà basso, direte voi...

Ma parliamo di una vita o di una sottovita? Qual è il tenore divita di un uomo? Poter fare una passeggiata con la propria moglie,aver cura della crescita dei propri figli lo chiedo a voi appartiene a

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un tenore di vita particolare, voglio dire sono già cose che noi chestiamo qui nel primo mondo non ci possiamo permettere, o ap-partiene ad un minimo tenore di vita che spetta ad ogni uomo? Vifaccio la stessa domanda: poter coltivare le relazioni con Dio, conun amico, poter leggere un libro, avere del tempo libero, ascoltareun po’ di musica, informarsi su cosa succede nel mondo, sono cosedi un tenore di vita da terzo mondo o anche noi qui del primomondo ce le possiamo permettere? No perché sapete, quandoesco la mattina alle 6 e torno la sera alle 19.30, quando i capi nonhanno qualche altro capriccio per la testa, sapete come trovo imiei figli, mia moglie, no anche perche tante mogli fanno la stessavita che faccio io! No non c’è bisogno di aggiungere altro, voi delterzo mondo avete intelligenza da vendere! E vedo dalle 15 in poiil mio volto, quello dei miei compagni e compagne di lavoro as-senti, gli occhi atterriti, vuoti, persi e mi dico che anche i mie sonocosì! E non possiamo dire no a qualsiasi richiesta dei capi, siamodiventati come marionette, come loro sono marionette comandatedal denaro, dal profitto, dal potere, non possiamo dire no sotto laminaccia continua di tagli del salario e io quei soldi è necessarioche li porti a casa, come vivere sennò? E guardo ogni giorno laschiena dei compagni e compagne di lavoro piegata dalla schiavitùe guardo la schiena dei capi piegata ancora più terribilmente sottoil peso dell’accumulo delle ricchezze e del denaro maledetto fattosul sangue dei poveri e mi dico tra me e me abbiamo saputo cal-colare ogni cosa ma non abbiamo saputo calcolare fin dove pos-sono reggere le spalle di un uomo! E non ci ricordiamo più le paroledi Gesù che ci dice chiaro che per quanto uno si dia da fare per ac-cumulare la sua vita mai dipenderà dai suoi beni! Ma forse fac-ciamo ormai fatica anche a ricordare le parole di quest’uomo Figliodi Dio! E allora vi voglio invitare a quella che con lo sciopero è unadelle armi più forti per cambiare le cose, perché non siano più così,il boicottaggio! Non comprate più questa merce nei magazzini diikea, che ha lo stesso puzzo fetente e marcio delle armi, dei dia-

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manti, dell’oro, di tutto ciò che viene tirato fuori dal sangue degliuomini e donne del nostro primo mondo!

Vi ho presentato la realtà che troppo spesso mascheriamo e na-scondiamo sotto l’illusione! Grazie a tutti quelli che tradurrannoquesti pensieri, a chi li leggerà, a chi li passerà ad altri, a chi infinepenserà e per questo agirà!

Noi da questo nostro sottomondo cercando di sopravvivere inquesta nostra sottovita vi salutiamo mentre ci asciughiamo il san-gue dalla nostra fronte...come si dice da queste parti Dio è su evede

Un operaio rumeno

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Daniela, la ginecologa, mi ha detto: “Guarda Chiara, qui c’è unamalformazione grave che non si potrà curare. Non posso dirti

di più perché bisogna fare un’ecografia di secondo livello per vederel’entità del danno, per vedere se sono implicati anche altri organi.”

In quel momento non so come descrivere la mia sensazione…però mi sono rivenute in mente tutte quelle persone che ci dicevanoche avremmo avuto un figlio sano, che era scontato. Sapevo che ilSignore ha sempre qualcosa di diverso per noi, non tutto va comenoi pensiamo e quindi, in quel momento, l’unica preoccupazioneera il fatto di dire “ma adesso come lo dico a mio marito??” (…)

Alla seconda ecografia di secondo livello si poteva vedere senzaombra di dubbio. La scatola cranica di Maria non si era formata,quindi anche se lei si muoveva perfettamente, sembrava si ciuc-ciasse il dito, era lì che scalciava… però diciamo che per lei nonc’erano possibilità.

Quindi il medico che mi ha visitato mi ha detto “ma come mainon ha fatto un’ecografia prima?” E io, già che ero piena di rimorsie di complessi di colpa ho detto “perché, avrei potuto prevenirequesto?” E lui m’ha detto, un po’ stupito: “No, però avremmo po-tuto interromperla prima….” E’ stato un po’ un colpo basso, perchéio avevo appena visto Maria muoversi, era chiaro…

Era palese e logico il fatto che comunque Maria non poteva so-pravvivere dopo la nascita, però era altrettanto palese che lei eraviva! Lei era lì, stava facendo di tutto per crescere. Quindi io non mela sentivo proprio di andare contro di lei, mi sentivo semplicementedi sostenerla come potevo e non di sostituirmi alla sua vita. (…)

Quello che posso dirvi è che tante persone accanto a noi hannocercato di risparmiarci questa sofferenza; ci hanno chiesto: “ma voilo sapete che quello che state facendo non vi è stato richiesto danessuno? Che anche la Chiesa in questo caso non si pronuncia?Voinon state mettendo al mondo un figlio malato, o con delle malfor-mazioni, quindi siete liberi di scegliere!”

Quello che voglio dirvi è che c’è tanta confusione in questo, per-

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ché il Signore la mette la verità dentro di noi, e non c’è possibilitàdi fraintenderla.

Il punto di forza in tutto questo però, devo dire che sono statela nostra famiglia – che si è scatenata a pregare da subito, gli amici– che hanno saputo questo e ci hanno sostenuto con la preghiera,e tutti coloro che anche non conoscendoci hanno preso a cuorequesta cosa e hanno pregato per noi. E la preghiera si è sentitatanto, più di ogni altra cosa, perché comunque, nonostante tutto,è stata una gravidanza stupenda, in cui abbiamo potuto apprezzareogni singolo giorno, ogni piccolo calcio di Maria è stato un dono, elei si è fatta sentire veramente tanto. Come se volesse ricordarciogni giorno che lei era lì, era lì per noi.

Come diceva il prof. Noia, è vero che il figlio dona la vita allamadre, e così è stato per noi. (…)

Per ironia della sorte, io che speravo in un certo senso almenodi vivere questo dolore in riservatezza… mi sono ritrovata una pan-cia talmente grossa che parlava da sola! Perché tra le controindi-cazioni c’era quella di avere un liquido amniotico moltoabbondante, perché Maria non aveva lo stimolo a deglutire. Equindi, se da un lato Maria era contenta perché aveva una piscinaolimpionica dove nuotare, io avevo una pancia che mi costringevain un certo senso a testimoniare la grandezza del Signore, di quelloche ci stava accadendo. (…)

Da che erano tutti convinti che avrei fatto un cesareo, erano tuttifavorevoli per il parto naturale.

Nel giro di 5 minuti, il sacco amniotico era vuoto. (…) Eppure stavo benissimo, e questo era assurdo perché non avevo

nemmeno difficoltà a dormire la notte, io veramente non ho av-vertito il peso di questa gravidanza.

Nel giro di due ore abbiamo fatto travaglio e parto in manieraassolutamente naturale…..E Maria è nata.

Il momento in cui l’ho vista so che è stato un momento che nondimenticherò mai: in quel momento ho capito che eravamo legateper la vita, anche se non pensavo al fatto che lei sarebbe stata

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poco con noi.Sapevo che era legata con me per la vita perché era mia figlia.

Poi l’hanno portata fuori, e nel momento in cui Enrico è rientratodentro la stanza e mi ha portato Maria, è stato un altro momentoindimenticabile perché l’ho visto con Maria in braccio e lo vedevoguardarla in maniera così fiera, così contento di lei! Ero sicura chenon avrebbe potuto avere un padre migliore.

La cosa che poi avevamo chiesto al Signore, come desiderio, oltreal fatto di fare un parto naturale – e ci aveva ascoltato – era il fattodi farla nascere viva e di poterla battezzare. Quando Enrico è rien-trato e mi ha detto “è viva, l’abbiamo battezzata”, è stato il donopiù grande che il Signore potesse farci.

Noi l’abbiamo tenuta una mezz’oretta, l’hanno potuta conoscerei nonni, alcuni amici, e poi l’abbiamo preparata, e Enrico l’ha ac-compagnata.

Quello che posso dirvi è che quella mezz’ora non mi è sembrataaffatto poca: è stata una mezz’ora indimenticabile, e se io avessiabortito, non penso che potrei ricordare il giorno dell’aborto comeun momento di festa, un momento in cui mi fossi liberata di qual-cosa. Penso che sarebbe un momento che cercherei di dimenticare,un momento di sofferenza grande. Il giorno della nascita di Mariainvece potrò ricordarlo sempre come uno dei più belli della mia vita,e potrò raccontare ai figli che il Signore vorrà donarci che hannoveramente una sorella speciale che prega per loro in cielo.

Quello che voglio dire alle mamme che hanno perso dei bambiniè… che noi siamo state mamme, abbiamo avuto questo dono; nonconta il tempo, se un mese, due mesi, poche ore… Conta il fattoche noi abbiamo avuto questo dono, e non è una cosa che si puòdimenticare.

Chiara Corbella Petrillo, 19 novembre 2009, trascrizione della testimonianza

nell’incontro dell’Associazione Scienza &Vita presso la parrocchia di Santa Francesca Romana all’Ardeatino

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Gli ultimi degli ultimi sono le donne. Caserta non era una terrafacile e non lo è tuttora. Noi siamo arrivate nel 1995 e in questi

vent’anni il dramma di quella terra è cresciuto ancora di più nono-stante abbia risorse e bellezze incredibili: la reggia, Caserta vecchia,Capua… Eppure questa terra sta soffrendo moltissimo,devastatadalla camorra, dall’illegalità, dal disastro ambientale. In quegli annistava emergendo la realtà dell’immigrazione, migranti in arrivo nelnostro paese che vivevano in condizioni disumane, in baracche,ghettizzati e schiavizzati. E ancora non è cambiato nulla, se pen-siamo a quanto sfruttamento c’è dietro alla raccolta dei pomodori,per esempio, un lavoro di 10 o anche 14 ore al giorno, sotto il sole,per 20 euro se non 15. All’interno di questo mondo di immigrazioneclandestina, noi volevamo avvicinare le donne, ma pareva non cifossero perché non avevano visibilità, tutti i servizi che stavano na-scendo per i migranti erano rivolti agli uomini.

Abbiamo saputo che nel centro della città c’era un carcere fem-minile e che la metà delle detenute erano immigrate. La direttriceci ha detto: “Se volete aiutare gli ultimi degli ultimi fatevi compagnedi queste donne, molte di loro sono dentro per reati futili, se fos-sero italiane non sarebbero in carcere. Non hanno parenti né amiciné avvocato, nessuno può fare da rete quando si aprirà loro la portadel carcere per uscire”: Ci siamo fatte compagne di viaggio di que-ste donne, abbiamo aperto la porta di casa nostra, per accoglierele detenute che potevano beneficiare dell’affidamento in prova odi permessi premio. Dopo qualche mese di esperienza è finita per-ché il carcere è stato chiuso e le detenute sono state trasferite inuna casa circondariale distante da Caserta.

Ma grazie a queste donne e girando per le strade ci siamo ac-corte di quante donne ci fossero lungo le strade di periferia, lungola Domiziana, tantissime ragazze giovanissime, di colore, dell’est.Come mai? Perché succede questo? Come donne ancor prima checome suore ci ha inquietate vedere che ci sono ragazzine in stradache vendono il loro corpo. Siamo andate in Questura e dal Vescovo

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per cercare di capire. Abbiamo interpellato la Caritas, il GruppoAbele , abbiamo tentato di capire. Abbiamo chiesto alla Polizia cheperlustra le strade con le volanti il perché di queste ragazze per lestrade. Ci hanno risposto: “Voi siete suore, state al vostro posto,nel vostro convento, che vi interessa di questo? Il vostro compitoè la preghiera, lì non entrate, non mischiatevi, non sappiamo ne-anche noi che cosa ci sia dietro, state al vostro posto.”

Un pensiero per l’8 marzo

Qual è il nostro posto? E’ la domanda che ci siamo poste comedonne e come credenti. Il mandato della nostra famiglia religiosadi andare a Caserta a vivere il nostro carisma in una terra segnatada difficoltà era interpellato da una nuova chiamata, i volti e glisguardi di quelle ragazze ci chiedevano una presenza, ma come?Quelle ragazze mai sarebbero venute nei nostri oratori, mai leavremmo incontrate nelle nostre chiese, toccava a noi raggiun-gerle. Abbiamo pensato e scelto una data: si stava avvicinando l’(marzo del 1997, data che abbiamo ridotto a festa ma che è la gior-nata in cui si fa memoria del cammino faticoso di tante donne,uncammino faticoso ancora oggi. Perché c’è ancora troppa violenzasul corpo delle donne, troppa disuguaglianza, troppo sfruttamento,molti cammini di liberazione ancora da percorrere. Oggi Papa Fran-cesco ci sta abituando ai gesti, la sua prima visita pastorale è stataLampedusa, con cui ha detto in modo chiaro e netto da che partesta. A volte abbiamo paura di dirlo ma il Vangelo ci dice chiara-mente da che parte stare senza trovare accomodamenti. Abbiamoscelto la data dell’8 marzo, ma cosa potevamo dire? Non sapevamonulla di quella realtà se non ciò che vedevamo, strade di periferiaabitate da tante ragazze, di notte e di giorno, a tutte le ore. Ab-biamo deciso di portare una piccola piantina, qualcosa di vivo concui dire: “Te lo consegno perché te ne prenda cura, significa una re-lazione, voler costruire qualcosa”. Abbiamo caricato la macchina di

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Casa Betania, 14 giugno 2015

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tanti vasetti e insieme un piccolo messaggio: “Cara sorella, caraamica, con questo gesto vogliamo dirti che qualcuno pensa a tecon affetto.” Lo abbiamo scritto in tre lingue, italiano , francese einglese, non conoscevamo l’arabo. Siamo partite in quattro, duesuore e due amiche laiche che conoscevano l’inglese e il francese.Le ragazze sulla strada hanno visto una macchina di donne fer-marsi davanti a loro. La prima reazione è stata di spavento e hannocercato di scappare. Non abbiamo lasciato che ci respingessero,abbiamo insistito e quelle piantine hanno trasformato la paura insorpresa e gioia dell’incontro. Ricordo ancora le lacrime e gli ab-bracci. Era la prima volta che qualcuno si fermava per offrire loroun gesto di tenerezza e di amicizia. Nessuno può essere così ar-rabbiato e ferito che non ci sia un gesto di tenerezza capace di toc-carlo. E poi ci hanno chiesto, cosa che ci ha sorpreso più di tutto,inginocchiate, di tornare. Quella mattina ne abbiamo incontrateuna quarantina, noi pensavamo di fare quel gesto e poi fermarci.La storia, i gesti che abbiamo il coraggio di compiere possono di-ventare nuove chiamate, possono aprirci delle strade e chiedercinuovi cammini.

Nessuno si chiede perché?

E adesso? Dentro quella richiesta c’era la necessità di trovarerisposte, quella domanda è la stessa che troviamo all’inizio dellastoria della salvezza: ‘dov’è tuo fratello?’ Dove sono le tue sorelle?Potevamo rispondere come Caino: ‘siamo forse noi le custodi diqueste sorelle?’. Settimanalmente abbiamo cominciato a ritornaresu quelle strade, si è aperto davanti a noi uno scenario incredibile.Vedendo che tornavamo da loro, quelle ragazze lentamente hannocominciato a consegnarci le loro storie: le loro ferite, i loro corpipercossi, segnati da bruciare, da ferite sanguinanti aperte. Maiavrei pensato di conoscere di conoscere quello che stavo vedendo:altro che mestiere più antico, altro che “sono lì per fare soldi”!

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Cammini di dignità

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Sono lì perché sono schiave. Ragazze vittime del traffico di es-seri umani, donne giovanissime, minorenni costrette a prostituirsi:schiave vittime di false promesse che poi si trovano sulle nostrestrade a diventare merce. Le catene non le vediamo , ma ci sono eobbligano quelle ragazze a stare in un metro quadrato di terra,anche quello a pagamento.

Sono giovani che provengono dalla Nigeria, dalla Moldavia, dallaRomania, dall’Albania, da terre matrigne dominate dalla corruzionee dalla miseria, il cui peso insopportabile grava sulle spalle delledonne, e dei loro figli da crescere. La disperazione che le spinge apartire per inseguire un sogno, le trasforma in “merce per fare de-naro” nelle mani di un’organizzazione criminale transnazionale checollega i paesi di origine con quelli di transito e di arrivo. La crimi-nalità sa costruire rete di sfruttamento che partono dai paesi diorigine, attraversano i paesi di transito (dopo il deserto, il Marocco,la Libia, oggi sono la Turchia e la Grecia le nuove sponde da cui par-tire), e arrivano a destinazione. Nessuno si chiede perché rischianola vita? Qual è la loro condizione? Una persona non partirebbe sestesse bene nella propria terra, non rischierebbe la vita se stessebene. Loro lasciano povertà, miserie, guerre, violenze. Non hannopiù nulla nel loro paese. Sono un movimento di popoli assetati dipace, di speranze, dignità. ’c’è un grido di dignità in questo movi-mento di popoli’, dice Antonietta Potente.

“Non mi sentivo più persona!

Quando arrivano in Italia pensano che l’inferno sia passato, sonoarrivate finalmente in Europa: ‘L’Italia sarà il paese accogliente chemi aiuterà a liberarmi da queste ferite? Sarà il paese nel quale co-struire una vita?’, sono questi i sogni. Si trovano invece per lastrada, buttate in un nuovo inferno. D’estate, d’inverno, con il caldo,il freddo, la paura della polizia, dei clienti, di tutto. La strada togliela dignità, fa male sentirle dire: ‘Mamma (per le ragazze africane

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chi accoglie, chi vuole bene diventa mamma) per la strada ero comeun animale, non sapevo più chi ero, non mi sentivo più persona’.

Penso alla storia di una donna di 18 anni, da due mesi è da noi,partita dalla Nigeria a 17 con una promessa: ‘se vai in Italia avraiun lavoro’, immaginava una vita da sogno non solo per lei ma ancheper la sua famiglia. Sono speranze sane, sogni giusti. Questa ra-gazzina si è fidata, in Africa difficilmente una donna viene fatta stu-diare, se poi la famiglia è numerosa è facile che le figlie femminevadano in altre famiglie che stanno meglio a fare le piccole colf.

Questa ragazzina si era trovata ad accudire altri bambini, pocopiù piccoli di lei, perché andassero a scuola, e quello era anche ilsuo desiderio. Desiderava avere istruzione, ha pensato “voglio vi-vere”, si è fidata di una promessa, è sopravvissuta alla traversatadel deserto, dalla Libia è sbarcata nelle coste siciliane, messa in uncentro di accoglienza è stata subito adescata. Una bellissima ra-gazzina, giovane, sai che valore? Presa subito. Si è trovata a 17anni a Copenaghen a vendere il suo corpo, notte e giorno,. Per seimesi. Mancava poco che compisse 18 anni quando l’hanno ripor-tata i Italia, nella zona di Caserta, ad Aversa, aspettavano solo chediventasse maggiorenne: una mattina alle 4 ha sentito una tele-fonata, la stavano vendendo per metterla sulla strada. E’ riuscitaa scappare. Ha preso il treno ed è arrivata a Casa Rut. E’ arrivatada noi appena compiuti 18 anni, alle spalle tutta questa storia.Prendersi cura di queste ragazze, trasmettere loro un senso di fi-ducia che la vita è positiva, è un cammino difficile, paziente.

Suor Rita

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Cammini di dignità

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Santos, 15 anni, mastica con voracità una manciata di riso presada una ciotola di metallo in un sudicio locale di Baktapur, alla

periferia di Katmandu. Sono le 10 e trenta del mattino. Santos è inpiedi dalle 4, e da sei ore è seduto davanti a un telaio per fare tap-peti. “Ho iniziato quando avevo 8 anni – racconta –, lavoro 18 oreper circa 15 rupie al giorno (meno di 20 centesimi di euro)”. Santos,suo fratello di 14 anni, una sorellina di 7 anni e mezzo e il loro padresono tutti impiegati in una fabbrica di tappeti, dentro un anonimoedificio di mattoni rossi. Lavorano schiena contro schiena uomini,bambini e donne con neonati tra le braccia che, come equilibriste,annodano e curano il piccolo allo stesso tempo. Qualcuna allattamentre annoda. Un neonato che ha già poppato guarda fuori dallaculla appesa al soffitto.

I bambini sono impiegati in tutti i settori. Nell’edilizia lavoranoper la produzione di alcuni materiali, come la ghiaia, che viene fattaa mano, a colpi di martello, o per la raccolta della sabbia dai lettidei fiumi, sempre a mano. Anche se il Nepal non ha una tradizionepari a quella del Pakistan, nel paese vi sono molte fabbriche di tap-peti (oltre che essere più facilmente controllabili i bambini hanno ilpregio di fare nodi più piccoli e precisi grazie alla dimensione ridottadelle dita), molti dei quali destinati all’esportazione a basso costo.L’anagrafe in Nepal non esiste e censire i bambini è ancora piùarduo, perché la cittadinanza non viene considerata un diritto dallanascita ma un diritto che si acquisisce solo a 16 anni. Formalmentequindi i bambini nepalesi non esistono. Non si sa quanti siano ri-spetto all’intera popolazione, si sa solo che sono molti.

Come in tutti i paesi poveri la popolazione è mediamente moltogiovane. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del lavoroogni anno in Nepal vengono commerciati circa 12.000 bambinicome lavoratori, semi schiavi o anche nel giro delle adozioni inter-nazionali. Ci raccontano che circa 500 bambini, divisi in gruppi di10 o 20 al massimo, girovagano tra foreste e montagne, villaggiabbandonati e valli selvagge per fuggire dall’arruolamento forzato.

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Nei villaggi qualcuno sa dove si nascondono, ma c’è un tacito patto:nessuno deve parlare di loro. La voce potrebbe arrivare ai guerri-glieri o all’esercito, e i bambini sarebbero facile preda degli uni odegli altri. La miseria dei villaggi contadini spinge molte famiglie adaffidare i figli ad abbienti nepalesi delle città. Nelle case dei bene-stanti cittadini di Katmandu è normale trovare come sguatteribambini che arrivano dalla campagna. Non sono pagati, ma hannoun letto e cibo, e i più fortunati, davvero pochi, vengono anchemandati a scuola. Nei villaggi di campagna è il latifondista a pren-derli in casa, quasi sempre preferendo le bambine che vengono ri-dotte in semi schiavitù. Quelle che restano al villaggio imparano infretta il futuro ruolo di madre, massaia e contadina. Accudiscono ifratelli più piccoli e a 10 anni li portano con sé legati alla schienacon uno straccio.

Lo sfaldamento della famiglia tradizionale patriarcale è all’ori-gine del tristissimo fenomeno dei bambini di strada . Li trovi chedormono nei parchi, sopra cartoni lungo le strade, a fare l’elemo-sina agli incroci o rintronati dalla colla (aspirandola con forza si ot-tiene un effetto stupefacente) appoggiati contro un muro oaccasciati per terra. Chi non sopravvive rovistando nel pattume fail bigliettaio sui taxi collettivi. A ogni fermata del mezzo grida ilnome della zona della città dov’è diretto, riscuote il prezzo del bi-glietto da chi sale, lo consegna all’autista. A fine giornata se gli vabene ha guadagnato 90 rupie, un euro. Sono 4.000 le associazioninepalesi che si occupano dei bambini di strada, un vero e proprioparadosso numerico. Basterebbe infatti che ogni associazione sifacesse carico di uno o due bambini per risolvere definitivamenteil problema..

Dal sito www.IlPaesedeibambinichesorridono.it

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Signor Presidente, Signore e Signori Vice Presidenti, Onorevoli Euro-deputati, Persone che lavorano a titoli diversi in quest’emiciclo, Cari

amici,

Nel rivolgermi a voi quest’oggi, a partire dalla mia vocazione dipastore, desidero indirizzare a tutti i cittadini europei un messaggiodi speranza e di incoraggiamento…

Incoraggiamento a tornare alla ferma convinzione dei Padri fon-datori dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basatosulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per fa-vorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente. Alcentro di questo ambizioso progetto politico vi era la fiducia nel-l’uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto eco-nomico, ma nell’uomo in quanto persona dotata di una dignitàtrascendente.

Mi preme anzitutto sottolineare lo stretto legame che esiste fraqueste due parole: “dignità” e “trascendente”.

La “dignità” è una parola-chiave che ha caratterizzato la ripresadel secondo dopoguerra. La nostra storia recente si contraddistin-gue per l’indubbia centralità della promozione della dignità umanacontro le molteplici violenze e discriminazioni, che neppure in Eu-ropa sono mancate nel corso dei secoli. La percezione dell’impor-tanza dei diritti umani nasce proprio come esito di un lungocammino, fatto anche di molteplici sofferenze e sacrifici, che hacontribuito a formare la coscienza della preziosità, unicità e irripe-tibilità di ogni singola persona umana. …..Oggi, la promozione deidiritti umani occupa un ruolo centrale nell’impegno dell’Unione Eu-ropea in ordine a favorire la dignità della persona, sia al suo internoche nei rapporti con gli altri Paesi. Si tratta di un impegno impor-tante e ammirevole, poiché persistono fin troppe situazioni in cuigli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può pro-grammare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi pos-sono essere buttati via quando non servono più, perché diventatideboli, malati o vecchi.

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Effettivamente quale dignità esiste quando manca la possibilitàdi esprimere liberamente il proprio pensiero o di professare senzacostrizione la propria fede religiosa? Quale dignità è possibile senzauna cornice giuridica chiara, che limiti il dominio della forza e facciaprevalere la legge sulla tirannia del potere? Quale dignità può maiavere un uomo o una donna fatto oggetto di ogni genere di discri-minazione? Quale dignità potrà mai trovare una persona che nonha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, chenon ha il lavoro che lo unge di dignità?

Promuovere la dignità della persona significa riconoscere cheessa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata adarbitrio di alcuno e tanto meno a beneficio di interessi economici..

Parlare della dignità trascendente dell’uomo significa ….fare ap-pello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il benedal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio haimpresso nell’universo creato; soprattutto significa guardare al-l’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale.Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitu-dine, propria di chi è privo di legami. La si vede particolarmentenegli anziani, spesso abbandonati al loro destino, come pure neigiovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; lasi vede nei numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vedenegli occhi smarriti dei migranti che sono venuti qui in cerca di unfuturo migliore.

Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui ef-fetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal puntodi vista sociale. Si può poi constatare che, nel corso degli ultimianni, accanto al processo di allargamento dell’Unione Europea, èandata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti diistituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepitecome lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addiritturadannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stan-chezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e

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vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembranoaver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici dellesue istituzioni.

A ciò si associano alcuni stili di vita un po’ egoisti, caratterizzatida un’opulenza ormai insostenibile e spesso indifferente nei con-fronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri. Si constatacon rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economi-che al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orien-tamento antropologico. L’essere umano rischia di essere ridotto asemplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla streguadi un bene di consumo da utilizzare, così che - lo notiamo pur-troppo spesso - quando la vita non è funzionale a tale meccanismoviene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, deimalati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o deibambini uccisi prima di nascere. È il grande equivoco che avviene«quando prevale l’assolutizzazione della tecnica», che finisce perrealizzare «una confusione fra fini e mezzi». Risultato inevitabiledella “cultura dello scarto” e del “consumismo esasperato”. Al con-trario, affermare la dignità della persona significa riconoscere lapreziosità della vita umana, che ci è donata gratuitamente e nonpuò perciò essere oggetto di scambio o di smercio.

Voi, nella vostra vocazione di parlamentari, siete chiamati anchea una missione grande benché possa sembrare inutile: prendervicura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Pren-dersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecon-dità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduceinesorabilmente alla “cultura dello scarto”. Prendersi cura della fra-gilità delle persone e dei popoli significa custodire la memoria e lasperanza; significa farsi carico del presente nella sua situazionepiù marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità.

Discorso del Santo Padre Francesco al Parlamento EuropeoStrasburgo, Francia - Martedì, 25 novembre 2014

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Società cooperativa sociale ONLUS Via delle Calasanziane, 12 – 00167 Roma

www.coopaccoglienza.it

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