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CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIA … · Hillman propone una visione ben più allargata delle...

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA - FACOLTA' DI PSICOLOGIA CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA IN SITUAZIONI DI CALAMITA' NATURALI O UMANE IN AMBITO NAZIONALE E INTERNAZIONALE Anno Accademico 2002-2003 DALLA PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA CONTRIBUTI PER UNA REVISIONE DEL LAVORO CLINICO Tesi di perfezionamento di Isabella De Giorgi
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA - FACOLTA' DI PSICOLOGIA

CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIADELL'EMERGENZA IN SITUAZIONI DI CALAMITA' NATURALI

O UMANE IN AMBITO NAZIONALE E INTERNAZIONALEAnno Accademico 2002-2003

DALLA PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA CONTRIBUTI

PER UNA REVISIONE DEL LAVORO CLINICO

Tesi di perfezionamentodi Isabella De Giorgi

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INDICE

PREMESSA........................................................................................................................ 3

SOCIETA' COMPLESSE, RISCHI, EMOZIONI........................................................ 4

CONCLUSIONE............................................................................................................ 23

B I B L I O G R A F I A................................................................................................... 25

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PREMESSA

L'affermarsi anche in Italia ormai di una psicologia dell'emergenza a mio

parere testimonia (al di là di mode e opportunismi) la necessità per la

psicologia di uscire "nel mondo" dopo decenni di permanenza elettiva al

chiuso di ambulatori o studi privati di psicoterapia o al massimo di

comunità terapeutiche.

Dai pericoli di questo autoescludersi dal mondo metteva in guardia già una

decina di anni fa James Hillman (1992), secondo il quale la psicoterapia

può essere "collusiva" con la società laddove i suoi sforzi vadano

essenzialmente in direzione di un adattamento dell'individuo al suo

ambiente: si affrontano i conflitti interni tralasciando il malessere generato

dalla società stessa. Hillman propone una visione ben più allargata delle

problematiche individuali portate in terapia, suggerendo una definizione di

Sé come "interiorizzazione della comunità"; comunità intesa non solo

come "altra gente", ma come campo psichico che include la gente, gli

edifici, gli animali e le piante, e al di fuori del quale "io non sono".

Questo concetto quasi animistico di comunità è quello che si riscopre

quando improvvisamente e tragicamente si viene coinvolti in un disastro:

anche chi è risparmiato dai lutti più gravi si ritrova a piangere la perdita di

luoghi, di spazi, di cose, ovvero di tutto ciò che forma il proprio

"ambiente" e che - come segnala l'etimologia - "avvolge" dando sicurezza e

senso di appartenenza.

Ma se accettiamo che l'ambiente è determinante per il singolo, dobbiamo

prendere in considerazione anche i radicali cambiamenti culturali del

mondo occidentale negli ultimi decenni: la diffusione capillare e pervasiva

dei mass-media, la rapidità degli spostamenti e dei contatti, le scoperte

scientifiche e le innovazioni tecnologiche oltre che sul tessuto sociale

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hanno inevitabilmente inciso anche sugli "scenari" psichici interni, per cui

ritengo si imponga una revisione a chi lavora in ambito clinico.

La psicologia dell'emergenza proprio in quanto psicologia "in azione" può

dare delle indicazioni in questo senso.

SOCIETA' COMPLESSE, RISCHI, EMOZIONI

Psicologia dell'emergenza è un termine di impatto minore rispetto a

psicologia dei disastri o delle catastrofi, anche perché in Italia il termine

"emergenza" è stato spesso impropriamente usato per indicare situazioni

cronicamente irrisolte per inefficienza, incuria o non volontà (emergenza

scuola; emergenza anziani e via dicendo…).

Ma gli scenari di cui si occupa la psicologia dell'emergenza (vera e

propria) sono decisamente inquietanti specie dopo la tragica

amplificazione prodotta dal crollo delle Torri Gemelle di New York:

disastro prodotto dall'uomo, inaspettato e inimmaginabile, che ha scosso

tutto il mondo occidentale dal torpore in cui benessere e tecnologie

avanzate l'avevano adagiato. Una vastissima collettività formata da chi in

questa parte del mondo non ha problemi quotidiani di sopravvivenza e per

fattori anagrafici non ha mai avuto esperienza di guerra ha provato tutt'a un

tratto - attraverso l'amplificazione mediatica - cosa significano pericolo e

paura e ha scoperto la propria vulnerabilità.

Ciò nonostante dobbiamo riflettere sul fatto che in una società complessa

come la nostra il dilagante senso di insicurezza è provocato più che dagli

effettivi pericoli, intesi come possibili danni provenienti dall'esterno

(naturali o umani che siano) dai rischi, ovvero dai danni imputabili ad una

decisione interna al sistema (citiamo per tutte le incontrollate conseguenze

ecologiche delle nuove tecnologie).

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Ciò significa che la scienza, la tecnologia e l'economia contemporanee da

una parte hanno contribuito alla riduzione dei pericoli (con cui da sempre

la specie umana - al pari delle altre - ha dovuto vedersela), dall'altra,

attraverso l'accrescimento delle possibilità di decisione conseguenti alle

nuove tecniche e con la diffusione massiccia di beni e strumenti, hanno

accresciuto i rischi. Paradossalmente, più vogliamo sicurezza più creiamo

rischi: basti pensare alla maggiore probabilità di eventi delittuosi nelle

comunità in cui " per motivi di sicurezza " tutti girano armati.

Secondo Galimberti (1999) questo è conseguente al fatto che nell'età della

tecnica l'uomo rischia di perdere di vista il fine delle sue azioni. La

politica è a rimorchio dell'economia che è a rimorchio della tecnica, che è

fine a se stessa poiché non tende ad uno scopo, non promuove senso, non

svela verità: funziona e basta.

Questo abolisce qualsiasi orizzonte di senso e lascia l'uomo angosciato e

disorientato in quanto i concetti tradizionali di individuo, identità, libertà,

storia, etica sono ormai superati e vanno lasciati da parte o rifondati dalle

radici.

Le emozioni, che ci hanno guidato nel lungo cammino dell'evoluzione,

sono diventate una specie di bagaglio scomodo in quest'ultimo scorcio

della nostra storia: non possiamo liberarcene ma non sappiamo più gestirle

nei nuovi contesti che ci siamo dati. E così, ci ricorda tra gli altri Goleman

(1995), troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi post-moderni

con un repertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene.

Secondo la teoria nota come la "teoria dei tre cervelli" che ha dato fama

allo psicobiologo americano Mac Lean (misconoscendo credo i contributi

precedenti dell'italiano Renato Balbi) la struttura cerebrale dell'uomo

comprende tre stadi di organizzazione: uno più primitivo, caratteristico dei

cordati (spinomidollare più mesencefalo), che regola i processi di base e le

attività istintive (respirazione, fuga, sonno, accoppiamento, riproduzione);

il secondo è il cosiddetto paleoencefalo (sistema limbico), che compare nei

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rettili e nei mammiferi primitivi e regola i processi emozionali e

motivazionali; c'è infine la neocorteccia, caratteristica dei mammiferi più

evoluti ma molto più sviluppata nella specie umana, che è responsabile dei

processi di apprendimento e di adattamento complessi e di tutte le capacità

segnatamente umane tra cui quella di provare sentimenti sui propri

sentimenti e di governare la vita emotiva.

Il sistema limbico rappresenta dal punto di vista filogenetico la parte più

antica della nostra neocorteccia, cui è collegato attraverso una miriade di

circuiti di connessione, ed ha un ruolo fondamentale nell'architettura

neurale.

Se consideriamo la parola emozione nella sua etimologia, latino moveo più

prefisso "e" cioè "muovere da", non ci sorprenderà che le emozioni siano

tendenzialmente impulsi ad agire; particolarmente importante per la specie

umana dovrebbe essere quindi l'armonizzazione delle funzioni più arcaiche

(mente emozionale) con quelle più evolute (mente razionale) secondo gli

schemi socio-culturali trasmessi di generazione in generazione.

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PAURA E TRAUMA

Per chi si occupa di situazioni di emergenza è "normale" venire a contatto

con stati di forte paura e di ansia. Come negli animali, che di fronte ad una

minaccia incombente reagiscono con l'attacco, la fuga o l'immobilità,

anche nell'uomo c'è un circuito primitivo della paura che può dettare

attraverso amigdala e ipotalamo (sistema limbico) risposte primitive alla

paura: si tratta di reazioni più veloci ma più rozze, una specie di

"sequestro emozionale" sulla mente razionale che talvolta è causa di

conseguenze tragiche sul piano dell'agito (lanciarsi da un edificio in

fiamme senza considerare altre vie di fuga o premere il grilletto se si è

armati senza aver discriminato la minaccia).

Nell'uomo c'è anche un circuito razionale, più sofisticato, che collega il

sistema limbico alla corteccia prefrontale e di fronte al pericolo vaglia le

informazioni per organizzare la risposta più adeguata; nella corteccia

prefrontale ha sede la cosiddetta memoria di lavoro che ci serve per

eseguire un compito o risolvere un problema e a chiunque può essere

capitato di "non riuscire a pensare" perché sconvolto, a riprova del fatto

che le interconnessioni tra i due sistemi (emozionale e razionale) sono

rilevanti.

L'uomo infine, attraverso i lobi frontali, giunge ad avere anche coscienza

della paura. C'è un sistema complesso quindi che entra in gioco quando

l'uomo è di fronte ad un pericolo e prova paura o, pur essendo ormai in

salvo, rimane in preda all'ansia e all'angoscia. Ma quanto è appropriato, in

psicologia dell'emergenza, parlare di trauma?

Trauma è un termine usato in medicina somatica e in neuropsichiatria, per

indicare le lesioni provocate da agenti meccanici o eventi distruttivi di

intensità tale da superare le capacità di resistenza organiche o psichiche

dell'individuo. Ma c'è anche una teoria psicoanalitica del trauma elaborata

da Freud: la fissazione al trauma, sia che si tratti di un solo evento

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intollerabile o di una serie prolungata di eventi singolarmente tollerabili

che il soggetto non riesce ad elaborare, "è un tratto generale, molto

importante dal punto di vista pratico, di ogni nevrosi" (1915-1917, p.436).

Freud porta ad esempio per gli effetti del trauma sulla vita pratica la prima

paziente isterica di Breuer (il famoso caso clinico della "signorina Anna

O."): a causa della "fissazione" al periodo in cui aveva assistito il padre

gravemente ammalato, Anna O., pur essendosi ristabilita, aveva sotto

un certo aspetto chiuso con la vita evitando di farsi una famiglia propria

(quello che secondo Freud era "il normale destino della donna").

In psicologia dell'emergenza c'è chi sul trauma e sul disturbo da stress

post-traumatico (PTSD) ha costruito il proprio modello di intervento, e chi

invece considera inappropriata e fuorviante l'enfasi data a questo aspetto.

Ranzato (2002) ricorda che se i traumi delle persone nell'emergenza

debbono essere considerate reazioni normali a situazioni anormali occorre

andare oltre il costrutto del trauma di marca psichiatrica per evitare

l'eccesso di attenzione alla patologia che favorisce fallimentari fenomeni di

delega.

Lavanco (2003), nel citare Gist e Lubin che nel loro lavoro "Response to

disaster" prospettano un approccio psicosociale, di comunità ed ecologico,

sottolinea che le comunità sono straordinariamente resistenti nella fase del

disastro e la maggior parte degli individui non presenta disturbi psichici

gravi se non perché caratterizzati da preesistente vulnerabilità; l'assunto

pertanto che il primo soccorso debba essere di natura psicologico-clinica

risulta falso. Lavanco polemizza apertamente con gli specialisti della salute

mentale che mettono in pratica trattamenti sul trauma con un marketing

massiccio; talune ricerche suggeriscono addirittura che alcuni di questi

interventi pre-programmati ostacolano gli aggiustamenti post-disastro

piuttosto che favorirli.

Concordo pienamente con l'approccio psico-sociale nei disastri ed ho la

convinzione che gli psicologi dell'emergenza invece di mutuare paradigmi

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di intervento dall'ambito clinico dovrebbero promuovere informazioni alla

comunità e scambi comunicativi tra la comunità e tutte le istituzioni

coinvolte, suggerire strategie di empowerment e modelli di supporto tra

pari; dovrebbero essere insomma più facilitatori che terapeuti.

Riconosco peraltro a questa enfatizzazione del trauma nelle "emergenti"

emergenze - così come al parallelo sviluppo delle neuroscienze - un

contributo alla psicologia clinica per una rivisitazione del concetto di

trauma.

Oltre che Freud se ne era occupato Jung e in maniera del tutto originale

anche Otto Rank, che aveva individuato nel trauma della nascita, inteso sia

come evento di per sé che come separazione dalla madre, un "prototrauma"

di portata determinante per tutte le successive reazioni di angoscia

dell'individuo.

Per Donald Kalsched (1996), autore di un interessante lavoro

sull'interiorizzazione del trauma, è come se la psicoanalisi, pur avendo

avuto inizio con lo studio di un trauma, a un certo momento avesse

sofferto di amnesia professionale su questo soggetto. Ma c'è ora

un'inversione di tendenza. "Di recente - egli scrive - ci sono alcune

avvisaglie che la professione stia tornando di nuovo a un "paradigma del

trauma". Questa rinascita di interesse per il trauma è stata motivata dalla

"riscoperta" dell'abuso fisico e sessuale dell'infanzia e dal rinnovato

interesse della psichiatria per i disturbi dissociativi, specialmente per il

Disturbo della Personalità Multipla (MPD) e per il Disturbo da Stress Post-

traumatico (PTSD)" ( cit., tr.it., p.35).Kalsched ricorda lo sviluppo di questo concetto in Freud, che partendo

dagli studi sull'isteria andò via via dubitando che il trauma oggettivo da

solo potesse dare origine alla nevrosi. Il caso del Piccolo Hans gli fornì la

prova che cercava, spostando l'accento dall'evento (il rimprovero paterno)

alla realtà psichica (la "decodificazione" del rimprovero paterno come

minaccia di castrazione). Da quella scoperta in poi, osserva Kalsched:

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"L'evento traumatico esterno non era più considerato patogenico in se

stesso; a essere vista come la fonte della psicopatologia era invece la sua

rappresentazione interna, l'emozione, o il significato amplificato" e ricorda

che Jung nel 1912, pur essendo sull'orlo della rottura decisiva con Freud,

era in consonanza con lui quando diceva: "Noi sappiamo che molte

persone subiscono traumi nell'infanzia o nell'età adulta senza che ne derivi

una nevrosi…come evidentemente accade ad altri" (ivi, p.126).

Chi opera in psicologia dell'emergenza, prima di dare per scontato un

intervento terapeutico dovrebbe riflettere su queste antiche acquisizioni

della clinica, cioè sulla necessità che oltre all'evento esterno (il disastro)

debba essere presente anche un fattore psicologico, un agente psichico

interno.

Ma consideriamo altri elementi che potrebbero tornare reciprocamente utili

dall'apertura di un confronto tra psicologia clinica e psicologia dei disastri.

Tra gli psicoanalisti più attenti ai cambiamenti del mondo e convinti della

necessità di integrare vecchie teorie cliniche e nuove scoperte scientifiche,

c'è Glen O. Gabbard, che di recente ha scritto "A neurobiologically

informed perspective on psychotherapy" (2000).

In questo articolo egli dichiara che siamo ormai vicini a comprendere

l'interazione tra cervello e ambiente e possiamo, anzi dobbiamo costruire

strategie di trattamento basate sull'integrazione tra discipline biologiche e

discipline psicologiche, per evitare il rischio del riduzionismo.

Gabbard cita, tra gli altri, gli studi del 1994 di Rosenblum e Andrews su

traumi subiti da cuccioli di scimmie che erano stati affidati a madri rese

temporaneamente ansiose da un programma di alimentazione

imprevedibile; i cuccioli hanno dimostrato modificazioni comportamentali

e biochimiche insieme, che si sono evidenziate in corrispondenza di

"finestre temporali" relative ai periodi dei cambiamenti più importanti

nella formazione del cervello. Tali finestre sono presenti anche nello

sviluppo umano e si ipotizzano interazioni tra traumi infantili e

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maturazione strutturale del cervello: è probabile che prolungate reazioni di

allarme durante periodi di instabilità dello sviluppo cerebrale possano

produrre una forma di regressione ad uno stadio più precoce di

funzionamento e di strutturazione neurale.

Queste ricerche, che confermano la natura dinamica dell'interazione tra

geni e ambiente, ci invitano a riflettere sia in ambito clinico (la terapia

familiare può aiutare i genitori a modificare le interazioni con i figli

influenzando positivamente le caratteristiche genetiche dei bambini) che in

ambito di interventi psicologici nelle emergenze: quella dei bambini è una

categoria da considerare realmente ad alto rischio.

Come sottolineano Young et al. (2002) le operazioni per aiutare i bambini

a riprendersi da una calamità sono complicate dalle problematiche

evolutive biopsicosociali legate all'età, al sesso, alla maturità, all'identità,

alle relazioni con i genitori ed i fratelli, alle capacità di fronteggiamento.

Le strategie di intervento sui bambini devono comunque coinvolgere le

figure adulte di riferimento (genitori o "caregivers") in modo da veicolare

ai bambini modelli di coping adeguati; ma determinante è la capacità di

risposta della comunità, attraverso i legami familiari e gruppali e il

sistema formale e informale di aiuto.

Tra i molti testi prodotti dalla recente fioritura di studi sul trauma vorrei

segnalare quello di Peter Levine (1997), che parte dallo studio del

comportamento degli animali selvatici in situazioni di minaccia estrema:

oltre alle reazioni più note di attacco o fuga l'animale può immobilizzarsi,

entrando in uno stato alterato di coscienza che davanti alla morte

imminente attutisce la percezione del dolore. E' una forma di resa istintiva.

Anche noi umani, pur nella nostra complessità, possiamo restare

paralizzati di fronte a un pericolo opprimente reagendo come gli animali

con uno stato di "immobilità" o di "irrigidimento"; ma l'energia trattenuta

nel corpo al momento del trauma secondo Levine, che ha un'impostazione

bioenergetica, si "incista" provocando una serie di disturbi a livello

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psichico e somatico che possono essere superati solo scaricando questa

energia dal corpo. Quello che mi sembra interessante di queste

argomentazioni è che anche il corpo gioca un ruolo essenziale nella paura e

che il "luogo" della memoria non è confinato alla corteccia cerebrale, come

sottolinea Luciano Marchino nella prefazione (ivi, tr.it., p.8): "Esistono

altri contenitori di memoria nel corpo…Tali contenitori sono esterni alla

corteccia cerebrale ma non a essa estranei . Utilizzando i termini della

psicologia umanistica potremmo parlare di una memoria emozionale e di

una memoria procedurale o degli arti. In altre parole <oltre che di

rammentare > potremmo parlare di ricordare (da cardium, cuore) per la

memoria sensoemotiva e di rimembrare per la memoria delle membra o

procedurale o corporea. Solo la memoria totale, connotata dall'interazione

sinergica di queste tre componenti, ricrea il senso intero dell'esperienza e

consente di risolverla liberando la realtà presente dagli effetti invalidanti

della realtà trascorsa".

Una conferma di questa suggestiva ipotesi mi sembra venga proprio dagli

scenari di catastrofe: a seconda dell'intensità dell'impatto e della fase

dell'evento possono risultare idonei gli interventi di tipo razionale-

cognitivo (informare, spiegare) o quelli di tipo emotivo (raccontare,

ricordare ) o quelli di tipo "procedurale" (stare insieme in silenzio o agire

insieme, come nei riti).

Levine riprende anche il concetto freudiano di coazione a ripetere,

presentando un caso singolare in cui la spinta a risolvere il trauma

mediante la coazione a ripetere appare perfettamente "scadenzata" nella

sua compulsività.

Un veterano del Vietnam una volta rientrato negli Stati Uniti aveva

compiuto delle rapine simulando di essere armato: questo era avvenuto nel

giro di quindici anni esattamente sempre lo stesso mese, lo stesso giorno,

alla stessa ora di tutti gli anni in cui non era in prigione.

L'ultima volta aveva atteso l'arrivo della polizia fermo nella sua macchina.

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Dopo l'arresto chi aveva controllato la sua fedina penale si era accorto che

le rapine ricorrevano tutte nella stessa data così la polizia, supponendo

non si trattasse di una semplice coincidenza, l'aveva condotto in un

ospedale dell'amministrazione dei veterani di guerra. Lo psichiatra che gli

ha parlato, un ricercatore particolarmente interessato allo stress post-

traumatico, ha ricostruito che quest'uomo durante un'azione di guerra in

Vietnam si era ritrovato ad essere l'unico sopravvissuto del suo plotone

insieme ad un altro soldato suo amico: circondati dai Vietcong, mentre lui

era riuscito a salvarsi, l'amico era stato colpito da una pallottola e gli era

morto tra le braccia esattamente a quell'ora, giorno e mese in cui, una volta

rientrato in patria, si era messo a "inscenare" le finte rapine a mano armata

in una sorta di celebrazione dell'anniversario di quella tragica vicenda.

Aiutato dal terapeuta a riconoscere il dolore e il senso di colpa per la

morte dell'amico e l'insostenibile angoscia per gli orrori della guerra, che

lo spingevano compulsivamente a ricreare uno scenario di minaccia e di

paura (pur non intendendo far del male a nessuno), il veterano era così

riuscito alla fine a farsi prestare quell'aiuto necessario a guarire le sue ferite

psichiche. Scrive Levine: "…con un minimo di storia, possiamo vedere

che le sue azioni erano un brillante tentativo di risolvere una profonda

cicatrice emotiva. La sua coazione a ripetere l'ha continuamente portato al

limite, finché lui stesso è stato in grado di liberarsi dal terribile incubo

della guerra" . E aggiunge una considerazione importante: "In molte

culture cosiddette primitive la natura delle ferite emotive e spirituali di

quest'uomo sarebbe stata apertamente riconosciuta dalla tribù. Sarebbe

stato incoraggiato a condividere la sua sofferenza. Si sarebbe svolta una

cerimonia di guarigione in presenza di tutto il villaggio. Con l'aiuto della

sua gente, l'uomo si sarebbe riunito al suo spirito perduto. Dopo questa

purificazione, l'uomo sarebbe stato festeggiato come un eroe in una gioiosa

celebrazione" (Levine, cit., tr.it., p.197).

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INDIVIDUO E COMUNITA'

Questo ci introduce ad una variabile molto importante nell'elaborazione del

trauma: il fattore culturale. La "trasformazione" collettiva del trauma, della

malattia, è praticata usualmente in società diverse dalla nostra. Come

testimonia l'antropologia culturale ci sono tuttora in Africa, ad esempio,

visioni tradizionali della malattia e della cura ben diverse dalle nostre. E'

diverso il rapporto tra individuo e comunità, come ha recentemente

illustrato Andras Zempléni (tra i collaboratori di Henri Collomb,

fondatore negli anni Sessanta della scuola di Dakar aperta agli scambi tra

psichiatria occidentale e terapie tradizionali africane) in un intervento dal

titolo "Mal de soi, mal de l'autre. Il processo di socializzazione della

malattia in Africa"1 .

L'approccio ai disturbi somatici o psichici dell'individuo passa attraverso la

coscienza persecutoria del male (possessione da parte di uno spirito

ancestrale, attacco magico di un nemico) e attraverso la comunicazione

proiettiva mediante la quale la famiglia e la comunità del malato

trasformano i disturbi dell'individuo in modi di risolvere i propri disordini

relazionali e di modificare la propria struttura. L'effetto è la socializzazione

della malattia, tanto che ciascuno la interpreta e la utilizza per esprimere e

per affrontare i propri mali a livello individuale, familiare e gruppale.

Da questo uso della malattia come "regolatore sociale del gruppo"

consegue che il processo di guarigione non può svolgersi che in una

dimensione comunitaria attraverso precisi rituali come - in Sénégal - il rito

di possessione wolof chiamato nd'pp che Zempléni ha documentato

attraverso un video di forte impatto sensoriale ed emozionale.

1 Intervento al Quattordicesimo Laboratorio Pubblico "Individuo e comunità in Africa

Occidentale: visioni tradizionali della malattia e della cura" organizzato da "L'albero

della salute", Prato, 22 giugno 2003

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Ma magia e ritualità erano presenti anche in Italia nei secoli scorsi, come

testimonia il fenomeno del tarantismo della Penisola Salentina, che

secondo lo psichiatra italo-americano George Mora (1963) era un relitto

degli antichi riti dionisiaci nella terra della Magna Grecia e rappresentava

un espediente terapeutico messo in atto inconsciamente all'interno della

comunità per reintegrare dei conflitti emozionali.

"Le spinte istintive che non potevano trovare giustificazioni nell'angustia

del contesto culturale del Mezzogiorno d'Italia, specialmente fra le donne

soggette ad ogni tipo di tabù, venivano proiettate all'esterno in una forma

drammatica, e allo stesso tempo si rendeva possibile un'esperienza

catartica" (Mora, cit, tr.it., p.35).

Nella nostra società i radicali cambiamenti degli ultimi decenni hanno

bruscamente marginalizzato se non estromesso dalla vita collettiva e dalla

memoria i riti, depositari di una dimensione spirituale e sacrale e di una

valenza simbolica ormai misconosciute.

Ma nei momenti di crisi e di transizione i riti svolgono un' importante

funzione cognitiva e comunicativa, oltre che di contenimento emotivo:

ristabiliscono un ordine nell'esperienza laddove è sopraggiunto il caos;

forniscono modelli di comportamento tramandati nel tempo e perciò

rassicuranti; rinsaldano il legame tra individuo e comunità.

Questa loro funzione antropologica universale è stata riscoperta dalla

psicologia dell'emergenza di indirizzo psico-sociale: se l'impatto di un

disastro è destrutturante, i riti proprio in quanto vi è sedimentata la cultura

specifica di quella data collettività funzionano come potente "collante",

come sistema di auto-cura. E' una tra le risorse reperibili all'interno del

sistema su cui far leva, da anteporre a soluzioni "passe-partout" introdotte

dall'esterno.

Consideriamo ora un aspetto collegato ai cambiamenti "globali" della

nostra epoca.

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I flussi migratori degli ultimi venti anni hanno notevolmente incrementato

anche in Italia la percentuale di stranieri residenti; in qualche località (ad

esempio Prato) la popolazione regolare immigrata supera quella soglia del

10% indicata come "critica" nella determinazione della qualità della

relazione con la popolazione autoctona.

Si è modificata quindi proporzionalmente anche l'utenza delle strutture

sanitarie pubbliche e il personale sanitario si è trovato ad affrontare, spesso

senza alcuna preparazione specifica, problematiche nuove relative a culture

sconosciute: valgano come esempio i reparti ostetrici e la distanza tra la

concezione fortemente "medicalizzata" del parto nelle nostre istituzioni e

quella di donne immigrate che hanno altri gesti, altri modi, altri "saperi"

per partorire.

Ma le donne sono arrivate dopo. All'inizio erano solo uomini ed erano

uomini soli.

"Estremamente" soli come recita la traduzione di uno scritto giovanile di

Tahar Ben Jelloun (1977), che negli anni Settanta lavorò a Parigi come

psicologo in un ambulatorio per immigrati magrebini che soffrivano di

disturbi legati alla sfera affettiva e sessuale. "A questi uomini che vengono

strappati alla loro terra, alla loro famiglia, alla loro cultura, viene richiesta

soltanto la forza lavoro. Il resto, non lo si vuol sapere. Il resto, è molto"

(Jelloun, cit., tr.it., p.14).

A differenza della Francia, paese di colonizzazione che dopo la seconda

guerra mondiale si servì massicciamente degli immigrati per la sua

ricostruzione, l'Italia è diventata paese di immigrazione relativamente di

recente, dopo essere stata paese di emigranti.

E solo di recente in Italia si è cominciato a parlare di etnopsichiatria e

etnopsicologia (discipline sviluppatesi in Francia proprio in relazione alle

sue vicende storiche) generalmente intese come metodo di intervento di

salute mentale nei confronti di minoranze immigrate in Occidente, in cui

le strategie di cura sono improntate al dialogo e al confronto con il

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contesto culturale di provenienza che non può e non deve essere ignorato,

pena l'inefficacia se non la nocività dell'intervento stesso.

Zempléni, ad esempio, nella lezione sopra citata sulla socializzazione della

malattia in Africa, faceva presente che in un "migrante" africano che si

trova in terra straniera senza il supporto del gruppo e senza le pratiche

sociali della malattia è possibile che la coscienza proiettiva del male si

trasformi in persecuzione desocializzante: si impongono quindi nuovi

criteri diagnostici e nuovi approcci terapeutici, che faticosamente si

affacciano nella pratica clinica.

Per quanto riguarda i criteri diagnostici, Salvatore Inglese (1999)

evidenzia il fatto che nell'Appendice I del DSM-IV ( APA 1994) sono

state iscritte delle fenomenologie cliniche dal nome di Culture-bound

Syndromes (CBS), ovvero Sindromi Culturalmente Caratterizzate, la cui

esistenza "se fino a oggi poteva essere rubricata come un residuo esotico

della differenza culturale, non può più essere ignorata dato che i soggetti in

cui si incarnano attraversano le frontiere e abitano la nuova ecologia

sociale dell'Occidente" (ivi, p.111) . Questa novità, per quanto relegata in

un'appendice, "assegna alla cultura un pieno valore operazionale che

impone al clinico il riconoscimento dei pattern culturali specifici in quanto

relais funzionali del circuito diagnostico" (ivi, p.119).

All' etnopsichiatria va sicuramente riconosciuto il merito di aver messo in

discussione la prospettiva universalista dell'antropologia occidentale, cui si

rifà anche la psicologia; logica universalista tuttora presente nella

cooperazione internazionale laddove progetti e interventi umanitari

vengono realizzati in base al modello di pensiero di chi porta aiuto,

prescindendo da quello dei destinatari che spesso non vengono neanche

interpellati sulle loro effettive priorità.

Ma pur se si condividono i princìpi di George Devereux (cultura e spirito

umani sono coemergenti e si presuppongono reciprocamente) e di Tobias

Nathan (psiche e cultura rappresentano strutture mutuamente necessarie

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che permettono di dare significato e prevedibilità al mondo interno ed

esterno, e costruiscono l'identità dell'individuo e del gruppo) ci si ritrova

spesso impreparati ad attuare interventi terapeutici o di sostegno con

modalità adeguate a culture diverse dalla nostra. Di aiuto possono essere

l'umiltà di riconoscere di non avere soluzioni già pronte ed il coraggio di

entrare in "altri mondi" (attitudini che a mio parere servono comunque in

qualsiasi processo di psicoterapia anche con persone di cultura

"omologa").

Un esempio interessante di clinica transculturale nel trattamento dei

bambini stranieri è quello messo in atto presso un servizio di psicologia

dell'età evolutiva della Regione Veneto, che è stato di recente illustrato in

un convegno da Rosanna Fogliata 2.

Attraverso la presentazione del caso di una bambina nata in Italia da

genitori Ghanesi, segnalata dalla scuola per difficoltà di comprensione e

apprendimento, Fogliata individua come componente significativa del

disagio infantile la situazione di sradicamento della famiglia dal paese di

origine: la conseguenza è spesso un maternage impoverito a causa

dell'abbandono di pratiche di allevamento tradizionali per conformarsi ad

un modello occidentale, comprensibilmente poco interiorizzato.

Il tentativo di integrare elementi di entrambi i sistemi culturali

(nell'interesse stesso dei figli) spesso produce confusività e sfiducia in se

stessi, nel proprio "sapere genitoriale", visto che è il gruppo culturale che

insegna a diventare genitori.

Quanto al modello di intervento, Fogliata e il suo gruppo di lavoro

utilizzano un approccio che è insieme antropologico, psicologico e sociale:

è un "dispositivo meticciato" alla cui realizzazione concorrono psicologi

di aree diverse, antropologo, pedagogista, insegnanti, assistente sociale,

2 Intervento al convegno "Psicologia e immigrazione: esperienze di psicologi sul campo",

organizzato da "Psicologi per i Popoli", Firenze, 8 giugno 2002 (Atti in corso di stampa)

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naturalmente lavorando con la famiglia e quando è possibile con i

mediatori culturali.

Questo ci conferma che di fronte a situazioni nuove, di complessità

imprevedibile per i paradigmi teorici vigenti, non resta che mobilitarci per

individuare risposte nuove.

LE CRISI E I MUTAMENTI DI PARADIGMA

In un testo diventato un "classico" di filosofia della scienza, Kuhn (1962)

ha dimostrato che le anomalie che via via si percepiscono rispetto ad un

sapere scientifico acquisito aprono la strada ad un mutamento di paradigma

e le crisi risultano dunque condizione preliminare necessaria all'emergere

di nuove teorie.

Nel campo della psicologia clinica, la crisi c'è. Secondo alcuni, dopo la

"guerra dei cento anni " combattuta dalle grandi scuole storiche e dopo la

morte della metapsicologia freudiana, c'è la necessità di "allungare lo

sguardo verso nuove configurazioni teoriche, che diano respiro e slancio

alla pratica clinica, condannata altrimenti a un insoddisfacente piccolo

cabotaggio perennemente minacciato da un possibile, probabile naufragio"

( Scano, Mastroianni e Cadeddu , 1995, p.12).

Altri invece pragmatisticamente pongono l'accento sulla necessità di "una

ricerca aperta e spregiudicata di modelli probabili, contingenti, duttili,

facilmente sostituibili e ancorati a un principio di convenienza pratica che

si identifica con un principio di efficacia terapeutica " (Trevi e Innamorati,

2000, p.75). Queste così diverse proposte di soluzione del problema,

sostenute da studiosi autorevoli, sono entrambe legittime ma sottendono

due diversi modelli di conoscenza: la prima, un approccio di tipo attivo

(risolvere un problema vuol dire muoversi con coerenza partendo da una

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teoria preliminare), la seconda, di tipo passivo (usando un eclettismo

tecnico e metodologico si arriva ad una teoria non esistente a priori )3.

Introduco questo accenno epistemologico per ricordare che proprio perché

viviamo in sistemi sempre più complessi (come dimostra anche il serrato

confronto in ambito scientifico tra costruttivismo e riduzionismo) non

possiamo sottrarci come psicologi - anzi proprio perché psicologi - ad una

riflessione sui processi mentali in base ai quali operiamo le nostre scelte,

sia a livello individuale che di categoria professionale.

Adottare una prassi conoscitiva anziché un'altra influenza il nostro lavoro

in modo determinante così come determinante è la consapevolezza di cosa

andiamo a fare e perché, specialmente in tempi "di crisi" come i nostri

dove all'incertezza rischia di sostituirsi l'eterogeneità confusa.

Ancora una volta la psicologia dell'emergenza ci può offrire uno spunto di

riflessione in base ad un fenomeno emblematico.

Sulla scia del progressivo affermarsi della "disaster psychology" e -come

abbiamo visto- dell'evidenza data al Post-Traumatic Stress Disorder si è

clamorosamente imposta sulla scena psicologica la procedura nota come

EMDR (acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing),

ideata da Francine Shapiro. Trovo interessante il fatto che tale procedura,

scoperta casualmente a detta di Shapiro come tecnica di trattamento del

PTSD, si sia imposta nel giro di pochi anni come terapia di breve durata ed

efficace al tempo stesso.

3 Per questa formulazione ho attinto ad un lavoro scritto con alcuni colleghi, ovvero la

Relazione introduttiva alla Giornata di studio "Modelli di conoscenza, modelli di psicoterapia.

Prima giornata di studio: la funzione dei setting", organizzata dalla Commissione Teoria della

Tecnica in Psicoterapia dell'Ordine degli Psicologi della Toscana, Firenze, 23 novembre 2002

(relazione di Bianchi M., De Giorgi I., Helferich C., Lorito T., Orfei R., Ranfagni C., Rocchi

C.)

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I dubbi e le pesanti riserve di una parte della comunità scientifica non

hanno arrestato ad oggi la marcia trionfale di quella che si è affermata

come risposta nuova della psicoterapia dell'ultimo decennio; fenomeno che

una aggressiva campagna di marketing non basta a spiegare.

Questa la definizione dell'autrice: "L'EMDR è un metodo psicoterapeutico

complesso e potente, che integra molti tra i più efficaci elementi

provenienti da una vasta gamma di approcci terapeutici, compresa la

psicoanalisi freudiana a lungo termine. Esso impiega inoltre i movimenti

oculari o altre forme di stimolazione ritmica, come il battito delle mani o

note musicali, in un modo che sembra aiutare il sistema cerebrale di

elaborazione delle informazioni a funzionare in modo rapido" (Shapiro e

Forrest, 1997, tr.it., p.14). Poco oltre vi si dice, a proposito degli scettici su tale metodo :

"Ovviamente, quando ci sono innovazioni radicali ci si deve poi aspettare

qualche controversia" (ivi, p.14).Del resto lo stesso titolo del manuale così recita: "EMDR. Una terapia

innovativa per il superamento dell'ansia, dello stress e dei disturbi di

origine traumatica".

Ma in cosa consisterebbe la novità? Nella stimolazione ritmica o

nell'integrazione degli approcci?

Pezzullo (2001) entra nel merito dell'ambito neurocognitivo ripercorrendo

i più recenti studi controllati per escludere che gli elementi di stimolazione

sensoriale introdotti dall'EMDR vadano oltre meccanismi già noti. Egli

così conclude: "Rimane probabilmente valida l'osservazione di molti

autori, secondo cui l'EMDR non è altro che una forma di terapia

cognitivo-comportamentale basata su una "exposure" immaginativa allo

stimolo traumatico (facilitata da un compito distrattore di tipo motorio),

cui sono state aggiunte fasi di supporto e di rielaborazione cognitiva" (ivi,

p.167).

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Consideriamo allora se la novità può consistere nella dichiarata

integrazione dei paradigmi di riferimento, delle presupposizioni-guida. Su

questo fronte c'è da chiedersi se è legittimo parlare di "integrazione" sulla

base di quanto Shapiro prospetta, ovvero "un approccio EMDR in otto fasi,

che integra aspetti importanti di molti altri tipi di terapia, come la

psicodinamica, la cognitiva, la comportamentista e l'interazionale"

(Shapiro e Forrest, 1997, tr.it., p.65) senza precisare quali sono gli aspetti

importanti da utilizzare dei grandi paradigmi teorici, e ponendo sullo

stesso piano questi ultimi e l'approccio EMDR.

Mi pare necessario a questo punto distinguere tra un'integrazione

pragmatica metodologicamente motivata (come le psicoterapie integrate

che da qualche anno si portano avanti anche in Italia) e il sincretismo della

Shapiro, che giustappone elementi di ambiti teorici diversi senza

giustificarne i criteri.

La comunità scientifica e professionale degli psicologi per sviluppare

realmente la ricerca teorica e applicata non può rinunciare a linguaggio e

procedure rigorosi, tanto più in tempi come questi, in cui, come dice Cigoli

(2001), "una volta fragorosamente cadute le illusioni relative alla

superiorità di un paradigma rispetto agli altri in quanto a comprensione

della patologia e a risultati degli interventi di cura psichica, viene meglio

alla luce il valore dei modelli", intesi come modelli d'intervento, operativi

(ivi, p.XXVI).

Tra l'altro se da una parte Shapiro dichiara che con tre-cinque sedute di

EMDR cura i sintomi del PTSD, dall'altra, come abbiamo visto, parla di

otto fasi di trattamento (che "è importante portare a termine quanto

completare un ciclo intero di antibiotici") la seconda delle quali consiste

nell'instaurare un rapporto di fiducia tra il cliente e il terapeuta, e "può

accadere - ella ammette - che a un cliente occorrano settimane per

instaurare un sentimento di fiducia sufficiente all'avvio dell'elaborazione"

(Shapiro e Forrest, 1997, tr.it., p.71).

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Sembra quindi che Shapiro stessa disgiunga la pratica clinica effettiva

dalla pubblicistica e dalla "mistica" EMDR, ovvero dalla presentazione di

casi clinici con toni che talvolta (spiace dirlo) richiamano quelli della

medium e "guaritrice" Rosemary Altea.

Ma se è comprensibile che certe tecniche suggestive di vendita agiscano su

categorie "ignare", è più grave se ciò avviene su "esperti".

Non si può estrapolare una tecnica dal setting e promuoverla a paradigma

in base al fatto che come tale viene pubblicizzata, pur se in questi tempi di

debolezza teorica si è disperatamente alla ricerca di nuovi paradigmi.

L'EMDR è probabilmente una buona tecnica, ma tale resta, e la tecnica

non è "la terapia".

Su quest'equivoco così facile ai nostri giorni, in cui la Tecnica

spadroneggia sovrana su menti facilmente suggestionabili perché

disorientate dai cambiamenti, credo poggino le basi della

sopravvalutazione dell'EMDR anche da parte della comunità professionale.

CONCLUSIONE

La psicologia dell'emergenza, proprio in quanto psicologia in azione, può

esercitare la funzione di laboratorio della psicologia moderna.

Le nuove problematiche sociali e culturali inevitabilmente si ripercuotono

anche sulla pratica professionale cogliendoci inadeguati in talune circostanze

perché il mondo sta cambiando ed è difficile comprendere la portata dei

cambiamenti quando vi si è immersi e ancora più difficile è trovare la rotta

giusta.

Raffaele Simone (2000) ci aiuta a capire la profondità delle trasformazioni

che stiamo vivendo con una teoria affascinante: egli analizza la "storia del

conoscere", ovvero le Fasi attraverso cui si sono formate le conoscenze

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dell'umanità, e mi pare ben riesca a dimostrare che siamo nel mezzo di una

nuova Fase.

Questa la sua teoria: la Prima Fase coincise con l'invenzione della scrittura,

che produsse il passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta, come

testimonia Platone nel suo "Fedro".

La Seconda Fase si aprì venti secoli dopo con l'invenzione della stampa, che

permise ad un vastissimo pubblico di leggere testi scritti.

Questi ultimi venti anni ci avrebbero traghettato in una Terza Fase, nella

quale attraverso l'uso di computer e media la 'visione' e l'ascolto si stanno

sostituendo alla lettura come nuove modalità di conoscenza e l'homo sapiens,

capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di

essere soppiantato dall'homo videns, che non è portatore di un pensiero ma

fruitore di immagini.

Scrive Simone: "Ancora una volta, secondo una vecchia regola, questo

cambiamento sta avendo effetti profondi non solo sul contenuto delle

conoscenze, ma sul modo in cui sono organizzate, sulla loro forma. Infatti, è

noto che il mezzo di cui un messaggio si serve finisce presto per influire sulla

natura stessa del messaggio….Per conseguenza, i saperi che circolano oggi,

nella Terza Fase, sono meno articolati, meno sottili, e, addirittura, possono

fare a meno di basarsi su formulazioni verbali. Questo fatto ha spinto alcuni a

sostenere che, alla svolta tra il secolo XX e il XXI, il sapere generale si è

degradato per qualità - mentre forse ha solamente cambiato natura" (Simone,

2000, pp.XI-XII).

Questa lucida analisi a mio parere chiarisce ulteriormente quel

disorientamento dell'uomo d'oggi cui abbiamo fatto cenno parlando di società

complesse.

Zorzetto et al. (fonte Internet), nel trattare il tema del rapporto tra migrazione

e psicopatologia, ci ricordano che i processi di sradicamento e

acculturazione, di filiazione e costituzione dell'identità, così importanti per

comprendere i nessi non lineari tra migrazione e crisi individuale, si

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riscoprono nelle riflessioni attuali sugli autoctoni occidentali: si arriva infatti

ormai a parlare di "migrazione senza dislocazione", riferendosi al

cambiamento repentino dei codici culturali e dei sistemi di esistenza e

socialità.

Forse è questa la ragione del disorientamento e del disagio collettivo, perché

siamo tutti ormai un po' "migranti".

Non trovo chiusura migliore di quest'invito di Galimberti (2000):

"Per i passaggi epocali non ci sono ricette pronte, ma sfide di pensiero e di

paziente sperimentazione. Mettiamoci al lavoro".

B I B L I O G R A F I A

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