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cosmologia L’enfant terrible della...

Date post: 14-Sep-2018
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56 Le Scienze 517 settembre 2011 www.lescienze.it Le Scienze 57 Photograph by Timothy Archibald COSMOLOGIA L’enfant terrible della fisica Leonard Susskind iniziò a ribellarsi da ragazzo, e non ha più smesso di farlo. Oggi sostiene che la realtà ci rimarrà sempre incomprensibile intervista di Peter Byrne I fisici che oggi tentano di afferrare i livelli più profondi della realtà lavorano in un quadro teorico ampiamente influenzato dal lavoro di Susskind. Ma durante questo percorso deve essere suc- cesso qualcosa di strano. Oggi Susskind si chiede se i fisici siano in grado di capire la realtà. Susskind teme che la realtà possa superare irrimediabilmente la nostra capacità di rappresentarla. Non è il primo a esprimere questa preoccupazione. Negli anni venti e trenta, i fondatori del- la meccanica quantistica si divisero tra realisti e antirealisti. Albert Einstein e altri realisti sostenevano che lo scopo ultimo della fisica fosse produrre un’immagine mentale, per quanto imperfetta, del- la realtà oggettiva. Gli antirealisti, come Niels Bohr, sostenevano invece che le rappresentazioni abbondano di rischi; gli scienziati dovrebbero limitarsi a elaborare e verificare predizioni empiriche. Susskind ritiene che le contraddizioni e i paradossi della fisica mo- derna diano ragione alla prudenza di Bohr. Uno degli elementi che hanno portato Susskind a questa conclu- sione è il principio di complementarità dei buchi neri, secondo cui il destino dei corpi che cadono in un buco nero è intrinsecamente ambiguo. Dal punto di vista dell’oggetto che cade, esso passa senza Leonard Susskind è noto soprattutto per i suoi contributi alla teoria delle stringhe, alla fisica dei buchi neri e alla teoria degli universi paralleli. Oggi il fisico di Stanford, portato da sempre ad assumere posizioni controcorrente, sta ponendo alla comunità scientifica un interrogativo che minaccia alla base gli studi teorici contemporanei. La natura degli esseri umani, ipotizza Susskind, potrebbe renderci incapaci di rappresentare fino in fondo la realtà, e quindi di arrivare a comprenderla. L’uso della parola «realtà» costituirebbe di per se stesso un ostacolo, e i fisici teorici farebbero meglio a sbarazzarsene. IN BREVE F isico alla Stanford University, Leonard Susskind si diverte a inventare idee che rivolu- zionano la fisica. Quarant’anni fa fu uno degli autori della teoria delle stringhe che, pur tra molte diffidenze, rimane la principale candidata per una teoria unificata della na- tura. Per anni ha contestato la congettura di Stephen Hawking secondo cui i buchi neri non si limitano a ingoiare oggetti ma li riducono a dimensioni nulle, in violazione del- la meccanica quantistica (Hawking ha finito per dichiararsi sconfitto). E ha collaborato a sviluppare la teoria moderna degli universi paralleli, basata su quello che Susskind ha definito il «paesaggio» della teoria delle stringhe, rovinando così il sogno dei fisici di spiegare l’universo come l’unico risultato pos- sibile di principi fondamentali.
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L’enfant terrible della fisicaLeonard Susskind iniziò a ribellarsi da ragazzo, e non ha più smesso di farlo. Oggi sostiene che la realtà ci rimarrà sempre incomprensibile

intervista di Peter Byrne

I fisici che oggi tentano di afferrare i livelli più profondi della realtà lavorano in un quadro teorico ampiamente influenzato dal lavoro di Susskind. Ma durante questo percorso deve essere suc­cesso qualcosa di strano. Oggi Susskind si chiede se i fisici siano in grado di capire la realtà.

Susskind teme che la realtà possa superare irrimediabilmente la nostra capacità di rappresentarla. Non è il primo a esprimere questa preoccupazione. Negli anni venti e trenta, i fondatori del­la meccanica quantistica si divisero tra realisti e antirealisti. Albert Einstein e altri realisti sostenevano che lo scopo ultimo della fisica

fosse produrre un’immagine mentale, per quanto imperfetta, del­la realtà oggettiva. Gli antirealisti, come Niels Bohr, sostenevano invece che le rappresentazioni abbondano di rischi; gli scienziati dovrebbero limitarsi a elaborare e verificare predizioni empiriche. Susskind ritiene che le contraddizioni e i paradossi della fisica mo­derna diano ragione alla prudenza di Bohr.

Uno degli elementi che hanno portato Susskind a questa conclu­sione è il principio di complementarità dei buchi neri, secondo cui il destino dei corpi che cadono in un buco nero è intrinsecamente ambiguo. Dal punto di vista dell’oggetto che cade, esso passa senza

Leonard Susskind è noto soprattutto per i suoi contributi alla teoria delle stringhe, alla fisica dei buchi neri e alla teoria degli universi paralleli.

Oggi il fisico di Stanford, portato da sempre ad assumere posizioni controcorrente, sta ponendo alla comunità scientifica un interrogativo che minaccia alla base gli studi

teorici contemporanei.La natura degli esseri umani, ipotizza Susskind, potrebbe renderci incapaci di rappresentare fino in fondo la realtà, e quindi di arrivare a

comprenderla. L’uso della parola «realtà» costituirebbe di per se stesso un ostacolo, e i fisici teorici farebbero meglio a sbarazzarsene.

I n b r e v e

F isico alla Stanford University, Leonard Susskind si diverte a inventare idee che rivolu­zionano la fisica. Quarant’anni fa fu uno degli autori della teoria delle stringhe che, pur tra molte diffidenze, rimane la principale candidata per una teoria unificata della na­tura. Per anni ha contestato la congettura di Stephen Hawking secondo cui i buchi neri non si limitano a ingoiare oggetti ma li riducono a dimensioni nulle, in violazione del­

la meccanica quantistica (Hawking ha finito per dichiararsi sconfitto). E ha collaborato a sviluppare la teo ria moderna degli universi paralleli, basata su quello che Susskind ha definito il «paesaggio» della teoria delle stringhe, rovinando così il sogno dei fisici di spiegare l’universo come l’unico risultato pos­sibile di principi fondamentali.

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problemi attraverso il perimetro del buco, l’orizzonte degli eventi, e viene distrutto quando raggiunge il centro del buco, la singolarità. Ma dal punto di vista di un osservatore esterno l’oggetto in caduta si disintegra all’orizzonte. E dunque, che cosa accade in realtà? Se­condo il principio di complementarità dei buchi neri, la domanda non ha senso: entrambe le interpretazioni sono corrette.

Un’idea collegata a questa, e che supporta l’antirealismo, è il principio olografico formulato a metà degli anni novanta da Suss­kind e dal premio Nobel Gerard ’t Hooft, dell’Università di Utrecht. Sostiene che ciò che succede in un qualsiasi volume dello spazio­tempo può essere spiegato a partire da ciò che succede alla sua frontiera. Benché in genere pensiamo agli oggetti che sfrecciano in uno spazio tridimensionale, nulla ci impedisce di immaginarli co­me forme appiattite che scivolano su una superficie a due dimen­sioni. Quandi qual è la vera realtà: la frontiera o l’interno? La teo­ria non lo dice. La realtà, in questa congettura olografica, dipende dalla prospettiva.

Sperando di capire meglio in che modo opera alle frontiere del­la fisica la tensione tra prove sperimentali e congetture non di­mostrate, abbiamo chiesto a Susskind di spiegarci come si sono evolute le sue idee.

Come ha fatto il figlio di un idraulico del Bronx a finire a discutere della natura ultima della realtà?

Alle scuole superiori ero un pessimo studente. Avevo ottimi voti in matematica, ma ero uno scapestrato e finivo spesso nei guai. La conseguenza fu che non mi venne permesso di seguire studi di fisi­ca vera e propria, ma di fisica applicata all’industria automobilisti­ca. Poi però al college, che era una scuola di ingegneria, frequentai il mio primo corso di fisica. Ero più bravo di tutti, professore inclu­so. Per fortuna, il fatto che riuscissi a fare ciò che a lui non riusciva non fu motivo di conflitto. Un giorno uno dei docenti di ingegne­ria disse che secondo lui non ero tagliato per fare l’ingegnere, e non aveva torto. «Che dovrei fare?», gli chiesi. Mi rispose «Beh, sei stra­ordinariamente intelligente. Dovresti diventare uno scienziato».

Ha seguito corsi di filosofia?Sì, al college. Ero molto affascinato da alcuni concetti. Il mio

interesse è scemato quando la fisica ha avuto il sopravvento.

C’è qualche filosofo della scienza che le piace?Sono uno dei pochi fisici che apprezzano Thomas Kuhn. Era per

metà storico della scienza e per metà sociologo. Ha capito esat­tamente che cosa succede quando cambia il paradigma scientifi­co. Improvvisamente, si verifica un cambio radicale di prospettiva. Idee, concetti, astrazioni e rappresentazioni totalmente nuove di­ventano fondamentali. La relatività fu un grande cambio di para­digma. Così continuiamo a inventare nuovi realismi, che non sop­piantano del tutto le vecchie idee, ma le sostituiscono in gran parte con modelli che funzionano meglio, descrivono meglio la natura, che sono spesso molto strani e spingono le persone a chiedersi che cosa significhi la parola «realtà». Poi arriva il paradigma successi­vo, che fa piazza pulita del precedente. E ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo o i mo­delli matematici che avevamo creato ora sembrino sbagliati.

In questo continuo rimodellamento, c’è spazio per qualcosa che assomigli a una realtà oggettiva?

Ogni fisico deve avere la sensazione che nel mondo esistano co­se oggettive e che il nostro compito sia capire che cosa sono. Non

credo che riusciremmo a farlo senza avere la sensazione che esista una realtà oggettiva. La prova dell’oggettività è che gli esperimenti sono riproducibili. Se dai un calcio a un sasso ti fai male al dito. Se gli dai un altro calcio, ti fai male un’altra volta. Ripeti l’esperimen­to quante volte vuoi, e riprodurrai lo stesso effetto.

Detto questo, i fisici non parlano quasi mai di realtà. Il proble­ma è che ciò che la gente intende per «realtà» ha più a che fare con la biologia, l’evoluzione, il nostro corpo e la nostra architettura neurale che con la fisica in sé. Siamo prigionieri della nostra archi­tettura neurale. Possiamo immaginare alcune cose e non possia­mo immaginarne altre. La geometria astratta e quadridimensionale di Einstein era difficile da visualizzare concretamente. Fu visualiz­zabile attraverso relazioni matematiche. Quando la relatività com­parve improvvisamente sulla scena, molti devono aver pensato: «Che ne è stato del “vero” tempo e del “vero” spazio?». Erano sta­ti solo mescolati in quella strana cosa, ma rispettavano regole pre­cise. Dunque ne avevamo astratto relazioni matematiche chiare ed esatte, ed esse erano sopravvissute, e le vecchie nozioni di realtà erano scomparse.

Secondo me dovremmo sbarazzarci della parola «realtà». Discu­tiamo senza impiegare la parola «realtà», È solo un ostacolo. Tra­scina con sé cose che non servono a niente. La parola «riproducibi­le» è più utile della parola «reale».

E la meccanica quantistica, allora? Secondo quella teoria, dare un calcio allo stesso sasso nello stesso modo può provocare risultati diversi.

Incredibile, vero? Sono due le scoperte della meccanica quanti­stica che hanno sconvolto il nostro senso classico della realtà. Una è l’entanglement, che ci dice una cosa davvero strana: si può sape­re tutto quello che c’è da sapere su un sistema composito e tutta­via non sapere tutto sui componenti individuali. Questo è un buon esempio del fatto che non siamo biologicamente attrezzati per l’astrazione, e che ciò sconvolge il nostro senso della realtà (si veda Vivere in un mondo quantistico, di Vlatko Vedral, in «Le Scienze» n. 516, agosto 2011). L’altro duro colpo all’idea classica della realtà è venuto dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Se cer­chi di descrivere sia la posizione sia la quantità di moto di un og­getto ti metti nei guai. Bisogna scegliere: o la posizione o la quan­tità di moto. Non puoi avere tutte e due insieme.

È questo che i fisici intendono con «complementare»?Esatto. Si è scoperto che la matematica che governa l’orizzon­

te degli eventi di un buco nero è molto simile al principio di inde­terminazione. Ancora una volta, si tratta di scegliere tra «e» e «op­pure». A un livello completamente classico, qualcosa finisce in un buco nero e qualcosa no. Vi sono oggetti fuori da un buco nero, e oggetti dentro un buco nero. Ora sappiamo che questo è il modo sbagliato di vedere le cose. Non bisogna ritenere che vi siano even­ti che accadono al di fuori dell’orizzonte ed eventi che accadono al suo interno. Sono descrizioni ridondanti della stessa cosa. O le descrivi in un modo o nell’altro. Dobbiamo quindi rinunciare alla vecchia idea secondo cui una quantità di informazione si trova in un luogo definito (si veda I buchi neri e il paradosso dell’informa-zione, di Leonard Susskind, in «Le Scienze» n. 346, giugno 1997.

Se capisco bene, il principio olografico estende il modello complementare di un buco nero a tutto l’universo.

È così. Immaginiamo di voler descrivere un sistema in modo estremamente preciso. Per misurare con grande precisione è ne­ Do

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cessaria un’energia elevata. Aumentando ancora la precisione, ol­tre un certo punto si creano dei buchi neri. L’informazione, in un buco nero, si trova tutta sulla superficie. Quindi, più è raffinata la descrizione di un sistema e più l’informazione viene spinta verso il limite esterno.

Esistono due descrizioni della realtà: o la realtà è il contenu­to dello spazio­tempo circondato da una frontiera, o la realtà è la superficie della frontiera. Qual è la descrizione vera? Non c’è mo­do di saperlo. Possiamo immaginare un oggetto come un oggetto all’interno dello spazio­tempo, oppure come un insieme disordina­to e complicato di informazione sulla sua frontiera. Non possiamo immaginare entrambe le cose, o l’una o l’altra. C’è una corrispon­denza assai complicata tra una rappresentazione e l’altra.

Lo scopo iniziale della teoria delle stringhe era fornire una spiegazione unificata della realtà. Ora descrive universi multipli. Che cos’è successo?

Gran parte della comunità scientifica dei fisici ha smesso di tentare di spiegare in modo unico l’universo, come l’unico mon­do matematicamente possibile. Attualmente il multiverso è l’uni­co modello in circolazione. Non ci stanno lavorando tutti, ma non esistono argomenti netti e coerenti che lo contraddicano.

Nel 1974 ho avuto un’esperienza interessante a proposito di co­me si forma il consenso scientifico. Si stava lavorando sulla teo­ria degli adroni [particelle subatomiche come i protoni e i neutroni, N.d.R.] che prende il nome di cromodinamica quantistica, o QCD, che all’epoca doveva essere ancora verificata. Durante una confe­

renza di fisica domandai in giro un parere sulla probabilità che la QCD fosse la teoria degli adroni corretta. Feci una specie di sondag­gio: nessuno le attribuì più del 5 per cento di probabilità. Poi chiesi: «Su quale argomento state lavorando?». QCD, QCD, QCD, rispose­ro. Lavoravano tutti sulla QCD. C’era un consenso generale, ma per qualche strana ragione le persone preferivano mostrare il loro lato più scettico. Volevano apparire realistici. Con l’idea del multiverso sta accadendo la stessa cosa. Molti fisici non vogliono limitarsi ad ammettere «senti, non conosciamo teorie alternative».

L’universo è molto, molto grande. Sappiamo dai dati empirici che il suo volume è almeno mille volte maggiore di quello della porzio­ne che riusciremo mai a osservare. Il successo della teoria dell’in­flazione cosmica apre alla possibilità che l’universo sia irregolare su scale abbastanza grandi. La teoria delle stringhe fornisce elementi di base che possono essere assemblati in un numero enorme di mo­di. Perciò non ha senso chiedersi perché la nostra regione dell’uni­verso sia esattamente ciò che è, perché altre porzioni del mondo non sono proprio come la nostra. Non ci può essere una spiegazio­ne universale di tutto ciò che c’è, non più di quanto possa esserci un teorema che afferma che la temperatura media di un pianeta è di 15 gradi. Sarebbe ben stupido tentare dimostrare matematicamente che i pianeti hanno una temperatura di 15 gradi, perché ce ne sono molti che non hanno quella temperatura.

Ma nessuno conosce le regole che governano i multiversi. È una rappresentazione, e nessuno sa come usarla in maniera predittiva. Il processo perpetuo di inflazione produce bolle su bolle, in ogni quantità e di ogni tipo. Quindi la probabilità di un universo o di un altro è pari a infinito diviso infinito. Preferiremmo ottenere una di­stribuzione di probabilità che dica che l’uno è più probabile dell’al­tro, e poi fare una predizione. Quindi siamo passati da una rap­presentazione apparentemente molto solida al tentativo assurdo di misurare un’infinità di probabilità. Se crollerà, sarà per questo (si veda Il dibattito sull’inflazione, di Paul J. Steinhardt, in «Le Scien­ze» n. 513, giugno 2011).

Si può fare ricerca in fisica teorica senza elaborare un pensiero filosofico?

Nella maggior parte dei grandi fisici si trova una componen­te filosofica piuttosto forte. Il mio amico Dick Feynman odiava i filosofi e la filosofia, ma lo conoscevo bene: in lui c’era un lato profondamente filosofico. I problemi a cui decidiamo di dedicar­ci sono condizionati dalla nostra predisposizione filosofica. Ma ho anche la netta convinzione che le sorprese accadono e spazzano via i nostri pregiudizi filosofici. La gente pensa che vi siano rego­le chiare e definite nella scienza: realizziamo esperimenti, acqui­siamo i risultati e li interpretiamo. Alla fine, otteniamo qualcosa. Il progresso scientifico, invece, è umano, caotico e conflittuale come tutto il resto. n

Peter Byrne, giornalista scientifico e reporter investigativo, è autore del saggio The Many Worlds of Hugh Everett III: Multiple

Universes, Mutual Assured Destruction and the Meltdown of a Nuclear Family (Oxford University Press, 2010).

La guerra dei buchi neri. Susskind L., Adelphi, 2009.

Il paesaggio cosmico. Dalla teoria delle stringhe al megaverso. Susskind L., Adelphi, 2007.

Addio alla ragione. Feyerabend P.K., Armando Editore, 2004.

p e r a p p r o f o n d I r e

Lo studio dei buchi neri evidenzia i limiti della nostra capacità di comprensione dell’universo.


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