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D I E S LA TECNICA PRENDERÀ IN SOPRAVVENTO SULLA … · do anche più in là: mi riferisco al...

Date post: 01-Dec-2018
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DIREZIONE Ugo Finetti - Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXXIII – N. 11-12 / 2014 Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Industria Grafica - Editoriale Pizzorni - IGEP srl - Via Castelleone, 152 - 26100 Cremona - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00 POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 9 7 7 8 0 0 0 0 5 7 0 0 3 1 3 0 1 1 ISSN 1827-4501 PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 / Sostenitore Euro 100 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca Intesa: IBAN IT 06 O 0306901626100000066270 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 ...Come la canzone... Il professor Severino scoppia a ridere: Veramente come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni for ma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene - dice Weber - “il mono- polio legittimo della violenza”. Que sto grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tec nica moderna - ed è irresistibile nella mi sura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato. Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane? La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende mo- rire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia). La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante. Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente ga- rantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica Silvia Truzzi L’ umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insu- perabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L’indicazione stradale è pre- cisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta - che a Bre scia, oltre ad amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri- si apre la porta di casa di Emanuele Severino. Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolone arriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno che ospita mille libri, un pianoforte a coda e un’imponente scultura del figlio Federico. È un Or- feo che ha per duto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria”, spiega il professore, “e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual è lo sguardo di un filosofo sul- l’Italia (e se Proust - di cui il professore si occupa ne La filosofia futura - aveva ragione), partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professore ha scritto i due libri dedicati al poeta di Recanati. Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempre va lido? Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni del la crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’ab bandono, nel mondo, dei valori della tra dizione occidentale; e questo mentre le for me della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto - e in nanzitutto Dio. Dio è morto... DUE INTERVISTE (SU CARTA E ONLINE - TRAMITE IL BARCODE - AL FILOSOFO EMANUELE SEVERINO LA TECNICA PRENDERÀ IN SOPRAVVENTO SULLA POLITICA E L EFFICIENZA SUBORDINERÀ LA SOLIDARIETÀ SOCIALE EMANUELE SEVERINO VIDEO INTERVISTA SU YOUTUBE DALLA CARTA AL WEB (E RITORNO) Oltre all’intervista pubblicata in queste pagine, esperimentiamo per la pri- ma volta di fare passare il lettore dalla carte del giornale al Web per vedere una seconda intervista col filosofo Emanuele Severino. Questa volta il col- loqio è con Alessandro Aleotti, direttore di Milania. Per riuscire a ottenere il passaggio dalla carta al video. dovete avere uno slartphone o un tablet a portata di mano. - Scaricate da Google l’applicazione gratuita QR Scanner per leggere il codice a barre digitale riprodotto qui sotto - Avviate l’applicazione quando è disponibile sul vostro apparecchio o sul Pc - Passate la telecamera del vostro dispositivo davanti all’immagine qui sotto, un QRendcoder, cosi si chiama. - Se usate un PC fate viceversa, passate il giornale davanti alla teleca- mera del Pc. Attendete qualche secondo che l’immagine a destra sia messa a fuoco e vi compare il video con l’intervista che vi proponiamo. Buon divertimento e buona riflessione.
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DIREZIONEUgo Finetti - Stefano Carluccio

(direttore responsabile)Email: [email protected]

Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano

GIORNALISTI EDITORI scarlVia Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano

Tel. +39 02 6070789 / 02 683984Fax +39 02 89692452

Email: [email protected]

FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891

Rivista di Cultura Politica, Storica e LetterariaAnno CXXIII – N. 11-12 / 2014

Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Industria Grafica - Editoriale Pizzorni - IGEP srl - Via Castelleone, 152 - 26100 Cremona - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00

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Editore - Stefano Carluccio

La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250

...Come la canzone...Il professor Severino scoppia a ridere: Veramen te come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E

noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni for ma di assolutezza e di assolutismo, dunqueanche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene - dice Weber - “il mono-polio legittimo della violenza”. Que sto grande turbine che si porta via tutte le forme dellatradizione è guidato dalla tec nica moderna - ed è irresistibile nella mi sura in cui ascolta lavoce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolgeanche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato.

Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane?La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende mo -

rire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovoordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia).

La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante.Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente ga -

rantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica

Silvia Truzzi

L’ umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insu-perabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne Laprigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L’indicazione stradale è pre-

cisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada doveamava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta - che a Bre scia, oltread amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri- si apre la portadi casa di Emanuele Severino. Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolonearriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno cheospita mille libri, un pianoforte a coda e un’imponente scultura del figlio Federico. È un Or-feo che ha per duto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria”, spiega il professore, “egetta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual è lo sguardo di un filosofo sul-l’Italia (e se Proust - di cui il professore si occupa ne La filosofia futura - aveva ragione),partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professoreha scritto i due libri dedicati al poeta di Re canati.

Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempreva lido?

Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni del la crisi del nostro tempo rimangono molto insuperficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non vieneadeguatamente affrontato, è l’ab bandono, nel mondo, dei valori della tra dizione occidentale;e questo mentre le for me della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Unabbandono che si porta via ogni forma di assoluto - e in nanzitutto Dio. Dio è morto...

■ DUE INTERVISTE (SU CARTA E ONLINE - TRAMITE IL BARCODE - AL FILOSOFO EMANUELE SEVERINO

LA TECNICA PRENDERÀ IN SOPRAVVENTO SULLA POLITICAE L’EFFICIENZA SUBORDINERÀ LA SOLIDARIETÀ SOCIALE

EMANUELE SEVERINO ■ VIDEO INTERVISTA SU YOUTUBE

DALLA CARTA AL WEB (E RITORNO)Oltre all’intervista pubblicata in queste pagine, esperimentiamo per la pri-

ma volta di fare passare il lettore dalla carte del giornale al Web per vedereuna seconda intervista col filosofo Emanuele Severino. Questa volta il col-loqio è con Alessandro Aleotti, direttore di Milania.

Per riuscire a ottenere il passaggio dalla carta al video. dovete avere unoslartphone o un tablet a portata di mano.

- Scaricate da Google l’applicazione gratuita QR Scanner per leggere ilcodice a barre digitale riprodotto qui sotto

- Avviate l’applicazione quando è disponibile sul vostro apparecchioo sul Pc

- Passate la telecamera del vostro dispositivo davanti all’immagine quisotto, un QRendcoder, cosi si chiama.

- Se usate un PC fate viceversa, passate il giornale davanti alla teleca-mera del Pc.

Attendete qualche secondo che l’immagine a destra siamessa a fuoco e vi compare il video con l’intervista che viproponiamo.

Buon divertimento e buona riflessione.

2 ■ CRITICAsociale11-12 / 2014

del nostro tempo consiste nel capire la radica-lità della trasformazione in atto sul Pianeta,cioè deve lasciare la guida alla razionalitàscien tifico- tecnologica, destinata a imporsicon la morte del vecchio mondo.

Tra le forme più deboli di Stato c’è l’Ita-lia?

L’Italia è uno Stato acerbo. Ha 150 anni super giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalleuna storia di frazionamento politico-economi-co-sociale, dove si sono imposte forze chehan no avuto nel mondo un peso ben maggioredi quello dell’Italia unita. Pensi, ad esempio,allo Stato pontificio. La sua storia attraversal’intera storia europea: qualcosa di molto piùconsi stente e visibile che non l’Italia. Non misembra un caso che Putin venendo in Italia va-da prima dal Papa, nel centro mondiale dellacattolicità, e solo dopo da tutti gli altri... Unsecondo esempio? La Repubblica di Venezia.A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterradel XIX secolo. Potenze, dunque che non soloso no state al centro della vita mondiale, mahan no organizzato la società in modo che loStato italiano sarebbe poi stato avvertito comeun corpo estraneo da gran parte della popola-zione della Penisola. Di qui il marcatoindividua lismo degli Italiani.

È questo il motivo per cui non abbiamoun senso dello Stato consolidato come in al-tri Paesi?

Sì, la “novità” del nostro Stato è tra i princi-pali. Ma un secondo motivo - ce ne sono molti:parlo di quelli che qui mi vengono in mente - èche durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto ilpiù forte partito comunista dell’Occidente: ilPci è arrivato quasi al potere e in un modo de-mocratico. Si verificarono due processi, di -ciamo concorrenti: il Pci andava progressiva -mente social-democratizzandosi e il consensoaumentava. Il problema era fare in modo che ilprimo processo fosse più veloce del secondo.Altrimenti sarebbero stati guai, nel senso di unareazione violenta del mondo occidentale chenon avrebbe consentito all’Italia di entrare nellasfera di influenza sovietica. La marcia del co-munismo verso la so-cialdemocrazia è uno de-gli esempi rilevanti di quello che chiamo “il tra-monto degli immutabili” (cioè degli “dèi”). IlPci era radicato nel marxismo, cioè, innanzitut-to, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quandola sinistra europea - si pensi ad esempio a Ru-dolf Hilferding - ha incominciato a spingere ilcomunismo da una gestione filosofica a unascientifica del movimento rivoluzionario, tra-sformandolo, appunto, in socialdemocrazia.

Però lei ha scritto un libro intitolato Ca-pitalismo senza futuro.

Anche il capitalismo, infatti, ha alle spalleuna visione filosofica prevalentemente asso-lutistica, del mondo (individuo e proprietà co-me valori assoluti). Gli si fa torto quando lo sitratta come un semplice mezzo per aumentareil profitto. In Italia è più debole; ma la presen-za dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, diquello comunista fa si che l’abbandono dellatradizione abbia da noi un maggiore effettotraumatico rispetto ad altri Paesi. Ma poi - ri-tornando al tema della mancanza di senso del-lo Stato - essa porta con sé individualismo esa-sperato e corruzione. E, in proposito, sembrache la Guerra fredda sia stata già dimenticata.È finita da pochissimo. In Occidente il comu-nismo è finito, ma è come se avessimo davantiun gigante mor to. È in putrefazione, ma dàluogo a forme bio logiche diverse e ingom-branti. La contrappo sizione tra il blocco sovie-tico e quello occidentale è stata una situazionedi mors tua, vita mea. Ognuno ha adottatoqualsiasi mezzo per contrastare l’avversario ...

Per esempio?Penso alla sostanziale “alleanza” tra Stati Uni-

ti e mafia: meglio stare con i delinquenti non co

munisti che con i comunisti. Ora, il denaro ame-ricano arrivava soprattutto per aiutare i partitianticomunisti; ma la gestione politica di questodenaro non poteva essere un fatto pub blico; ine-vitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità.Che è sopravvissuta anche dopo la fine del-l’Urss. D’altra parte la magistratura è stata in-genua nel voler assumere un atteggiamento al-l’insegna del fiat iustitia et pereat munda.

Qual è stata l’ingenuità?Pensare di poter spingere fino in fondo le in-

dagini sulle responsabilità e illegalità prodot-tesi dalla inevitabile collusione tra Stato e cri-minalità .

Sta parlando di Tangentopoli?Un esempio potrebbe essere questo. Ma va-

do anche più in là: mi riferisco al mondo capi -talistico. La magistratura ha voluto fare qual-cosa che non era accaduto nemmeno con la fi-ne del fascismo. Togliatti non ha incriminato ifunzionari e la classe dirigente del fascismo.Ha scelto l’amnistia ...

L’Italia è storicamente allergica alle epu-razioni?

Intendo dire che il capitalismo ha vinto laGuerra fredda; ed è in -genuo credere di potertrattare dal puro punto di vista giudiziario unfenomeno storico di questa portata.

I pm di Mani Pulite han no sempre dettodi esse re stati travolti da una valanga dichiamate in correità. E nel nostro sistemal’azione penale è obbligatoria.

E questo produce un dramma! Non sto di-cendo che si sarebbe potuto evitare. Il giudiceè ovviamente obbligato a indagare e a daresanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore - ilcapitalismo - non accetta di essere punito peraver usato mezzi che gli hanno consentito divincere il nemico mortale.

La lunga gestazione della decadenza diBerlusconi è la prova che non esiste una san-zione sociale per alcuni comportamenti. Equesto de· termina che alla fine i giudici se-lezionano la classe politica, nel senso che seuno non è stato condannato può fare tuttoquello che vuole. Se il presidente degli StatiUniti dice una bugia si deve dimettere.

Ma certo! Aggiungo che 25 anni fa scrivevo,nel libro da lei richiamato, che era meglio chela Fininvest scendesse in campo politicamente,piuttosto che trattenere del tutto nell’ombra ilproprio operare.

Lo sottoscrive?Sì, meglio questo di una destra che agisce

con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, cheesprima pubblicamente i propri progetti, alme-no in parte.

Anche se si fanno le leggi ad personam?Non è pericoloso dire certe cose in un Paesedove i magistrati vengono tacciati di essereun cancro?

Condivido il senso della domanda. Ma pro-prio perché ho scritto libri come Il declino delca pitalismo e Capitalismo senza futuro, quantole sto dicendo non può passare per un’apologiadel capitalismo e delle sue degenerazioni. (Nonè nemmeno un’apologia del marxismo). È laconstatazione di alcuni dei fattori per i quali ladestinazione della tecnica al dominio del mon -do produce in Italia una crisi più grave che al-trove. E non dimentichiamo le tragedie e gliscompensi determinati dalla dittatura fasci sta.

Che ricordi ha dell’Italia fascista?Rispetto ai nostri temi sono irrilevanti. Il più

terribile, per me, è un ricordo personale, legatoalla morte di mio fratello Giuseppe nel 1942,ventunenne. Un giovane straordinario. Avevaotto anni più di me. Studente alla Normale diPisa, era stato obbligato, per legge, a diventarevolontario del Regio Esercito Italiano, nelCorpo degli Alpini, sul fronte francese: la suamorte mi ha segnato. Non posso dire di averrespi rato, da ragazzino, l’esecrazione per

quanto, in seguito, ho saputo e capito essere ilfascismo. Ho studiato dai Gesuiti: ricordo ilsaluto fa scista all’uscita della scuola. Lì ho in-contrato padre Auer, che aveva conosciuto Hi-tler da vicino. Andavo a lezione da lui perchévolevo imparare il tedesco. Era stato intimodel gio vane Hitler e mi raccontava di un uomoas solutamente disturbato, che se le cose nonan davano come lui voleva, aveva incredibiliac cessi d’ira, si rotolava per terra. Un matto.Nel le mie conversazioni con padre Auer,ripen sandoci ora, davo per scontato che i na-zisti fossero dei matti.

Si evoca, con una certa frequenza, un’in-capa· cità dell’Italia di fare i conti con ilpassato. Cosa ne pensa?

Le rispondo parlando di un filosofo, Gio-vanni Gentile, che mio fratello ascoltava a Pi-sa, per ché è stato la figura più profonda delfascismo. Amo dire che non era Gentile a es-sere fascista, ma il fascismo a tentar di esseregentiliano. Gentile è stato uno dei grandi ge-stori del “gran de turbine” di cui parlavamo al-l’inizio: il suo pensiero è profondamente an-tiassolutista e an titotalitario, Mussolini non locapiva. Da vec chio liberale aveva visto nel fa-scismo l’occa sione per realizzare la sua rifor-ma della scuola. Un’ottima riforma, per quel-l’Italia. Oggi - an che qui, per la debolezza del-le nostre strutture statali - si fanno tra l’altroconcorsi universitari dove si applicano retro-attivamente disposizio ni pateticamente dipen-denti dalla cultura in glese e americana. Anchel’idea di studiare la filosofia da un punto di vi-sta storico è sua: un’idea purtroppo rovinatadai manuali che non hanno capito che cosa siaun storia fi losofica della filosofia. Comunque,gli scritti politici di Gentile considerano il fa-scismo co me un “esperimento”, non certo co-me un as setto assoluto e immodificabile.

Evasione fiscale e corruzione: sono unanostra “tara genetica”?

Una tara storica, come prima le dicevo. L’e -vasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Sec’è da costruire una strada io devo metterci an-che la parte degli evasori. Certo, molti artigianie piccoli imprenditori, se non evadessero, fal -lirebbero. Tutti sanno queste cose. Però co -nosco anche tanti cattolici ai quali molti uo mi-ni di Chiesa facevano capire che se non aves -sero ritenuto “giusto” pagare le tasse dello Sta to, avrebbero fatto bene a non pagarle. QuestoPapa, da buon pastore, sta cercando di cam -biare le cose. Ma non vorrei che si perdesse divista che la “corruzione” di fondo è l’”evasio -ne” del mondo dal passato dell’Occidente. Vor-rei dire che il processo in cui le strutture delpassato stanno andando in malora è come lafebbre: se non la si avesse non si potrebbe gua -rire. Stiamo andando verso un mondo gestitodalla razionalità tecnologica; ed è probabileche l’Italia, proprio perché ha avuto gliinconve nienti di cui abbiamo parlato, anticipii tempi rispetto agli altri popoli meno febbrici-tanti. (Mi lasci dire anche, molto sottovoce, cheno nostante la sua destinazione al dominio delmondo, la civiltà della tecnica è ciò che chiamo“la forma più rigorosa della Follia estrema”.Ancora più sottovoce: la Follia estrema è cre -dere nel carattere effimero, temporale, con tin-gente, casuale, dell’uomo e della realtà: è laconvinzione che ogni cosa venga dal nulla e viritorni. Però la difesa suprema dall’angosciasuscitata da questa convinzione - la difesa chenella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio -è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica stadiventando la forma più radicale di salvezza,che oggi ha soppiantato qualsiasi altra formadi rimedio contro la morte. Mi affretto a lascia-re questo tema, tanto più importante quanto piùa sottovoce ne parliamo.

Anche in politica ci si affida alla tecnicacome extrema ratio. Si è trattato, nel caso

del governo Monti, del disvelamento di unabugia?

Rispondo ad alta voce. Una quindicina d’an-ni fa avevo criticato sia Monti sia Abete quan-do promuovevano l’unione di “solidarietà” ed“efficienza” (capitalistica). Abete, allora pre-sidente di Confindustria, declinava tale unio-ne, mi sembra, sul piano di una solidarietà piùlaica che cattolica; Monti la intendeva comesolidarietà cattolica. Ma l’”efficienza” capita-listica è incompatibile con la “solidarietà” insenso cristiano. Quando Monti divenne pre-mier, scrissi un articolo sul Corriere della Serain cui dicevo che l’affacciarsi del suo governo“tec nico” aveva ben poco a che vedere con ladestinazione della tecnica al dominio, qualeviene intesa nei miei scritti. Proprio perchéMonti dichiarava di voler coniugare l’efficien-za ca pitalistica con la solidarietà in senso cat-tolico, quel governo “tecnico” - era prettamen-te politico, un po’ mascherato. Ancora, l’eco-nomia comanda la politica e quindi un econo-mista può essere più politicizzato (cioè “ideo-logizzato”) di un politico. Data la tendenza difondo del corso storico ritengo tuttavia che cisi debbano aspettare governi che, sempre più,guidino le società sulla base dell’efficienzatecnoscientifica piuttosto che di quella capita-listica, e che a questa forma di efficienza restisempre più subordinata l’istanza solidaristica.

Le ideologie sono morte ma forse sonoscom• parse anche le idee. Destra e sinistraesistono ancora?

In ogni gruppo sociale ci sono quelli soddi-sfatti del proprio tenore di vita e tendono allacon servazione - la “destra” - e quelli che inve-ce soddisfatti non sono e tendono alcambiamen to - la “sinistra”.

Qual è la visione del mondo dello schie-ramento “progressista”?

Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi hamandato un ‘email con il suo programma ,chie dendomi cosa ne pensassi. Gli ho rispostoche era un programma interessante , anche peril suo intento di collegarsi alla sinistra europea.Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modomigliore per salvaguardare il capitalismo. Nonmi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che inquella mia aggiunta non c’era ombra di ironia.

Perché il modo migliore per salvaguarda-re il capitalismo?

Ormai la sinistra, non solo italiana, non èpiù nemmeno socialdemocrazia, che miravaall’a bolizione delle classi e del capitalismo pervia democratica . Ormai anche il Pd è lonta-nissimo da queste aspirazioni, immerso com’ènella fe de, peraltro diffusissima, della validitàdell’or ganizzazione capitalista della società.

Curiosità mondana: guarda la televisione? Quando c’è un buon film e, quasi sempre, il

telegiornale .E i talk show?All’inizio i litigi dei politici erano abbastanza

divertenti; adesso annoiano. Ma se vogliamoparlare di televisione non possiamo lasciar daparte Internet. C’è contesa per la “conquistadello spazio”; nemmeno il”cyberspazio” ha ununico padrone e i grandi gruppi economici selo contendono. Chi vuole imporsi sul mercato,deve utilizzare televisione e Internet e tutti imezzi telematici. Lo strumento (il mezzo) peròè destinato a prevalere sugli scopi economi co-ideologici. Anche perché ciò che più col piscelo spettatore non è tanto il messaggio quantopiuttosto la capacità di Internet e te levisione dicomunicare qualsiasi messaggio. (Un esempio,questo - e torno a parlare sot tovoce - del pro-cesso, inevitabile, nel quale la tecnica è desti-nata al dominio, cioè a servirsi, essa, delle gran-di forze che ancora s’illudono di poter continua-re, loro, a servirsi di essa. Ma nemmeno la tec-nica ha l’ultima parola). s

Silvia Truzzi

CRITICAsociale ■ 311-12 / 2014

Barbara Ciolli

N egli occhi ha il guizzo di unragazzino sveglio e intelli-gente e l’acume disincantato

di chi ha attraversato molte generazioni, cono-sce bene il lato cinico dell’uomo, ma non haperso neanche la fede nel suo lato più nobile.

‘Umano’ si dice dell’uomo quando prova do-lore e istintiva partecipazione per le miserie al-trui, tende la mano all’altro nella difficoltà e spe-ra di arrivare insieme a un traguardo comune. Ein fondo Zygmunt Bauman, uomo solido che hateorizzato la società liquida, è stato accolto senzariserve nelle campagne dello Yorkshire inglesedopo essere sfuggito, da ebreo polacco, primaall’occupazione nazista, poi all’antisemitismostrisciante del regime comunista. Dall’inizio de-gli Anni 70 non si è mai mosso dalla sua cattedraall’università di Leeds. «A wonderful city», dicecon entusiasmo mai spento, mentre si siede discatto sulla poltrona in pelle del suo studio, ac-cendendosi con gusto la pipa.

FEDE NEL SOCIALISMO LIBERALE.A 87 anni, il sociologo che ha descritto le me-tamorfosi del capitalismo e l’esplodere dellasocietà dei consumi gira il mondo senza sostaper lezioni e conferenze. Ma le sue radici sonolì, nella culla del socialismo liberale, nel qualenon ha mai smesso di credere.

La sua casa in collina - molto british - ègrande e accogliente, piena di libri ma senzagrandi comfort. Gli oggetti sembrano esserestati piazzati sui mobili per restarci a lungo.

Per gli ospiti, Bauman prepara con cura uncaffè e un’abbondante colazione. «Si faccia ungiro in questa splendida cittadina, prima di ri-partire. Goda delle sue arti, respiri la sua cultu-ra. Qua è tanto meglio che a Londra», suggeri-sce, prima di parlare dei travagli del mondo.

LE DUE VIE PER USCIRE DALLA CRI-SI. Sulla crisi attuale, l’uomo che ha vissutomolto vede nero. Ma, da sociologo, è molto li-neare e lascia la porta aperta. «Ci sono due pos-sibilità», spiega. «O, come è già successo nellastoria, l’umanità cambia rotta e, per sopravvive-re, imbocca una strada alternativa alla crescita»oppure, se l’homo consumens non accetterà, consacrificio, di tornare indietro, «la natura prende-rà il sopravvento e sarà la guerra di tutti controtutti per la redistribuzione delle risorse».

In entrambi i casi, il processo sarà «doloro-so», soprattutto nei Paesi occidentali, dove «lostato sociale è in via di demolizione». Per Bau-man, «non è più una questione di destra o disinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.

Le insidie non mancano, a partire dal capi-talismo al tramonto, che «riserva sempre sor-prese imprevedibili», e dall’impotenza dellapolitica che, se non riacquisterà il potere diagire, non potrà traghettare i Paesi verso mo-delli più sostenibili.

DOMANDA. Eppure i politici propongo-no la via dell’austerity, per tagliare sprechie sperperi della società dei consumi.

RISPOSTA. È una soluzione a breve termi-ne, che di certo riduce la crescita e tiene moltepersone disoccupate.

D. Come fa allora a risolvere la crisi?R. Probabilmente, anche i rimedi a breve

termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, dasociologo, posso esprimermi solo in una pro-spettiva a lungo termine.

D. Per ora, cosa è arrivato a concludere?R. Primo, che la crisi era ampiamente pre-

vedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al disopra delle nostre possibilità, spendendo soldinon guadagnati. Il collasso del credito era ine-vitabile.

D. Colpa del ceto medio vorace, che, con ilboom economico, voleva accaparrarsi tutti inuovi comfort?

R. Certo che no. Le masse sono state convintea vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti,le banche hanno incamerato grandi utili. Le per-sone sono state indottrinate, è stato fatto loro illavaggio del cervello.

D. Un sistema sofisticato.R. Miracoli del capitalismo. Il punto, però,

è che adesso ci troviamo in questa situazione.In tutto il mondo, non solo nell’Occidente piùsviluppato, ma anche nelle Tigri asiatiche, inBrasile...

D. L’Europa non è messa peggio dei Paesiin via di sviluppo?

R. Questo sì. In Europa e negli Usa la contra-zione è maggiore. E in Gran Bretagna, per esem-pio, si è abusato delle carte di credito più che inItalia, ma il trend è lo stesso.

D. C’è chi parla già di ripresa, grazie allemanovre di austerity.

R. Di questo mezzo secolo di abbondanza pa-gheranno lo scotto non solo le attuali nuove ge-nerazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.

D. In cosa ha sbagliato la società liquida?R. Intanto nel non considerare che c’è un li-

mite naturale al credito. Che quello che si ottienesenza sacrificio oggi, si pagherà necessariamen-te domani.

D. E poi?R. Poi c’è un secondo aspetto che abbiamo

ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo giàconsumando il 50% in più di quanto la Terrapossa offrire.

D. Ma, con la crisi inarrestabile, i consumisi stanno contraendo.

R. Globalmente, la fame di risorse continua acrescere. Tra 50 anni avremo bisogno di cinquepianeti, per soddisfare i nostri bisogni. È unacertezza.

D. Ed è una certezza che la Terra sarà di-strutta.

R. Credevamo che la sola via per essere feliciin queste e nelle prossime vite fosse consumareil più possibile. Invece questo sistema sta di-struggendo il pianeta e le nostre esistenze indi-viduali.

D. Come se ne esce?R. Per uscirne, dovremmo necessariamente

rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discus-sione tutto quello che siamo stati abituati a pen-sare o a credere, rinunciando a molti comfort.

D. Sarà dura.R. Chi, come le nuove generazioni, non ha

mai provato una vita frugale dovrà imparare dazero un modello alternativo. Chi, come me, havissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà ria-bituarsi a minori comodità.

D. Sta dicendo di rassegnarci ad andare inpeggio?

R. Non in peggio, a cambiare mentalità. Permillenni, le generazioni hanno vissuto senza te-levisione e non stavano necessariamente peggio.

Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sa-rà - se accadrà - un processo lungo e doloroso.

LA SCONFITTA DELLA POLITICA. O UNA SOCIETÀ NUOVA

O LA GUERRA PER LE RISORSE

D. Perché dubita che accadrà, se ritienepossibile l’esistenza di società alternative?

R. Essere possibile non è essere scontato.Qualcuno dovrà necessariamente guidare que-sto percorso. La grande domanda è capire qua-le forza sarà in grado di farlo.

D. La politica non è in grado?R. I governi sono chiaramente incapaci di

farlo. Vengono eletti per quattro, cinque anni.Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscir-ci, dicono alla gente quello che vuole sentirsidire nel momento.

D. Eppure la crisi dura da cinque anni.R. E infatti la politica è impotente, non sa

che pesci prendere. Ormai la gente, per frustra-zione, vota chi non era al governo al momentodel collasso. Non è più una questione di destrao di sinistra.

D. In Italia, Mario Monti non è stato ne-anche eletto.

R. Ma la gente lo avrebbe votato egualmen-te, per reazione contro il premier precedente.In Spagna, il socialista José Luis Zapatero cad-de travolto dalla crisi, ma sarebbe accaduto lostesso al conservatore Mariano Rajoy. E se inFrancia, due anni fa, ci fosse stato monsieurFrançois Hollande, ora Nicolas Sarkozy sareb-be in carica.

D. Non è un quadro troppo sconfortante?R. Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi

governo non serva a niente. I cittadini hannoperso fiducia nell’élite al comando. E, se vuolela mia personale opinione, penso che abbianoragione.

D. Perché?R. Da un po’ ormai vado dicendo che i po-

litici non hanno più in mano gli strumenti pergovernare.

D. In che senso?R. Al momento, siamo in una fase di divor-

zio tra politica e potere. Il potere è la capacitàdi fare determinate cose, la politica è la capa-cità di decidere quali cose devono essere fatteper il Paese. Se 50 anni fa politica e potere era-no nelle mani dei governi, oggi il potere è statoglobalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O,al limite, internazionale.

D. Può fare un esempio concreto?R. Prima i politici decidevano cosa fare e,

contemporaneamente, avevano il potere di agirenel campo delle finanze e dell’economia nazio-nali. Oggi possono pensare a cosa fare, ma agireè ormai un potere fluttuante nella no man’s landglobale. Le aree locali non hanno più influenza.

D. Stati e gruppi di Stati sono quindi suc-cubi dei cosiddetti ‘poteri forti’.

R. La situazione è terribile. E fino a che noncesserà questo scollamento, nessuna soluzionea lungo termine potrà essere trovata. Questa èla mia profonda convinzione.

D. Prima parlava di rivedere gli stili di vita,costruire un modello di società alternativo.

R. Non si tratta solo di eliminare i surplusconsumistici. Ma di reimparare - o imparareda zero - a essere felici stando nella comunità,coltivare relazioni di vicinato, cooperare.

D. Non le sembra un progetto utopistico?R. Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che

tu, io, tutti noi insieme, dovremo discutere se-riamente per cambiare i nostri orizzonti, smet-tendo di spendere nei negozi. Ma, in passato, perla maggior parte della storia dell’umanità, gliuomini trovavano soddisfazione, per esempio,nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I so-ciologi lo chiamano istinto dell’uomo-artigiano.

D. E se non ci riusciremo, se non ci sarà lavolontà di tornare artigiani?

R. Allora - è la seconda possibilità - la vita sa-rà ancora più dura. La natura minaccerà la nostraesistenza. E, se anche non soccomberemo, ci sa-ranno guerre sanguinose.

D. Guerre per le risorse?R. Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in

Climate wars, a differenza del 1900, le guerrenon saranno ideologiche, ma molto materiali.Ci potrebbero essere grosse guerre per la redi-stribuzione.

D. Sopravvivenza e distruzione, entrambigli scenari sono possibili.

R. Come sociologo non sono in grado di direquale prevarrà. Personalmente, non credo tantonella prima possibilità.

LA FINE DELLO STATO SOCIALE E LA SMITIZZAZIONE DEL ‘68

D. Oltre ai consumi che le masse non pos-sono più permettersi, la crisi globale sta di-struggendo lo stato sociale.

R. Tutti i governi lo stanno smantellando,socialdemocratici e di centrodestra. Come peri premier eletti, la scomparsa dello stato socia-le non è né di destra, né di sinistra. Del resto,non lo fu neanche sua creazione.

D. Da cosa nacque lo stato sociale?R. L’idea che la comunità venisse incontro

nei momenti di difficoltà si concretizzò, inmodo particolare, dopo la terribile esperienzadella Seconda guerra mondiale.

D. Tutti ne uscirono a pezzi.R. Al di là della destra e della sinistra, si ar-

rivò alla conclusione di aver tutti bisognodell’aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche icapi. L’uno dipendeva mutualmente dall’altro.

D. Perché mai il padrone, the boss, dipen-deva dagli operai?

R. Allora il capitalismo aveva ancora biso-gno di lavoratori locali. Era interesse del bosstenere la sua potenziale forza lavoro in buonecondizioni. Buona salute, buona istruzione,buona forma. Magari anche una buona autoper andare al lavoro!

D. Ma a pagare il welfare era lo Stato.R. A maggior ragione c’era bisogno del wel-

fare. Con questo meccanismo, i capitalisti ab-battevano anche il prezzo per avere forza-la-voro attraente. La comunità pagava loro buonaparte dei costi.

D. Invece oggi?R. Oggi le aziende non hanno più bisogno

di lavoratori locali. Con la globalizzazionefanno arrivare manovalanza dall’Asia e dal-l’Africa. Oppure traslocano in Bangladesh.

D. L’industria è davvero finita in Europa?R. Togliamoci dalla testa che ritorni. I di-

soccupati europei non sono più neanche po-tenziali lavoratori. La classe operaia - e più ingenerale la classe lavoratrice dipendente - stascomparendo molto velocemente. Come nel

■ LA SCONFITTA DELLA POLITICA: O UNA SOCIETÀ NUOVA O LA GUERRA PER LE RISORSE

BAUMAN, LA FINE DELLO STATO SOCIALEE LA SMITIZZAZIONE DEL SESSANTOTO

4 ■ CRITICAsociale11-12 / 2014

1900 accadde con i contadini.D. Cosa resta nel continente?R. Lo vediamo dai danni fatti. Da decenni i

profitti non si fanno più dall’incrocio tra capi-tale e lavoro. Ma dall’incrocio tra prodotti eclienti. Occorreva tenere buoni i consumatori.

D. Come il welfare, anche le conquiste del1968 sono polverizzate dalla crisi.

R. Da un punto di vista sociologico, rivalutatoa posteriori, il movimento del ‘68 coincise conl’entrata dei cittadini nella società dei consumi.Fu questa la sua conseguenza più duratura.

D. Non le considera conquiste?R. Il ‘68 fu una rivoluzione culturale, non

c’è dubbio. E di certo, gli studenti che scende-vano in strada volevano tutto, tranne che sdo-ganare la società dei consumi.

D. Ma?R. Ma, volenti o nolenti, la conseguenza fu

quella. Dall’austerità del dopoguerra emerseuna nuova generazione che voleva godersi lavita, semplicemente.

D. È un paradosso.R. Eppure è così. I sessantottini erano con-

sumatori di mercato, pronti a cogliere le occa-sioni che si presentavano. Volevano divertirsi.Vestirsi alla moda. Crearsi identità diverse dal-le precedenti. Essere liberi di provare piaceritemporanei. Alla lunga, anche gli iPhone sonouna conseguenza del ‘68.

D. Anche l’amore liquido è una conse-guenza del ‘68.

R. Gli appuntamenti su Internet, gli incontridi una notte («one night stand»)... Tutto è unaconseguenza. È facile: ti diverti, poi premi ilbottone delete, cancella. E tutto sparisce.

D. Nell’attimo, però, la soddisfazione èmaggiore. Si conoscono più partner, si accu-mulano esperienze di vita.

R. Sì, ma il punto è che, nel tempo, ciò chedà soddisfazione è innanzitutto collezionareesperienze su esperienze. Una volta ottenutol’oggetto del desiderio lo si getta via, per otte-nerne subito un altro.

D. Il mio iPhone, però, non è l’ultimo mo-dello. E l’ho preso pure usato.

R. Stia tranquilla che, presto, anche lei lo get-terà nel sacco della spazzatura, per averne unonuovo.

L’ETICA COMMERCIALIZZATA E LA VITALITÀ DEL CAPITALISMO

D. Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20anni fa, lei guardava all’etica post-modernacome a un salto di qualità. La società liquidanon era tutta da buttare.

R. Avevo, ahimè, sottovalutato l’ingegnositàdel marketing capitalista. Pensavo che, dopo se-coli di società solida, dove la moralità si identi-ficava con il conformismo, fosse finita l’eticadell’obbedienza ai codici prestabili e iniziassel’epoca dell’agire morale individuale. Un agireautentico e libero, dettato dalla responsabilitàdelle proprie scelte.

D. Perché non è andata così?R. Nell’era dei consumi, anche l’etica e la

moralità sono state commercializzate. Inun’epoca dove sei rintracciabile ovunque e,pena il licenziamento, devi fare gli straordinariper il tuo capo, ti senti molto in colpa, per nonessere un partner presente, un buon padre o

una buona madre.D. E allora?R. Allora arrivano in soccorso i negozi. Con

i regali cerchi di compensare i bisogni dellatua famiglia. Come un prozac, sedano il tuoinappagato impulso morale.

D. Ma non risolvono i problemi.R. Affatto. Scambiando i regali come tran-

quillanti, non sentirai mai che le relazioni umanevanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cerche-rai più la guarigione e diventerai patologico.

D. Parla della situazione attuale?R. Riducendo gli scrupoli morali ed evitan-

do di affrontare i problemi, siamo arrivati dovesiamo arrivati.

D. Eppure lei ha vissuto tempi peggiori:la guerra, i regimi, la discriminazione. Èdavvero così doloroso vivere oggi? E doma-ni sarà davvero così difficile?

R. È sbagliato pensare alla società liquida,come a una società leggera e superficiale. Nonha senso comparare i livelli di felicità di epo-che e generazioni diverse.

D. Perché?R. Perché si confrontano astrazioni diverse.

Per sentire la mancanza di qualcosa, devi primaprovarne l’esperienza. Si può dire che ogni tem-po abbia le proprie gioie e le proprie afflizioni.Ma non che oggi un giovane rimasto senza Fa-cebook soffra meno che a vivere nel Medioevo.

D. Qual è lo scoglio più duro della crisi at-tuale?

R. La deprivazione; Quattro anni fa non sareb-be stato neanche immaginabile perdere la capa-cità di comprare una casa, di chiedere prestiti...

D. Persino non potersi permettere un’auto.

R. Eppure sarà così. Tornare allo stile di vita«happy & lucky» (felice e fortunato) del ‘68,o anche solo di un anno fa, sarà impossibile.

D. Se per l’etica era stato fiducioso, ades-so lo è meno.

R. Se è per questo, come tanti ero stato an-che troppo ottimista sul capitalismo.

D. Con il crollo dei consumi morirà il ca-pitalismo?

R. Chissà. In passato molti hanno profetiz-zato la sua fine. Invece, visto che non siamoprofeti, quando stava per morire il capitalismoè sempre risorto.

D. Come ha fatto?R. Trovando strade inedite e sorprendenti,

per fare profitti.D. Anche il capitalismo è liquido?R. Quanto meno flessibile e dotato di gran-

de inventiva. È riuscito a trasformare la genteche aveva abitudine a risparmiare, in gente chespende denaro senza riserve. Un miracolo.

D. Ora anche il business del credito peròsembra arrivato al capolinea.

R. Il capitalismo è in seria difficoltà e sem-bra assai improbabile che possa sopravvivere.L’ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai ilProdotto interno lordo si regge su un’econo-mia illusoria e intangibile, disconnessa daiproblemi genuini della gente, che fa profittisolo spostando moneta.

D. Business virtuale.R. Business per pochi. I soldi si muovono

dalle tasche di un grande azionista verso le ta-sche di un altro grande azionista. Capace peròdi fare miracoli. s

Barbara Ciolli

Alain De Benoist

I l gennaio 1905, il «regolamento»della Sezione francese dell’Inter-nazionale operaia (SFIO) – il

partito socialista dell’epoca – indicava ancoraquest’ultima come un «partito della classe ope-raia che si prefigge di socializzare i mezzi diproduzione e scambio, ossia di trasformare lasocietà capitalistica in società collettivista o co-munista, attraverso l’organizzazione economi-ca e politica del proletariato». Beninteso, nes-sun partito «socialista» oserebbe oggi dire unacosa del genere, essendo i socialisti diventatisocialdemocratici o social-liberali.

Che oggi la «sinistra», nella sua quasi totalità,sia divenuta riformista, che abbia aderito al-l’economia di mercato, che si sia progressiva-mente separata dai lavoratori e dalle classi po-polari, non è certo una rivelazione. Lo spettacolodella vita politica ne è una ininterrotta dimostra-zione. Per questo, ad esempio, le grida della si-nistra sono così deboli nella grande tormenta fi-nanziaria mondiale attuale: semplicemente, essanon è disposta più della destra a prendere le mi-sure che permetterebbero di intraprendere unavera guerra contro l’influenza planetaria dellaForma-Capitale. Come osserva Serge Salimi,«la sinistra riformista si distingue dai conserva-tori per il tempo di una campagna elettorale gra-zie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l’oc-casione, si adopera a governare come i suoi av-versari, a non disturbare l’ordine economico, aproteggere l’argenteria della gente del castello».

La domanda che si pone è: perché? Qualisono le cause di questa deriva? La si può spie-

gare unicamente con l’opportunismo dei sin-goli, ex rivoluzionari divenuti notabili? Biso-gna vedervi una lontana conseguenza dell’av-vento del sistema fordista? Un effetto dellacongiuntura storica, cioè del crollo del bloccosovietico che ha annientato l’idea di una cre-dibile alternativa al sistema di mercato? 

Ne Le complexe d’Orphée, il suo ultimo li-bro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una ri-sposta più originale e anche più profonda: la si-nistra si è separata dal popolo perché ha aderitomolto presto all’ideologia del progresso, checontraddice nettamente tutti i valori popolari. 

Fondamentalmente orientata verso l’avvenire,la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza lenozioni di «tradizione», «consuetudine», «radi-camento», vedendovi solo superstizioni superatee ostacoli alla trionfale marcia in avanti del pro-gresso. Tendendo all’unificazione del genereumano e contemporaneamente all’avvento di ununiverso «liquido» (Zygmunt Bauman), la teoriadel progresso implica il ripudio di ogni forma diappartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la di-struzione sistematica della base organica e sim-bolica delle solidarietà tradizionali (come fecein Inghilterra il celebre movimento delle enclo-sures, che costrinse all’esodo migliaia di conta-dini privati dei loro diritti consuetudinari, perconvertirli in manodopera proletaria sradicata edunque sfruttabile a volontà nelle manifatture enelle fabbriche ). In un’ottica «progressista»,ogni giudizio positivo sul mondo così com’erauna volta rientra dunque necessariamente nel-l’ambito di un passatismo «nostalgico»: «Tutticoloro i quali – ontologicamente incapaci di am-mettere che i tempi cambiano – manifesteranno,

in qualunque campo, un qualsiasi attaccamento(o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esistevaancora ieri tradiranno così un inquietante “con-servatorismo” o addirittura, per i più empi tra lo-ro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”».Il mondo nuovo deve essere necessariamenteedificato sulle rovine del mondo di prima. Poi-ché la liquidazione delle radici forma la base delprogramma, se ne deduce che «solo gli sradicatipossono accedere alla libertà intellettuale e po-litica» (Christopher Lasch). 

Questa è la rappresentazione del mondo che,nel XVIII secolo, ha accompagnato l’ascesa so-ciale della borghesia e, con essa, la diffusionedei valori mercantili. Atteggiamento modernocorrispondente a un universalismo astratto nelquale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione,il «regno idealizzato della borghesia». (AncheSorel, a suo tempo, aveva sottolineato il carat-tere profondamente borghese dell’ideologia delprogresso). Ma anche antico comportamentomonoteista che scaglia l’anatema contro le realtàparticolari in nome dell’iconoclastia del concet-to, vecchio atteggiamento platonico che discre-dita il mondo sensibile in nome delle idee pure.

La teoria del progresso è direttamente asso-ciata all’ideologia liberale. Il progetto liberalenasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla fi-nita con le guerre civili e di religione, rifiutandoal contempo l’assolutismo, ritenuto incompati-bile con la libertà individuale. Dopo le guerre direligione, i liberali hanno creduto che si potesseevitare la guerra civile solo smettendo di appel-larsi a valori morali condivisi. Erano favorevolia uno Stato che, per quanto riguardava la «vitabuona», fosse neutro. 

Poiché la società non poteva più essere fon-data sulla virtù, il buon senso o il bene comune,la morale doveva restare un affare privato (prin-cipio di neutralità assiologia). L’idea generaleera che si poteva fondare la società civile solosull’esclusione di principio di ogni riferimentoa valori comuni – il che equivaleva, in compen-so, a legittimare qualunque desiderio o capriccioche fosse oggetto di una scelta «privata». 

Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Mi-chéa, ha prodotto due cose: «Da un lato, loStato di diritto, ufficialmente neutro sul pianodei valori morali e “ideologici”, e la cui unicafunzione è di badare che la libertà degli uninon nuoccia a quella degli altri (una Costitu-zione liberale ha la stessa struttura metafisicadel codice della strada). Dall’altro, il mercatoauto-regolatore, che si presume permetta a cia-scuno di accordarsi pacificamente con i suoisimili sull’unica base dell’interesse ben com-preso delle parti interessate». 

■ UN SAGGIO PROVOCATORIO SULL’ULTIMO LIBRO DI JEAN-CLAUDE MICHÉA

SOCIALISMO, NÈ SINISTRA NÈ DESTRA

CRITICAsociale ■ 511-12 / 2014

Lo Stato di diritto «assiologicamente neutro»è in effetti una doppia illusione. In primo luogo,la sua neutralità è completamente relativa: nellavita reale, i liberali affermano i loro principi e iloro valori con altrettanta forza degli antiliberali.Inoltre, la neutralità in materia di valori (la teoriasecondo la quale lo Stato non deve pronunciarsisulla questione della «vita buona», perché ciò loindurrebbe a discriminare tra i cittadini) sfociain pratica in contraddizioni insolubili, come di-mostra la teoria dei diritti dell’uomo, che pro-clama diritti contraddittori, dato che alcuni di es-si possono essere applicati solo a condizione diignorarne o violarne altri. Queste contraddizionisono costantemente sottoposte a procedure giu-diziarie, ma non possono essere risolte in ma-niera puramente tecnica o procedurale. 

La dicotomia destra-sinistra viene spessofatta risalire alla Rivoluzione francese, dimen-ticando in tal modo che essa è davvero piena-mente entrata nel discorso pubblico solo allafine del XIX secolo. Alla vigilia della Rivolu-zione, lo spartiacque principale non oppone la«destra» e la «sinistra», ma un’aristocraziafondiaria dotata di potere politico e una bor-ghesia mercantile acquisita alle idee liberali.Nessuno, in quell’epoca, difende veramente ilpopolo. Retrospettivamente, il libro di Michéaspiega d’altronde anche l’ambiguità della Ri-voluzione francese: rivoluzione borghese, mafatta in nome del «terzo stato» (e soprattuttodella «nazione»), ispirata al contempo alleidee di Rousseau e del liberalismo dei Lumi,«progressista» con Condorcet, m affascinatadal’Antichità con Robespierre o Saint-Just. 

Durante tutta la prima parte del XIX secolo,sono appunto i liberali a formare il cuore della«sinistra» parlamentare dell’epoca (il che spie-ga il senso che ha conservato oggi negli StatiUniti la parola liberal). I liberali riprendonoquell’idea fondamentalmente moderna consi-stente nel vedere nello «sradicamento dalla na-tura e dalla tradizione il gesto emancipatore pereccellenza e l’unica via d’accesso a una società“universale” e “cosmopolita». Benjamin Con-stant, per citare solo lui, è il primo a celebrarequella disposizione della «natura umana» cheinduce a «immolare il presente all’avvenire». 

Mentre la III Repubblica vede la borghesiaassumere a poco a poco l’eredità della rivolu-zione del 1789, il movimento socialista si strut-tura in associazioni e partiti. Ricordiamo che laparola «socialismo» appare solo verso il 1830,in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen,nel momento in cui il capitalismo si afferma co-me forza dominante. Il diritto di sciopero è ri-conosciuto nel 1864, lo stesso anno della fon-dazione della I Internazionale. Orbene, i primisocialisti, la cui base sociale si torva soprattuttotra gli operai di mestiere, non si presentano af-fatto come uomini «di sinistra». Michéa ricor-da, d’altronde, che «il socialismo non era, inorigine, né di sinistra né di destra»  e che nonsarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Prou-dhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uo-mini «di sinistra». A parte i «radicali», la «sini-stra», all’epoca, non designa niente. 

In origine, il movimento socialista si pone,in effetti, come forza indipendente, sia nei con-fronti della borghesia conservatrice e dei «rea-zionari» che dei «repubblicani» e di altre forzedi «sinistra». Ovviamente, si oppone ai privi-legi di caste legate alle gerarchie dell’AncienRégime – privilegi conservati in altra formadalla borghesia liberale – ma si oppone ugual-mente all’individualismo dei Lumi, ereditatodall’economia politica inglese, con la sua apo-logia dei valori mercantili, già così ben criticatida Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia leidee della sinistra «progressista» e comprendebene che i valori di «progresso» esaltati dallasinistra sono anche quelli cui si richiama la bor-ghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà,

lotta, al contempo, contro la destra monarchicae clericale, contro il capitalismo borghese,sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sini-stra» progressista erede dei Lumi. Si è così inun gioco a tre, molto differente dallo spartiac-que destra-sinistra che si imporrà all’indomanidella Prima Guerra mondiale. 

È, d’altronde, contro il riformismo e il parla-mentarismo della «sinistra» che il socialismoproudhoniano o il sindacalismo rivoluzionariosoreliano oppongono allora l’ideale del mutua-lismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontàrivoluzionaria all’opera nell’«azione diretta» –ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebreCarta di Amiens della CGT. 

I primi socialisti non erano nemmeno avver-sari del passato. Più esattamente, distinguevanomolto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rien-trava nell’ambito del principio di dominazionegerarchica, da essi rifiutato, e ciò che dipendevadal principio «comunitario» (la Gemeinwesendi Marx) e dai valori tradizionali, morali e cul-turali che lo sottendevano. «Per i primi socialisti,era chiaro che una società nella quale gli indivi-dui non avessero avuto più niente altro in comu-ne che la loro attitudine razionale a concludereaccordi interessati non poteva costituire una co-munità degna di questo nome». Proprio per que-sto, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici so-cialisti, affermava non soltanto che «la societànon è il risultato di un contratto», ma che, «lungidall’essere indipendente da ogni società e daogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tra-dizione e dalla società». 

Per il popolo, il passato non era soltanto ciòche gli permetteva di inscriversi in una filiazionee in una continuità storiche particolari, ma ciòche gli permetteva di giudicare il valore delle in-novazioni che gli venivano proposte. Da questopunto di vista, la «tradizione» era più una pro-tezione che una costrizione. In passato, molte ri-volte popolari avevano già trovato la loro origi-ne in una volontà chiaramente manifestata di di-fendere le consuetudini e le tradizioni popolaricontro la Chiesa, la borghesia o i principi. Il mo-tivo di ciò è che sono le consuetudini, le tradi-zioni, le forme particolari della vita locale, ossiale comunità radicate, a permettere da semprel’emersione di un mondo comune e a costituire,ugualmente da sempre, il quadro nel quale «pos-sono dispiegarsi le strutture elementari della re-ciprocità e dunque, ugualmente, le condizioniantropologiche dei differenti processi etici e po-litici che permetteranno eventualmente di esten-derne il principio fondamentale ad altri gruppiumani, se non addirittura all’intera umanità». 

Questo sguardo sul passato non contraddicevaaffatto l’internazionalismo o il senso dell’uni-versale. I primi socialisti erano perfettamentecoscienti che è «sempre a partire da una tradi-zione culturale particolare che appare possibileaccedere a valori veramente universali»  e che«in pratica, l’universale non può mai essere co-struito sulla rovina dei radicamenti particolari».Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Tor-ga, essi pensavano che «l’universale è il locale,meno le mura». «Dal momento che solo chi èeffettivamente legato alla sua comunità d’origi-ne – alla sua geografia, alla sua storia, alla suacultura, ai suoi modi di vivere – è realmente ingrado di comprendere coloro che provano unsentimento paragonabile nei confronti della pro-pria comunità», scrive ancora Michéa, «possia-mo concluderne che il vero sentimento naziona-le (di cui l’amore della lingua è una componenteessenziale) non soltanto non contraddice ma, alcontrario, tende generalmente a favorire quellosviluppo dello spirito internazionalista che èsempre stato uno dei motori principali del pro-getto socialista». 

Come il patriottismo non deve essere confusocon il nazionalismo (di destra»), così l’interna-zionalismo non deve essere confuso con il co-

smopolitismo (di «sinistra»). Poiché l’abbando-no o l’oblio della propria cultura rendono inca-paci di comprendere l’attaccamento degli altrialla loro, il risultato dell’universalismo astrattonon è il regno del Bene universale, ma la realiz-zazione di un «universo ipnotico, glaciale e uni-formato» il cui soggetto è quell’essere narcisi-stico pre-edipico, immaturo e capriccioso che èil consumatore contemporaneo. 

In Francia, l’alleanza storica tra il socialismo(influenzato prima dalla socialdemocrazia tede-sca e poi dal marxismo) e la «sinistra» progres-sista si instaura all’epoca dell’affare Dreyfus(1894). Svolta profondamente negativa. Natodalla preoccupazione di una «difesa repubblica-na» contro la destra monarchica, clericale o na-zionalista, si delinea un compromesso che par-torirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicaniprogressisti». Si crea allora una confusione traciò che è emancipatore e ciò che è moderno, idue termini essendo a torto ritenuti sinonimi. 

È in questo momento, scrive Michéa, che ilmovimento socialista è stato «progressivamenteindotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavora-tori contro il dominio borghese e capitalistaquella che avrebbe presto opposto – in nome del“progresso” e della “modernità – un “popolo disinistra” e un “popolo di destra” (e, in questanuova ottica, era evidentemente scontato che unoperaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infi-nitamente più vicino a un banchiere di sinistra oa un dirigente di sinistra del FMI che a un ope-raio, a un contadino o a un impiegato che davai suoi voti alla destra)». Questo compromessoha assunto due aspetti: «Da un lato, ha portatoad ancorare il liberalismo – motore principaledella filosofia del Lumi – nel campo delle “forzedi progresso” […] Dall’altro, ha contribuito arendere in anticipo illeggibile l’originaria criticasocialista, poiché quest’ultima sarebbe nata ap-punto da una rivolta contro la disumanità del-l’industrializzazione liberale e l’ingiustizia delsuo diritto astratto». 

Allora – e soltanto allora – la causa del po-polo ha cominciato a divenire sinonimo diquella di progresso, all’insegna di una «sini-stra» che voleva essere anzitutto il «partito del-l’avvenire» (contro il passato) e l’annunciatricedei «domani che cantano», ossia della moder-nità in marcia. Soltanto allora si è reso neces-sario, quando ci si voleva situare «a sinistra»,ostentare un «disprezzo di principio per tuttociò che aveva ancora il marchio infamante di“ieri” (il mondo tenebroso del paese d’origine,delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiega-mento su se stessi” o degli attaccamenti “irra-zionali” a esseri e luoghi)». Il movimento so-cialista, e poi comunista, riprenderà dunque perproprio conto l’ideale «progressista» del pro-duttivismo ad oltranza, di quel progetto indu-striale e iperurbano che ha completato lo sra-dicamento delle classi popolari, rendendole an-cora più vulnerabili all’influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’idealeabbia ricevuto una migliore accoglienza tra glioperai già sradicati che tra i contadini). 

D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bi-sognava credere alla promessa di una marcia inavanti dell’umanità verso un universo radical-mente nuovo, governato soltanto dalle leggi uni-versali della ragione. Per essere «di sinistra», bi-sognava classificarsi tra coloro che, per princi-pio, rifiutano di guardare indietro, così come fuintimato a Orfeo. (Di qui il titolo del libro di Je-an-Claude Michéa: disceso nel regno dei morticon la speranza di ritrovare Euridice e di ripor-tarla nel mondo dei vivi, Orfeo si vede proibireda Ade di voltarsi indietro, altrimenti perderà persempre la sua bella. Beninteso, egli violerà al-l’ultimo momento questa proibizione). A questaderiva, in cui vede a giusta ragione un’impostu-ra, si oppone Michéa con una fermezza pari alsuo talento. 

Separato dalle sue radici, il movimento ope-raio è stato nello stesso tempo privato delle con-dizioni e dei mezzi della sua autonomia. Comeaveva ben visto George Orwell, la religione delprogresso priva infatti l’uomo della sua autono-mia nel momento stesso in cui pretende di ga-rantirla emancipandolo dal passato. Orbene, sot-tolinea Michéa, «dal momento in cui un indivi-duo (o una collettività) è stato spossessato deimezzi della sua autonomia, non può più perse-verare nel suo essere se non ricorrendo a protesiartificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o“alienata”) che il consumo, la moda e lo spetta-colo hanno il compito di offrire a titolo di com-pensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenzaè stata così mutilata». 

Poiché la sinistra si considera innovatrice, ilcapitalismo sarà nello stesso tempo denunciatocome «conservatore». Altra deriva fatale, perchéla Forma-Capitale è tutto tranne che conserva-trice! Marx aveva già mostrato bene il carattereintrinsecamente «progressista» del capitalismo,cui riconosceva il merito di aver soppresso ilfeudalesimo e annegato tutti gli antichi valorinelle «gelide acque del calcolo egoistico». Aquesto tratto fondante se ne aggiunge un altro,tipico delle forme moderne di questo stesso ca-pitalismo. «Una economia di mercato integra-le», spiega Michéa, «può funzionare durevol-mente solo se la maggior parte degli individuiha interiorizzato una cultura della moda, delconsumo e della crescita illimitata, cultura ne-cessariamente fondata sulla perpetua celebrazio-ne della giovinezza, del capriccio individuale edel godimento immediato […] Dunque, è pro-prio il liberalismo culturale (e non il rigorismomorale o l’austerità religiosa) a costituire il com-plemento psicologico e morale più efficace diun capitalismo di consumo». Ora, diventando«di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche iprincipi del liberalismo culturale. La sinistra«permissiva» è così divenuta il naturale humusdi espansione della Forma-Capitale. È il capita-lismo che permette meglio di «godere senzaostacoli»! 

Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», sitroveranno dunque associate, in una permanenteambiguità, due cose totalmente differenti: da unaparte, la giusta protesta morale della classe ope-raia contro la borghesia capitalista, e, dall’altra,la credenza liberale borghese in una teoria delprogresso la quale afferma, in linea di massima,che «prima» non ha potuto che essere peggioree che «domani» sarà necessariamente migliore.In effetti, il movimento socialista è veramentedegenerato dal momento in cui è divenuto «pro-gressista», ossia a partire dal momento in cui haaderito alla teoria (o alla religione) del progresso– cioè alla metafisica dell’illimitato – che costi-tuisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunquedella filosofia liberale. Essendo la teoria del pro-gresso intrinsecamente legata al liberalismo, la«sinistra», diventando «progressista», si condan-nava a confluire un giorno o l’altro nel campoliberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismoculturale annunciava già il capovolgimento nelliberalismo economico. L’ultimo bastione a ce-dere è stato il partito comunista, che ha progres-sivamente smesso di svolgere il ruolo che inpassato ne aveva decretato il successo: fornire«alla classe operaia e alle altre categorie popo-lari un linguaggio politico che permettesse lorodi vivere la loro condizione con una certa fie-rezza e di dare un senso al mondo che avevanosotto gli occhi». 

Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe,beninteso, essere detto della destra, con una di-mostrazione inversa: la sinistra ha aderito al li-beralismo economico perché era già acquisitaall’idea di progresso e al liberalismo «societale»,mentre la destra ha aderito al liberalismo dei co-stumi perché ha prima adottato il liberalismoeconomico. È, infatti, completamente illusorio

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credere che si possa essere durevolmente liberalisul piano politico o «societale» senza finire coldiventarlo anche sul piano economico (comecrede la maggioranza delle persone di sinistra)o che si possa essere durevolmente liberali sulpiano economico senza finire col diventarlo an-che sul piano politico o «societale» (come credela maggioranza delle persone di destra). In altritermini, c’è un’unità profonda del liberalismo.Il liberalismo forma un tutto. Alla stupidità dellepersone di sinistra che ritengono possibile com-battere il capitalismo in nome del «progresso»,corrisponde l’imbecillità delle persone di destrache ritengono possibile difendere al contempo i«valori tradizionali» e un’economia di mercatoche non smette di distruggerli: «Il liberalismoeconomico integrale (ufficialmente difeso dalladestra) reca in sé la rivoluzione permanente deicostumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), pro-prio come quest’ultima esige, a sua volta, la li-berazione totale del mercato». Ciò spiega chedestra e sinistra confluiscano oggi nell’ideologiadei diritti dell’uomo, il culto della crescita infi-nita, la venerazione dello scambio mercantile eil desiderio sfrenato di profitti. Il che ha almenoil merito di chiarire le cose. 

La sinistra si è molto presto convinta che laglobalizzazione del capitale rappresentava unaevoluzione ineluttabile e un avvenire insupera-bile, con la politica che, nello stesso tempo, siadattava alla globalizzazione economica e finan-ziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sini-stra ne è stata la conseguenza più clamorosa. 

Il Club Jean Moulin aveva aperto la strada ne-gli anni sessanta. La «seconda sinistra» rocar-diana negli anni settanta, la Fondazione Saint-Simon negli anni ottanta hanno approfondito labreccia attraverso la quale la sinistra ha comin-ciato a puntare sulla «società civile» contro loStato e a confluire nel modello del mercato. Nel-la stessa epoca, il liberalismo culturale trionfa,il che si traduce in uno spostamento dei dibattitipolitici verso le poste in gioco della società everso nuovi gruppi sociali in via di autonomiz-zazione (donne, immigrati, omosessuali, ecc.).Infine, il denaro si impone come equivalenteuniversale nell’ambito dei valori. «Il vincitore»,ha osservato Jacques Julliard, «fu Alain Minc[…] il quale aveva compreso che, assumendo leidee della seconda sinistra, si poteva fare unbuonissimo deal con il neocapitalismo che si sta-va imponendo». 

È emersa così una sinistra «i cui dogmi sonol’antirazzismo, l’odio dei limiti, il disprezzo delpopolo e l’elogio obbligatorio dello sradicamen-to». È così che l’immaginario della «sinistra mo-derna» – simboleggiata in Francia da Le Monde,Libération, Les Inrockuptibles e altri insigni rap-presentanti del «circolo della ragione» ideologi-camente dominante – è arrivato a confondersicon quelli dei padroni della BCE e del Fondomonetario internazionale. Ed è altresì per questoche «dietro la convinzione un tempo emancipa-trice che non si arresta il progresso, [è diventato]sempre più difficile ascoltare qualcosa di diversodall’idea, attualmente dominante, secondo laquale non si arrestano il capitalismo e la globa-lizzazione». Ormai, la sinistra celebra la crescita,ossia la produzione di merci all’infinito, neglistessi termini dei liberali. Là dove gli uni parlanodi «deterritorializzazione» (alla maniera di De-leuze-Guattari o di Antonio Negri), gli altri par-lano di «delocalizzazioni». Per quanto concernel’immigrazione, esercito di riserva del capitale,la sinistra «moderna» usa lo stesso linguaggiodi Laurence Parisot («meticciato» e «nomadi-smo» trasformati in norme). Influenzata da co-loro che hanno «distrutto il socialismo conver-tendolo nell’individualismo dei diritti universalie del liberalismo integrale» (Hervé Juvin), il ne-mico non è più il capitalismo che sfrutta il lavorovivo degli uomini, ma il «reazionario» che ha iltorto di rimpiangere il passato. 

«È dunque normale», prosegue Michéa, «chela sinistra “civica” (quella che ha rotto con ognisensibilità popolare e socialista) appaia oggi co-me il luogo politico privilegiato dove sono ela-borate tutte le trasformazioni giuridiche e di ci-viltà richieste dal mercato mondiale. Insomma,essa non è altro che il pesce-pilota del capitali-smo senza frontiere o, se si preferisce, l’avan-guardia culturale militante della destra liberale».

I «valori» della sinistra non sono più valorisocialisti, ma valori «progressisti»: immigrazio-nismo, apertura o soppressione delle frontiere,difesa del matrimonio omosessuale, depenaliz-zazione di certe droghe, ecc., tutte opzioni conle quali la classe operaia è in completo disaccor-do o di cui si disinteressa totalmente. Per la si-nistra «moderna», che realizza l’alleanza deifunzionari, delle classi borghesi superiori, degliimmigrati e dei radical chic, «rifiutare l’oscuraeredità del passato (che, a priori, non può nonrichiamare atteggiamenti di “pentimento”),combattere tutti i sintomi della febbre “identita-ria” (ossia, in altri termini, tutti i segni di unavita collettiva radicata in una cultura particolare)e celebrare all’infinito la trasgressione di tutti ilimiti morali e culturali tramandati dalle prece-denti generazioni (il regno compiuto dell’uni-versale liberale-paolino dovendo coincidere, perdefinizione, con quello dell’indifferenziazione edell’illimitatezza assolute) è tutt’uno». Non siparla più del capitalismo o della lotta di classe,e ovviamente di quella anticaglia della rivolu-zione. Persino il partito comunista ha quasi sop-presso la parola «socialismo» dal suo vocabola-rio. Avendo perduto la sua identità ideologica,non è più in grado di influenzare la corrente so-cialdemocratica da cui dipende elettoralmente. 

Poiché l’obiettivo non è più lottare contro ilcapitalismo, ma combattere tutte le forme dipreoccupazione identitaria, regolarmente de-scritte come il risorgere di una mentalità rea-zionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Je-an_Claude Michéa, «che il “migrante” sia pro-gressivamente divenuto la figura redentricecentrale di tutte le costruzioni ideologiche del-la nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaicoproletario, sempre sospetto di non essere ab-bastanza indifferente alla sua comunità origi-naria o, a più forte ragione, il contadino, cheil suo legame costitutivo con la terra destinavaa diventare la figura più disprezzata – e più de-risa – della cultura capitalistica». La sinistracerca dunque un «popolo di ricambio». Lafondazione Terra Nova, fondata nel 2008 dapersone vicine a Dominique Strauss-Kahn epresieduta dal socialista Olivier Ferrand, si èresa celebre pubblicando, nel maggio 2011, unrapporto che suggerisce al partito socialista dirifondare la sua base elettorale su un’alleanzatra le classi agiate e le «minoranze» delle pe-riferie, abbandonando operai e impiegati ai lo-ro «valori di destra» (critica dell’immigrazio-ne, protezionismo economico e sociale, pro-mozione di norme forti e di valori morali, lottacontro l’assistenzialismo, ecc.). Il testo delrapporto è molto chiaro: «Contrariamente al-l’elettorato storico della sinistra, coalizzatodalle poste in gioco socio-economiche, questaFrancia di domani è unificata anzitutto dai suoivalori culturali progressisti». «Tra i due per-denti della globalizzazione – gli immigratighettizzati e i modesti salariati minacciati – lasinistra in stile Terra Nova sostiene ormai i pri-mi a scapito dei secondi». 

Non è quindi sorprendente che il popolo sidistolga da una sinistra affascinata più dal peo-ple e dalla «plebaglia» che dai lavoratori, chesi dichiara per la globalizzazione, sebbene que-st’ultima sia anzitutto quella del capitale, si in-teressa più alle iniziative «civiche» che alle tra-sformazioni strutturali, alla società protettivadel care più che alla giustizia sociale, alla vitaassociativa più che alla politica, allo spettacolo

mediatico più che alla sovranità del popolo, alconsenso sociale più che alla lotta di classe – e,come i liberali, concepisce l’interesse generalesolo come semplice somma degli interessi par-ticolari. Il popolo non si riconosce più in una si-nistra che ha sostituito l’anticapitalismo con unsimulacro di «antifascismo», il socialismo conl’individualismo radical chic e l’internazionali-smo con il cosmopolitismo o l’«immigrazioni-smo», prova solo disprezzo per i valori autenti-camente popolari, cade nel ridicolo celebrandoal contempo il «meticciato» e la «diversità» , sisfinisce in pratiche «civiche» e in lotte «controtutte le discriminazioni» (con la notevole ecce-zione, beninteso, delle discriminazioni di clas-se) a solo vantaggio delle banche, del Lumpen-proletariat e di tutta una serie di marginali. 

Non è sorprendente nemmeno che il popolo,così deluso, si volga frequentemente verso mo-vimenti descritti con disprezzo come «populisti»(uso peggiorativo che manifesta un evidenteodio di classe). Citiamo ancora Michéa: «Tra larappresentazione colpevolizzante della societàormai imposta dalla sociologia ufficiale (una mi-noranza di esclusi, relegati nei “ghetti etnici”,sottomessi a tutte le persecuzioni possibili e ac-cerchiati da una Francia “di villette” che si pre-sume appartenere alle classi medie) e l’oscurarealtà vissuta da queste categorie popolari, alcontempo maggioritarie e dimenticate, la distan-za è divenuta assolutamente surreale. Il risultatoè che le principali vittime degli aspetti nocividella globalizzazione non trovano più nel lin-guaggio politicamente corretto della sinistra mo-derna la minima possibilità di tradurre la loroesperienza vissuta». «Minando alla base ognipossibilità di legittimare un qualunque giudiziomorale (e, di conseguenza, rifiutando simulta-neamente di comprendere l’uso popolare dellenozioni di merito e responsabilità individuale),la sinistra progressista si condanna inesorabil-mente a consegnare ai suoi nemici di destra in-teri pezzi di quelle classi popolari che, a modoloro, non domandano altro che di vivere onesta-mente in una società decente […] In realtà, èproprio la stessa sinistra ad aver scelto, verso lafine degli anni settanta, di abbandonare al lorodestino le categorie sociali più modeste e sfrut-tate, volendo ormai essere “realista” e “moder-na”, ossia rinunciando in anticipo a ogni criticaradicale del movimento storico che, da oltretrent’anni, seppellisce l’umanità sotto un “im-menso accumulo di merci” (Marx) e trasformala natura in deserto di cemento e acciaio». 

Georges Sorel diceva che «il sublime è mor-to nella borghesia, che è dunque condannata anon avere più una morale». Anche Michéaparla di morale. Ma qui non si tratta del «su-blime», bensì della decenza comune (commondecency) tanto spesso celebrata da Orwell. 

«È morale», diceva Emile Durkheim, «tuttociò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che co-stringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a re-golare i propri movimenti su qualcosa di diver-so dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciòspiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta deiprimi socialisti contro un mondo fondato sulsolo calcolo egoistico sia stata così spesso so-stenuta da una esperienza morale». Si pensi al-la «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale so-ciale» di cui parlava Benoît Malon. La «decen-za comune», che è mille miglia lontana da ogniforma di ordine morale o di puritanesimo mo-ralizzatore, è infatti uno dei tratti principali del-la «gente normale» ed è nel popolo che la sitrova più comunemente diffusa. Essa implicala generosità, il senso dell’onore, la solidarietàed è all’opera nella triplice obbligazione di«dare, ricevere e restituire» che per MarcelMauss era il fondamento del dono e del con-trodono. A partire da essa, si è espressa in pas-sato la protesta contro l’ingiustizia sociale, per-ché permetteva di percepire l’immoralità di un

mondo fondato esclusivamente sul calcolo in-teressato e la trasgressione permanente di tuttii limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta contutta la sua forza contro quella sinistra «moder-na» di cui un Dominique Strass-Kahn è il sim-bolo e nella quale non si riconosce più. «Daquesto punto di vista», scrive Michéa, «il pro-getto socialista (o, se si preferisce l’altro termi-ne utilizzato da Orwell, quello di una societàdecente) appare proprio come una continuazio-ne della morale con altri mezzi». 

Come si è capito, Michéa non critica la sini-stra da un punto di vista di destra – e ce ne ral-legriamo – bensì in nome dei valori fondanti delsocialismo delle origini e del movimento opera-io. Tutta la sua opera si presenta, d’altronde, co-me uno sforzo per ritrovare lo spirito di questosocialismo delle origini e porre le basi del suorinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo ladifesa della «gente normale», egli rifiuta anzi-tutto che si screditino valori di radicamento estrutture organiche che, in passato, sono statispesso l’unica protezione di cui disponevano ipiù poveri e i più sfruttati. 

Non è un punto di vista isolato. Il percorsodi Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto inuna vasta galassia, dove troviamo, in primoluogo, ovviamente, il grande George Orwell,al quale Michéa ha dedicato un libro notevole(Orwell, anarchiste tory), come pure Christo-pher Lasch, teorico di un «populismo» sociali-sta e comunitario, grande avversario dell’ideo-logia del progresso , di cui ha contribuito piùdi chiunque altro a far conoscere il pensiero inFrancia. Vi troviamo anche, per citare solo po-chi nomi, il giovane Marx critico dei «dirittidell’uomo», i primi socialisti francesi, WilliamMorris, Charles Péguy e Chesterton, l’AntonioGramsci che sottolinea l’importanza delle cul-ture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari(colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornareindietro è umano e necessario tanto quanto ciòche ci spinge ad andare avanti»), Clouscard ela sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudril-lard e la sua denuncia della «sinistra divina», ifilms di Ken Loach e di Guédiguian, la canzonidi Brassens, senza dimenticare Walter Benja-min, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun,Anselm Jappe, Serge Latouche , ecc. 

Michéa paragona il liberalismo a un nastrodi Möbius, che presenta una «faccia destra» euna «faccia sinistra», ma senza alcuna soluzio-ne di continuità. Ciò significa che tra borghesiadi destra e borghesia di sinistra, entrambe eredidella filosofia liberale dei Lumi, ci sarannosempre più affinità oggettive che tra ciascunadi queste borghesie e gli antiborghesi del lorocampo. E viceversa, che esiste una comple-mentarità altrettanto naturale tra coloro che di-fendono il popolo contro la borghesia sfrutta-trice, si situino essi ancora a sinistra o proven-gano da destra. È ciò che constata Michéaquando scrive: «Poco importa, in verità, sapereda quale tradizione storica ciascuno ha tratto leparticolari ragioni che lo inducono a rispettarei principi della decenza comune e a indignarsiper la loro permanente violazione ad opera delsistema capitalistico». In un’epoca in cui la si-nistra intende più che mai raccogliere le «forzedi progresso», egli non esita a ad aggiungereche è «la patetica incapacità di assumere [la]dimensione conservatrice della critica antica-pitalistica a spiegare, in larga parte, il profondosmarrimento ideologico (per non dire il comaintellettuale irreversibile) nel quale l’insiemedella sinistra moderna è oggi immersa».

Non avete ancora letto Michéa? Soprattutto,non dite che un giorno lo leggerete. Leggetelosubito. Immediatamente! s

Alain De Benoist Le complexe d’Orphée, ultimo libro

pubblicato, Jean-Claude Michéa

CRITICAsociale ■ 711-12 / 2014

Stefano D’Andrea

N ell’uso volgare indica due di-versi fenomeni: una situazione,creata da un’azione politica; e

l’azione politica che la genera. Con la formula“azione politica” alludo all’emanazione e allavigenza di un insieme di norme giuridiche voltoa reprimere la redditività del capitale finanzia-rio messo a rendita.

Repressione finanziaria è la situazione in cuiil risparmio non genera rendite, o meglio generarendite molto basse, inferiori al tasso d’inflazio-ne. Nella situazione di repressione finanziaria,il tasso d’interesse reale dei titoli del debitopubblico (reale vuol dire che è corretto dall’in-flazione) è negativo.

Un recente e approfondito studio, promossodal FMI, ha constatato che tra il 1946 e il 1980il tasso medio di interesse reale sui titoli di statodelle economie avanzate è stato negativo (-1,6%); negativo è stato anche il tasso reale disconto (-1,1%) (1).

I tassi di interesse reali negativi comportanouna diminuzione dello stock di debito, senzache, per estinguere il debito, sia necessario uti-lizzare enormi entrate fiscali o tagliare la spesapubblica. Mantenendo i tassi nominali al di sottodell’inflazione si riduce il valore (reale) del de-bito, spostando ricchezza dai creditori ai debi-tori. In Italia, tra il 1945 ed il 1955, il debito pub-blico scese dal 66.9% al 38.1% del pil. In GranBretagna dal 215.6 al 138.2% (2).

Il dato della Gran Bretagna ma anche quellodell’Italia sono di fondamentale importanza. Es-si gettano discredito sulle tesi di coloro che trop-po semplicisticamente sostengono che il debitopubblico debba essere cancellato. Alla medesi-ma conclusione si giunge se si osserva la condi-zione attuale del Giappone, che ha un debitopubblico pari al 230% del pil e non pensa mini-mamente di cancellarlo.

La tesi della cancellazione del debito pubbli-co, apparentemente estremistica, in realtà finisceper considerare il debito pubblico alla stessastregua del debito privato e dunque muove dauna ipotesi fallace. Se il debito pubblico fossedavvero in tutto e per tutto identico al debito pri-vato, probabilmente si dovrebbe prendere attoche un alto debito pubblico genera interessi in-sostenibili. Ma la premessa è sbagliata e pertantole proposte di cancellazione del debito finisconoper costituire un caso macroscopico di introie-zione da parte dei dominati dell’ideologia domi-nante, la quale rivela di esser divenuta tanto ege-mone da poter penetrare, da ideologia dei domi-nanti, nella mente dei dominati.

Qual è la differenza tra i due debiti? Risiedein ciò, il titolare del debito pubblico è colui cheha il potere di disciplinarlo, mentre il titolare diun debito privato non ha il potere di disciplinareil proprio debito. Per recare un semplice esem-pio, in caso di uscita dall’Unione europea (nonsi può unilateralmente uscire dal solo euro), unamodesta inflazione, nella misura del 6-7%, com-porterebbe in breve tempo una riduzione del de-bito, in ragione del fatto che una buona parte deldebito pubblico è a tasso fisso (inferiore al 6-7%).  Ma vedremo tra breve in quali modi e conquali tecniche uno Stato sovrano può imporretassi d’interesse reali inferiori all’inflazione e te-nere sotto controllo il debito pubblico, il qualecessa così di essere un problema.

Inoltre, la ragion d’essere del regime di re-pressione finanziaria – che è un severo regimedi lotta alla rendita – risiede proprio nel fatto che

lo stato paga sicuramente. Lo Stato italiano hapagato sempre e, salvo forse in un episodio, pun-tualmente. Dunque che cosa rischia chi investein titoli del debito pubblico di uno stato cheadotta (e può adottarlo perché stato sovrano), unregime giuridico di repressione finanziaria?Niente, perché lo stato pagherà, come ha semprepagato. Gli stati che rischiano di andare in de-fault sono soltanto gli stati che non adottano ilregime di repressione finanziaria, sempre chenon decidano di adottare tardivamente quel re-gime. Una regola aurea della finanza è che dovenon c’è rischio non deve esserci guadagno. Incaso di default, verrebbe meno questa certezzadi rischio zero e per lungo tempo lo Stato italia-no dovrebbe pagare interessi reali positivi perattrarre il risparmio dei cittadini e degli stranieri.Chi vorrebbe dare soldi a un tasso d’interessereale negativo a uno Stato che ha dimostrato dinon pagare i propri debiti?

Quindi esistono validissime ragioni per lequali i ceti popolari e medi dovrebbero esserecontrari, fin quando è possibile, alle propostepseudo-estremistiche che propugnano un defaultrilevante (una sospensione o postergazione di seimesi in situazione di crisi drammatica, peresempio al momento dell’uscita dall’Unione eu-ropea o, come è più probabile, in occasione dellaimplosione di questa organizzazione internazio-nale, è invece pienamente accettabile). Non bi-sogna ulteriormente indebolire lo Stato, la fidu-cia nel medesimo e la considerazione della qualeesso gode presso i cittadini. I ceti popolari e me-di hanno bisogno dello Stato. Perciò, pian piano,è necessario muovere in direzione contraria  aquella perseguita negli ultimi trenta anni e pro-muovere il ruolo dello Stato nella vita economi-ca, sociale e politica della nazione.

Un singolo cittadino, dotato di risparmio, puòinvestire in un’impresa locale o acquistare azio-ni, correndo il rischio che l’impresa non producautili o che i titoli azionari perdano molto valo-re;  o può prestare i soldi ad un privato che co-nosce o ad una impresa che emette obbligazioni,con il rischio di non riavere indietro i soldi o al-meno parte di essi. Oppure può tenere il denaroin un conto corrente, perdendo certamente in va-lore reale, perché gli interessi saranno inferioriall’inflazione. Oppure può tenere il denaro sottole mattonelle ma rischierà di subire una rapina edi perdere tutti i soldi. L’alternativa è prestare isoldi allo Stato, ricevendo in cambio titoli ven-dibili; in tal caso lo Stato si farà pagare tra l’1,5e il 2% per il servizio di “assicurazione” e per-ché preserverà in parte il risparmio dall’inflazio-ne; ed è giusto che le cose stiano così. Dico chedovrà pagare tra l’1,5% e il 2%, perché, nel no-stro ordinamento, questo dovrebbe essere il giu-sto differenziale tra i tassi di interessi nominalie il tasso di inflazione, posto che la nostra costi-tuzione (art. 47 Cost.) impone di tutelare il ri-sparmio. Lo Stato nominalmente pagherà inte-ressi ma in termini reali guadagnerà in ragionedell’inflazione maggiore del tasso nominale.

In regime di repressione finanziaria, non sus-siste nemmeno l’ingiustizia di prelevare con leimposte a tutti i cittadini, compresi coloro chesono sprovvisti di risparmio, le somme da resti-tuire, con interesse, ai risparmiatori che hannofinanziato la spesa pubblica. In realtà, il valoreche questi ultimi avranno indietro sarà media-mente inferiore al potere di acquisto della mo-neta al tempo dell’emissione dei titoli, sicché siha piuttosto una redistribuzione di ricchezza dacoloro che sono dotati di risparmio a coloro chene sono privi, anziché il contrario.

Qualcuno, detentore di risparmi consistenti enon intenzionato ad investire o a prestare assu-mendo il rischio della mancata restituzione, po-trebbe credere di avere interesse alla mancataadozione di un regime di repressione finanziaria.Ma quel qualcuno, salvo che sia un ricco possi-dente, sbaglia. I quattro o cinquemila euro cheun risparmiatore dotato di duecentomila euro, eche preferisca i titoli del debito pubblico,  per-derebbe se abbandonassimo l’attuale regime deirentiers, sarebbero compensati: da maggioripossibilità che i figli o i nipoti trovino un lavoro;da più alti redditi da lavoro, in ragione del fattoche il denaro risparmiato dallo Stato sul paga-mento degli interessi sarebbe in parte domandapubblica e in parte, per la possibilità di diminuirele imposte, domanda privata, con conseguenteaumento della produzione e dell’occupazione(più ci si avvicina alla piena occupazione e piùi salari salgono); da maggiori profitti o compen-si, se è titolare di un’impresa o svolge comunqueun’attività autonoma, perché le minori impostegenererebbero maggiore domanda; dal fatto chenon vedrebbe scomparire tribunali ed ospedalidalla propria città; e così via.

Insomma, bisogna decidere se si vuole unasocietà fondata sulla rendita o una società nellaquale lo Stato paga certamente i crediti per pre-stiti ad esso concessi e quindi, dove, essendo ze-ro il rischio, non vi deve essere rendita, bensìmodesta perdita per il servizio di parziale tuteladall’inflazione e di assicurazione contro i furti.

Si tratta di combattere la rendita e in fondo didar vita a una rivoluzione “borghese”, più similealla rivoluzione francese che a quella d’ottobre.Se siamo (tornati) al tempo (ancien régime) incui la società è dominata dalla rendita (parassi-taria, allora terriera, oggi finanziaria), dobbiamoaccettare che questa è la battaglia da combatterenella nostra epoca. Il regime giuridico italianodi repressione finanziaria.

Il regime di repressione finanziaria, che è sta-to vigente in Italia fino ai primi anni ottanta, erafondato su poche norme e principi giuridici.

A) Fino al 1975 la Banca d’Italia aveva la fa-coltà – si badi, facoltà, non obbligo – di effet-tuare acquisti di titoli di Stato sul mercato pri-mario, ossia al momento dell’emissione dei titoli(art. 41, n. 4 dello Statuto allora vigente).

Una convenzione tra Ministero del Tesoro eBanca d’Italia del 1975, recepita in una deliberadel Comitato Interministeriale per il Creditoe il Risparmio (autorità creditizia ausiliare delGoverno, di seguito CICR) del 21 marzo 1975,imponeva alla Banca d’Italia di rendersi acqui-rente di tutti i BOT non collocati nel mercato.L’obbligo non era previsto a livello legislativo,bensì a livello di delibere del CICR.

L’obbligo è venuto meno nel 1981 con il co-siddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, peraccordo tra Andreatta, allora Ministro del Teso-ro, e Ciampi, allora Governatore della bancad’Italia. Per estinguere l’obbligo non fu neces-saria una legge ma una “lettera” di Andreatta aCiampi, seguita, da un provvedimento del Mi-nistro del Tesoro. In questo modo si tornava allafacoltà della Banca centrale di acquistare titoli.Stranamente non fu necessaria nemmeno unadelibera del CICR, bensì un semplice provvedi-mento del Ministro.

Oggi non ci può essere obbligo e non ci puòessere facoltà, nel senso che una legge italiana,deliberata dal Parlamento italiano, anche al-l’unanimità, la quale volesse reintrodurre l’ob-bligo o la facoltà per la Banca d’Italia di acqui-stare titoli di Stato,  violerebbe l’art. 117 della

Costituzione, che impone di legiferare nel ri-spetto dei vincoli comunitari (ma il principiodella prevalenza del diritto comunitario – oradell’Unione – sulla legislazione ordinaria italia-na era stato già accolto dalla nostra Corte Costi-tuzionale molto prima della modifica dell’art.117 Cost.). Infatti, l’art. 104, comma 1, del Trat-tato di Maastricht, ora art. 123 del TFUE (Trat-tato sul funzionamento dell’Unione europea),vieta “l’acquisto diretto presso di essi” – ossiapresso gli Stati membri –  “di titoli di debito daparte della BCE o delle Banche centrali nazio-nali”.

La Banca centrale, adempiendo l’obbligo o,ancor prima, esercitando la facoltà di acquistarei titoli di stato, creava una domanda di titoli deldebito pubblico e abbassava i tassi.  Anzi, nelperiodo più critico per l’economia, quando ap-punto venne introdotto l’obbligo, era il Governoa decidere senz’altro i tassi di interesse.

B) Il Tesoro poteva ricorrere a una particolareforma di indebitamento, costituita dallo scopertodel conto corrente di Tesoreria intrattenuto conla Banca d’Italia. La disciplina era contenutanell’art. 2 del D. lgs. 7 maggio 1948, n. 544.L’utilizzo dello scoperto era consentito, formal-mente (solo formalmente) a fini di equilibrio dicassa nella misura del 14% (fino al 1965 la per-centuale era del 15%) delle spese finali del bi-lancio di competenza, quali risultavano dallalegge di approvazione annuale e successive mo-dificazioni. Era una forma di credito automaticoal Tesoro, verificato con riscontro mensile, che,a rigore, eliminava la illimitata possibilità delloStato di finanziarsi presso la Banca d’Italia (3).L’interesse era fissato nella misura dell’1% (an-che quando l’inflazione era del 10 o 20%!) e lespese di tenuta del conto erano forfettarie e ave-vano carattere simbolico. Ora è evidente, che aldi là della formale enunciazione delle esigenzedi cassa, l’enormità dello scoperto e la conve-nienza dell’interesse (1%) rispetto ad altre formedi finanziamento, spingevano lo Stato a sfruttarelo scoperto e di fatto assegnavano all’istituto unaseconda funzione: si trattava a tutti gli effetti diun importante mezzo di finanziamento del fab-bisogno dello Stato. Ricorrendo allo scoperto,lo Stato doveva emettere meno titoli e quindi in-contrava più difficilmente problemi di scarsitàdella domanda, con la conseguenza che, indiret-tamente, il ricorso allo scoperto incideva anchesul livello dei tassi di interesse, abbassandoli.

Il limite massimo dello scoperto non potevaessere superato, salvo ricorrendo a un’anticipa-zione straordinaria, che però doveva essere au-torizzata da una legge. Una volta si ricorse anchea un’anticipazione straordinaria, con la L. 24gennaio 1983, n. 10. La durata dell’anticipazio-ne venne fissata in dodici mesi. Mentre il tassod’interesse non venne stabilito dalla legge inquestione, la quale demandò la decisione ad undecreto del Ministero del Tesoro, ossia alla de-cisione del debitore!

La possibilità di ricorrere ad anticipazioni equindi di godere di uno scoperto è stata soppres-sa dall’art. 1 della L. 26 novembre 1993, n. 483,il quale prevede che “la Banca d’Italia non puòconcedere anticipazioni di alcun tipo al Tesoro”(4). L’art. 1 è stato emanato in applicazionedell’art. 104, comma 1, del Trattato di Maa-stricht, ora con alcune modifiche formali, art.123 del TFUE, il quale dispone che «Sono vie-tati la concessione di scoperti di conto o qual-siasi altra forma di facilitazione creditizia, daparte della Banca centrale europea o da partedelle Banche centrali degli Stati membri (in ap-

■ LA “REPRESSIONE FINANZIARIA” È UN CONCETTO SCONOSCIUTO

LE CONTRADDIZIONI TRA L’UNIONE E LA COSTITUZIONE

8 ■ CRITICAsociale11-12 / 2014

presso denominate “Banche centrali naziona-li”), a istituzioni, organi o organismi dell’Unio-ne, alle amministrazioni statali, agli enti regio-nali, locali o altri enti pubblici, ad altri organi-smi di diritto pubblico o a imprese pubbliche de-gli Stati membri… ». Nel dicembre del 1993 loscoperto era di 76.206 miliardi di lire circa, iquali furono trasformati in BTP all’1% con sca-denza tra il 2014 e il 2044. Anche con riguardoa questa materia dobbiamo osservare che il Par-lamento italiano non potrebbe reintrodurre l’il-limitata possibilità dello Stato di finanziarsipresso la banca centrale, come originariamenteprevisto nel 1936, né la più modesta possibilitàdello Stato di finanziarsi, entro certi limiti, ri-correndo a uno scoperto di conto corrente, comeancora ammesso fino al 1993. Infatti, tale la di-sciplina dovrebbe essere disapplicata, in ragionedella prevalenza del diritto dell’Unione europearispetto alle norme poste da leggi ordinarie ema-nate dal Parlamento italiano.

C) Un ruolo importante nel contenere gli in-teressi sul debito pubblico fu svolto fino al 1975dalla disciplina della riserva obbligatoria. Il vin-colo delle banche commerciali di costituire unariserva che avesse ad oggetto una parte dei de-positi fu introdotto già nel 1926. Infatti, le crisibancarie registratesi nel primo dopoguerra in-dussero a introdurre una garanzia per i deposi-tanti. Dopo una serie di proposte non attuate, ilRDL n. 1830 del 6 novembre 1926, nell’art. 15,previde il versamento in contanti ovvero l’inve-stimento in titoli emessi o garantiti dallo Statoper la parte di depositi eccedente il rapporto diventi volte il patrimonio aziendale – ma al tem-po il rapporto medio depositi/patrimonio era dicirca 8 volte, sicché poche banche dovettero ese-guire l’obbligo di versare la riserva. Peraltro,quando fallì la Banca italiana di Sconto, non tut-te le quote vennero recuperate (il recupero oscil-lò tra il 62 e il 67%).

Anche per questa ragione venne modificata ladisciplina della riserva obbligatoria. L’art. 32 delR.D.L. 12 marzo 1936, n. 375 prevedeva: “Leaziende di credito soggette alle disposizioni del-la presente legge dovranno attenersi alle istru-zioni che l’Ispettorato (poi Banca d’Italia) co-municherà, conformemente alle deliberazionidel Comitato dei Ministri (poi CICR) relativa-mente … al rapporto fra il patrimonio netto e lepassività ed alle possibili forme di impiego deidepositi raccolti in eccedenza all’ammontaredeterminato dal rapporto stesso”. In sostanzanon era più prefissato per legge il coefficiente diriserva e si attribuiva al centro politico il poteredi modificare il coefficiente (5).

Successivamente dal 1947 fino al 1962, laraccolta superiore a dieci volte il patrimonio del-le banche netto andava versata in contanti o in-vestita in titoli di stato, anche se la riserva nondoveva eccedere il 15% (poi 25) dei depositi. Il1955 è l’anno della punta massima, nel quale il23,67 dei depositi andavano a riserva.

Seguirono molte modifiche del coefficiente diversamento della riserva, le quali prevedevanoil versamento di una percentuale dei nuovi de-positi registrati a fine mese, al netto del conte-stuale aumento del patrimonio netto, percentualeche variò dal 15% (nel 1975) al 25% nel 1982.Nel 1975 la disciplina subì una grande modifi-cazione, perché, da quel momento, la riserva po-teva essere costituita soltanto da contante e nonda titoli (si ricordi che nel 1975 venne stipulatala convenzione tra banca d’Italia e Ministero deltesoro che prevedeva l’obbligo della prima diacquistare i titoli invenduti e che ebbe massimaimportanza l’istituto del vincolo di portafoglio:cfr. sub A e D).

E’ evidente come da strumento di tutela delrisparmio la riserva si era trasformata in stru-mento di politica monetaria, utilizzabilissimo,dato l’alto ammontare della riserva, in periodidi inflazione, quando la liquidità aumenta e con

essa aumentano i depositi rispetto alla capitaliz-zazione. Ma in questa sede interessa una terzafunzione: quella di concorrere al finanziamentodel fabbisogno statale  e di abbassare i tassi diinteresse. Vediamo come era svolta questa fun-zione:

1) La riserva obbligatoria, per la parte in titolidel debito pubblico, era composta quasi esclu-sivamente da Bot. Tuttavia, il Tesoro, pur nonavvantaggiandosi direttamente della disciplinadella riserva obbligatoria, salvo la quota deiBOT, “era favorito indirettamente dalla riduzio-ne dei tassi che in tal modo si veniva a determi-nare a causa dell’accresciuta domanda sul mer-cato delle emissioni obbligazionarie” (6). Era-vamo in presenza di un vincolo di portafoglioocculto.

2) Ma c’era anche un altro vantaggio. La Ban-ca centrale non era vincolata ad investire la ri-serva in contanti versata collettivamente dallebanche in titoli del tesoro ma di fatto acquistavatitoli del tesoro (esercitando la facoltà della qua-le abbiamo detto sub A)

3) Infine vi era una “tassa occulta” che grava-va sulle banche. Infatti la Banca d’Italia, sui ti-tolo acquistati con la disponibilità del conto vin-colato alle riserve, non percepiva il tasso di mer-cato ma retrocedeva al Tesoro la differenza tragli interessi resi dai titoli del debito pubblico eil rendimento pagato alle banche per il versa-mento del denaro sul conto fruttifero (7).

Quando è stato abrogato l’istituto della riservaobbligatoria? Non è stato abrogato ma è statocompletamente snaturato e, come forma di fi-nanziamento del fabbisogno pubblicoe mezzoper abbassare i tassi, è stato disattivato.

L’art. 10 della legge del 26 novembre 1993trasferì dal CICR alla Banca d’Italia il potere didisporre la riserva, variare i coefficienti e defi-nire gli aggregati sui quali andava calcolato ilcoefficiente. Veniva così rescisso l’ultimo lega-me che congiungeva il Tesoro all’Istituto diemissione. Si prevedeva poi la misura massimanel 17,5%, una misura ampiamente inferiore allamedia che la riserva aveva avuto per molti anni.Ma fissata la misura massima era chiaro che,nell’interesse delle Banche commerciali, le qualidesiderano impiegare il denaro di cui dispongo-no nel modo da esse reputato ottimale, la riservasarebbe scesa, come infatti è scesa, fino ad arri-vare a livelli irrisori.

Infine, in base all’art.19 dello statuto delSEBC (sistema europeo di banche centrali),laBCE ha la facoltà di imporre agli enti creditiziinsediati nei Paesi della zona euro la detenzionedi riserve su conti costituiti presso la stessa BCEo presso le rispettive BCN. Oggi la riserva è co-stituita soltanto dal 1% dei depositi.

Pertanto non resta più niente di questo nobileistituto, anche mediante il quale un tempo loStato italiano ha esercitato il comando unico sulcredito e sul finanziamento del fabbisogno pub-blico.

D) Il vincolo di portafoglio era un obbligodelle banche di acquistare titoli obbligazionari.Fu introdotto nel 1973: le banche dovevano in-crementare, in misura non inferiore al 6% dellaconsistenza dei depositi, l’acquisto di titoli ob-bligazionari compresi in una “rosa” indicata dal-la Banca d’Italia, che disciplinava anche comeamministrare il portafoglio. Nel 1975, per risol-vere alcuni problemi tecnici, sorti relativamenteal metodo di calcolo, fu stabilito che l’acquistoera obbligatorio per il 40% degli incrementi deidepositi su base semestrale. Il vincolo di porta-foglio ha avuto una importanza rilevante fino al1978, quando progressivamente venne diminui-to, fino a scomparire nel 1986 (la percentualesugli incrementi scese al 6,5 poi al 5,5, al 4,5 fi-no ad arrivare all’1% nel 1986). Anche qui ilvantaggio per il Tesoro era anche indiretto, per-ché la domanda di titoli obbligazionari facevascendere i tassi.

E) Nei momenti di crisi si ricorreva anche alprestito forzoso. Mentre sembra che negli StatiUniti e in Inghilterra si sia ricorsi al prestito for-zoso soltanto durante la seconda guerra mondia-le, quando i cittadini furono obbligati a sotto-scrivere titoli del debito pubblico, in Italia si ri-corse a questo strumento anche in tempo di pa-ce. L’ultimo ricorso al prestito forzoso si ebbenel 1976, quando in piena crisi economica, il go-verno Andreotti varò la legge n. 797/76 con laquale a partire dal febbraio ‘77, gli incrementidella contingenza, vennero corrisposti medianteBTP al portatore.

F) Infine, il regime di repressione finanziariaera possibile in ragione del fatto che l’ordina-mento conteneva enormi vincoli amministrativialla circolazione dei capitali, e nel 1979 si eragiunti anche ad introdurre sanzioni penali per laviolazione di alcuni divieti. Il principio, desu-mibile dalla L. 25 luglio 1956, n. 786, era il di-vieto generale di concludere operazioni finan-ziarie con l’estero, salvo il rilascio di apposte au-torizzazioni.

Tutti questi vincoli vennero meno, in parte nel1986 e in parte nel 1988, in seguito alla direttivecomunitarie 86/566 e 88/361. Anche in questamateria, finché resteremo all’interno dell’Unio-ne europea, il Parlamento italiano non potrebbereintrodurre, sia pure all’unanimità, restrizionialla circolazione dei capitali, perché prevarreb-bero le citate direttive e soprattutto l’art. 63 delTFUE, che vieta tutte le “restrizioni” alla circo-lazione dei capitali “tra Stati membri nonché traStati membri e paesi terzi”.

CONCLUSIONI E PROPOSTE

Negli anni ottanta, abbandonammo il regimedi repressione finanziaria. L’abbandono non av-venne soltanto con il divorzio tra Tesoro e Bancad’Italia, come, con eccessiva semplificazione,talvolta si asserisce, anche autorevolmente. Hascritto in proposito Nino Galloni: “Se, ad esem-pio, pur in presenza di “divorzio” (autonomia)tra Tesoro e Banca centrale, nonché eliminazio-ne dei “vincoli di portafoglio”, si fosse consen-tita la copertura (l’acquisto), da parte dellaBanca centrale stessa, di una piccolissima quota(quella marginale, appunto) dell’emissione, itassi di interesse sarebbero risultati ben più con-tenuti, a parità di tutto il resto. Invece, ci furonogiornate in cui il tasso di interesse sui titoli diStato faceva aggio sul MLR (“minimum lendingrate”, il tasso sui prestiti per i migliori clienti);sicché, un grosso imprenditore, ad esempio laFiat, poteva recarsi in banca, prendere a presti-to quanto denaro voleva, investirlo immediata-mente in titoli di Stato e guadagnare la differen-za tra i due tassi! Percentuali elevate, fino al50% dei profitti delle grandi imprese – in queglianni – era investito in titoli del Tesoro, ed altret-tanto profitto proveniva da tale fonte, sia perquanto riguardava le realtà private che quellea partecipazione statale” (8).

Dunque, divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia(1981); mancato esercizio della facoltà di acqui-sto di titoli da parte della Banca d’Italia (dal1981); riforma della riserva obbligatoria del1975 (riforma che inizialmente trovò compen-sazione nel vincolo di portafoglio e nell’obbligodi acquistare titoli introdotto nel 1975; ma il suc-cessivo affievolimento del vincolo di portafoglioe il divorzio non furono accompagnati da una ri-forma della riforma della riserva obbligatoria!);affievolimento notevole e progressivo del vin-colo di portafoglio (anche esso databile nei pri-mi anni ottanta); libera circolazione dei capitali(1986-1988); eliminazione dello scoperto diconto corrente (1993).

Fino all’approvazione del trattato di Maa-stricht,  l’errore poteva essere corretto, con unadiversa scelta politica. Successivamente, lo Sta-to ha perduto la possibilità di instaurare un regi-

me di repressione finanziaria e si è collocato “sulmercato”. Insomma, noi avevamo già liberato labestia; ma l’Unione europea ci impedisce di tor-nare sui nostri passi e di re-imprigionarla. La be-stia che noi stessi avevamo liberata, con il deli-berato proposito di stringere i legami tra l’Italiae “l’Europa” (9), non aspira per natura a fuggire,bensì ad opprimere quello che dovrebbe essereil suo padrone.

Se lo Stato rinuncia al potere monetario e aconnettere inscindibilmente potere monetario efinanziamento della spesa pubblica, il poteremonetario esiste lo stesso: è il potere delle ban-che, dei grandi intermediari finanziari e in ge-nere del capitale finanziario, che assoggetta loStato a tassi di interessi “di mercato”, sistemati-camente superiori all’inflazione – oggi in Euro-pa, soltanto la Germania si trova in situazione direpressione finanziaria, come premio per esserestata la vincitrice di una competizione fratricidae distruttiva delle economie più deboli.

Riappropriarci del potere monetario ed evitareche lo Stato paghi anche il 4% di interessi supe-riore all’inflazione è l’obiettivo politico ineludi-bile della forza politica alternativa che deve sor-gere (10). Anche questo obiettivo non potrà es-sere raggiunto rimanendo nell’Unione europea.Fanno davvero sorridere le posizioni di coloroche, comprendendo che dentro l’Unione euro-pea e in regime di libera circolazione dei capi-tali, non è possibile re-instaurare il regime di re-pressione finanziaria, concludono, tuttavia, che“Ci sono però altre possibilità. Intanto un con-certo delle più grandi banche centrali, e soprat-tutto FED e BCE, possono imporre tassi di in-teresse nominali bassi, come già infatti avvieneal momento. Ma soprattutto bisognerebbe coin-volgere gli investitori privati con nuove regole,imponendo ai fondi pensioni di detenere nellaloro pancia una quantità fissa di titoli di stato, aprescindere dalla loro valutazione di mercato.”(11). Dunque, in primo luogo, i popoli dovreb-bero affidarsi a “un concerto delle più grandibanche centrali”. L’autore non lo dice ma pro-babilmente pensa che i cittadini italiani debbanovotare partiti che si candidino in Parlamento persupplicare “un concerto delle più grandi banchecentrali”. In secondo luogo, come si coinvolgo-no “gli investitori privati con nuove regole” a li-vello mondiale? Perché la Germania dovrebbeinteressarsi di questo problema se si trova in si-tuazione di repressione finanziaria, generata dalmercato e se il risparmio tedesco beneficia delregime dei rentiers vigente in tanti paesi euro-pei? Affidarci per l’ennesima volta alla compas-sione dello stato che ha interesse contrario al no-stro, convincendolo che sta segando il ramo sulquale si trova? E se quello stato e i risparmiatoritedeschi del quale è espressione attendono chela nostra condizione peggiori per acquistare igioielli che ci sono rimasti?

Quando mi trovo dinanzi a simili “proposte”,prive di minimo realismo e generate soltanto dacodardia e volontà di non prendere atto della re-altà, non provo più soltanto fastidio, provo di-sprezzo. Dobbiamo provare disprezzo. Nondobbiamo affidare a nessuno il potere di salvar-ci. Dobbiamo salvarci da soli, prima che ci con-ducano nella situazione in cui versa la Grecia.

E non possiamo salvarci rimanendo dentrol’Unione europea. Perciò dobbiamo uscire.L’Unione europea è, anche sotto il profilo con-siderato in questo scritto, in radicale contrastocon la disciplina costituzionale dei rapporti eco-nomici (12). In primo luogo, perché in nessunmodo il regime impostoci dall’Unione europeapuò essere ricondotto alla formula costituzionalesecondo la quale La Repubblica “coordina econtrolla” l’esercizio del credito (art. 47 cost.).Nell’Unione europea e fin quando vi resteremo,la Repubblica non può coordinare nulla. s

Stefano D’Andrea


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