UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA - FACOLTA' DI PSICOLOGIA
CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIADELL'EMERGENZA IN SITUAZIONI DI CALAMITA' NATURALI
O UMANE IN AMBITO NAZIONALE E INTERNAZIONALEAnno Accademico 2002-2003
DALLA PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA CONTRIBUTI
PER UNA REVISIONE DEL LAVORO CLINICO
Tesi di perfezionamentodi Isabella De Giorgi
INDICE
PREMESSA........................................................................................................................ 3
SOCIETA' COMPLESSE, RISCHI, EMOZIONI........................................................ 4
CONCLUSIONE............................................................................................................ 23
B I B L I O G R A F I A................................................................................................... 25
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PREMESSA
L'affermarsi anche in Italia ormai di una psicologia dell'emergenza a mio
parere testimonia (al di là di mode e opportunismi) la necessità per la
psicologia di uscire "nel mondo" dopo decenni di permanenza elettiva al
chiuso di ambulatori o studi privati di psicoterapia o al massimo di
comunità terapeutiche.
Dai pericoli di questo autoescludersi dal mondo metteva in guardia già una
decina di anni fa James Hillman (1992), secondo il quale la psicoterapia
può essere "collusiva" con la società laddove i suoi sforzi vadano
essenzialmente in direzione di un adattamento dell'individuo al suo
ambiente: si affrontano i conflitti interni tralasciando il malessere generato
dalla società stessa. Hillman propone una visione ben più allargata delle
problematiche individuali portate in terapia, suggerendo una definizione di
Sé come "interiorizzazione della comunità"; comunità intesa non solo
come "altra gente", ma come campo psichico che include la gente, gli
edifici, gli animali e le piante, e al di fuori del quale "io non sono".
Questo concetto quasi animistico di comunità è quello che si riscopre
quando improvvisamente e tragicamente si viene coinvolti in un disastro:
anche chi è risparmiato dai lutti più gravi si ritrova a piangere la perdita di
luoghi, di spazi, di cose, ovvero di tutto ciò che forma il proprio
"ambiente" e che - come segnala l'etimologia - "avvolge" dando sicurezza e
senso di appartenenza.
Ma se accettiamo che l'ambiente è determinante per il singolo, dobbiamo
prendere in considerazione anche i radicali cambiamenti culturali del
mondo occidentale negli ultimi decenni: la diffusione capillare e pervasiva
dei mass-media, la rapidità degli spostamenti e dei contatti, le scoperte
scientifiche e le innovazioni tecnologiche oltre che sul tessuto sociale
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hanno inevitabilmente inciso anche sugli "scenari" psichici interni, per cui
ritengo si imponga una revisione a chi lavora in ambito clinico.
La psicologia dell'emergenza proprio in quanto psicologia "in azione" può
dare delle indicazioni in questo senso.
SOCIETA' COMPLESSE, RISCHI, EMOZIONI
Psicologia dell'emergenza è un termine di impatto minore rispetto a
psicologia dei disastri o delle catastrofi, anche perché in Italia il termine
"emergenza" è stato spesso impropriamente usato per indicare situazioni
cronicamente irrisolte per inefficienza, incuria o non volontà (emergenza
scuola; emergenza anziani e via dicendo…).
Ma gli scenari di cui si occupa la psicologia dell'emergenza (vera e
propria) sono decisamente inquietanti specie dopo la tragica
amplificazione prodotta dal crollo delle Torri Gemelle di New York:
disastro prodotto dall'uomo, inaspettato e inimmaginabile, che ha scosso
tutto il mondo occidentale dal torpore in cui benessere e tecnologie
avanzate l'avevano adagiato. Una vastissima collettività formata da chi in
questa parte del mondo non ha problemi quotidiani di sopravvivenza e per
fattori anagrafici non ha mai avuto esperienza di guerra ha provato tutt'a un
tratto - attraverso l'amplificazione mediatica - cosa significano pericolo e
paura e ha scoperto la propria vulnerabilità.
Ciò nonostante dobbiamo riflettere sul fatto che in una società complessa
come la nostra il dilagante senso di insicurezza è provocato più che dagli
effettivi pericoli, intesi come possibili danni provenienti dall'esterno
(naturali o umani che siano) dai rischi, ovvero dai danni imputabili ad una
decisione interna al sistema (citiamo per tutte le incontrollate conseguenze
ecologiche delle nuove tecnologie).
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Ciò significa che la scienza, la tecnologia e l'economia contemporanee da
una parte hanno contribuito alla riduzione dei pericoli (con cui da sempre
la specie umana - al pari delle altre - ha dovuto vedersela), dall'altra,
attraverso l'accrescimento delle possibilità di decisione conseguenti alle
nuove tecniche e con la diffusione massiccia di beni e strumenti, hanno
accresciuto i rischi. Paradossalmente, più vogliamo sicurezza più creiamo
rischi: basti pensare alla maggiore probabilità di eventi delittuosi nelle
comunità in cui " per motivi di sicurezza " tutti girano armati.
Secondo Galimberti (1999) questo è conseguente al fatto che nell'età della
tecnica l'uomo rischia di perdere di vista il fine delle sue azioni. La
politica è a rimorchio dell'economia che è a rimorchio della tecnica, che è
fine a se stessa poiché non tende ad uno scopo, non promuove senso, non
svela verità: funziona e basta.
Questo abolisce qualsiasi orizzonte di senso e lascia l'uomo angosciato e
disorientato in quanto i concetti tradizionali di individuo, identità, libertà,
storia, etica sono ormai superati e vanno lasciati da parte o rifondati dalle
radici.
Le emozioni, che ci hanno guidato nel lungo cammino dell'evoluzione,
sono diventate una specie di bagaglio scomodo in quest'ultimo scorcio
della nostra storia: non possiamo liberarcene ma non sappiamo più gestirle
nei nuovi contesti che ci siamo dati. E così, ci ricorda tra gli altri Goleman
(1995), troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi post-moderni
con un repertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene.
Secondo la teoria nota come la "teoria dei tre cervelli" che ha dato fama
allo psicobiologo americano Mac Lean (misconoscendo credo i contributi
precedenti dell'italiano Renato Balbi) la struttura cerebrale dell'uomo
comprende tre stadi di organizzazione: uno più primitivo, caratteristico dei
cordati (spinomidollare più mesencefalo), che regola i processi di base e le
attività istintive (respirazione, fuga, sonno, accoppiamento, riproduzione);
il secondo è il cosiddetto paleoencefalo (sistema limbico), che compare nei
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rettili e nei mammiferi primitivi e regola i processi emozionali e
motivazionali; c'è infine la neocorteccia, caratteristica dei mammiferi più
evoluti ma molto più sviluppata nella specie umana, che è responsabile dei
processi di apprendimento e di adattamento complessi e di tutte le capacità
segnatamente umane tra cui quella di provare sentimenti sui propri
sentimenti e di governare la vita emotiva.
Il sistema limbico rappresenta dal punto di vista filogenetico la parte più
antica della nostra neocorteccia, cui è collegato attraverso una miriade di
circuiti di connessione, ed ha un ruolo fondamentale nell'architettura
neurale.
Se consideriamo la parola emozione nella sua etimologia, latino moveo più
prefisso "e" cioè "muovere da", non ci sorprenderà che le emozioni siano
tendenzialmente impulsi ad agire; particolarmente importante per la specie
umana dovrebbe essere quindi l'armonizzazione delle funzioni più arcaiche
(mente emozionale) con quelle più evolute (mente razionale) secondo gli
schemi socio-culturali trasmessi di generazione in generazione.
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PAURA E TRAUMA
Per chi si occupa di situazioni di emergenza è "normale" venire a contatto
con stati di forte paura e di ansia. Come negli animali, che di fronte ad una
minaccia incombente reagiscono con l'attacco, la fuga o l'immobilità,
anche nell'uomo c'è un circuito primitivo della paura che può dettare
attraverso amigdala e ipotalamo (sistema limbico) risposte primitive alla
paura: si tratta di reazioni più veloci ma più rozze, una specie di
"sequestro emozionale" sulla mente razionale che talvolta è causa di
conseguenze tragiche sul piano dell'agito (lanciarsi da un edificio in
fiamme senza considerare altre vie di fuga o premere il grilletto se si è
armati senza aver discriminato la minaccia).
Nell'uomo c'è anche un circuito razionale, più sofisticato, che collega il
sistema limbico alla corteccia prefrontale e di fronte al pericolo vaglia le
informazioni per organizzare la risposta più adeguata; nella corteccia
prefrontale ha sede la cosiddetta memoria di lavoro che ci serve per
eseguire un compito o risolvere un problema e a chiunque può essere
capitato di "non riuscire a pensare" perché sconvolto, a riprova del fatto
che le interconnessioni tra i due sistemi (emozionale e razionale) sono
rilevanti.
L'uomo infine, attraverso i lobi frontali, giunge ad avere anche coscienza
della paura. C'è un sistema complesso quindi che entra in gioco quando
l'uomo è di fronte ad un pericolo e prova paura o, pur essendo ormai in
salvo, rimane in preda all'ansia e all'angoscia. Ma quanto è appropriato, in
psicologia dell'emergenza, parlare di trauma?
Trauma è un termine usato in medicina somatica e in neuropsichiatria, per
indicare le lesioni provocate da agenti meccanici o eventi distruttivi di
intensità tale da superare le capacità di resistenza organiche o psichiche
dell'individuo. Ma c'è anche una teoria psicoanalitica del trauma elaborata
da Freud: la fissazione al trauma, sia che si tratti di un solo evento
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intollerabile o di una serie prolungata di eventi singolarmente tollerabili
che il soggetto non riesce ad elaborare, "è un tratto generale, molto
importante dal punto di vista pratico, di ogni nevrosi" (1915-1917, p.436).
Freud porta ad esempio per gli effetti del trauma sulla vita pratica la prima
paziente isterica di Breuer (il famoso caso clinico della "signorina Anna
O."): a causa della "fissazione" al periodo in cui aveva assistito il padre
gravemente ammalato, Anna O., pur essendosi ristabilita, aveva sotto
un certo aspetto chiuso con la vita evitando di farsi una famiglia propria
(quello che secondo Freud era "il normale destino della donna").
In psicologia dell'emergenza c'è chi sul trauma e sul disturbo da stress
post-traumatico (PTSD) ha costruito il proprio modello di intervento, e chi
invece considera inappropriata e fuorviante l'enfasi data a questo aspetto.
Ranzato (2002) ricorda che se i traumi delle persone nell'emergenza
debbono essere considerate reazioni normali a situazioni anormali occorre
andare oltre il costrutto del trauma di marca psichiatrica per evitare
l'eccesso di attenzione alla patologia che favorisce fallimentari fenomeni di
delega.
Lavanco (2003), nel citare Gist e Lubin che nel loro lavoro "Response to
disaster" prospettano un approccio psicosociale, di comunità ed ecologico,
sottolinea che le comunità sono straordinariamente resistenti nella fase del
disastro e la maggior parte degli individui non presenta disturbi psichici
gravi se non perché caratterizzati da preesistente vulnerabilità; l'assunto
pertanto che il primo soccorso debba essere di natura psicologico-clinica
risulta falso. Lavanco polemizza apertamente con gli specialisti della salute
mentale che mettono in pratica trattamenti sul trauma con un marketing
massiccio; talune ricerche suggeriscono addirittura che alcuni di questi
interventi pre-programmati ostacolano gli aggiustamenti post-disastro
piuttosto che favorirli.
Concordo pienamente con l'approccio psico-sociale nei disastri ed ho la
convinzione che gli psicologi dell'emergenza invece di mutuare paradigmi
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di intervento dall'ambito clinico dovrebbero promuovere informazioni alla
comunità e scambi comunicativi tra la comunità e tutte le istituzioni
coinvolte, suggerire strategie di empowerment e modelli di supporto tra
pari; dovrebbero essere insomma più facilitatori che terapeuti.
Riconosco peraltro a questa enfatizzazione del trauma nelle "emergenti"
emergenze - così come al parallelo sviluppo delle neuroscienze - un
contributo alla psicologia clinica per una rivisitazione del concetto di
trauma.
Oltre che Freud se ne era occupato Jung e in maniera del tutto originale
anche Otto Rank, che aveva individuato nel trauma della nascita, inteso sia
come evento di per sé che come separazione dalla madre, un "prototrauma"
di portata determinante per tutte le successive reazioni di angoscia
dell'individuo.
Per Donald Kalsched (1996), autore di un interessante lavoro
sull'interiorizzazione del trauma, è come se la psicoanalisi, pur avendo
avuto inizio con lo studio di un trauma, a un certo momento avesse
sofferto di amnesia professionale su questo soggetto. Ma c'è ora
un'inversione di tendenza. "Di recente - egli scrive - ci sono alcune
avvisaglie che la professione stia tornando di nuovo a un "paradigma del
trauma". Questa rinascita di interesse per il trauma è stata motivata dalla
"riscoperta" dell'abuso fisico e sessuale dell'infanzia e dal rinnovato
interesse della psichiatria per i disturbi dissociativi, specialmente per il
Disturbo della Personalità Multipla (MPD) e per il Disturbo da Stress Post-
traumatico (PTSD)" ( cit., tr.it., p.35).Kalsched ricorda lo sviluppo di questo concetto in Freud, che partendo
dagli studi sull'isteria andò via via dubitando che il trauma oggettivo da
solo potesse dare origine alla nevrosi. Il caso del Piccolo Hans gli fornì la
prova che cercava, spostando l'accento dall'evento (il rimprovero paterno)
alla realtà psichica (la "decodificazione" del rimprovero paterno come
minaccia di castrazione). Da quella scoperta in poi, osserva Kalsched:
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"L'evento traumatico esterno non era più considerato patogenico in se
stesso; a essere vista come la fonte della psicopatologia era invece la sua
rappresentazione interna, l'emozione, o il significato amplificato" e ricorda
che Jung nel 1912, pur essendo sull'orlo della rottura decisiva con Freud,
era in consonanza con lui quando diceva: "Noi sappiamo che molte
persone subiscono traumi nell'infanzia o nell'età adulta senza che ne derivi
una nevrosi…come evidentemente accade ad altri" (ivi, p.126).
Chi opera in psicologia dell'emergenza, prima di dare per scontato un
intervento terapeutico dovrebbe riflettere su queste antiche acquisizioni
della clinica, cioè sulla necessità che oltre all'evento esterno (il disastro)
debba essere presente anche un fattore psicologico, un agente psichico
interno.
Ma consideriamo altri elementi che potrebbero tornare reciprocamente utili
dall'apertura di un confronto tra psicologia clinica e psicologia dei disastri.
Tra gli psicoanalisti più attenti ai cambiamenti del mondo e convinti della
necessità di integrare vecchie teorie cliniche e nuove scoperte scientifiche,
c'è Glen O. Gabbard, che di recente ha scritto "A neurobiologically
informed perspective on psychotherapy" (2000).
In questo articolo egli dichiara che siamo ormai vicini a comprendere
l'interazione tra cervello e ambiente e possiamo, anzi dobbiamo costruire
strategie di trattamento basate sull'integrazione tra discipline biologiche e
discipline psicologiche, per evitare il rischio del riduzionismo.
Gabbard cita, tra gli altri, gli studi del 1994 di Rosenblum e Andrews su
traumi subiti da cuccioli di scimmie che erano stati affidati a madri rese
temporaneamente ansiose da un programma di alimentazione
imprevedibile; i cuccioli hanno dimostrato modificazioni comportamentali
e biochimiche insieme, che si sono evidenziate in corrispondenza di
"finestre temporali" relative ai periodi dei cambiamenti più importanti
nella formazione del cervello. Tali finestre sono presenti anche nello
sviluppo umano e si ipotizzano interazioni tra traumi infantili e
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maturazione strutturale del cervello: è probabile che prolungate reazioni di
allarme durante periodi di instabilità dello sviluppo cerebrale possano
produrre una forma di regressione ad uno stadio più precoce di
funzionamento e di strutturazione neurale.
Queste ricerche, che confermano la natura dinamica dell'interazione tra
geni e ambiente, ci invitano a riflettere sia in ambito clinico (la terapia
familiare può aiutare i genitori a modificare le interazioni con i figli
influenzando positivamente le caratteristiche genetiche dei bambini) che in
ambito di interventi psicologici nelle emergenze: quella dei bambini è una
categoria da considerare realmente ad alto rischio.
Come sottolineano Young et al. (2002) le operazioni per aiutare i bambini
a riprendersi da una calamità sono complicate dalle problematiche
evolutive biopsicosociali legate all'età, al sesso, alla maturità, all'identità,
alle relazioni con i genitori ed i fratelli, alle capacità di fronteggiamento.
Le strategie di intervento sui bambini devono comunque coinvolgere le
figure adulte di riferimento (genitori o "caregivers") in modo da veicolare
ai bambini modelli di coping adeguati; ma determinante è la capacità di
risposta della comunità, attraverso i legami familiari e gruppali e il
sistema formale e informale di aiuto.
Tra i molti testi prodotti dalla recente fioritura di studi sul trauma vorrei
segnalare quello di Peter Levine (1997), che parte dallo studio del
comportamento degli animali selvatici in situazioni di minaccia estrema:
oltre alle reazioni più note di attacco o fuga l'animale può immobilizzarsi,
entrando in uno stato alterato di coscienza che davanti alla morte
imminente attutisce la percezione del dolore. E' una forma di resa istintiva.
Anche noi umani, pur nella nostra complessità, possiamo restare
paralizzati di fronte a un pericolo opprimente reagendo come gli animali
con uno stato di "immobilità" o di "irrigidimento"; ma l'energia trattenuta
nel corpo al momento del trauma secondo Levine, che ha un'impostazione
bioenergetica, si "incista" provocando una serie di disturbi a livello
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psichico e somatico che possono essere superati solo scaricando questa
energia dal corpo. Quello che mi sembra interessante di queste
argomentazioni è che anche il corpo gioca un ruolo essenziale nella paura e
che il "luogo" della memoria non è confinato alla corteccia cerebrale, come
sottolinea Luciano Marchino nella prefazione (ivi, tr.it., p.8): "Esistono
altri contenitori di memoria nel corpo…Tali contenitori sono esterni alla
corteccia cerebrale ma non a essa estranei . Utilizzando i termini della
psicologia umanistica potremmo parlare di una memoria emozionale e di
una memoria procedurale o degli arti. In altre parole <oltre che di
rammentare > potremmo parlare di ricordare (da cardium, cuore) per la
memoria sensoemotiva e di rimembrare per la memoria delle membra o
procedurale o corporea. Solo la memoria totale, connotata dall'interazione
sinergica di queste tre componenti, ricrea il senso intero dell'esperienza e
consente di risolverla liberando la realtà presente dagli effetti invalidanti
della realtà trascorsa".
Una conferma di questa suggestiva ipotesi mi sembra venga proprio dagli
scenari di catastrofe: a seconda dell'intensità dell'impatto e della fase
dell'evento possono risultare idonei gli interventi di tipo razionale-
cognitivo (informare, spiegare) o quelli di tipo emotivo (raccontare,
ricordare ) o quelli di tipo "procedurale" (stare insieme in silenzio o agire
insieme, come nei riti).
Levine riprende anche il concetto freudiano di coazione a ripetere,
presentando un caso singolare in cui la spinta a risolvere il trauma
mediante la coazione a ripetere appare perfettamente "scadenzata" nella
sua compulsività.
Un veterano del Vietnam una volta rientrato negli Stati Uniti aveva
compiuto delle rapine simulando di essere armato: questo era avvenuto nel
giro di quindici anni esattamente sempre lo stesso mese, lo stesso giorno,
alla stessa ora di tutti gli anni in cui non era in prigione.
L'ultima volta aveva atteso l'arrivo della polizia fermo nella sua macchina.
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Dopo l'arresto chi aveva controllato la sua fedina penale si era accorto che
le rapine ricorrevano tutte nella stessa data così la polizia, supponendo
non si trattasse di una semplice coincidenza, l'aveva condotto in un
ospedale dell'amministrazione dei veterani di guerra. Lo psichiatra che gli
ha parlato, un ricercatore particolarmente interessato allo stress post-
traumatico, ha ricostruito che quest'uomo durante un'azione di guerra in
Vietnam si era ritrovato ad essere l'unico sopravvissuto del suo plotone
insieme ad un altro soldato suo amico: circondati dai Vietcong, mentre lui
era riuscito a salvarsi, l'amico era stato colpito da una pallottola e gli era
morto tra le braccia esattamente a quell'ora, giorno e mese in cui, una volta
rientrato in patria, si era messo a "inscenare" le finte rapine a mano armata
in una sorta di celebrazione dell'anniversario di quella tragica vicenda.
Aiutato dal terapeuta a riconoscere il dolore e il senso di colpa per la
morte dell'amico e l'insostenibile angoscia per gli orrori della guerra, che
lo spingevano compulsivamente a ricreare uno scenario di minaccia e di
paura (pur non intendendo far del male a nessuno), il veterano era così
riuscito alla fine a farsi prestare quell'aiuto necessario a guarire le sue ferite
psichiche. Scrive Levine: "…con un minimo di storia, possiamo vedere
che le sue azioni erano un brillante tentativo di risolvere una profonda
cicatrice emotiva. La sua coazione a ripetere l'ha continuamente portato al
limite, finché lui stesso è stato in grado di liberarsi dal terribile incubo
della guerra" . E aggiunge una considerazione importante: "In molte
culture cosiddette primitive la natura delle ferite emotive e spirituali di
quest'uomo sarebbe stata apertamente riconosciuta dalla tribù. Sarebbe
stato incoraggiato a condividere la sua sofferenza. Si sarebbe svolta una
cerimonia di guarigione in presenza di tutto il villaggio. Con l'aiuto della
sua gente, l'uomo si sarebbe riunito al suo spirito perduto. Dopo questa
purificazione, l'uomo sarebbe stato festeggiato come un eroe in una gioiosa
celebrazione" (Levine, cit., tr.it., p.197).
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INDIVIDUO E COMUNITA'
Questo ci introduce ad una variabile molto importante nell'elaborazione del
trauma: il fattore culturale. La "trasformazione" collettiva del trauma, della
malattia, è praticata usualmente in società diverse dalla nostra. Come
testimonia l'antropologia culturale ci sono tuttora in Africa, ad esempio,
visioni tradizionali della malattia e della cura ben diverse dalle nostre. E'
diverso il rapporto tra individuo e comunità, come ha recentemente
illustrato Andras Zempléni (tra i collaboratori di Henri Collomb,
fondatore negli anni Sessanta della scuola di Dakar aperta agli scambi tra
psichiatria occidentale e terapie tradizionali africane) in un intervento dal
titolo "Mal de soi, mal de l'autre. Il processo di socializzazione della
malattia in Africa"1 .
L'approccio ai disturbi somatici o psichici dell'individuo passa attraverso la
coscienza persecutoria del male (possessione da parte di uno spirito
ancestrale, attacco magico di un nemico) e attraverso la comunicazione
proiettiva mediante la quale la famiglia e la comunità del malato
trasformano i disturbi dell'individuo in modi di risolvere i propri disordini
relazionali e di modificare la propria struttura. L'effetto è la socializzazione
della malattia, tanto che ciascuno la interpreta e la utilizza per esprimere e
per affrontare i propri mali a livello individuale, familiare e gruppale.
Da questo uso della malattia come "regolatore sociale del gruppo"
consegue che il processo di guarigione non può svolgersi che in una
dimensione comunitaria attraverso precisi rituali come - in Sénégal - il rito
di possessione wolof chiamato nd'pp che Zempléni ha documentato
attraverso un video di forte impatto sensoriale ed emozionale.
1 Intervento al Quattordicesimo Laboratorio Pubblico "Individuo e comunità in Africa
Occidentale: visioni tradizionali della malattia e della cura" organizzato da "L'albero
della salute", Prato, 22 giugno 2003
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Ma magia e ritualità erano presenti anche in Italia nei secoli scorsi, come
testimonia il fenomeno del tarantismo della Penisola Salentina, che
secondo lo psichiatra italo-americano George Mora (1963) era un relitto
degli antichi riti dionisiaci nella terra della Magna Grecia e rappresentava
un espediente terapeutico messo in atto inconsciamente all'interno della
comunità per reintegrare dei conflitti emozionali.
"Le spinte istintive che non potevano trovare giustificazioni nell'angustia
del contesto culturale del Mezzogiorno d'Italia, specialmente fra le donne
soggette ad ogni tipo di tabù, venivano proiettate all'esterno in una forma
drammatica, e allo stesso tempo si rendeva possibile un'esperienza
catartica" (Mora, cit, tr.it., p.35).
Nella nostra società i radicali cambiamenti degli ultimi decenni hanno
bruscamente marginalizzato se non estromesso dalla vita collettiva e dalla
memoria i riti, depositari di una dimensione spirituale e sacrale e di una
valenza simbolica ormai misconosciute.
Ma nei momenti di crisi e di transizione i riti svolgono un' importante
funzione cognitiva e comunicativa, oltre che di contenimento emotivo:
ristabiliscono un ordine nell'esperienza laddove è sopraggiunto il caos;
forniscono modelli di comportamento tramandati nel tempo e perciò
rassicuranti; rinsaldano il legame tra individuo e comunità.
Questa loro funzione antropologica universale è stata riscoperta dalla
psicologia dell'emergenza di indirizzo psico-sociale: se l'impatto di un
disastro è destrutturante, i riti proprio in quanto vi è sedimentata la cultura
specifica di quella data collettività funzionano come potente "collante",
come sistema di auto-cura. E' una tra le risorse reperibili all'interno del
sistema su cui far leva, da anteporre a soluzioni "passe-partout" introdotte
dall'esterno.
Consideriamo ora un aspetto collegato ai cambiamenti "globali" della
nostra epoca.
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I flussi migratori degli ultimi venti anni hanno notevolmente incrementato
anche in Italia la percentuale di stranieri residenti; in qualche località (ad
esempio Prato) la popolazione regolare immigrata supera quella soglia del
10% indicata come "critica" nella determinazione della qualità della
relazione con la popolazione autoctona.
Si è modificata quindi proporzionalmente anche l'utenza delle strutture
sanitarie pubbliche e il personale sanitario si è trovato ad affrontare, spesso
senza alcuna preparazione specifica, problematiche nuove relative a culture
sconosciute: valgano come esempio i reparti ostetrici e la distanza tra la
concezione fortemente "medicalizzata" del parto nelle nostre istituzioni e
quella di donne immigrate che hanno altri gesti, altri modi, altri "saperi"
per partorire.
Ma le donne sono arrivate dopo. All'inizio erano solo uomini ed erano
uomini soli.
"Estremamente" soli come recita la traduzione di uno scritto giovanile di
Tahar Ben Jelloun (1977), che negli anni Settanta lavorò a Parigi come
psicologo in un ambulatorio per immigrati magrebini che soffrivano di
disturbi legati alla sfera affettiva e sessuale. "A questi uomini che vengono
strappati alla loro terra, alla loro famiglia, alla loro cultura, viene richiesta
soltanto la forza lavoro. Il resto, non lo si vuol sapere. Il resto, è molto"
(Jelloun, cit., tr.it., p.14).
A differenza della Francia, paese di colonizzazione che dopo la seconda
guerra mondiale si servì massicciamente degli immigrati per la sua
ricostruzione, l'Italia è diventata paese di immigrazione relativamente di
recente, dopo essere stata paese di emigranti.
E solo di recente in Italia si è cominciato a parlare di etnopsichiatria e
etnopsicologia (discipline sviluppatesi in Francia proprio in relazione alle
sue vicende storiche) generalmente intese come metodo di intervento di
salute mentale nei confronti di minoranze immigrate in Occidente, in cui
le strategie di cura sono improntate al dialogo e al confronto con il
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contesto culturale di provenienza che non può e non deve essere ignorato,
pena l'inefficacia se non la nocività dell'intervento stesso.
Zempléni, ad esempio, nella lezione sopra citata sulla socializzazione della
malattia in Africa, faceva presente che in un "migrante" africano che si
trova in terra straniera senza il supporto del gruppo e senza le pratiche
sociali della malattia è possibile che la coscienza proiettiva del male si
trasformi in persecuzione desocializzante: si impongono quindi nuovi
criteri diagnostici e nuovi approcci terapeutici, che faticosamente si
affacciano nella pratica clinica.
Per quanto riguarda i criteri diagnostici, Salvatore Inglese (1999)
evidenzia il fatto che nell'Appendice I del DSM-IV ( APA 1994) sono
state iscritte delle fenomenologie cliniche dal nome di Culture-bound
Syndromes (CBS), ovvero Sindromi Culturalmente Caratterizzate, la cui
esistenza "se fino a oggi poteva essere rubricata come un residuo esotico
della differenza culturale, non può più essere ignorata dato che i soggetti in
cui si incarnano attraversano le frontiere e abitano la nuova ecologia
sociale dell'Occidente" (ivi, p.111) . Questa novità, per quanto relegata in
un'appendice, "assegna alla cultura un pieno valore operazionale che
impone al clinico il riconoscimento dei pattern culturali specifici in quanto
relais funzionali del circuito diagnostico" (ivi, p.119).
All' etnopsichiatria va sicuramente riconosciuto il merito di aver messo in
discussione la prospettiva universalista dell'antropologia occidentale, cui si
rifà anche la psicologia; logica universalista tuttora presente nella
cooperazione internazionale laddove progetti e interventi umanitari
vengono realizzati in base al modello di pensiero di chi porta aiuto,
prescindendo da quello dei destinatari che spesso non vengono neanche
interpellati sulle loro effettive priorità.
Ma pur se si condividono i princìpi di George Devereux (cultura e spirito
umani sono coemergenti e si presuppongono reciprocamente) e di Tobias
Nathan (psiche e cultura rappresentano strutture mutuamente necessarie
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che permettono di dare significato e prevedibilità al mondo interno ed
esterno, e costruiscono l'identità dell'individuo e del gruppo) ci si ritrova
spesso impreparati ad attuare interventi terapeutici o di sostegno con
modalità adeguate a culture diverse dalla nostra. Di aiuto possono essere
l'umiltà di riconoscere di non avere soluzioni già pronte ed il coraggio di
entrare in "altri mondi" (attitudini che a mio parere servono comunque in
qualsiasi processo di psicoterapia anche con persone di cultura
"omologa").
Un esempio interessante di clinica transculturale nel trattamento dei
bambini stranieri è quello messo in atto presso un servizio di psicologia
dell'età evolutiva della Regione Veneto, che è stato di recente illustrato in
un convegno da Rosanna Fogliata 2.
Attraverso la presentazione del caso di una bambina nata in Italia da
genitori Ghanesi, segnalata dalla scuola per difficoltà di comprensione e
apprendimento, Fogliata individua come componente significativa del
disagio infantile la situazione di sradicamento della famiglia dal paese di
origine: la conseguenza è spesso un maternage impoverito a causa
dell'abbandono di pratiche di allevamento tradizionali per conformarsi ad
un modello occidentale, comprensibilmente poco interiorizzato.
Il tentativo di integrare elementi di entrambi i sistemi culturali
(nell'interesse stesso dei figli) spesso produce confusività e sfiducia in se
stessi, nel proprio "sapere genitoriale", visto che è il gruppo culturale che
insegna a diventare genitori.
Quanto al modello di intervento, Fogliata e il suo gruppo di lavoro
utilizzano un approccio che è insieme antropologico, psicologico e sociale:
è un "dispositivo meticciato" alla cui realizzazione concorrono psicologi
di aree diverse, antropologo, pedagogista, insegnanti, assistente sociale,
2 Intervento al convegno "Psicologia e immigrazione: esperienze di psicologi sul campo",
organizzato da "Psicologi per i Popoli", Firenze, 8 giugno 2002 (Atti in corso di stampa)
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naturalmente lavorando con la famiglia e quando è possibile con i
mediatori culturali.
Questo ci conferma che di fronte a situazioni nuove, di complessità
imprevedibile per i paradigmi teorici vigenti, non resta che mobilitarci per
individuare risposte nuove.
LE CRISI E I MUTAMENTI DI PARADIGMA
In un testo diventato un "classico" di filosofia della scienza, Kuhn (1962)
ha dimostrato che le anomalie che via via si percepiscono rispetto ad un
sapere scientifico acquisito aprono la strada ad un mutamento di paradigma
e le crisi risultano dunque condizione preliminare necessaria all'emergere
di nuove teorie.
Nel campo della psicologia clinica, la crisi c'è. Secondo alcuni, dopo la
"guerra dei cento anni " combattuta dalle grandi scuole storiche e dopo la
morte della metapsicologia freudiana, c'è la necessità di "allungare lo
sguardo verso nuove configurazioni teoriche, che diano respiro e slancio
alla pratica clinica, condannata altrimenti a un insoddisfacente piccolo
cabotaggio perennemente minacciato da un possibile, probabile naufragio"
( Scano, Mastroianni e Cadeddu , 1995, p.12).
Altri invece pragmatisticamente pongono l'accento sulla necessità di "una
ricerca aperta e spregiudicata di modelli probabili, contingenti, duttili,
facilmente sostituibili e ancorati a un principio di convenienza pratica che
si identifica con un principio di efficacia terapeutica " (Trevi e Innamorati,
2000, p.75). Queste così diverse proposte di soluzione del problema,
sostenute da studiosi autorevoli, sono entrambe legittime ma sottendono
due diversi modelli di conoscenza: la prima, un approccio di tipo attivo
(risolvere un problema vuol dire muoversi con coerenza partendo da una
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teoria preliminare), la seconda, di tipo passivo (usando un eclettismo
tecnico e metodologico si arriva ad una teoria non esistente a priori )3.
Introduco questo accenno epistemologico per ricordare che proprio perché
viviamo in sistemi sempre più complessi (come dimostra anche il serrato
confronto in ambito scientifico tra costruttivismo e riduzionismo) non
possiamo sottrarci come psicologi - anzi proprio perché psicologi - ad una
riflessione sui processi mentali in base ai quali operiamo le nostre scelte,
sia a livello individuale che di categoria professionale.
Adottare una prassi conoscitiva anziché un'altra influenza il nostro lavoro
in modo determinante così come determinante è la consapevolezza di cosa
andiamo a fare e perché, specialmente in tempi "di crisi" come i nostri
dove all'incertezza rischia di sostituirsi l'eterogeneità confusa.
Ancora una volta la psicologia dell'emergenza ci può offrire uno spunto di
riflessione in base ad un fenomeno emblematico.
Sulla scia del progressivo affermarsi della "disaster psychology" e -come
abbiamo visto- dell'evidenza data al Post-Traumatic Stress Disorder si è
clamorosamente imposta sulla scena psicologica la procedura nota come
EMDR (acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing),
ideata da Francine Shapiro. Trovo interessante il fatto che tale procedura,
scoperta casualmente a detta di Shapiro come tecnica di trattamento del
PTSD, si sia imposta nel giro di pochi anni come terapia di breve durata ed
efficace al tempo stesso.
3 Per questa formulazione ho attinto ad un lavoro scritto con alcuni colleghi, ovvero la
Relazione introduttiva alla Giornata di studio "Modelli di conoscenza, modelli di psicoterapia.
Prima giornata di studio: la funzione dei setting", organizzata dalla Commissione Teoria della
Tecnica in Psicoterapia dell'Ordine degli Psicologi della Toscana, Firenze, 23 novembre 2002
(relazione di Bianchi M., De Giorgi I., Helferich C., Lorito T., Orfei R., Ranfagni C., Rocchi
C.)
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I dubbi e le pesanti riserve di una parte della comunità scientifica non
hanno arrestato ad oggi la marcia trionfale di quella che si è affermata
come risposta nuova della psicoterapia dell'ultimo decennio; fenomeno che
una aggressiva campagna di marketing non basta a spiegare.
Questa la definizione dell'autrice: "L'EMDR è un metodo psicoterapeutico
complesso e potente, che integra molti tra i più efficaci elementi
provenienti da una vasta gamma di approcci terapeutici, compresa la
psicoanalisi freudiana a lungo termine. Esso impiega inoltre i movimenti
oculari o altre forme di stimolazione ritmica, come il battito delle mani o
note musicali, in un modo che sembra aiutare il sistema cerebrale di
elaborazione delle informazioni a funzionare in modo rapido" (Shapiro e
Forrest, 1997, tr.it., p.14). Poco oltre vi si dice, a proposito degli scettici su tale metodo :
"Ovviamente, quando ci sono innovazioni radicali ci si deve poi aspettare
qualche controversia" (ivi, p.14).Del resto lo stesso titolo del manuale così recita: "EMDR. Una terapia
innovativa per il superamento dell'ansia, dello stress e dei disturbi di
origine traumatica".
Ma in cosa consisterebbe la novità? Nella stimolazione ritmica o
nell'integrazione degli approcci?
Pezzullo (2001) entra nel merito dell'ambito neurocognitivo ripercorrendo
i più recenti studi controllati per escludere che gli elementi di stimolazione
sensoriale introdotti dall'EMDR vadano oltre meccanismi già noti. Egli
così conclude: "Rimane probabilmente valida l'osservazione di molti
autori, secondo cui l'EMDR non è altro che una forma di terapia
cognitivo-comportamentale basata su una "exposure" immaginativa allo
stimolo traumatico (facilitata da un compito distrattore di tipo motorio),
cui sono state aggiunte fasi di supporto e di rielaborazione cognitiva" (ivi,
p.167).
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Consideriamo allora se la novità può consistere nella dichiarata
integrazione dei paradigmi di riferimento, delle presupposizioni-guida. Su
questo fronte c'è da chiedersi se è legittimo parlare di "integrazione" sulla
base di quanto Shapiro prospetta, ovvero "un approccio EMDR in otto fasi,
che integra aspetti importanti di molti altri tipi di terapia, come la
psicodinamica, la cognitiva, la comportamentista e l'interazionale"
(Shapiro e Forrest, 1997, tr.it., p.65) senza precisare quali sono gli aspetti
importanti da utilizzare dei grandi paradigmi teorici, e ponendo sullo
stesso piano questi ultimi e l'approccio EMDR.
Mi pare necessario a questo punto distinguere tra un'integrazione
pragmatica metodologicamente motivata (come le psicoterapie integrate
che da qualche anno si portano avanti anche in Italia) e il sincretismo della
Shapiro, che giustappone elementi di ambiti teorici diversi senza
giustificarne i criteri.
La comunità scientifica e professionale degli psicologi per sviluppare
realmente la ricerca teorica e applicata non può rinunciare a linguaggio e
procedure rigorosi, tanto più in tempi come questi, in cui, come dice Cigoli
(2001), "una volta fragorosamente cadute le illusioni relative alla
superiorità di un paradigma rispetto agli altri in quanto a comprensione
della patologia e a risultati degli interventi di cura psichica, viene meglio
alla luce il valore dei modelli", intesi come modelli d'intervento, operativi
(ivi, p.XXVI).
Tra l'altro se da una parte Shapiro dichiara che con tre-cinque sedute di
EMDR cura i sintomi del PTSD, dall'altra, come abbiamo visto, parla di
otto fasi di trattamento (che "è importante portare a termine quanto
completare un ciclo intero di antibiotici") la seconda delle quali consiste
nell'instaurare un rapporto di fiducia tra il cliente e il terapeuta, e "può
accadere - ella ammette - che a un cliente occorrano settimane per
instaurare un sentimento di fiducia sufficiente all'avvio dell'elaborazione"
(Shapiro e Forrest, 1997, tr.it., p.71).
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Sembra quindi che Shapiro stessa disgiunga la pratica clinica effettiva
dalla pubblicistica e dalla "mistica" EMDR, ovvero dalla presentazione di
casi clinici con toni che talvolta (spiace dirlo) richiamano quelli della
medium e "guaritrice" Rosemary Altea.
Ma se è comprensibile che certe tecniche suggestive di vendita agiscano su
categorie "ignare", è più grave se ciò avviene su "esperti".
Non si può estrapolare una tecnica dal setting e promuoverla a paradigma
in base al fatto che come tale viene pubblicizzata, pur se in questi tempi di
debolezza teorica si è disperatamente alla ricerca di nuovi paradigmi.
L'EMDR è probabilmente una buona tecnica, ma tale resta, e la tecnica
non è "la terapia".
Su quest'equivoco così facile ai nostri giorni, in cui la Tecnica
spadroneggia sovrana su menti facilmente suggestionabili perché
disorientate dai cambiamenti, credo poggino le basi della
sopravvalutazione dell'EMDR anche da parte della comunità professionale.
CONCLUSIONE
La psicologia dell'emergenza, proprio in quanto psicologia in azione, può
esercitare la funzione di laboratorio della psicologia moderna.
Le nuove problematiche sociali e culturali inevitabilmente si ripercuotono
anche sulla pratica professionale cogliendoci inadeguati in talune circostanze
perché il mondo sta cambiando ed è difficile comprendere la portata dei
cambiamenti quando vi si è immersi e ancora più difficile è trovare la rotta
giusta.
Raffaele Simone (2000) ci aiuta a capire la profondità delle trasformazioni
che stiamo vivendo con una teoria affascinante: egli analizza la "storia del
conoscere", ovvero le Fasi attraverso cui si sono formate le conoscenze
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dell'umanità, e mi pare ben riesca a dimostrare che siamo nel mezzo di una
nuova Fase.
Questa la sua teoria: la Prima Fase coincise con l'invenzione della scrittura,
che produsse il passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta, come
testimonia Platone nel suo "Fedro".
La Seconda Fase si aprì venti secoli dopo con l'invenzione della stampa, che
permise ad un vastissimo pubblico di leggere testi scritti.
Questi ultimi venti anni ci avrebbero traghettato in una Terza Fase, nella
quale attraverso l'uso di computer e media la 'visione' e l'ascolto si stanno
sostituendo alla lettura come nuove modalità di conoscenza e l'homo sapiens,
capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di
essere soppiantato dall'homo videns, che non è portatore di un pensiero ma
fruitore di immagini.
Scrive Simone: "Ancora una volta, secondo una vecchia regola, questo
cambiamento sta avendo effetti profondi non solo sul contenuto delle
conoscenze, ma sul modo in cui sono organizzate, sulla loro forma. Infatti, è
noto che il mezzo di cui un messaggio si serve finisce presto per influire sulla
natura stessa del messaggio….Per conseguenza, i saperi che circolano oggi,
nella Terza Fase, sono meno articolati, meno sottili, e, addirittura, possono
fare a meno di basarsi su formulazioni verbali. Questo fatto ha spinto alcuni a
sostenere che, alla svolta tra il secolo XX e il XXI, il sapere generale si è
degradato per qualità - mentre forse ha solamente cambiato natura" (Simone,
2000, pp.XI-XII).
Questa lucida analisi a mio parere chiarisce ulteriormente quel
disorientamento dell'uomo d'oggi cui abbiamo fatto cenno parlando di società
complesse.
Zorzetto et al. (fonte Internet), nel trattare il tema del rapporto tra migrazione
e psicopatologia, ci ricordano che i processi di sradicamento e
acculturazione, di filiazione e costituzione dell'identità, così importanti per
comprendere i nessi non lineari tra migrazione e crisi individuale, si
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riscoprono nelle riflessioni attuali sugli autoctoni occidentali: si arriva infatti
ormai a parlare di "migrazione senza dislocazione", riferendosi al
cambiamento repentino dei codici culturali e dei sistemi di esistenza e
socialità.
Forse è questa la ragione del disorientamento e del disagio collettivo, perché
siamo tutti ormai un po' "migranti".
Non trovo chiusura migliore di quest'invito di Galimberti (2000):
"Per i passaggi epocali non ci sono ricette pronte, ma sfide di pensiero e di
paziente sperimentazione. Mettiamoci al lavoro".
B I B L I O G R A F I A
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